Tutte le operazioni di impianto relative allo smaltimento e al recupero dei rifiuti, nonché quelle relative alla bonifica dei siti contaminati sono regolate, per ciò che riguarda le autorizzazioni e/o le comunicazioni, dal decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22. Infatti, all'articolo 27 dello stesso, si fa riferimento esplicito «alla approvazione del progetto degli impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti». L'articolo 28 tratta invece della «autorizzazione all'esercizio di smaltimento e recupero», mentre l'articolo 29 è relativo «all'autorizzazione di impianti di ricerca e sperimentazione». L'articolo 33 regolamenta inoltre le operazioni di recupero, mentre il decreto del Ministero dell'ambiente del 5 febbraio 1998 si riferisce alle norme tecniche per il recupero dei rifiuti non pericolosi come materiali con procedure semplificate. La deliberazione del Comitato interministeriale del 27 luglio 1984, ancora vigente, contiene le disposizioni per la prima applicazione dell'articolo 4 del decreto del Presidente della Repubblica 10 settembre 1982, n. 915, e concerne lo smaltimento dei rifiuti. La Commissione deve rilevare che l'attuale ricorso alla disciplina attuativa del 1984 sopra specificato, oltre che incompatibile con i dettami e le finalità del decreto legislativo n. 22/97, potrebbe altresì causare dei pregiudizi per l'ambiente e la salute pubblica. Infatti va evidenziato che il decreto legislativo n. 22/97 ha ampliato le classi di pericolosità dei rifiuti dalle due previste dal decreto del Presidente della Repubblica n. 915/82 (tossicità e nocività) alle 14 attuali, tra cui vanno certamente ricompresi rifiuti, quali per esempio, i fanghi di alchilazione, le sode esauste ed altri. Per tali rifiuti è fatto oggi divieto di smaltimento secondo i criteri e le concentrazioni imposti dall'allegato A del decreto del Presidente della Repubblica n. 915/82, cui la deliberazione del 27 luglio 1984 fa riferimento. Né d'altra parte appare corretto il ricorso al sistema dei codici CER in questo specifico settore perché, per un verso quei codici rispondono a criteri e finalità ben diversi (criteri definiti dalle norme sull'etichettatura), per l'altro, proprio quel codice contiene in sé l'indicazione della natura pericolosa del rifiuto. Si rende pertanto necessario un intervento deciso del Governo per colmare la contraddizione insita nel sistema, attraverso l'emanazione della norma di attuazione prevista. Ciò anche al fine di consentire la possibilità di controlli univoci nel settore. In attesa dell'auspicato intervento normativo di cui sopra, la Commissione ritiene opportuno evidenziare come l'utilizzo di tecnologie di trattamento e recupero dei rifiuti consentirebbe, se applicato correttamente, quantomeno di minimizzare gli effetti pregiudizievoli causati dal ricorso alla vecchia normativa. Va inoltre evidenziato che, relativamente
La regola delle 5 R è il principo cardine su cui si basa il nuovo sistema gestionale dei rifiuti.Come si è visto in premessa, l'emanazione del decreto legislativo n. 22 del 5 febbraio 1997 prevede un cambiamento di rotta nel settore dei rifiuti in quanto si passa dalla filosofia dello smaltimento del rifiuto a perdere a quella del «rifiuto da recuperare» come materiale o energia attraverso una gestione integrata che permetta la realizzazione dei principi dello sviluppo sostenibile. L'obiettivo di tale gestione integrata è quello di realizzare una riduzione a monte della quantità e della pericolosità dei rifiuti, di aumentare la quota parte destinata al riciclo dei materiali (carta, plastica, vetro, metalli) nelle filiere partendo dalla raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani, di favorire la termodistruzione con recupero di energia dai materiali non riciclabili recependo nel contempo le direttive CEE 89/1369, 89/429 e 94/67 sull'incenerimento e di destinare solo una quota residuale alle discariche controllate che dovranno accogliere solo rifiuti inerti o resi inerti.
Significa produrre meno rifiuti sia in termini volumetrici che quantitativi. Si può realizzare con la modifica delle lavorazioni, scegliendo opportunamente le materie prime, realizzando l'ottimizzazione
Riscoprire le buone abitudini di una volta, quando la bottiglia del latte per es.veniva restituita al lattaio, lavata, sterilizzata e riempita nuovamente e ciò per tantissime volte. Il concetto dei contenitori riutilizzabili per i detersivi liquidi e solidi, per gli oli lubrificanti, per tanti altri beni anche alimentari, fatte salve le norme igienico-sanitarie, sta nuovamente facendosi strada in Europa. La buona pratica dei «dispensers» significa in fondo andare a rifornirsi di prodotti distribuiti da grossi contenitori nei supermercati o in genere nei sistemi di grande distribuzione utilizzando sempre lo stesso contenitore fino al termine del suo ciclo naturale di vita. Quindi è come rifornirsi di prodotti «alla spina» utilizzando sempre lo stesso contenitore pulito : così facendo spariranno tutti i contenitori intermedi e le confezioni più varie e quindi notevoli quantità di rifiuti.
Viene realizzato con le cosiddette «raccolte differenziate». I rifiuti solidi urbani possono essere già separati in casa per singole tipologie, immessi in appositi contenitori di vario colore per la plastica, carta, vetro, metalli, frazione umida etc e conferiti quindi in piattaforme attrezzate dalle autorità comunali oppure essere raccolti in casa per frazione secca(carta, plastica, vetro, metallo) e frazione umida e conferiti a cassonetti per multimateriale (secca) e frazione umida. O ancora conferiti tal quali in cassonetti con separazione a valle da parte di appositi impianti di cernita e separazione, realizzati dai comuni o da consorzi misti (pubblico-privato).
Le frazioni secche vengono avviate ad impianti di riciclo (le cosiddette filiere) in cui la carta, la plastica, il vetro, il metallo, il legno vengono rilavorati ossia immessi in un ciclo produttivo (riciclaggio) che li trasforma nuovamente in materiali riutilizzabili. La frazione umida è invece avviata agli impianti di compostaggio per ottenere compost da riutilizzare per ripristini ambientali (es.riempimenti di cave abbandonate) se ottenuto dai rifiuti tal quali o come ammendante agricolo nei terreni o come fertilizzante se ottenuto da frazioni organiche selezionate (es. sfalci di giardini, residui verdi da mercatali, etc).
Il nostro Paese, tradizionalmente povero di materie prime, ha da tempo sviluppato tecnologie e tecniche di riciclaggio delle materie
Rifiuti di imballaggi recuperati complessivamente.
Tutti i quantitativi riportati nelle Tabelle dell'allegato ed inerenti il riciclo si intendono al netto degli scarti e delle impurità eventualmente presenti in fase di raccolta. Si tratta di dati consolidati fino al 1998-1999 e delle proiezioni al 2002, nella ipotesi che il trend di crescita sia proporzianale ad una maggiore interiorizzazione dei principi dello sviluppo sostenibile da parte di tutti i soggetti coinvolti. L'analisi delle tabelle cui si è fatto riferimento precedentemente, evidenzia un trend di crescita annuale significativo e costante. Appare importante sottolineare come, nel caso di due materiali (alluminio e vetro), il raggiungimento degli obiettivi complessivi di recupero sia attuato attraverso il riciclo di materiale proveniente da raccolte urbane. La seconda componente del recupero prevista dalla normativa è costituita dal recupero energetico effettuato negli impianti presenti sul territorio nazionale. Lo sviluppo, considerato nel corso degli anni a venire, risulta essere congruente con quello ipotizzato dai diversi attori del sistema in merito alle previsioni di messa in funzione di nuovi impianti dedicati alla termovalorizzazione del rifiuto urbano tal quale e alla costruzione di impianti dedicati alla trasformazione del rifiuto in combustibile derivato da rifiuti (CDR). Con l'implementazione operativa dell'accordo quadro ANCI-CONAI, relativo al materiale raccolto su superficie pubblica, le prospettive di sviluppo sono contraddistinte da una fase di decollo significativo dell'intero sistema. È opportuno ora fare alcune considerazioni filiera per filiera, dello stato dell'arte e del posizionamento dell'industria italiana nel più generale contesto internazionale.
2.4.1 La filiera dell'acciaio.
L'acciaio rappresenta uno dei materiali maggiormente impiegati nei più svariati campi e settori produttivi, tra i quali, quello degli imballaggi. Per le sue caratteristiche presenta la possibilità di essere agevolmente riciclato, vale a dire reimpiegato nei processi di produzione come materia prima secondaria nelle acciaierie e nelle fonderie, assicurando in tale modo anche un risparmio energetico rispetto ai processi produttivi basati sulla trasformazione del minerale.Paese notoriamente povero di giacimenti minerari, l'Italia ha saputo sviluppare una industria siderurgica elettrica tra le più avanzate ed efficienti al mondo sfruttando come fonte di materia prima proprio i rottami di metalli ferrosi.Nel 1998 l'industria siderurgica nazionale ha movimentato più di 15 milioni di tonnellate di rottame di ferro, di cui circa 10,1 milioni di tonnellate di provenienza domestica e quasi 5 di importazione estera. Il riciclaggio vero e proprio, vale a dire il reimpiego del materiale ottenuto dagli imballaggi ferrosi domestici o industriali raccolti, avviene presso acciaierie o fonderie con le quali il CNA stipula accordi commerciali diretti.Confrontando la siderurgia nazionale con quella dei partner europei e dei principali produttori mondiali di acciaio è possibile evidenziare come l'industria nazionale presenti una potenzialità di movimentazione dei rottami di ferro assolutamente superiore alla media europea e di gran lunga più elevata
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di quella dei maggiori produttori mondiali di acciaio (USA, Russia, Giappone e Cina). La leadership nazionale nell'impiego di tecnologie di riciclo nel settore siderurgico sì conferma anche a livello mondiale, dove nessuno dei maggiori Paesi produttori possiede una specializzazione analoga a quella italiana. Le tabelle 8, 9 e 10, mostrano rispettivamente, un bilancio quantitativo dei rottami di provenienza nazionale ed estera, il ricilaggio degli imballaggi in acciaio, ed un confronto a livello internazionale tra i processi di produzione in Europa e nei principali Paesi, riferito al 1998.
2.4.2 La filiera dell'alluminio.
Il riciclo dei manufatti di alluminio ha da sempre rappresentato una attività redditizia e diffusamente praticata, per le caratteristiche del materiale che ne consentono un reimpiego pressoché infinito, e per le economie che permette di conseguire. Poiché la composizione chimica dell'alluminio rimane inalterata durante le rifusione, il reimpiego si presenta infatti privo di significative problematiche. La rifusione dei rottami dei rottami di allumino consente inoltre di risparmiare circa il 95% dell'energia altrimenti richiesta per ottenere un equivalente quantitativo di alluminio primario dalla bauxite. L'industria nazionale ha impiegato nel 1998 circa 785.000 t di rottami di alluminio di provenienza nazionale ed estera (vedi Tabella 11, riferita al 1998), a fronte di un consumo complessivo di alluminio primario (ottenuto dal minerale) e secondario (ottenuto dalla rifusione di rottami) di circa 1.540.000 t (Tabella 12). Sulla base di questi dati si può notare come più del 50% del consumo nazionale di alluminio venga soddisfatto da rottami di provenienza nazionale ed estera. Gli imballaggi hanno rappresentato nel 1998 circa il 2,8% dei rottami di raccolta domestica complessivamente riciclati. Le Tabelle 13 e 14, riportano rispettivamenete, il reimpiego dei rottami di alluminio per il 1998 e la produzione di alluminio secondario nei principali Paesi europei.
