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Doc. XXIII n. 57


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PARTE QUINTA
MAFIA E "DOPPIO BINARIO" AMMINISTRATIVO E LEGISLATIVO

1. Le norme di diritto sostanziale che regolano il fenomeno mafioso. La necessità del riconoscimento del cosiddetto doppio binario.

Le vicende legate ai fatti di criminalità organizzata hanno influenzato massicciamente l'attività legislativa in materia di giustizia e sicurezza, dando vita ad una serie di norme e di interventi imposti dall'emergenza, e volti a conferire maggiori poteri di intervento alle forze dell'ordine ed alla magistratura nell'attività di contrasto.
Il quadro normativo che ne è venuto fuori, insieme alla frammentarietà delle disposizioni di legge contro la mafia, si caratterizza per la scelta differenziata, all'interno del sistema, tra fattispecie di criminalità comune e reati commessi nel contesto di organizzazioni criminose.
Va però detto che la disciplina presente nell'attuale sistema penale e processuale - che prevede aggravanti speciali per reati commessi in ambito di associazioni mafiose, e presunzioni di pericolosità sociale ai fini della custodia cautelare in carcere - oltre che essere ispirata a comprensibili criteri di emergenza sociale, appare a volte poco coordinata con il complesso delle norme di volta in volta varate per contrastare il fenomeno mafioso. Si impone viceversa la adozione in via stabile e permanente di un sistema di c.d. doppio binario, volta a coniugare le esigenze di difesa sociale - che appaiono indubitabilmente presenti in territori caratterizzati da forte presenza di criminalità mafiosa - con la necessità di assicurare le adeguate garanzie degne di un moderno stato di diritto.
Si impone pertanto la necessità sia sul piano sostanziale (conservando le specifiche aggravanti previste per i delitti di mafia), sia sul piano delle indagini preliminari, di un criterio generale che tenga presente la differenza "ontologica" sussistente fra i delitti riconducibili alla criminalità organizzata, specie di tipo mafioso, e gli altri reati, differenza dalla quale discende il dovere di prendere, per i primi, più penetranti metodologie investigative. Naturalmente anche nella fase delle indagini preliminari sui delitti di criminalità organizzata il giudice dovrà continuare a svolgere quelle funzioni di controllo e di garanzia che il codice processuale penale gli attribuisce per evitare che possano determinarsi abusi nel qualificare mafiose condotte che non lo sono, al solo scopo di utilizzare il regime investigativo previsto per le indagini sui delitti riconducibili al contesto mafioso.
Nel nostro codice del resto non sono pochi i casi di trattamento differenziato tra indagati di mafia e di reati comuni. Come avviene, a titolo di esempio, in materia di intercettazioni telefoniche ed ambientali,