2.4.3 La filiera della carta.
Per avere un quadro completo dell'utilizzo di carta e cartone da macero nell'industria cartaria è necessario considerare, oltre ai quantitativi di rifiuti di imballaggio raccolti ed avviati a processi di riciclaggio, anche le dinamiche import/export ed i quantitativi di rifiuti cellulosici non di imballaggio raccolti e riciclati. Analizzando la tipologia e la provenienza del macero utilizzato dall'industria cartaria nazionale (vedi Tabelle 15 e 16, riferite al 1998) risulta evidente come la maggior parte delle importazioni provenga dalla raccolta differenziata estera (importazioni di macero post-consumo), mentre la maggiore incidenza relativa sia rappresentata dalle importazioni di maceri di qualità superiore, evidenziando una certa dipendenza del Paese rispetto a tali flussi di importazione. La raccolta nazionale di carte e cartoni provenienti dall'industria e dal commercio (macero di qualità A4, A5, A6 e qualità D), di cui la quota di imballaggi rappresenta circa il 75% sembra invece essere il «canale» interno che presenta la maggiore capacità di raccolta.Per quanto concerne l'identificazione dei
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settori merceologici in cui avviene il reimpiego della carta e cartone da macero diprovenienza nazionale ed estera (vedi Tabella 17), le stime fornite da Assocarta elaborando i dati Istat evidenziano come il comparto in cui maggiormente si concentra l'attività di riciclo sia quello della carta e del cartone per imballaggi, che raggiunge un tasso di utilizzo di macero prossimo alla saturazione (92,4% nel 1998), posto che non è possibile, per ragioni tecniche ed in parte normative, impiegare solo fibra secondaria nei cicli di trasformazione. I settori della produzione di carte per usi igienico-sanitari e per usi grafico-editoriali presentano invece margini di incremento dell'utilizzo di materia prima secondaria.In riferimento al raggiungimento del complessivo obiettivo di recupero degli imballaggi cellulosici, i risultati conseguiti nel corso del biennio 1997-1998 sono riportati in Tabella 18. I dati riferiti agli anni 1997-1998 sono ricostruiti sulla base di stime effettuate sui quantitativi accertati, mentre quelli riferibili al 1999 riguardano stime e previsioni del centro studi di Comieco. Confrontando l'industria cartaria italiana con gli analoghi settori produttivi dei partner europei (vedi Tabella 19 che riporta i dati riferiti al 1998) è possibile notare come il nostro Paese sia ancora abbastanza dipendente dall'estero per gli approvvigionamenti di carta e cartone da macero, ed una raccolta nazionale insufficiente a soddisfare la elevata richiesta dell'industria cartaria, benché rispetto al passato la quota di importazioni stia annualmente riducendosi a fronte di un incremento della raccolta interna, per la quale si ritiene esistano significativi margini di miglioramento stimabili nell'ordine delle 650.000 t di incremento della raccolta differenziata.
2.4.4 La filiera della plastica.
Per quanto concerne l'individuazione dei canali specifici di raccolta dei rifiuti di imballaggio in materiale plastico, la Tabella 20, evidenzia i due principali circuiti: quello della raccolta differenziata urbana (raccolta da superfici pubbliche) e quello della raccolta di imballaggi da superfici private effettuata da operatori indipendenti dal Consorzio. Le rilevazioni di cui alla tabella 20, si basano sui censimenti effettuati annualmente da Unionplast presso i riciclatori di materie plastiche e sulle relative autocertificazioni. La stessa Unionplast stima comunque che il dato sia approssimato per difetto almeno del 10% a causa della carenza di informazioni rispetto ad alcune imprese. Sulla base dei quantitativi riportati è possibile evidenziare come nel 1999 siano state riciclate in Italia almeno 821.000 tonnellate di materie plastiche, 762.640 nel 1998 e 684.228 nel 1997, con un incremento nel 1999 del 7,6% rispetto all'anno precedente. Di queste 820.752 tonnellate riciclate dall'industria nazionale, circa il 71% deriva da raccolte interne ed il 29% ha invece provenienza estera. I dati mostrano inoltre una costante, per quanto limitata, riduzione delle importazioni, frutto di una raccolta interna più significativa. Rapportata al consumo interno di materie plastiche, invece, l'incidenza dell'impiego di plastiche riciclate ammonta al 12,51% nel 1999, al 12,41% nel 1998 ed all'11,55% nel 1997, ricordando che per le ragioni sopraesposte i dati appaiono sicuramente sottostimati. L'impiego di materie plastiche riciclate - vedi Tabella 21 - presenta inoltre un andamento crescente
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nel tempo, ed un valore che evidenzia il ruolo non marginale del comparto rispetto ai canali di approvvigionamento di materiali vergini. Con riferimento al raggiungimento dei complessivi obiettivi di recupero e riciclaggio fissati dal decreto Ronchi, i risultati conseguiti nel biennio 1998-1999 sono riportati nella Tabella 22. I dati sono ricostruiti sulla base dei quantitativi accertati, mentre i quantitativi per il 2000 riguardano stime verosimili dei risultati conseguibili, anche alla luce dei nuovi canali di raccolta ed intercettazione dei flussi attivati o da attivare nel corso dell'anno. I quantitativi 1999 gestiti non da Corepla, vale a dire da operatori privati, sono invece pre-consuntivi soggetti ad eventuale revisione in occasione delle rilevazioni definitive. Per definire la dimensione dell'industria europea del riciclo di materie plastiche, i dati proposti da APME (Association of Plastics Manufacturers in Europe) riportano un quantitativo di circa 6.000.000 di tonnellate di materie plastiche riciclate nell'Europa occidentale, di cui 2,5 milioni riconducibili al cosiddetto «in-house production scrap recycling», vale a dire ciò che comunemente viene definito autoriciclo e che tendenzialmente viene escluso dall'ambito d'analisi del presente rapporto, mentre ammonta ad 1,9 milioni di tonnellate il riciclaggio dei rifiuti plastici pre-consumo (production waste for recycling), e ad 1.8 milioni di tonnellate quello dei rifiuti post-consumo (post-user waste material). Analoghe rilevazioni condotte dall'AMI (Applied Market Information) stimano invece il riciclaggio dei rifiuti in plastica nell'Europa occidentale in circa 1,4 milioni di tonnellate nel 1997. Nell'ambito di questo scenario, ed alla luce di dati quantitativi disponibili limitati e comunque in parte contraddittori, l'Olanda è considerata la maggiore importatrice e riciclatrice di rifiuti plastici post-consumo, seguita da Gran Bretagna e Svizzera, mentre è la Germania la maggiore esportatrice europea di rifiuti plastici, seguita dall'Austria. In termini di numero di aziende riciclatrici è ancora netto il ruolo di leadership della Germania, che annovera circa il 32% degli operatori europei del settore, benché l'Italia si posizioni al secondo posto con il 18%, seguita da Gran Bretagna/Irlanda (12%), da Belgio/Lussemburgo (10%) e dalla Francia (10%). Anche da un punto di vista tecnologico l'esperienza tedesca in materia di riciclaggio delle materie plastiche presenta specificità e tecnologie ancora poco diffuse a livello internazionale, quale ad esempio il procedimento cosiddetto di «riciclo chimico» o feedstock recycling. Le potenzialità di tale sistema risiedono essenzialmente nella possibilità di scomporre, attraverso processi di natura chimica (termica e/o catalitica), i rifiuti di materiali plastici nei polimeri che li costituiscono, per poi effettuare una successiva «ricomposizione» degli stessi in tutta una serie di prodotti di sintesi utilizzabili nell'industria petrolchimica. Tale procedimento risulta per il momento diffuso soprattutto in Germania, Francia e Stati Uniti, tanto che lo stesso Corepla ha progettato di avviare alcune sperimentazioni attraverso l'invio di rifiuti di materiale plastico presso riciclatori esteri al fine di verificare le potenzialità del sistema.
2.4.5 La filiera del legno.
L'utilizzo di rifiuti e rottami di legno nei cicli produttivi dell'industria nazionale del mobile e dell'arredo rappresenta, fino dagli anni
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'50-'60, una esigenza ed una necessità, vista la scarsa rilevanza delle risorse boschive del Paese. In modo particolare, i rifiuti ed i rottami di legno sono quasi esclusivamente assorbiti dalla produzione di agglomerati lignei (pannelli truciolari). In questo specifico settore, l'Italia ha sviluppato competenze e tecnologie di livello mondiale.Le fonti stimano il quantitativo totale di rifiuti di legno riciclati nella produzione di manufatti lignei (essenzialmente truciolari) in circa 2 milioni di tonnellate nel 1999, a fronte di una produzione di circa 3 milioni di tonnellate di manufatti. Il tasso di riciclo sulla produzione raggiunge quindi circa il 67%, vale a dire che circa i 2/3 della produzione nazionale di pannelli truciolari avviene utilizzando rifiuti di varie fonti e provenienze. a restante parte, circa 1 milione di tonnellate del fabbisogno di acquisto del comparto, è coperta attraverso l'utilizzo del cosiddetto «bosco», vale a dire rottami di legno provenienti generalmente dalle attività di manutenzione forestale che, ai sensi normativi, non rientrano nella categoria di rifiuto. Per quanto concerne i canali di approvvigionamento e provenienza del legno utilizzato, questi sono essenzialmente rappresentati, per il 70% (circa 1,5 milioni di tonnellate), da rifiuti di legno di raccolta nazionale e, per la restante parte, circa 500-600.000 tonnellate, da importazioni. Con riferimento ai circuiti di raccolta dei rifiuti, ed agli obiettivi di recupero e riciclaggio fissati dalla normativa, la tabella seguente evidenzia la situazione nello specifico.Sulla base della scelta gestionale del Consorzio di prevedere ed incentivare soprattutto l'utilizzo dei rottami di legno come materia prima secondaria, l'opzione prioritaria presa in considerazione per il raggiungimento degli obiettivi fissati dal decreto Ronchi è essenzialmente quella del riciclaggio. Benché praticabile la via della valorizzazione energetica è considerata non solo residuale, ma il Consorzio non fornisce al proposito dati quantitativi sui quali calcolare gli obiettivi di recupero. Allo stesso modo, non vengono prese in considerazione, ai fini degli obiettivi da raggiungere, le ulteriori opzioni di recupero di materia rappresentate dall'impiego dei rottami nella produzione di pasta di cellulosa per cartiere o compostaggio. Per riciclaggio si intende quindi avvio dei rifiuti raccolti alla produzione di manufatti lignei. Per quanto concerne la quantificazione dei flussi complessivi di imballaggi in legno immessi sul mercato negli anni 1997, 1998 e 1999, la tabella 7.20 ne evidenza il dettaglio. I dati relativi al riciclo del legno, come si può notare dalle Tabelle 23 e 24 si riferiscono a stime dell'Istituto Italiano Imballaggi per l'anno 1997 e del Conai per gli anni 1998 e 1999.
2.4.6 La filiera del vetro.
Nonostante l'industria vetraria nazionale dipenda largamente, per quanto riguarda la disponibilità di rottame di vetro, dal circuito di raccolta dei rifiuti di imballaggio, per avere un quadro complessivo è necessario considerare anche le dinamiche import/export ed i rottami non di imballaggio raccolti e riciclati. L'industria nazionale del vetro cavo ha utilizzato infatti annualmente, nel triennio assunto come riferimento, rottami di vetro «pronto al forno» per un quantitativo di più di 1.000.000 di tonnellate (Vedi Tabella 25), con una crescita
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contenuta ma costante in relazione all'aumento della raccolta domestica. Di questi quantitativi, più del 70% sono rappresentati da rifiuti di imballaggio di provenienza nazionale. A differenza di altri materiali ed altri settori, quindi, per i quali la raccolta ed il riciclaggio degli imballaggi rappresentano una frazione modesta delle materie prime secondarie complessivamente movimentate (si pensi al caso dell'alluminio o, soprattutto, dell'acciaio), il comparto del vetro cavo costituisce un esempio in cui l'incidenza del recupero di materia secondaria da imballaggi determina un rilevante impatto sul totale della produzione nazionale. La restante parte del fabbisogno di rottami dell'industria è stato coperto attraverso il canale delle importazioni ed attraverso la raccolta di rottami differenti dagli imballaggi, quali ad esempio rottami di vetro piano e vetri per auto. Per quanto concerne il grado di raggiungimento degli obiettivi fissati dal decreto Ronchi, la Tabella 26, permette di valutare come il tasso di riciclaggio abbia raggiunto nel 1999 il valore del 35,6%, distante dall'obiettivo di recupero complessivo del 50%, ma ampiamente superiore rispetto al traguardo del 25% di recupero di materia.
2.4.7 Il compostaggio.
Il compostaggio consiste in un processo biologico aerobico con il quale la componente organica del rifiuto solido urbano, detta anche frazione umida, da sola o insieme ai fanghi di depurazione delle acque civili, viene trasformata in un prodotto con caratteristiche di ammendante dei terreni, dopo maturazione in impianti idonei. La tecnologia in tale campo ha registrato numerosi progressi negli ultimi anni ed ora il «sistema Italia», pur dipendendo ancora dall'estero per il compost di qualità, si avvia a percorrere la strada del compostaggio con sempre maggiore convinzione. Gli esempi sul territorio nazionale, per come risulta alla Commissione, si riferiscono generalmente ad impianti di compostaggio della frazione umida da rsu tal quali come quello di Colfelice nel Lazio, di Sambatello a Reggio Calabria, del Consorzio Milano pulita di Segrate (MI) Segrate, di Udine, di Tempio Pausania, Perugia. Sono però in fase di programmazione e realizzazione, sul territorio nazionale, impianti che utilizzano la frazione umida dei mercatali, in grado di produrre compost di qualità e di garantire una minore dipendenza dalle importazioni.
2.5 Recupero di energia.
Tutti quei materiali che, pur attuando la raccolta differenziata, non possono essere riciclati e che comunque costituiscono ancora una buona percentuale utilizzabile, vengono avviati ad impianti di termovalorizzazione per il recupero di energia che verrà utilizzata per produrre vapore o energia elettrica. In tal caso il materiale di alimentazione degli impianti, viene chiamato CDR, ossia combustibile derivato dai rifiuti, ha un suo potere calorifico e una precisa composizione prevista e fissata per legge. Tale CDR è preparato in appositi impianti in cui viene vagliato, selezionato, triturato, omogeneizzato e
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ridotto sotto forma di cilindretti a basso contenuto di umidità o in forma «coriandolata». Accanto alla voce del recupero di energia attraverso la termovalorizzazione va considerato, nell'ambito dei bilanci energetici anche il recupero di energia assicurato nella forma di risparmio dovuto al riciclaggio e al recupero dei materiali raccolti in maniera differenziata, un risparmio dovuto alla minore energia utilizzata nella produzione dei materiali attraverso il riciclaggio ed il recupero rispetto a quella che si dovrebbe spendere per la produzione ex novo degli stessi materiali.
2.5.1 La valorizzazione energetica.
Per termovalorizzazione si intende la termodistruzione con recupero di energia (con produzione di energia elettrica e/o calore utilizzabile per riscaldamento o altri usi). La termovalorizzazione, ossia il trattamento dei rifiuti ad alta temperatura, secondo la normativa vigente, va inquadrata nell'ambito del cosiddetto «sistema integrato di gestione dei rifiuti» in linea con le direttive comunitarie. La termovalorizzazione, non solo consente di ridurre drasticamente il volume dei rifiuti da conferire in discarica, di smaltire più facilmente i residui della combustione ma anche di recuperare quantità consistenti di energia come si può desumere da uno studio effettuato dal Politecnico di Milano nel 1997 (1). La termodistruzione con recupero di energia è anche definita con il termine di «termovalorizzazione».Tante le ragioni che si possono addurre sul ritardo del nostro Paese ad adeguarsi ai principi della gestione integrata dei rifiuti e, tra questi, la già richiamata «sindrome di Seveso» mentre, nell'ultimo decennio, sono state messe a disposizione degli operatori del settore tecnologie ed impianti per la termodistruzione sicuri ed affidabili non solo per i rifiuti solidi urbani ma anche per i rifiuti speciali di origine industriale a prevalente componente organica, come peraltro ha potuto constatare una delegazione della Commissione d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti nel corso della visita ad alcuni impianti europei di smaltimento nel mese di settembre del 2000. Il nuovo modello di gestione integrata quindi deve caratterizzarsi quindi con la centralità del recupero e della valorizzazione delle componenti merceologiche presenti nei rifiuti solidi urbani sia sotto forma di materia che di energia, relegando il ricorso alla discarica solo per quei rifiuti che residuano dal trattamento e che non sono suscettibili di ulteriori valorizzazioni. La strada da percorrere quindi è quella di realizzare e localizzare gli impianti di termovalorizzazione con recupero di energia nell'ambito degli ATO
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(ambiti territoriali ottimali) che facciano parte integrante di un sistema in cui siano attivate le raccolte differenziate dei RSU e in cui le discariche, asservite ai termodistruttori, ai residui inerti o resi inerti derivanti dal recupero dei materiali, giuochino solo un ruolo marginale: solo cosi il nostro Paese potrà gradualmente avvicinarsi a quegli obiettivi che la norma nazionale ed europea indicano. Come si vedrà nel paragrafo dedicato alla discarica, i diversi sistemi di gestione dei rifiuti che vengono praticati nei paesi europei, sono di gran lunga più integrati rispetto a quello nostrano e a quello inglese (che fanno ancora ricorso per almeno l'80% alla discarica) in termini di recupero e termodistruzione. In tali Paesi il ricorso al recupero e alla termodistruzione ha comportato di fatto la riduzione dell'uso della discarica a circa il 60% del totale peso degli RSU. Le strade che si possono percorrere utilizzando la termodistruzione dei rifiuti sono quella della sola produzione di energia elettrica (2) e quella della co-generazione consistente nella produzione di calore e di energia elettrica (3). La scelta dell'una o dell'altra strada può essere dettata o imposta dalla richiesta di calore nell'arco dell'anno. Nel nostro Paese, il ricorso al riscaldamento per usi civili è limitato ad un determinato periodo dell'anno in considerazione delle temperature medie nazionali e pertanto, almeno che non si voglia utilizzare il calore per produrre acqua calda nei periodi di fermata del riscaldamento, alla cogenerazione è di norma preferibile la produzione di energia elettrica più semplice da distribuire utilizzando la rete nazionale esistente. Un esempio di teleriscaldamento tramite impianto di cogenerazione da rifiuti è quello della città di Brescia con il quale, in considerazione della temperatura media annuale non rigida, anche d'estate è attiva la rete di distribuzione di acqua calda nelle abitazioni.
In Europa sono attivi 270 impianti di termodistruzione in buona parte installati in Danimarca, Francia e Svizzera.
(1) «Riflessioni sulle strategie per lo smaltimento dei rifiuti in Italia». E.Pedrocchi-Facoltà di Ingegneria del Politecnico di Milano-Aprile 1997.
«Una tonnellata di rifiuti solidi urbani corrisponde a 200 chilogrammi di petrolio, a 250 normal metri cubi di gas naturale, a 600 kilowattora elettrici di energia, a 25 tonnellate di acqua riscaldata da 15oC a 95oC. Considerando che ogni italiano produce circa 0.5 tonnellate di rifiuti solidi urbani all'anno, corrispondenti a circa 300 chilowattora/anno di energia elettrica, ciò significa che tale quantità di rifiuti prodotti in un anno, se valorizzata energeticamente, corrisponde ad un terzo del suo fabbisogno per usi domestici.
(2) E.Pedrocchi- op.cit.
I rendimenti negli impianti di termodistruzione dei rifiuti solidi urbani con produzione di energia elettrica hanno rendimenti bassi in quanto, se si opera a temperature elevate, i fumi mostrano caratteristiche di corrosività sui materiali. Dall'entrata in vigore del Decreto legislativo n. 22/97 è presumibile che tale inconveniente tenderà a ridursi notevolmente man mano che si effettuerà la raccolta differenziata per cui i forni di termodistruzione verranno sempre più alimentati non più con rifiuti solidi urbani tal quali ma con combustibile derivato dai rifiuti (CDR), ossia con frazioni secche a basso tenore di umidità.
(3) E.Pedrocchi- op.cit.
Negli impianti di cogenerazione, generalmente, per ogni chilowattora di energia elettrica prodotta in meno si possono produrre circa 4 chilowattora di energia termica. Le due alternative sono però uguali da un punto di vista termodinamico in quanto il valore termodinamico del calore dipende dal livello termico a cui è fornito. Nel sistema cogenerativo il calore (le quattro unità termiche 9 è prodotto a bassa temperatura e quindi il suo valore termodinamico equivale a meno della maggiore produzione di energia elettrica della prima alternativa (1 unità).
2.5.2 La termodistruzione in Italia.
Un rapporto Federambiente del 1998 (4) riporta un quadro assai aggiornato della situazione nazionale dei termodistruttori e confronta i dati con il rapporto Anpa del 1998 con studi del 1995 effettuati da Ausitra e Assoambiente, con una ricerca Anida del 1997, con un
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rapporto Federambiente-Amia Verona del 1995 e con una ricerca Enea del 1995. Risulta dal rapporto che il parco nazionale dei termodistruttori di rsu è costituito da 60 impianti di cui il 68% operativi (41 impianti), il 23.3% (ossia 14 impianti non ancora in esercizio e progettati o in fase avanzata di costruzione), 8.3% sono temporaneamente inattivi (5 impianti).Le tecnologie di combustione utilizzate dicono che il 70% degli impianti (ossia 42 impianti) sono con forni a griglia, che 11.7% sono a tamburo rotante (7 impianti), 13.3 a letto fluido (8 impianti) e 5% (3 impianti) sono gassificatori. Sul totale impianti in esercizio vi è da rilevare che quelli aderenti a Federambiente sono il 78%. La percentuale si alza al 85% se si considerano gli impianti che al momento sono attivi. La distribuzione geografica degli impianti Federambiente mostra una netta prevalenza del Nord Italia con il 75%, una presenza del 20% al Centro e una trascurabile presenza al sud (intorno al 2%).
(4) Federambiente.
Impianti di smaltimento, analisi sui termocombustori di rsu-Roma, 1998.
Dei 41 impianti di termodistruzione operativi molti sono stati costruiti negli anni settanta e soltanto 7 dopo il 1990; 23 impianti hanno subito un processo di revamping tra il 1987 e il 1993. Ciò indica la presenza di un parco inceneritori datato che, nonostante i processi di revamping, non presenta nel suo complesso sufficienti garanzie di affidabilità rispetto alle emissioni, in particolare per quello che riguarda le temperature di esercizio: è noto infatti che una delle condizioni necessarie per spingere l'abbattimento delle diossine a un livello inferiore a 0.1 nanogrammi/Nmc - livello assicurato dalle migliori tecnologie oggi disponibili - le temperature devono essere adeguatamente elevate (al di sopra dei 1200 oC).