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di criteri per l'applicazione di custodia cautelare e relativi termini di decorrenza, di determinazione della competenza del pubblico ministero.
Tra gli strumenti normativi più rilevanti in materia di criminalità mafiosa, vi è l'aggravante prevista dall'articolo 7 l. n. 203/1991, che è stata varata in un momento storico nel quale la giurisprudenza della Cassazione con più decisioni aveva negato il concorso esterno in associazione mafiosa (per tutte Cass. Sez. I n. 107/1987 e n. 418/1989) ed ha avuto l'effetto di supplire alla mancanza di una autonoma sanzionabilità delle condotte commesse da extranei, ma ispirate a favorire le associazioni di cui all'articolo 416-bis c.p. La ragione della sua esistenza sta proprio nella volontà di punire le condotte di chi si avvalga delle condizioni previste dall'articolo 416-bis c.p. - sia esso un partecipe ovvero un estraneo - nonché il comportamento dell'extraneus che commetta un reato al fine di agevolare l'associazione nel perseguimento dei suoi scopi. Quest'ultima ipotesi era proprio quella del concorso esterno la cui configurabilità risultava spesso negata dalla giurisprudenza della Cassazione.
Con il riconoscimento giurisprudenziale del concorso esterno in associazione mafiosa (Cass. Sez. Unite del 5 ottobre 1994) si è determinata una parziale coincidenza tra l'ambito di operatività della aggravante suddetta ed il concorso esterno di cui agli artt. 110 e 416-bis c.p., in relazione a tutte le condotte criminose che siano volte ad agevolare il perseguimento delle finalità proprie della compagine mafiosa. L'aggravante dell'articolo 7 rimane tuttavia applicabile anche in ipotesi nelle quali può non ricorrere il concorso esterno, ossia quando una condotta venga commessa - da un partecipe, ovvero da un estraneo non concorrente - senza lo scopo di perseguire le finalità dell'associazione ma avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis c.p.
La disciplina del concorso esterno, a sua volta, risulta applicabile anche a condotte il cui compimento non comporta alcuna altra violazione di norma penale e la cui illeicità va ricondotta esclusivamente al fatto che esse forniscono un contributo alla associazione per il perseguimento dei suoi scopi; a tali condotte dunque non sarebbe applicabile l'articolo 7 il cui presupposto è proprio quello di fungere da aggravante rispetto alla consumazione di un reato fine commesso nell'ambito dell'associazione.
Fatti salvi dunque gli spazi di autonoma operatività appena citati, nella prassi accade molto sovente che un reato fine commesso da un extraneus al fine di agevolare l'attività dell'associazione comporti contestualmente anche la contestazione dell'aggravante, facendo sì che un medesimo aspetto della condotta venga sanzionato due volte, con il concorso esterno e con l'aggravante, oltre che con la contestazione del reato-fine.
Peraltro la categoria generale del c.d. concorso esterno, rimane ancorata a meri criteri di interpretazione giurisprudenziali, con oscillazioni di non poco momento anche con riferimento alla stessa giurisprudenza delle sezioni unite.
La problematica della ammissibilità del concorso esterno, e la sua applicazione giurisprudenziale unanimemente riconosciuta dalla giurisprudenza nel corso degli anni '90, non costituiscono certo materia

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di un possibile intervento diretto del legislatore. Si tratta infatti della applicazione della categoria generale del concorso di persone nei reati a compartecipazione necessaria, riconosciuto per altre figure criminose, e non negato - e dunque innegabile - anche per l'associazione mafiosa. Il problema della caratteristica mancanza di tipizzazione di questa figura va dunque semmai cercata a monte, ossia nel sistema «aperto» di individuazione della responsabilità a titolo di concorso che il nostro codice utilizza per qualificare le condotte dei compartecipi, con il ricorso al criterio generale di tipizzazione utilizzato dall'articolo 110 c.p., volto a ricomprendere qualsiasi contributo causale alla realizzazione del reato. Ciò a differenza, ad esempio di quanto avviene nel sistema penale tedesco, ove ogni figura di compartecipazione viene definita in modo preciso, e corrispondente al ruolo del co-autore, del determinatore, e dell'istigatore.
Il sistema aperto di determinazione della responsabilità a titolo di concorso e la lettera ampia del testo dell'articolo 416-bis del codice penale, hanno pertanto insieme determinato incertezze nella giurisprudenza sul concorso esterno. Il rimedio a questa situazione non può che essere la tipizzazione di altre specifiche figure criminose, nelle quali ricomprendere, con la volontà certa della legge, quelle condotte di sostegno al fenomeno mafioso che la collettività percepisce come aggressioni intollerabili ai beni giuridici, senza operare deleghe in bianco alla giurisprudenza. Come è accaduto ad esempio con la introduzione dell'articolo 416-ter del codice penale, il cui contenuto in precedenza veniva sussunto - non senza incertezze - nella categoria generale del concorso esterno.
Sarebbe auspicabile pertanto procedere ad una riscrittura delle norme incriminatrici afferenti al fenomeno criminale mafioso, con particolare attenzione alle nuove forme di aggressione ai beni giuridici - che prevedono il ricorso ai nuovi mezzi della comunicazione e della tecnologia - ed alla costituzione di nuove realtà criminali, volgarmente definite le "nuove mafie". Questo riordino della materia va naturalmente finalizzato all'obiettivo di rendere applicabile il sistema del c.d. doppio binario, onde risulti netto lo spartiacque tra la normativa di contrasto al fenomeno mafioso e la disciplina che riguarda i delitti comuni. Ragioni di efficienza del sistema, e di coordinamento normativo, suggeriscono poi la raccolta in un unico testo normativo di tutta la disciplina dettata dalle esigenze di contrasto alle organizzazioni mafiose, così da evitare duplicazioni e insufficienze. La esigenza di un testo unico di leggi antimafia, da più parti invocata, ha trovato nella Commissione antimafia della XIII legislatura, un luogo di dibattito e di assenso, ponendosi come una delle riforme più auspicate sotto il profilo della necessità di approccio sistematico e complessivo al fenomeno della criminalità organizzata.

2. Il sistema del doppio binario amministrativo. Il regime differenziato dell'articolo 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354.

Parallelamente al corpus di norme costituenti il regime processuale differenziato per coloro che rispondono del delitto di associazione


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per delinquere di tipo mafioso e delle fattispecie incriminatici che ne costituiscono i satelliti, esistono altri strumenti atti a differenziare sul piano amministrativo l'attività di contrasto contro la mafia da tutte le altre forme di difesa sociale contro il crimine. Si tratta di normative operanti sul piano amministrativo e che afferiscono alla problematica del regime di detenzione per i capi delle associazioni mafiose, nonché alla disciplina delle misure premiali e di protezione per coloro che collaborano con la giustizia.
Sul versante della detenzione dei boss di cosa nostra l'esperienza degli ultimi anni ha posto in evidenza il tema della permanenza dei vincoli di appartenenza alle compagini mafiose anche all'interno degli istituti ove viene scontata la pena. Si è anzi verificato e provato a tal proposito lo stretto rapporto sussistente tra gli affiliati detenuti e quelli liberi, ed il costante impegno di questi ultimi nella esecuzione di attività delittuose da cui trarre i mezzi economici per garantire il sostentamento delle famiglie dei reclusi. Il circuito carcerario ha pertanto costituito, anziché una soluzione di continuità, un vero e proprio moltiplicatore delle attività criminose, prevalentemente estorsioni, a fronte della crescente necessità di provvedere ai bisogni di sostentamento ed alle spese legali degli affiliati.
Con riferimento poi ai capi delle organizzazioni mafiose le indagini più rilevanti hanno consentito di verificare la sussistenza di un vero e proprio canale diretto tra il carcere e l'esterno, con riferimento di tutte le attività di governo delle attività mafiose in capo ai soggetti carcerati che continuavano ad esercitarne la leadership. Si è così pervenuti alla determinazione di assumere con regime normativo speciale previsto dall'articolo 41-bis c.p., un diverso standard di detenzione per coloro che rivestono ruoli di vertice nell'ambito dell'organizzazione mafiosa. Questa scelta legislativa, approvata dai più ma avversata da altri, ha senz'altro consentito di porre un argine allo strapotere dei capi storici dell'organizzazione, determinando una interruzione nel sistema di trasferimento all'esterno degli ordini volti alla commissione di delitti, ed un conseguente calo delle manifestazioni delittuose e del potere organizzativo delle cosche.
In taluni casi il sistema di detenzione differenziato dei boss addirittura non si è rivelato sufficiente da solo a garantire l'interruzione delle comunicazioni dei boss con l'esterno.
Anzi, la capacità di eludere gli schermi del 41-bis costituisce un importante test per valutare la forza dell' organizzazione mafiosa, i suoi rapporti con altre organizzazioni, la sua particolare versatilità all'infiltrazione all'interno del tessuto istituzionale, la capacità di mantenimento del governo degli affari illeciti. Deve pertanto ritenersi che la predisposizione di un apposito circuito carcerario ad alta sicurezza destinato alla detenzione di coloro che siano imputati in custodia cautelare, ovvero condannati per i delitti più gravi - di associazione mafiosa, di associazione finalizzata al traffico degli stupefacenti, e di sequestro di persona a scopo di estorsione - non risulti da sola strumento sufficiente a contrastare il fenomeno. Per questa ragione è stata predisposta dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria la circolare n. 3359 del 21 aprile 1993, con