Relativamente ai limiti imposti dalla normativa (D.M 97/503, DM 5 febbraio 1998) per le diossine (0.1 nanogrammi/Nmc), vi è da rilevare che solo 8 (il 25 percento) impianti Federambiente già rispettano tali limiti. Nell'ambito di tali impianti si segnalano i termodistruttori di Cremona, Bolzano, Brescia, Busto Arsizio, Roma e Siena. Nel settore della termodistruzione dei rifiuti industriali in Italia vanno menzionati il termodistruttore di Melfi (installato presso la Fiat),quelli interni alle aree Enichem di Porto Marghera, Ferrara, Mantova, quello della società Ecolombardia 4 di Filago (Bergamo) con una potenzialità di 30.000 tonnellate/anno, quello della piattaforma di trattamento rifiuti di Modena, il forno della società Basf di Caronno Pertusella e il recentisimo impianto F3 installato presso Enichem di Ravenna in grado, con le sue moderne tecnologie di trattamento delle emissioni di soddisfare il limiti stringenti dei microinquinanti tra cui le diossine. Tale forno è adatto a bruciare anche prodotti contenenti cloro. Il polo Enichem Ferrara-Ravenna-Porto Marghera, ha una capacità autorizzata di termodistruzione di circa 160.000 tonnellate/anno che si può paragonare a quella di altre realtà europee. Nel corso di un recente sopralluogo della Commissione nella regione Puglia, ha destato una buona impressione il forno rotante per la termodistruzione di rifiuti industriali, in fase di start-up che potrebbe essere utilizzato anche per la distruzione termica delle farine animali, delle carcasse e dei grassi animali, installato nell'area industriale di Brindisi presso il consorzio Sisri. La potenzialità è di circa 100 tonnellate/giorno e il sistema di abbattimento delle emissioni è costituito da filtri a manica, da assorbitori con carbone attivo in polvere e da un lavaggio acido/base. Le
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temperature in gioco nella camera di post-combustione, posta a valle della camera di combustione del forno rotante, sono dell'ordine di 1200oC. All'interno delle raffinerie Erg di Siracusa, Api di Falconara, Saras di Sarroch (Cagliari) sono già operativi tre impianti di gassificazione del Tar, residuo pesante derivante dagli impianti di visbreaking e classificato rifiuto pericoloso dalla direttiva comunitaria n. 91/689/CEE al punto 11 Annex 1A e all'allegato D del Decreto legislativo n. 22 del 5 febbraio 1997. Dal processo di gassificazione si ottiene un gas che sottoposto a lavaggio, viene a sua volta bruciato per produrre energia elettrica distribuita nella rete Enel. Un recente censimento dei termodistruttori presenti sul territorio nazionale (per rifiuti urbani, sanitari, industriali) è stato effettuato dall'Anpa per fare il punto delle potenzialità impiantistiche per distruggere i grassi e le farine animali a seguito della emergena della BSE (mucca pazza). Il censimento ha rilevato la presenza di almeno 99 impianti di incenerimento il 20% dei quali, tuttavia, non è ancora disponibile spesso, per problemi tecnici di adeguamento delle emissioni alle nuove normative. Pur se non compresa nei processi di termodistruzione, vale la pena di ricordare che una nuova tecnologia innovativa si affaccia all'orizzonte ed è quella della «torcia al plasma».
Tale tecnologia ha un impatto sull'ambiente senz'altro positivo ma, in Italia, occorre bene precisarlo, essa è ancora allo stato embrionale di sperimentazione su bassa scala :Infatti un'azienda bolognese la Itea, con la supervisione dell'Enea, sta valutando una torcia Dismo (dissociazione molecolare). Stupisce pertanto la notizia che sul mercato nazionale venga proposto l'utilizzo di tale tecnologia da parte di aziende (es. S&P, Celtica Ambiente), probabilmente licenziatarie dei brevetti della GPSC (Global Plasma System Corporation) e che non hanno ancora realizzato impianti per trattare combustibili derivati dai rifiuti (cdr). È questo il caso, per esempio, della proposta di Celtica Ambiente di utilizzare la torcia al plasma per produrre energia da cdr in un sito dell'area industriale di Brindisi. La Commissione ritiene che l'utilizzo di tecnologie di assai alto livello di sofisticazione, nella ipotesi della realizzazione di impianti aventi un size industriale, dovrebbe riguardare più che il cdr (per il quale sono oggi disponibili impianti di termodistruzione con recupero di energia provvisti di sistemi di abbattimento emissioni ormai ampiamente consolidati) il trattamento di rifiuti pericolosi quali il pcb (policlorobifenile), i solventi clorurati, le miscele di solventi aromatici, gli idrocarburi policiclici aromatici, difficili da smaltire per altra via, se non in tempi lunghi.
3. L'IMPATTO AMBIENTALE DEGLI IMPIANTI DI TRATTAMENTO E SMALTIMENTO DEI RIFIUTI.
Gli impianti di trattamento, qualsiasi sia la tecnologia applicata, comportano comunque un impatto ambientale che deve essere minimizzato, come peraltro è ampiamente riscontrabile nell'articolato della vigente normativa sulla gestione dei rifiuti ed anche nella norma secondaria in cui si riscontra il concetto che il trattamento dei rifiuti,
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sia ai fini dello smaltimento che ai fini del recupero, e che i trattamenti di bonifica, sono autorizzati purchè siano fatte salve tutte le norme ambientali in materia di acque, suolo, aria, igiene ambientale, nell'ambito cioè di un rispetto globale dell'ambiente e della salute della popolazione esposta. L'applicazione della best available technology, dovrebbe garantire tale principio. In assoluto, il principio della best available technology è ambientalmente corretto ma, non può prescindere dalla valutazione dei fattori economici ossia dal rapporto costi/benefici, per cui sarebbe più corretto parlare di migliore tecnologia disponibile a costi economicamente praticabili, fermo restando che i costi praticabili non vengano minimizzati a punto tale da vanificare l'efficacia dell'intervento a protezione e salvaguardia dell'ambiente e della salute dell'uomo. Nella cultura occidentale, sta interiorizzandosi tale concetto e le popolazioni esposte nei pressi degli impianti di trattamento dei rifiuti, ove la corretta informazione, i controlli e il rispetto dei limiti di legge sono assolutamente garantiti, danno il consenso ed accettano la installazione degli impianti, convinti che un trattamento dei rifiuti, se ben gestito, debba considerarsi a tutti gli effetti un impianto industriale, utile comunque alla comunità alla produttività e alla crescita economica del Paese, con inoltre risvolti positivi in tema di occupazione. In nord Europa, ma anche oltre Oceano, a cavallo degli anni 70-80 si era in verità manifestata la sindrome Nimby (Not in my backyard), in quanto la gente non si sentiva del tutto garantita da alcune applicazioni tecnologiche, per es. termodistruttori di prima generazione con sistemi di abbattimento fumi non del tutto efficienti. Oggi possiamo costatare che ovunque, in Germania, Danimarca, Svezia, Finlandia, Francia, gli impianti di trattamento di rifiuti, vere e proprie piattaforme industriali, sorgono a poca distanza dai centri abitati, con il consenso delle popolazioni residenti, come la Commissione ha potuto costatare nel corso della visita nel nord Europa del settembre 2000. Il consenso della popolazione si ottiene se vi è un rapporto di fiducia e consapevolezza tra il cittadino, lo Stato che controlla e l'azienda che applica le tecnologie. In Italia purtroppo in tema di impianti di trattamento dei rifiuti, persiste ancora assai diffusa la sindrome Nimby (Not in my backyard), in qualche caso motivata dalle numerose situazioni di degrado ambientale. Prevalentemente però si assiste ad una eccessiva enfatizzazione ed esasperazione di tale sindrome e forse con un eccesso di sensibilità sul tema ambientale. Tale ipersensibilità vanifica ogni sforzo delle amministrazioni e degli operatori teso alla soluzione dei problemi di smaltimento/recupero dei rifiuti. Il caso recente della Campania, che deve affrontare drammaticamente il problema dello smaltimento dei rifiuti urbani, nonostante sia da sei anni in commissariamento per l'emergenza rifiuti e bonifiche, costituisce un precedente pericoloso che deve essere visto come un segnale preoccupante. Ma come arrivare al consenso? Un ruolo fondamentale, riteniamo lo abbia la scuola in cui dovrebbero essere fatti sforzi in tutte le direzioni affinché sia imposto l'insegnamento dell'ecologia negli istituti di ogni ordine e grado con la collaborazione, pensiamo, di tutte le forze del volontariato e dell'associazionismo ambientale. Se si vuole che i comportamenti degli adulti siano virtuosi e tendano al rispetto dei principi dello sviluppo sostenibile, occorre educare gli adulti di domani cioè i giovani delle scuole
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di oggi. Peraltro, tutta la norma ambientale a livello internazionale nord europeo e nazionale, si basa sullo sviluppo sostenibile dopo il cambiamento di rotta imposto dalla conferenza di Rio de Janeiro del 1992 alla cultura dello spreco, dell'usa e getta. Un dato preoccupante quindi, tale ipersensibilità, che non facilità di certo il consenso delle popolazioni alla installazione di qualsivoglia impianto di trattamento o di recupero di rifiuti e che non aiuta e incoraggia l'imprenditoria. Il caso eclatante della Campania di questi giorni è sotto gli occhi di tutti. Su tale versante, probabilmente, occorrerà ritarare il sistema e oltre al già citato problema della educazione ambientale nelle scuole, si deve facilitare e potenziare la corretta informazione e la tecnica di comunicazione. Ma quali sono gli impatti ambientali che possono originare dalla installazione degli impianti di trattamento dei rifiuti e da quello di smaltimento definitivo,di recupero e di bonifica? Qui di seguito se ne fornisce una illustrazione esemplificativa.
3.1 Trasporto dei rifiuti.
Il trasporto dei rifiuti è una delle fasi più delicate del ciclo dei rifiuti, in termini di impatto ambientale. La normativa vigente in tema di gestione dei rifiuti, prevede che essi, durante il trasporto siano individuabili e classificati secondo la normativa per mezzo di bolle di trasporto e che i mezzi siano idonei, attrezzati con apparecchiature e materiali di pronto intervento per affrontare le emergenze e che rispettino tutte le norme di sicurezza in maniera che siano minimizzati i danni per l'ambiente e per l'uomo, in caso di incidenti Non sono rari i casi di gravi contaminazioni ambientali a seguito di trasporto di rifiuti pericolosi via terra che si registrano quasi quotidianamente . Una segnalazione pervenuta alla Commissione riferisce che, nello scorso mese di agosto, una motrice che trasportava rifiuti pericolosi (melme petrolifere catramose della raffineria Agip di Priolo) su cassoni né telonati né sigillati, si è ribaltata all'uscita del viadotto Boccetta, nelle immediate vicinanze della città di Messina, e che il carico ha contaminato le zone circostanti causando grave disagio alle popolazioni del posto esposte per tanti giorni a odori nauseabondi di prodotti petroliferi e di benzene. Anche i trasporti di rifiuti via mare o via fiume in qualche caso, alla stessa stregua dei trasporti di prodotti, possono essere causa di gravi impatti sull'ambiente. sulle vie fluviali. L'agenzia per l'ambiente degli Stati Uniti d'America (EPA) in un recente rapporto (EPA 310-R-97-002, vedi bibliografia) ha ben evidenziato i rischi per l'ambiente generati dal non corretto utilizzo dei mezzi di trasporto, dalla mancanza di norme di sicurezza e di pronto intervento. Sono purtroppo numerosi i casi registrati riferibili al trasporto di rifiuti in autostrada da parte di aziende che utilizzano cisterne da cui fuoriescono liquidi pericolosi per gocciolamento. Vi è da notare che a volte da parte di operatori senza scrupoli, il sistema del gocciolamento viene utilizzato come via di smaltimento del carico lungo il percorso specialmente in occasione di avverse condizioni meteorologiche. L'impatto ambientale del trasporto dei rifiuti attiene al suolo, alle acque, all'aria. Un rifiuto liquido trasportato senza cura e attenzione emette sostanze pericolose in atmosfera e quando il carico viene sversato sul
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suolo provoca contaminazione anche delle falde per percolamento del contaminante nel sottosuolo. La via statisticamente più sicura e che comporta minori rischi per l'ambiente è quella dell'utilizzo del trasporto ferroviario dal momento che, salvo, cause accidentali, vi è una «strada obbligata» da percorrere con bassi rischi di impatto con altri mezzi o veicoli. Il trasporto via ferrovia, auspicato dalla Commissione anche in occasione della presentazione del biennio di attività della stessa, nel novembre 1999 presso la Camera dei deputati, comporta anche un bassissimo rischio, prossimo allo zero per ciò che riguarda le emissioni in atmosfera essendo la trazione di tipo elettrico. Se paragonato al trasporto con altri mezzi e altri sistemi tir, cisterne, camions, etc), il trasporto ferroviario dei rifiuti (che peraltro in tale settore è sotto l'attenzione del management delle Ferrovie, date le potenzialità di sviluppo) risulta vincente in quanto a ridotto impatto ambientale relativamente ai comparti acqua, aria, suolo. L'opzione di trasportare i rifiuti delle lagune dell'Acna di Cengio via ferrovia, (in aggiunta a quanto già viene fatto per i rifiuti dell'inceneritore di Brescia e dell'area di Porto Marghera), tramite un accordo tra la società Ecolog (costituita dalla Ferrovie dello Stato) e la proprietà Acna, è da vedere, quindi, positivamente nel momento in cui i rifiuti delle «lagune» verranno conferiti presso la miniera di Teutschenthal nei pressi di Lipsia. Il ridotto impatto ambientale del sistema «trasporto ferroviario/ripristino ambientale in miniera» realizza inoltre globalmente una significativa riduzione del carico inquinante sul territorio comunitario.