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la quale si prescrive che il luogo di detenzione dei boss debba essere sempre in istituti collocati a grande distanza rispetto alla regione di appartenenza.
Con la citata circolare è stata poi prevista in maniera altrettanto opportuna l'esigenza di impedire con ogni attenzione e decisione fenomeni di proselitismo, di supremazia o di subordinazione, e di dedicare particolare attenzione alla sistemazione dei detenuti di primo livello anche all'interno delle sezioni, evitando che stiano insieme, specie se nella medesima camera, detenuti che potrebbero sfruttare la loro vicinanza a fini criminali.
La realtà, però, è davvero diversa: sia perché è frequentissimo che impegni giudiziari portino il detenuto, anche se di primo livello, ad essere custodito in istituti situati nelle zone d'origine soggette all'influenza sua e dell'organizzazione di appartenenza (sicchè altrettanto frequenti e diffuse sono le occasioni di proselitismo e di affiliazione con cerimonie e rituali all'interno delle carceri); sia perché l'esperienza giudiziaria indica che è di fatto impossibile tenere i detenuti di primo livello separati tra loro, sicchè la conseguente vicinanza viene sfruttata a fini criminali non soltanto quando essi appartengano al medesimo gruppo o alla medesima associazione per delinquere o di tipo mafioso, ma anche quando si tratti di organizzazioni diverse (43).
Le eccezioni - purtroppo frequenti - a questa regola hanno determinato le condizioni perché alcuni capi ed esponenti di spicco della criminalità mafiosa fossero mantenuti in detenzione presso istituti siciliani, con il conseguente rischio di mantenimento dei contatti con gli affiliati in libertà. Orbene, la permanenza in istituto carcerario siciliano di un soggetto pericoloso - rientrante nel circuito dell'alta sicurezza, ma non anche nel regime carcerario speciale previsto dall'articolo 41-bis o.p. - può ritenersi necessitata a volte con l'esigenza di garantire la più agevole celebrazione dei processi a suo carico . Ciò che è da ritenersi inaccettabile è invece la permanenza in territorio siciliano dei boss sottoposti al regime speciale carcerario dell'articolo 41-bis o.p. Per costoro infatti è stata disposta con legge la possibilità di partecipare al dibattimento a distanza mediante il sistema della multi-videoconferenza, e pertanto nessuna ragione plausibile dovrebbe esservi per derogare alla regola della detenzione dei capi-mafia in luoghi distanti dalle regioni di origine.
Altri aspetti dei possibili rapporti con l'esterno dei boss relegati al 41-bis, sono da imputare all'uso delle moderne tecnologie ed ai pericoli di possibile corruzione e collusione degli operatori penitenziari.
Il problema si è riproposto con riguardo ad una recente vicenda che ha visto quale protagonista il boss detenuto Santo Mazzei, recentemente collocato dai palermitani in posizione dominante nelle gerarchie della famiglia catanese di Cosa nostra.

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Pur essendo detenuto all'interno della speciale sezione 41-bis o.p. dell'istituto di Brucoli, il boss, insieme al co-affiliato Mertoli Salvatore veniva messo in condizione di comunicare con l'esterno e gestire le questioni di potere dell'organizzazione, grazie all'utilizzo di un telefono cellulare messo a sua disposizione degli agenti di polizia penitenziaria addetti alla speciale sorveglianza. Attraverso l'attività investigativa eseguita inizialmente sotto le direttive della Procura della repubblica di Palermo era stato possibile infatti appurare gli intensi rapporti tra le famiglie catanesi e palermitane ed i frequenti incontri tra il boss Vito Vitale ed altri elementi emergenti da poco collocatisi al vertice dell'organizzazione mafiosa catanese. Le indagini tecniche effettuate sull'utenza cellulare in uso ad uno di costoro consentivano di verificare che egli era rimasto in costante contatto telefonico con il Mazzei, che gli inquirenti ben sapevano essere sottoposto al regime dell'articolo 41-bis o.p.
L'attenzione degli investigatori veniva pertanto a spostarsi sulla utenza telefonica in uso al boss detenuto, la cui voce era stata riconosciuta senza dubbio dagli agenti addetti al servizio di intercettazione telefonica. Esaminando la lista-traffico dei telefoni in uso agli affiliati che si trovavano all'esterno del carcere si veniva pertanto a conoscenza del fatto che i contatti con il Mazzei avvenivano per mezzo di una scheda prepagata intestata a persona non conosciuta agli atti di indagine. Per potere comprendere chi fosse l'effettivo utilizzatore della scheda si è dovuto dunque verificare - sempre mediante l'analisi della lista traffico - quali fossero i numeri composti più frequentemente, e soltanto così è stato possibile risalire alla persona di un agente di polizia penitenziaria in servizio presso l'istituto di Brucoli.
Si è potuto inoltre constatare - verificando l'orario delle telefonate che i boss effettuavano dal carcere di Brucoli - che le stesse avvenivano sempre durante i turni di servizio di un altro agente. La estensione delle indagini tecniche sui telefoni delle abitazioni dei due agenti di polizia penitenziaria consentivano di rilevare il timbro vocale degli stessi, e di desumere che vi era un rapporto costante tra i due e gli esponenti di Cosa nostra sia liberi che detenuti.
Utilizzando denominazioni di comodo gli stessi portavano a conoscenza i boss liberi di fatti che potevano essere di interesse dell'organizzazione.
Nel caso del Mazzei, dunque, la comune detenzione dei due boss nello stesso istituto costituiva ragione di pericolo - essendo gli stessi co-detenuti in un istituto ricadente in una zona a forte influenza da parte dell'organizzazione Cosa nostra cui appartenevano - ed essi avrebbero dovuto essere reclusi in istituti diversi situati in località del nord Italia, partecipando ai processi mediante il collegamento a distanza. In effetti la vicenda ha sollevato due diversi ordini di problemi, particolarmente ricorrenti nella detenzione degli appartenenti alla mafia siciliana, a causa del numero dei suoi affiliati e delle sue note capacità di penetrazione nel tessuto istituzionale: la questione relativa alla interruzione dei rapporti e delle comunicazioni dei capi-mafia con l'esterno, cui lo stato ha inteso porre rimedio attraverso l'introduzione del regime previsto dall'articolo 41-bis o.p.; e quella

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avente ad oggetto la comune detenzione dei capi all'interno delle medesime carceri, - anche quando si tratti di soggetti appartenenti ad organizzazioni diverse - con il conseguente pericolo che vengano adottate decisioni congiunte.
L'obiettivo di limitare le comunicazioni con l'esterno è stato perseguito restringendo drasticamente il numero dei colloqui per i soggetti sottoposti al regime speciale e limitandoli agli stretti congiunti (44). Tali colloqui vengono effettuati uno alla volta in apposite salette e senza il contatto fisico tra detenuto e visitatore. Queste cautele derivano dalle recenti esperienze maturate nel contrasto delle organizzazioni mafiose siciliane, che hanno consentito di apprendere come attraverso i colloqui effettuati congiuntamente dai detenuti, questi ultimi potessero colloquiare anche con affiliati in libertà venuti a visitare i propri parenti a loro volta detenuti, ed in queste occasioni impartire ordini all'esterno, commissionando omicidi, disponendo la commissione estorsioni, dirimendo contrasti insorti all'interno della organizzazione o con altri gruppi.
Come nel caso del boss detenuto Vito Vitale che, comunicando a gesti con i familiari, era riuscito a portare ordini all'esterno, continuando a gestire le sorti della propria organizzazione criminale.
L'altra questione, ossia la possibilità di utilizzo dei telefoni cellulari dentro le carceri, - la cui introduzione all'interno degli istituti, viste le dimensioni ridottissime di alcuni apparecchi, può avvenire con relativa facilità, - costituisce un vero problema, idoneo a vanificare del tutto le rigide prescrizioni introdotte dal regime speciale dell'articolo 41-bis o.p.
Una soluzione proposta da questa Commissione (45) è quella di provvedere alla totale schermatura dei ponti radio ETACS e GSM, collocati in prossimità delle zone ove ricadono gli istituti di pena attrezzati di apposite sezioni per la detenzione di soggetti sottoposti al regime di cui all'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario.
Per ciò che riguarda il diverso problema della detenzione dei responsabili delle organizzazioni mafiose all'interno della medesima sezione speciale per soggetti sottoposti al regime dell'articolo 41-bis o.p., va rilevato come il problema si pone in termini particolarmente gravi per i soggetti appartenenti alla criminalità mafiosa. Essi costituiscono infatti un cospicuo numero rispetto ai circa quattrocento detenuti complessivamente sottoposti al regime speciale, e distribuiti su un totale di sette istituti, all'interno dei quali sono state ricavate altrettante sezioni destinate ad ospitarli. Sarebbe pertanto utile, come già auspicato, realizzare ulteriori sezioni per detenuti sottoposti al regime dell'articolo 41-bis o.p. in modo da diluire la presenza al loro interno di soggetti appartenenti alla stessa area.