3.2 Discariche controllate.
Nella filosofia europea della gestione dei rifiuti, recepita dagli Stati membri, la discarica assume, com'è noto, un ruolo marginale e residuale. Essa, infatti, può accogliere rifiuti inerti o resi inerti o derivanti dai trattamenti di recupero e comunque a bassissima matrice organica per minimizzare, se non eliminare, la possibilità che si formi il percolato. Per come visto nel capitolo relativo alla normativa nazionale di gestione dei rifiuti, la deliberazione del Comitato interministeriale del 27 luglio 1984 contiene le disposizioni per la prima applicazione dell'articolo 4 del decreto del Presidente della Repubblica 10 settembre 1982 n. 915 e concerne lo smaltimento dei rifiuti in discarica o per termodistruzione. In tale deliberazione sono contenuti i criteri tecnico-scientifici, quelli amministrativi, le procedure di autorizzazione, le tecniche di smaltimento, nonché i criteri classificatori dei rifiuti. Tale norma secondaria, da innovare in alcune sue parti, come auspicato anche in un importante documento del CISA dell'università di Cagliari del 1997 (Linee guida per le discariche controllate di rifiuti solidi urbani), rimane ancora, in attesa della emanazione del decreto di attuazione dell'articolo 5 comma 6 previsto dal decreto legislativo del 5 febbraio 1997 n. 22, lo strumento tecnico che regolamenta la materia dello smaltimento in discarica dettandone:
a) criteri per la distanza di sicurezza dai punti di approvvigionamento delle acque destinate ad uso potabile, dall'alveo di piena di
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laghi, fiumi, torrenti, dai centri abitati e dai sistemi viari di grande comunicazione;
b) criteri per la ubicazione in suoli stabili tali da evitare rischi di frane o cedimenti della struttura di smaltimento;
c) criteri di gestione (compattazione, rimozione del percolato, captazione del biogas, ripristino ambientale del sito dopo coltivazione).
Tutto ciò a seconda che si tratti di discariche di prima categoria, di seconda categoria di tipo A, di tipo B e di tipo C e di terza categoria. La legge 33/2000 (legge comunitaria 2001) ha recepito la direttiva 31/99//CE prevedendo la nuova normativa sulle discariche con dei tempi di attuazione graduale diversificati per impianti nuovi ed esistenti ed il differimento dei termini di cui all'articolo 3, commi 6 e 6-bis, del decreto legislativo n. 22/97 per il conferimento dei rifiuti in discarica (pretrattamento preventivo). Per ciò che riguarda lo smaltimento dei rifiuti pericolosi in discarica, il decreto del Ministero dell'ambiente n. 141 dell'11 marzo 1998 cataloga e identifica tali rifiuti in attuazione dell'articolo 28, comma 2, del decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22. Tra i vantaggi che offre la discarica si possono riportare quelli relativi ai minori costi di investimento rispetto ad altri impianti a tecnologia più complessa come i termodistruttori. Per realizzare ed avviare una discarica infatti i tempi non sono molto lunghi, per la sua gestione si richiedono macchinari a semplice tecnologia (compattatori, macchine per movimento terra, etc) e lo smaltimento dei rifiuti che in essa avviene è da considerarsi definitivo. Inoltre, ove le condizioni geologiche lo consentano, la discarica può essere utilizzata come recupero di vecchie cave purchè i sistemi di impermeabilizzazione siano installati correttamente. La coltivazione avviene in continuo (eccetto condizioni meteorologiche avverse) e non vi sono quindi tempi morti per manutenzione. A sfavore della discarica giocano invece tanti fattori tra i quali vi è l'eccessivo consumo e l'estesa occupazione di territorio, la produzione di percolato, derivante per la gran parte dalla presenza di rifiuti organici putrescibili e degradabili che, oltre a comportare problemi per lo smaltimento, può essere causa di pericolose infiltrazioni nelle falde di acqua potabile destinata al consumo umano. Il percolato inoltre, con il suo carico inquinante di microroganismi e specie chimiche tossiche, continua a prodursi anche ad ultimazione della coltivazione della discarica e quindi occorre considerare un ulteriore costo per i controlli post-gestione La stessa matrice organica presente nella discarica, a causa di processi fermentativi, è all'origine della produzione di biogas stimato in circa 250-350 metri cubi per tonnellata di rifiuto smaltito e la cui scarsa o minima captazione comporta la liberazione in atmosfera di metano (gas ad effetto serra notevolmente più alto dell'anidride carbonica) ed altri gas in aggiunta a emissioni maleodoranti assai fastidiose per gli insediamenti abitativi spesso prossimi alla discarica stessa. Inoltre, il biogas derivante dalla decomposizione aerobica e anaerobica, produce una miscela di anidride carbonica e metano con innalzamento delle temperature locali. Tali gas possono dar luogo a miscele esplosive con
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l'aria ove il biogas non sia correttamente captato e combusto. Un caso recente di esplosione con vittime umane si è purtroppo verificato di recente nei pressi di una discarica a La Spezia. I fenomeni sopra descritti vengono accentuati e diventano più gravi quando la discarica è abusiva, cosa assai ricorrente nel nostro Paese, come la Commissione ha avuto modo di constatare nel corso degli ultimi tre anni. In tal caso, in mancanza dei requisiti previsti dalle norme vigenti sia in fase di progettazione che di esercizio, il sito di smaltimento può insistere non su terreni argillosi o impermeabilizzati bensì su suoli non idonei, ad alta permeabilità per cui i rifiuti cedono il loro carico di inquinanti percolando fino alla falda idrica. Ancora più grave, in tal caso, è la contaminazione dell'atmosfera a causa delle emissioni di sostanze maleodoranti, derivanti dai processi fermentativi e di sostanze cancerogene prodotte dai processi di autocombustione o da incendi dolosi dei rifiuti. In quest'ultimo caso, data la gestione illegale del sito, tra i rifiuti conferiti, possono essere presenti contaminanti di ogni tipologia (pericolosi e non pericolosi) contenenti per esempio cloro legato a matrici organiche (plastiche, solventi, vernici, scarti industriali, materiali intrisi di policlorobifenili, i cosiddetti PCB, etc) precursori della formazione di diossine, furani ed altri composti pericolosi per la salute dell'uomo, in considerazione anche delle basse temperature in gioco al momento della combustione incontrollata (500-700 oC). Il ripristino della discarica, dopo la cessazione della coltivazione, è un costo gravoso e l'utilizzo alternativo del sito «ripristinato» non è molto remunerativo in quanto non si presta per scopi abitativi nè per usi agricoli con coltivazione di speci destinate all'alimentazione umana e animale. Va rilevato infine che una discarica in coltivazione, la cui gestione non sia del tutto corretta, può costituire un punto di attrazione per i volatili che possono essere a loro volta veicolo di pericolose infezioni. La dispersione di microorganismi in atmosfera, a causa dei venti, può comportare infine la trasmissione di agenti patogeni all'uomo. Al fine di ridurre la produzione di gas serra, di emissioni maleodoranti e di percolato, causa spesso, per come si è detto, di contaminazione delle falde, la normativa comunitaria ha posto forti vincoli all'utilizzo futuro delle discariche, riservando ad esse un ruolo che, nel tempo, diventerà marginale rispetto a quello attuale. La normativa comunitaria recepita dal decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22, proprio nell'ottica di una gestione integrata dei rifiuti, all'articolo 6 di tale decreto, prevede che dal 1o gennaio 2001 sia consentito smaltire in discarica solo rifiuti inerti, rifiuti individuati da specifiche norme tecniche e rifiuti che residuano dalle operazioni di riciclaggio, di recupero e di smaltimento il che, tradotto nella pratica del conferimento, significa espresso divieto di smaltimento di rifiuti a componente organica. Nel caso dei rifiuti urbani ciò significherà avviare tali matrici organiche al compostaggio mentre relativamente ai rifiuti speciali si tratterà di avviarli o alla termodistruzione o ai processi di inertizzazione che immobilizzino i contaminanti nei materiali usati per i processi di fissazione chimica. Le discariche di oggi dovranno quindi accogliere i rifiuti inerti, quelli derivanti dai processi di recupero delle frazioni secche ed umide delle raccolte differenziate e saranno asservite agli impianti di termodistruzione per accogliere le ceneri tal quali o rese inerti. Purtroppo dati i ritardi nell'attuazione della normativa
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vigente e il lento adeguamento ad essa di numerosi piani regionali, si deve oggi constatare che il termine del gennaio 2001 fissato dalla norma non è ancora assai difficile da rispettare per cui è presumibile che il legislatore debba ricorrere ad una ulteriore proroga dei termini. Quando si decide di realizzare un impianto di discarica, occorre tenere presente che il costo pagato dalla comunità, considerando effetti diretti e indiretti, sulla popolazione esposta e sull'ambiente, è da considerarsi alto nell'insieme delle componenti ambientale, paesaggistica, economica, sociale. Sul territorio, infatti, si accumulano rifiuti e conseguentemente viene deprezzato il valore materiale e culturale del sito stesso. Il ripristino ambientale a fine chiusura è anch'esso un costo. Sulla rivista «The Lancet» è stato reso noto di recente il risultato di una ricerca finalizzata alla valutazione dei possibili rischi di malformazioni congenite a carico di coloro che risiedono nei pressi di discariche controllate di rifiuti pericolosi. La ricerca è stata condotta utilizzando i dati di sette registri regionali delle malformazioni su cui viene annotata l'evoluzione del fenomeno in cinque Paesi europei. Per l'Italia, il referente è l'Istituto di fisiologia clinica del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pisa. Si è appurato che, per i residenti entro un raggio di tre chilometri dai siti di discarica di rifiuti industriali, vi sarebbe un rischio di incremento del 33% delle malformazioni, con una particolare incidenza per le malformazioni del tubo neurale, del cuore e dei grandi vasi sanguigni. Ovviamente gli autori della ricerca, nell'evidenziare la natura indiziaria e non probante delle ricerche e delle indagini epidemiologiche, manifestano la necessità di ulteriori approfondimenti (che sono tutt'oggi in corso), in maniera tale da poter stabilire un nesso causale tra il rischio e le anomalie congenite e la distanza dalle discariche. La notizia è stata fatta propria anche dal Ministero dell'ambiente che, nel dicembre 1998, ha inviato una lettera circolare agli assessorati all'ambiente e alla sanità di alcune regioni dove sono presenti discariche di rifiuti pericolosi, per ottenere informazioni circa la localizzazione delle discariche anche abusive, e relativamente a eventuali azioni di monitoraggio e disponibilità di dati epidemiologici. I rischi connessi all'esistenza di discariche controllate evidentemente si amplificano quando le discariche sono abusive o mal gestite.