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È opinione, infine, della Commissione che il regime differenziato di cui all'articolo 41-bis o.p. acquisti carattere sostanzialmente permanente e che, quindi, non vi sia bisogno di provvedimenti che ne proroghino di volta in volta, come avviene tuttora, la efficacia.

3. Il sistema del doppio binario amministrativo. Il sistema di protezione dei collaboratori di giustizia.

Un'altra rilevante espressione del c.d. "doppio binario amministrativo" è costituita dalla possibilità di sottoporre a speciali misure di protezione e di assistenza coloro che collaborino con la giustizia fornendo dichiarazioni e prove nei confronti di esponenti di associazioni mafiose. Si tratta di un regime amministrativo che ha consentito allo stato di "costituire" un nuovo strumento per il contrasto alla criminalità mafiosa: i collaboratori di giustizia. Con la dovizia di informazioni fornite, da utilizzare con tutte le cautele imposte dalla legge, essi hanno consentito in questi anni di interrompere le latitanze dorate dei boss, assicurare la scoperta di importanti crimini, garantire l'acquisizione alla mano pubblica di parti del tuttora cospicuo patrimonio mafioso. Ma il loro utilizzo ha anche generato polemiche, per via della presenza, tra i collaboratori, di soggetti interessati solo ai benefici e con pochi scrupoli.
Gli sforzi effettuati per mettere a punto una normativa che garantisca la sicurezza dei cittadini che collaborano con la Giustizia - ed al contempo sia idonea ad assicurare la genuinità della prova che essi contribuiscono a fornire, - costituiscono il frutto delle esperienze maturate in Italia negli ultimi anni, e compendiate nella nuova disciplina sui collaboratori definitivamente approvata lo scorso febbraio dal Parlamento.
In effetti la materia - gravida di problematiche afferenti all'innegabile compromesso tra obbligatorietà della pena ed esigenze di Giustizia - ha trovato ulteriori momenti di complessità nella omologazione che la disciplina attualmente in vigore opera tra collaboratori di Giustizia - ossia soggetti dediti al crimine che abbiano deciso di mutare il proprio indirizzo esistenziale, ottenendo in corrispettivo i benefici della legislazione premiale per i crimini in precedenza commessi - e testimoni di Giustizia - ossia persone che non hanno commesso alcun reato, ma che attraverso la denuncia di reati cui hanno assistito, a volte in qualità di vittime, si sono sovraesposte a tal punto da dovere essere tutelate affinchè non subiscano le ritorsioni della criminalità organizzata -.
Il numero complessivo dei testimoni di Giustizia sottoposti a speciale programma di protezione nell'anno 2000 risulta essere pari a sessantuno, mentre quello dei collaboratori è stato pari a 1171 unità (46).
Di fatto, il sistema normativo di protezione di coloro che collaborano con la giustizia, nel vecchio sistema, non ha tenuto conto delle


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differenze di natura ontologica sussistenti tra le due categorie di persone sopra indicate, prevedendo per essi un analogo regime di sicurezza. Ciò ha comportato evidenti distorsioni anche nella prassi della protezione. I servizi di polizia addetti alla sicurezza dei collaboranti - troppo spesso abituati alle violazioni comportamentali commesse da ex criminali non proprio del tutto ravveduti - molte volte non distinguono la figura dei testimoni protetti dagli altri collaboratori, sottoponendoli a vere e proprie umiliazioni, da ritenersi inaccettabili per gli uni e per gli altri.
La sottoposizione a continui trasferimenti; la impossibilità di scegliere il luogo ove fissare la propria dimora ed i propri interessi; i divieti posti nello svolgimento delle attività relazionali e negli incontri con le persone care; l'inibizione all'uso delle proprie generalità nei rapporti con l'esterno; le difficoltà incontrate anche per ottenere la erogazione di una semplice ed urgente prestazione sanitaria, costituiscono a volte un prezzo troppo alto che il cittadino deve pagare per ottenere dallo Stato la dovuta protezione in conseguenza della propria scelta di coraggio civile. Nell'insieme può ben affermarsi che i testimoni di giustizia ed i loro familiari, costretti a trasferirsi in località protetta, nella gran parte dei casi in passato non sono riusciti ad inserirsi nella nuova realtà sociale, ed hanno vissuto la protezione come un periodo di cattività. A riprova di ciò giova sottolineare il dato sull'avviamento al lavoro - fornito dal Servizio Centrale di protezione, e riferito a questa Commissione dal Procuratore Nazionale Antimafia Piero Luigi Vigna nel corso della sua audizione dinanzi al Comitato di lavoro sui testimoni e collaboratori di giustizia del 24 novembre 1999 - che risultava emblematico circa il fallimento della funzione di reinserimento: dei cinquantanove testimoni esistenti al 31 dicembre 1998 solamente tre avevano trovato occupazione, e dei centotrenta familiari, appena quattro erano stati avviati ad una nuova attività nella residenza protetta.
È da sottolineare comunque che durante l'audizione del Sottosegretario di Stato Massimo Brutti il 16 gennaio 2001 dinanzi alla Commissione è stata unanimemente constatata una netta e positiva inversione di tendenza nel corso dell'ultimo anno nella gestione complessiva dei testimoni e nell'attività posta in essere per il loro reinserimento; circa venti testimoni di giustizia sono stati infatti reinseriti, attraverso diverse modalità, in un contesto sociale e lavorativo ordinario. È stato approvato, dalla Commissione centrale, un modello di programma per i testimoni di giustizia diverso da quello dei collaboratori; sono state adottate nuove misure assistenziali proprie esclusivamente dei testimoni; è stata istituita, nell'ambito del Servizio centrale, una Sezione testimoni. Sono stati, inoltre, attivati seminari di aggiornamento per il personale del Servizio centrale di protezione per arrivare ad una differente gestione dei testimoni rispetto ai collaboratori anche attraverso la comprensione della loro diversa posizione.
La nuova legge sulle collaborazioni ha dedicato un intero capo alla figura del testimone di Giustizia, regolandone e disciplinandone la posizione, ed attribuendo ad esso un regime differenziato rispetto a quello previsto per il collaboratore proveniente dai ranghi della criminalità. In tale disciplina è risultata determinante l'attività di