3.3 Impianti di stoccaggio, di riciclo, di trattamento dei rifiuti.
Relativamente allo stoccaggio di rifiuti, questi vanno considerati alla stessa stregua delle sostanze pericolose per le quali esistono ben precise norme derivate da quella primaria sulla etichettatura. Per minimizzare l'impatto ambientale per l'atmosfera l'acqua e il suolo, una delle prime regole da rispettare è quella di evitare il superamento delle quantità da stoccare e da trattare autorizzate nonché i tempi di permanenza. Durante le operazioni di trattamento (volumetrico, di inertizzazione, di miscelazione, vanno evitate operazioni che comportino incompatibilità chimiche che potrebbero comportare i rischi di sviluppo eccessivo di calore, reazioni esotermiche con conseguenti esplosioni e incendi. I contenitori dei rifiuti debbono essere ermeticamente
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sigillati e ispezionabili, integri e non debbono presentare segni di corrosione con perdita di liquidi nel suolo. Le condizioni di aerazione debbono essere garantite e gli eventuali odori presenti debbono essere captati da un sistema in leggera depressione con assorbimento su mezzi assorbenti (es carboni attivi) nel pieno rispetto delle normative vigenti in materia di qualità dell'aria. Debbono essere disponibili piani di pronto intervento di emergenza e di antincendio. In caso di incendi, la combustione di rifiuti pericolosi può avere gravi conseguenze sull'ambiente e sulla salute dei cittadini. La Commissione ha riscontrato quanto successo recentemente (aprile 2000) presso lo stoccaggio provvisorio della società Orim di Macerata, in cui, a seguito di un incendio, sono andati a fuoco materiali pericolosi vari (oli, catalizzatori e solventi) provocando una nuvola nera persistente per tutto il giorno.
3.4 Impianti di selezione dei rifiuti ed impianti di compostaggio.
Il problema più importante delle aree in cui avviene la selezione, la cernita delle frazioni secche ed umide dei rifiuti solidi urbani, nonché quello degli impianti di compostaggio è comune (certamente più accentuato negli impianti di compostaggio), e consiste nella presenza di odori, a volte nauseabondi, derivanti dalla fermentazione e putrescibilità delle frazioni organiche presenti nel rifiuto. L'impatto ambientale riguarda essenzialmente l'atmosfera ma anche il suolo e la falda se i liquidi di percolazione che si formano durante la biodegradazione non vengono allontanati e smaltiti correttamente. Per risolvere il problema degli odori è necessario intervenire su due fronti: il primo riguarda l'applicazione di procedure di housekeeping in grado di assicurare la continua e costante pulizia delle aree dove vengono manipolati i rifiuti, la seconda riguarda la captazione degli odori tramite un sistema di aspirazione in leggera depressione e il collettamento dell'aria contaminata in un sistema di abbattimento che può essere costituito da scrubbers ad umido con relativo trattamento delle acque o da biofiltri a letto torbiero o da sistemi di assorbimento su supporti ceramici contenenti microorganismi. Il sistema di assorbimento degli odori può altresì essere costituito da filtri a carbone attivo che, una volta esauriti, possono essere rigenerati o smaltiti. Uno dei motivi che provoca il disagio delle popolazioni che vivono nei pressi di tali impianti è costituito principalmente dagli odori che in qualche caso possono provocare nausee e gravi fastidi anche agli operatori addetti dell'impianto.
3.5 Impianti di termodistruzione.
Un impianto di termodistruzione, che sia tuttavia equipaggiato con un adeguato sistema di trattamento delle emissioni e che realizzi un effettivo recupero energetico, non aumenta l'impatto ambientale complessivo anzi contribuisce alla sua riduzione. In discarica è noto che la frazione organica viene trasformata in anidride carbonica, metano, e percolato, senza alcuna produzione di energia eccettuata la minima
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quota parte che può derivare dalla combustione del biogas in fase avanzata di coltivazione della discarica stessa. La termodistruzione, invece, oltre a produrre energia, non provoca emissioni aggiuntive ma sostitutive e di qualità migliore rispetto ai combustibili convenzionali. È come dire che le emissioni di anidride carbonica e di metano si contraggono e ciò costituisce un modo per ridurre l'effetto serra, atteso che sia la CO2 e molto di più il metano sono gas a forte effetto serra. Si consideri che la produzione di energia da rifiuti fa risparmiare combustibile fossile e quindi CO2 derivante dalla combustione dello stesso. In tal senso si ha un miglioramento dell'impatto ambientale. Un confronto tra l'energia prodotta dai rifiuti e quella prodotta dai combustibili tradizionali e convenzionali (carbone, olio combustibile denso, metano) fa costatare che l'impatto ambientale del ciclo completo dei combustibili convenzionali dovuto alla estrazione, alla separazione, alla depurazione e al trasporto gioca a favore dell'energia dai rifiuti venendo a mancare tutte le operazioni che comportano forti impatti ambientali quali il consumo di energia, le emissioni nelle varie fasi del ciclo, l'alterazione del paesaggio, la produzione di rifiuti e di reflui idrici da smaltire, il traffico, i rischi di incidenti e sversamenti. Da un punto di vista di compatibilità ambientale va inoltre rimarcato che la produzione energetica da termodistruzione proiettata al teleriscaldamento permette di risparmiare energia primaria con un doppio vantaggio: da una parte si concentra la produzione di calore in poche e significative centrali con il risultato che si ottimizzano e razionalizzano i parametri e si riducono al minimo le emissioni inquinati. La cogenerazione (calore + energia elettrica) non solo è vantaggiosa come consumi ma è anche una delle strade con cui l'Italia potrà tentare di adeguarsi al protocollo di Kyoto diminuendo entro il 2010 le emissioni di anidride carbonica del 6.5%, rispetto a quelle del 1990 . Ciò significa una contrazione del 25-30% rispetto a quelle che sarebbero diventate in assenza del protocollo di Kyoto. Peraltro il sistema di cogenerazione di Brescia è un chiaro esempio degli ottimi risultati che si possono raggiungere e che è assai diffuso nei comuni nel nord Europa. La termodistruzione, in quanto opera sul rifiuto in maniera definitiva, non trasferisce nel tempo la soluzione del problema ambientale come la discarica o nello spazio attraverso le materie che si recuperano dalla selezione e cernita dei rifiuti, operazioni pur esse importanti e da ottimizzare percentualmente fino a valori auspicabili del 50% nell'ambito della gestione integrata dei rifiuti. La termodistruzione va intesa come un metodo efficace per la riduzione del volume dei rifiuti e consuma meno territorio.
Certamente, un impianto di termodistruzione può rappresentare una fonte di contaminazione per l'ambiente esterno se essa è condotta in maniera poco accurata, se le apparecchiature di depurazione dei fumi e di combustione non sono efficienti e se non si fa ricorso alle tecnologie oggi disponibili per minimizzare gli impatti ambientali (lowNOx burners per abbattere gli ossidi di azoto, combustion improvers per migliorare la combustione, additivi per abbattere la SO2, scrubbers ad alta efficienza, filtri a maniche, depolveratori a cicloni, assorbitori a carboni attivi, etc). La combustione riduce infine la pericolosità dei rifiuti organici rispetto alla discarica nella quale questi permangono per tanto tempo specie nel medio e lungo termine. Le
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scorie di combustione, specie se inertizzate, hanno sicuramente caratteristiche migliori dal punto di vista dei rilasci rispetto ai rifiuti tal quali depositati in discarica. Non va trascurato nemmeno il fatto che la combustione distrugge batteri e virus, cosa che non succede in discarica.
3.6 Siti contaminati.
Un sito contaminato è fonte continua di disagio e preoccupazione per le popolazioni residenti nelle immediate vicinanze. Infatti sono da prendere in seria considerazione i danni che a loro insaputa può aver causato la contaminazione nel tempo. La presenza di un sito contaminato, oltre a costituire elemento di degrado, ha un impatto negativo anche di ordine economico, in quanto deprezza il valore dell'ambiente, dei manufatti, delle strutture e degli immobili siti in prossimità. La preoccupazione permane fino a che alla popolazione non si danno serie garanzie di soluzione del problema in maniera definitiva. In tal senso vi è da considerare una sorta di ipersensibilità anche nel caso dei siti contaminati. A La Spezia, ove la discarica di Pitelli attende ancora di essere bonificata, un altro recente caso, quello della ex area della raffineria IP, costituisce per la popolazione un forte elemento di disagio e preoccupazione, come si evince dai numerosi articoli apparsi di recente sulla stampa locale. Quando si verificano tali situazioni, oltre alle giuste preoccupazioni per la salute pubblica, insorgono anche ripercussioni notevoli di impatto socio-economico.
3.7 Il problema diossine.
Generalmente con il termine «diossine» si intende la famiglia di composti organici clorurati tossici - le cosiddette PCDD, policlorodibenzodiossine - in numero di 75 composti diversi e con diversa tossicità, dipendentemente dalla loro struttura chimica. Già nel 1800 furono identificate le prime diossine ma si sa che erano presenti sul pianeta da tempi molto antichi, come dimostrato da numerosi studi su tessuti animali, su piante, su numerosi reperti archeologici. Le diossine sono presenti sul pianeta in maniera ubiquitaria e le fonti di emissione sono le più disparate. Le diossine si formano insieme ad altre sostanze organiche come i furani nel corso delle combustioni incomplete di materiali organici in ambienti in cui sia presente cloro sia in forma organica che inorganica come ormai accertato internazionalmente. Quando si bruciano rifiuti solidi urbani (in cui comunque sono già presenti piccole quantità di diossine a volte superiori a quelle emesse con i fumi di combustione) a temperature inferiori a 850oC (temperature normalmente presenti negli inceneritori di vecchia generazione) in cui insieme alla matrice organica è contenuto anche cloro sotto varie forme chimiche, è certa la formazione di diossine. L'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC), che è una sezione dell'Organizzazione mondiale della sanità, ha definito la tetraclorodibenzodiossina (2,3,7,8,TCDD) come un potente cancerogeno di classe 1 per l'uomo. In generale le diossine sono persistenti nell'ambiente e
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possono essere causa di gravi problemi a danno del sistema riproduttivo e dello sviluppo e del sistema immunitario. Esse inoltre interferiscono con gli ormoni regolatori. Le diossine sono solubili nei grassi e si accumulano nella catena alimentare. Sono state trovate nella carne, nel latte,nei polli, nei maiali, nei pesci, nelle uova. A cavallo degli anni '70 furono scoperte da scienziati olandesi le diossine nei fumi degli inceneritori. Nel 1984 inoltre in Svezia, Paese che ha studiato molto approfonditamente il problema delle diossine, si stabilì addirittura una sorta di «moratoria» e per un dato periodo si sospese la costruzione di impianti nuovi fino a che un gruppo di lavoro, coordinato dall'Agenzia per la protezione dell'Ambiente e che coinvolgeva illustri scienziati ed esperti del settore, non avesse chiarito i termini del problema. Nel giugno 1986, l'Agenzia emise il «verdetto» fissando tutti i presupposti ritenuti indispensabili per una gestione corretta della termodistruzione dei rifiuti e ne venne fuori che l'uso dei rifiuti per la produzione di energia non deve confliggere con altre destinazioni che possono essere importanti per la società, che si debbono inoltre rispettare i limiti delle emissioni prefissate per legge e che la combustione è da ritenersi un valido sistema per il trattamento dei rifiuti teso al recupero di energia tenendo tuttavia in considerazione tutti i requisiti gestionali ed impiantistici necessari e fissati dal rapporto. Conseguenza di tale azione dell'Agenzia fu che dal 1986, la Svezia, riprese la costruzione di nuovi impianti di termodistruzione. Lo studio svedese fu poi confermato da una analoga ricerca effettuata in Canada dal National Incinerator Testing and Evaluation Program (NITEP). Quanto avvenuto in Svezia costrinse i progettisti degli impianti di incenerimento che fino allora avevano privilegiato la tecnologia della combustione, a mirare con maggiore attenzione anche ai sistemi di abbattimento delle emissioni. Oggi, il limite di emissione per gli impianti di termodistruzione di numerosi paesi Europei, compresa l'Italia, è di 0.1 nanogrammi di TEQ/ Normal metro cubo in cui il termine TEQ indica l'equivalente tossico di tutte le diossine. È noto che oggi vi sono impianti di termodistruzione (in Europa e di recente anche in Italia) che emettono mediamente cento volte meno rispetto a quanto veniva emesso dieci anni fa e comunque in grado di rispettare ampiamente il limite di 0.1 nanogrammi per normal metro cubo. Per abbattere le diossine nelle emissioni non è sufficiente il rispetto della cosiddetta regola delle « tre T» cioè, temperatura di combustione elevata, tempo di combustione adeguato a bruciare tutto il materiale organico, turbolenza dei fumi che garantisce condizioni di omogeneità (1). Infatti, è stato verificato che i fumi che lasciano la camera di combustione, dopo raffreddamento, presentavano concentrazioni più alte di diossine in quanto alcune di esse si riformavano intorno ai 200-330 oC. I progettisti degli impianti di termodistruzione hanno quindi operato per migliorare le tecnologie di abbattimento delle emissioni cosa che non si è fatta in Italia, in quanto essi erano penalizzati a causa della paura della gente per il problema «diossine» dopo il ben noto incidente che provocò la nube tossica di Seveso. La
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conseguenza era stata quindi che essi avevano abbandonato la strada della ricerca nella quale primeggiavano fino agli anni '70. Negli anni dei fatti di Seveso e anche dopo, assai particolare era stata l'apprensione di una opinione pubblica scarsamente informata sul problema e in grado quindi di condizionare fortemente la correttezza scientifica e le scelte dei processi di decisione. Oggi il sistema Italia, a fronte di tecnologie che vengono importate da altri Paesi europei, sta reagendo con proprie installazioni cercando di recuperare il tempo perduto. Per tenere sotto stretto controllo le emissioni di diossine riveste un ruolo importante non solo la gestione dei sistemi di combustione ma anche quella dei sistemi di abbattimento delle emissioni. Vi è da notare che, certamente le alte temperature sull'ordine dei 1000oC -1100 oC favoriscono la completa distruzione delle diossine sia di quelle presenti nella carica che di quelle che si possono formare intorno ai 300-400 oC in fase di combustione. Ma, per come si è detto, l'efficienza dei sistemi di abbattimento è altrettanto necessaria perchè vengano rispettati gli stringenti limiti delle emissioni (0.1 nanogrammi TEQ per Nmc). Come sopra detto, le diossine sono ubiquitarie e quindi le possiamo trovare un po' dappertutto. Una stima delle emissioni nazionali di diossine e furani (2) è riportata nel documento redatto da Enea per l'inventario Corinair e mostra che sono numerose le sorgenti di emissione delle diossine. Anche le discariche producono diossine (3). Infatti esse in parte entrano in atmosfera attraverso il biogas che si libera o viene bruciato (0.02-5 microgrammi per tonnellata di RSU), in parte si trovano nel percolato (0.002-0.0025 microgrammi per tonnellata RSU) e in parte nella discarica stessa (0.013-0.050 micro grammi per tonnellata di RSU).Anche negli impianti di compostaggio le diossine si concentrano nel compost, in ragione di 0.4-4 microgrammi per tonnellata. Nelle discariche abusive (per come detto nel
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capitolo dedicato alle discariche) il fenomeno è più rilevante in quanto la presenza di rifiuti contenenti cloro organico e inorganico è maggiore. Anche il combustibile derivato da rifiuti il cosiddetto CDR contiene diossine (4) e può sviluppare diossine in fase di combustione ove le condizioni di controllo non siano volte ad una accurata gestione della combustione e dei sistemi di abbattimento fumi. In conclusione, sul problema diossine, sulla base di quanto sopra detto si può dire che esso, oggi, costituisce un «falso problema» quantomeno se lo si associa ai termodistruttori per come fatto in passato. Certamente la paura della gente ha costituito un elemento emotivo che ha avuto un ruolo notevole portando ad una opinione distorta nella opinione pubblica. Occorre infine rilevare che la diossina è ubiquitaria e che è presente da molto tempo sul nostro pianeta, che la combustione non ha avuto un ruolo determinante sulle emissioni totali in considerazione del fatto che altri processi contribuiscono, per come visto, alla emissione di diossine e che la moderna tecnologia è in grado, oggi, di abbattere quasi a zero e comunque a valori molto bassi e trascurabili le concentrazioni al camino.
(1) T come Termoutilizzazione - La termoutilizzazione nello smaltimento dei rifiuti, a cura della Fondazione Lombardia per l'ambiente n. 20, dicembre 1996.
(2) I dati della stima delle emissioni Corinair Enea per l'Italia espressi in grammi di TEQ (equivalente tossico) di diossine e furani:
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1990 |
2000 |
contributo massimo
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Centrali elettriche pubbliche
| 23.4 | 17.3 | olio combustibile
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Imp. combustione terziario e agricoltura
| 23.6 | 23.9 | legna
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Combustione industria
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Impianti combustione
| 92.0 | 71.0 | olio combustibile
|
Cementifici
| 6.1 | 5.3 |
|
Sinterizzazione acciaio
| 67.9 | 50.0 |
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Processi produttivi (forni elettr.)
| 29.5 | 28.6 |
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Trasporti stradali
| 6.4 | 2.8 | benzina con Piombo
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Incenerimento rifiuti solidi urbani
| 276.0 | 195.2 |
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Incenerim. rifiuti solidi industriali
| 97.4 | 48.7 |
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(3) «Riflessioni sulle strategie per lo smaltimento dei rifiuti in Italia». E. Pedrocchi-Facoltà di Ingegneria del Politecnico di Milano-Aprile 1997.
(4) Da: Energia blu, novembre 1998.
In un chilogrammo di CDR sono contenuti dai 5 ai 25 nanogrammi di diossine. Un Kg di CDR genera 150 grammi di scorie, in cui sono contenuti da 1 a 20 nanogrammi di diossine, e 7 metri cubi di gas, che contengono 0-3 nanogrammi di diossine.
4. LA VISITA DELLA COMMISSIONE IN ALCUNI PAESI EUROPEI.
La Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti ha effettuato, nel mese di settembre del 2000, una visita presso alcuni impianti di trattamento e smaltimento di rifiuti (urbani, speciali pericolosi e non pericolosi) in alcuni Paesi europei: Germania, Finlandia, Svezia, Danimarca.
4.1 Germania: il sito minerario di Teuthschenthal (Lipsia).
Nella miniera di Teuthschenthal, attiva sin dal 1907,si estraeva la carnallite ossia un cloruro idrato di potassio e magnesio spesso associato con silvina e salgemma nei depositi salini evaporitici e di colore lattiginoso o rossastro.Il sito minerario appare una buona soluzione per lo smaltimento di rifiuti solidi pericolosi o resi solidi attraverso trattamenti di inertizzazione. I problemi da superare sono quelli degli odori sia sul piazzale esterno che all'interno della miniera. Nelle aree esterne, al momento della visita, si avvertiva odore di solventi organici provenienti dal collettore di scarico del sistema di depurazione ed aspirazione dell'aria interna al sito. All'interno delle gallerie sotterranee era invece evidente l'odore di ammoniaca. Data la profondità e la natura geologica del sito non sembra vi possano essere controindicazioni allo smaltimento di rifiuti solidi la cui massa cementata collocata per spinta con pala meccanica appositamente predisposta riempirebbe (come avviene) tutta la sezione libera della
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galleria stessa fungendo così non solo da riempimento ma da supporto vero e proprio al tetto impedendo a questo di crollare. Si tratterebbe secondo le autorizzazioni del Land tedesco di un vero e proprio recupero ambientale che sarebbe auspicabile, a detta dei tecnici del sito, anche in Italia. La potenzialità del sito appare di lungo termine almeno per venti anni. La lunghezza della galleria (circa 13 chilometri) assicurerebbe lo smaltimento di quantità di rifiuti solidi rilevante. Le operazioni di riempimento stanno riguardando per ora la prima parte della miniera (circa 4 chilometri) che a causa dell'abbandono nel passaggio della proprietà dalla Germania est a quella unificata, era stata soggetta ad un crollo delle pareti laterali in alcuni tratti. In tale sito vengono attualmente smaltiti rifiuti dell'inceneritore di Brescia, di alcune bonifiche Enichem di Porto Marghera e sono in corso trattative per il conferimento dei residui dei lagoons dell'Acna di Cengio, opportunamente solidificate.
4.2 Finlandia: Ecokem OY AB (Helsinky).
L'inceneritore della società Ekokem ha una potenzialità di trattamento di rifiuti industriali pericolosi e non pericolosi (solventi, vernici, stracci imbevuti di vernici, pitture ) di 65.000 tonnellate/anno. Sono operative due linee di termodistruzione ed è in fase avanzata di realizzazione una terza linea dotata di un sistema di abbattimento fumi assai sofisticato. Le emissioni del forno di termodistruzione rispettano ampiamente i limiti imposti dalla normativa europea per i microinquinanti tra cui le diossine. La temperatura di termodistruzione è di 1300 oC. I fumi di combustione del forno a tamburo rotante vengono post-combusti con tempi di permanenza tali da permettere una completa ossidazione del rifiuto. Nella linea di termodistruzione N.1 i fumi caldi vengono inviati ad una caldaia per la generazione di vapore da destinare a sua volta alla produzione di energia elettrica per autoconsumo all'interno dell'impianto e di energia termica per teleriscaldamento della vicina città di Riihimaki. L'energia prodotta dalla seconda linea di termodistruzione viene invece utilizzata nei processi di evaporazione delle acque reflue. Il lavaggio dei fumi avviene con calce per eliminare le emissioni di acido cloridrico e di anidride solforosa. I residui di diossine, furani e mercurio vengono abbattuti con l'utilizzo di carbone attivo. L'impianto Ekokem è una vera e propria piattaforma di trattamento: Esiste infatti una unità di trattamento chimico-fisico di inertizzazione di alcuni reflui quali cianuri, cromati, sali e soluzioni saline che, dopo inertizzazione, vengono avviati alla discarica asservita all'impianto. La Ekokem opera anche nel settore del recupero dei solventi e degli oli usati ed è dotata di un impianto di depurazione di acque industriali e di recupero del mercurio dalle lampade fluorescenti.
4.3 Svezia: Impianto sperimentale di combustione di Chalmers (università di Goteborg).
In tale impianto sperimentale si stanno effettuando combustioni sperimentali di miscele di combustibili al fine di verificare le condizioni ottimali di combustione. Tutti i parametri di combustione
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vengono registrati in numerosi punti della camera di combustione al fine di ottenere un modello previsionale per l'ottimizzazione dei processi di combustione.
4.4 Danimarca: impianto di termodistruzione rsu di Arhus.
L'impianto di Arhus tratta il 28% dei rifiuti prodotti ogni anno nel distretto (620.000 tonnellate). Esso è costituito da tre forni ognuno della capacità di 7.6 tonnellate/ora di rifiuto urbano. La linea 3 ha una capacità di 8.0 ton/h. Completano l'impianto 2 forni per rifiuti sanitari da 200Kg/ora e tre dryers per l'essiccamento dei fanghi di depurazione, in grado di essiccare ognuno 2 tonnellate/ora di fango. Le ceneri della termodistruzione ammontano a 2775 tonnellate/anno. La termodistruzione oraria è di 23 tonnellate di rifiuti il cui calore è utilizzato nel distretto di Arhus per produrre vapore (teleriscaldamento) e per produrre elettricità. L'impianto è dotato di depolveratori a ciclone, di un elettrofiltro, e di un sistema di scrubbers per il trattamento dei fumi.