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iniziativa e proposta formulata dalla Commissione antimafia, nel suo complesso, - in sede di disamina interna del problema, nei dibattiti di palazzo San Macuto - e nelle persone dei suoi componenti, - in sede di discussione ed approvazione della legge.
Una importante ed inequivoca attestazione di ciò si è avuta nelle parole del Sottosegretario Brutti, il quale, sempre nella audizione del 16 gennaio 2001, ha affermato che il testo della nuova legge sui testimoni di giustizia ricalca i suggerimenti e le proposte della Commissione parlamentare antimafia che in più circostanze si era occupata della condizione dei testimoni. Peraltro, la Commissione centrale nelle more dell'approvazione della legge aveva seguito nella sua prassi applicativa le indicazioni della Commissione antimafia e i principi contenuti nel testo normativo poi approvato.
Un problema a parte, ma afferente sempre alla condizione personale e patrimoniale dei testimoni e dei collaboratori, è quello relativo alle difficoltà della gestione dei beni immobili posseduti dagli stessi. Si tratta di immobili che hanno costituito spesso il luogo di residenza, per i quali è difficile trovare un inquilino che li prenda in affitto, per via del timore di rappresaglie, e che, per le stesse ragioni, è ancor più difficile vendere al prezzo di mercato. In un caso, riferito dal dottor Vigna nel corso della sua audizione, si è arrivati ad offrire sul mercato al prezzo di trenta milioni, la villa di un collaborante che poteva valerne centocinquanta, ma, nonostante ciò, non vi era nessun acquirente disposto a comprarla. Alla impossibilità di gestione e di vendita degli immobili si aggiunge sovente il fatto che gli stessi spesso vengono danneggiati in modo irreparabile, non sempre per ritorsione da parte della criminalità, ma spesso anche ad opera di vandali essendo locali disabitati.
Per tutte queste ragioni nel testo di legge recante la nuova disciplina sulla collaborazioni si è inteso regolare in modo radicalmente diverso la materia. Da un lato, operando una sostanziale distinzione tra misure di sicurezza e benefici penitenziari - che la vecchia disciplina collegava alla titolarità del programma di protezione, - ha scisso i due profili che erano stati unificati da una normativa ispirata essenzialmente alla gestione degli ex criminali divenuti poi collaboranti. Da un altro punto di vista ha avuto riguardo alla diversa condizione dei testimoni, il cui assegno di mantenimento non potrà essere parametrato alla necessità garantire la semplice sopravvivenza fisica del nucleo familiare - come avviene giustamente per gli ex criminali - ma dovrà assicurare "un adeguato tenore di vita", concetto con il quale si è inteso tener conto anche dei sacrifici economici cui il testimone è andato incontro con la propria scelta di collaborazione (abbandono dei propri interessi economici; rinuncia all'attività professionale; chiusura dell'azienda...)
Mentre per ciò che riguarda la gestione degli immobili di proprietà dei testimoni di giustizia, la nuova legge - accogliendo una proposta più volte rilanciata nelle aule della Commissione antimafia, - ha inteso intervenire in modo concreto e risolutivo, consentendo l'acquisizione degli stessi da parte dello stato dietro corresponsione dell'equivalente in denaro a prezzi di mercato.

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È inoltre auspicabile, sotto il profilo della attuazione concreta delle misure costituenti il c.d. doppio binario amministrativo, che si istituisca un corpo specializzato dedicato in via esclusiva alla gestione dei collaboratori di giustizia.
Anche alla luce delle conoscenze acquisite durante la missione che il II Comitato di lavoro sui testimoni e sui collaboratori di giustizia, coordinato dal senatore Bruno Erroi, ha svolto nel mese di ottobre 2000 negli Stati Uniti, dove opera il Marshals Service, potrebbero conferirsi autonome funzioni ad un corpo specializzato in materia di sicurezza, al fine di garantire la massima separatezza tra protezione dei collaboratori ed attività investigative. Alle stesse unità potrebbero essere conferite importanti funzioni accessorie, non connesse con la ricerca della prova nel processo di merito: quali l'attività di individuazione e sequestro dei patrimoni; la sicurezza dei tribunali e dei magistrati; il servizio di scorta ai collaboratori detenuti.


(43) L'argomento ha costituito già materia di interesse di questa Commissione, tanto da meritare specifico approfondimento nell'ambito della relazione sui criteri per la custodia dei collaboratori di giustizia, dei detenuti del circuito di alta sicurezza e di quelli sottoposti al regime di cui all'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario. In tale documento, a pag. 12, si fa riferimento alla circolare n. 3359 del 1993, nonché alle problematiche connesse alla possibilità che hanno i detenuti di comunicare tra loro e mantenere ruoli e gerarchie all'interno delle carceri.
(44) In ordine a questa ed alle altre misure che contraddistinguono il regime speciale di detenzione previsto dall'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario, nonché sul contenuto della circolare emanata in data 20 febbraio 1998, contenente i criteri da adottare in concreto nell'applicazione del regime detentivo, vd. Audizione del Direttore del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, dott. Alessandro Margara, innanzi alla Commissione bicamerale d'inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre organizzazioni criminali similari, avvenuta il 25 febbraio 1998.
(45) Vd. la cit. relazione sui criteri per la custodia dei detenuti, pag. 13.
(46) I dati sono stati riferiti alla Commissione dal Sottosegretario Massimo Brutti, nel corso della sua audizione del 16 gennaio 2001 (Cfr. resoconto stenografico della seduta della Commissione del 16 gennaio 2001).

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