5. SISTEMI DI RILEVAZIONE E DI CONTROLLO.
L'applicazione delle tecnologie di monitoraggio ambientale, oggi più che mai, costituisce un passaggio fondamentale per garantire il controllo, la salvaguardia e la tutela del territorio. Le tecnologie oggi disponibili permettono agli operatori, agli addetti ai lavori ma anche alla popolazione di seguire le evoluzioni dei fenomeni di degrado, di fornire informazioni sullo stato di salute del pianeta e di programmare interventi mirati di risanamento. Grazie alla rapida evoluzione tecnologica degli ultimi tempi, una vasta gamma di apparecchiature per il controllo e il monitoraggio dell'atmosfera, delle acque, del suolo e del sottosuolo è disponibile sul mercato. I controlli automatici stanno sempre di più sostituendosi a quelli manuali dei quali tuttavia non si potrà mai fare a meno. Nel settore delle acque di scarico esistono ormai da un trentennio apparecchiature di prelievo e di controllo «on line» che forniscono direttamente dati di concentrazione di inquinanti presenti nel mezzo idrico e che spesso riproducono metodi di analisi manuali (es. quelli colorimetrici) di laboratorio. È evidente, tuttavia, per come detto, che per quanto i sistemi di taratura automatica siano assai sofisticati non può mai prescindersi dalle tarature manuali periodiche di tutta la strumentazione coinvolta nel sistema di monitoraggio e controllo. Nel settore dell'inquinamento atmosferico, le centraline mobili e fisse, di cui normalmente sono equipaggiate le reti di rilevamento della qualità dell'aria nelle città, sono ormai in grado di monitorare una vasta gamma di inquinanti (ossidi di azoto, biossido di zolfo, monossido di carbonio, idrocarburi totali, benzene, polveri totali, polveri inalabili etc). Anche nel campo delle emissioni atmosferiche da sorgenti puntiformi esiste una serie di strumenti «on line» in grado di misurare le polveri, gli ossidi di azoto, l'acido cloridrico etc. Per ciò che riguarda invece il monitoraggio dei microinquinanti organici (es. idrocarburi policiclici aromatici, diossine, policlorobifenili,
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e inorganici (es. i metalli tossici quali il nichel, cadmio, mercurio, cromo etc), il dato «on line» non è ancora disponibile e ci si limita, date le bassissime concentrazioni in gioco, a prelevare grandi quantità di aria ambiente utilizzando campionatori «high volume» o di emissioni da sorgenti puntiformi in modo da arricchire la concentrazione delle specie chimiche interessate per mezzo di filtri o mezzi assorbenti da analizzare successivamente e manualmente in laboratorio. Nel settore della geofisica applicata esiste una serie di metodologie per l'analisi non invasiva del sottosuolo in grado di evidenziarne le anomalie dovute o a motivi strutturali o a modificazioni avvenute a seguito di contaminazioni o interramenti di oggetti. Rispetto ai metodi convenzionali diretti (pozzi di monitoraggio, carotaggi, escavazioni, etc), le tecnologie non invasive offrono il vantaggio di non alterare le condizioni attuali del suolo e comunque, nell'ambito di un sistema integrato possono essere accoppiate alle tecniche invasive «mirate». Si hanno cosi metodi radar (ground penetrating radar), a induzione elettromagnetica, a resistività elettrica, a rifrazione sismica, con «metal detector», con apparecchiature magnetometriche etc. Le tecniche non invasive sono meno costose di quelle invasive e tra i vari scopi permettono di caratterizzare un sito rilevandone le caratteristiche geologiche, permettendo per es. la scoperta di fusti interrati, come la Commissione ha verificato nel caso della contaminazione di Riano Flaminio attraverso una indagine condotta dal dottor Marchetti dell'Istituto nazionale di geofisica. L'analisi dei vapori organici presenti nel suolo, in caso di interramenti di rifiuti effettuata per mezzo di una sonda infissa nel suolo e analizzati per via gas-cromatografica on line, può ascriversi a tali tecniche e metodologie non invasive. Le più rilevanti prospettive per un controllo e monitoraggio su vasta scala vengono però offerte dalle tecnologie di telerilevamento. Com'è noto il telerilevamento è una tecnica di acquisizione di informazioni sul territorio e sull'ambiente da postazione remota. Fanno parte del telerilevamento la fotografia convenzionale, le riprese multispettrali sia fotografiche che condotte con sistemi elettronici (scanner, telecamere, radiometri a microonde, radar ottici o lidar). Il telerilevamento aereo per esempio costituisce oggi uno degli strumenti più efficaci ed utilizzati di monitoraggio ambientale ed ha come scopo l'analisi delle caratteristiche fisiche del soprasuolo e dell'immediato sottosuolo, della superficie di corpi idrici e dei fenomeni quali il trasporto dei sedimenti che intervengono fino alla profondità di alcuni metri. Le immagini provenienti dal telerilevamento, peraltro, ormai da tempo trovano impiego in molteplici direzioni, per la stesura di mappe tematiche e per una conoscenza delle risorse planetarie. Il censimento delle risorse per mezzo del telerilevamento è un passaggio assai importante per mettere in pratica i principi dello sviluppo sostenibile e della conservazione della biodiversità enunciati nella conferenza di Rio de Janeiro del 1992. Il rilevamento aereo e da satellite dà la possibilità di effettuare indagini ad ampia scala su aree assai estese del pianeta, è veloce nell'acquisire dati e permette nel contempo una riduzione dei controlli a terra. È da considerare inoltre che una buona conoscenza del territorio è oggi una «conditio sine qua non» per orientare una qualsiasi scelta di intervento sia esso antropico che di prevenzione, di recupero o valorizzazione ambientale. In particolare il telerilevamento
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può orientare le scelte sulle priorità degli interventi da realizzare in materia di riassetto del territorio e di organizzazione dello smaltimento dei rifiuti. È quindi necessaria la creazione di una piattaforma di dati territoriali che costituisca la base di un sistema informativo di gestione di tutti i dati ambientali del territorio nazionale. Il CNR (Consiglio nazionale delle ricerche) ha messo a punto un'apparecchiatura di ripresa iperspettrale Mivis (multispectral visible and infrared imaging spectrometer) a 102 canali (bande spettrali), installata su un aereo (LARA, laboratorio aereo ricerche ambientali) equipaggiato anche con una struttura di gestione del software (Mivas) specifico per il processamento geometrico e radiometrico dei dati iperspettrali Mivis ad elevata risoluzione spaziale e spettrale. La configurazione del sistema Mivis è modulare e ne fanno parte n. 4 spettrometri che riprendono simultaneamente la radiazione visibile, quella dell'infrarosso vicino e dell'infrarosso termico provenienti dalla superficie terrestre. Il Mivis è il più avanzato sistema iperspettrale al mondo e viene impiegato per la caratterizzazione di fenomeni ambientali da Enti nazionali ed esteri. Indagini Mivis sono state effettuate sull'area di Trecate a seguito della esplosione di un pozzo petrolifero, sul lago di Como, sulle aree vulcaniche dell'Etna, di Vulcano, Stromboli, sulle lagune di Orbetello, Venezia, Marsala, sull'area archeologica di Selinunte e di Alesa, sulla pineta di Castelfusano, sulla discarica di Pitelli (La Spezia), sul Delta del Po, nella regione Molise e Basilicata, nella provincia di Roma e all'estero nell'area Hehenfels (Germania), nell'area Crau-Camargue (Francia), in Austria, e nel breve futuro anche in Cina, Paese con cui sono in corso e ben avviate trattative di collaborazione. Le discipline in cui opera il Mivis sono la geologia, l'inquinamento dei suoli, la idrogeologia, la geofisica, l'urbanistica, le foreste, l'archeologia, l'agricoltura, la vulcanologia, l'oceanografia, l'inquinamento atmosferico etc. Si possono così monitorare le colate laviche, i corpi idrici aperti e chiusi, l'apparato fogliare delle piante, lo fotosintesi, i sedimenti dei laghi, le aree soggette a rischio sismico, le discariche abusive, il percolato delle discariche, l'interramento di fusti, le fughe di calore e di gas dalle discariche di rifiuti solidi urbani, l'amianto in miscela con il cemento presente sui tetti degli edifici etc. Le apparecchiature di telerilevamento da aereo e da satellite sono oggi in uso a livello nazionale e internazionale. In Italia, apparecchiature simili al Mivis sono installate su aereo e sono in dotazione di Enea, Guardia di finanza (apparecchiatura Daedalus) Alenia, capitanerie di porto. Tali apparecchiature nazionali operano nel visibile ma con pochi canali multispettrali al massimo in numero di dodici. Il telerilevamento da satellite (TLR) è in uso come insieme di tecniche mediante le quali si effettuano misurano a grande distanza della energia riflessa ed emessa dalle superfici presenti sulla superficie terrestre. A proposito del telerilevamento, merita di essere menzionata l'esperienza condotta dal Corpo forestale dello Stato con il telerilevamento satellitare per mezzo del quale si è riusciti ad accertare la presenza, in alcuni pozzi di«reiniezione» di attività di estrazioni petrolifere nel territorio di Matera, di sostanze estranee ai processi estrattivi di idrocarburi quali mercurio, fenoli, solventi clorurati. In Basilicata esistono ben 345 pozzi di estrazione petrolifera e l'indagine del Corpo forestale ancora in corso, sta cercando di accertare eventuali
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smaltimenti illegali di rifiuti nei pozzi non più utilizzati. Il Corpo forestale ha inoltre messo a punto un sistema informatico della montagna (SMI) in grado di realizzare il catasto delle aree boscate, delle cave, delle discariche regolari ed abusive, dei movimenti franosi, etc. Vi sono satelliti «in movimento» che operano a distanze di 700-900 chilometri e satelliti geostazionari che operano a distanze di 30.000 chilometri. Vi è da osservare che il contenuto delle immagini riprese dalle attuali piattaforme orbitali, pur essendo stato elaborato con varie tecniche digitali, non può portare ad una definizione operativa, inequivocabile e attendibile a causa della bassa risoluzione spaziale di queste immagini e del numero estremamente limitato di canali di ripresa. L'innovazione tecnologica torna assai utile anche nel settore della gestione dei rifiuti in particolare nelle fasi di trasporto, stoccaggio, smaltimento definitivo. Com'è noto il sistema MUD ha mostrato qualche limite per problemi sia strutturali che gestionali (come evidenziato nel corso delle audizioni della Commissione con funzionari del Ministero dell'ambiente), in particolare si sono evidenziati problemi per un poco efficiente collegamento tra le banche dati delle Camere di commercio e l'ANPA. Di qui la necessità di trovare nuovi strumenti gestionali più snelli e con possibilità di acquisizione dati in tempo reale su tutta la rete nazionale. La tecnologia che è in fase sperimentale presso l'ANPA, si fonda sull'adozione di apposite apparecchiature fisse e mobili simili a quelle utilizzate negli esercizi commerciali con le carte di credito e con i bancomat. Questa sorta di carta di credito del rifiuto, RIFCARD, acquisisce i dati del formulario di trasporto del rifiuto, li trasmette attraverso rete telefonica all'ANPA (in caso di apparecchiature mobili, i dati vengono trasmessi attraverso il sistema GPS). L'acquisizione continua di dati consente di rendere disponibile un conto corrente rifiuti denominato CONTRIF per cui ogni soggetto coinvolto nella gestione del rifiuto (detentore produttore, trasportatore smaltitore) riceve periodicamente un estratto conto rifiuti, Con tale sistema si può costruire una nuova base utile per un catasto nazionale rifiuti, che può meglio colloquiare con le ARPA, garantendo non solo un monitoraggio in tempo reale sul flusso dei rifiuti che transita sul territorio nazionale ma anche di intervenire per rapidi controlli «in contemporanea» su tutto il territorio nazionale in caso di segnalazioni su traffici sospetti.