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1. La risposta dello Stato ai fenomeni criminali.
1.1 I procedimenti contro la criminalità organizzata.
Molteplici e rilevanti sono stati i successi conseguiti negli anni novanta a Catania nella repressione del crimine organizzato. Si tratta di interventi volti a diminuire la forza militare delle organizzazioni mafiose sul territorio, che hanno condotto all'arresto di numerosi affiliati, i quali in qualche caso hanno condotto anche al sequestro di beni appartenenti alla criminalità mafiosa, ma in misura ancora insufficiente per garantire un effettivo contrasto al fenomeno della economia illegale nelle sue reali dimensioni. Tra le operazioni più significative, che hanno dato luogo ad altrettanti processi, vanno ricordati: il già citato procedimento ORSA MAGGIORE, nei confronti della famiglia catanese di cosa nostra; i procedimenti denominati FICO D'INDIA, nei confronti del temibile clan dei Laudani, detti anche « mussi di ficurinia», alleati del clan Santapaola, ed attivi in ogni settore di attività illecita; i procedimenti nei confronti del clan dei CURSOTI, formazione storica della criminalità catanese, da sempre presente nei quartieri più antichi e degradati della città; il procedimento denominato TITANIC nei confronti del clan Cappello, specializzato nel commercio degli stupefacenti; i procedimenti GALATEA-DAFNE e COLD RIVER nei confronti delle organizzazioni legate a cosa nostra ed operanti nella costa ionica.
1.2 L'azione contro i patrimoni di cosa nostra. Sequestri e confische di beni.
L'attività di contrasto all'espansione dei patrimoni frutto delle attività criminali di tipo mafioso costituisce uno dei profili più rilevanti dell'azione dello Stato finalizzata al recupero della sua sovranità sul territorio e sui cittadini. Particolarmente qualificato risulta essere stato in tal senso negli ultimi anni lo sforzo degli organi di polizia sul territorio della provincia di Catania.
Inaugurata la fase degli arresti dei latitanti eccellenti, e smantellata parte dell'esercito in armi di cosa nostra, Carabinieri, Polizia e Guardia di Finanza hanno cominciato a rivolgere la propria attenzione alle innumerevoli attività economiche gestite dalle organizzazioni mafiose
ed ai patrimoni immobiliari e mobiliari di cui risultavano intestatari soggetti non esercitanti alcuna attività produttiva.
anche mediante interrogazione ad anagrafe tributaria - ogni notizia utile a ricostruire il patrimonio del soggetto sottoposto al procedimento, le sue capacità economiche ed ogni possedimento, così ed in modo da limitare i casi nei quali procedere a più accurate indagini alle ipotesi in cui fosse riscontrata una consistenza patrimoniale sproporzionata ed incompatibile rispetto alle fonti ufficiali di reddito del soggetto proposto.
in confische, l'incidenza della lotta agli interessi economici della criminalità mafiosa anche con riferimento alla suddivisione per aree criminali, e per gruppi insistenti nella stessa area.
1.3 Le inchieste giudiziarie sugli appalti. I collegamenti con la criminalità organizzata.
La risposta dello Stato al dilagare della criminalità organizzata a Catania, negli anni novanta è apparsa forte e decisa in quei settori deviati della pubblica amministrazione che condizionano l'assetto di
una società costituendo un moltiplicatore dei fenomeni di criminalità mafiosa.
1.3.1 Le indagini sulla pubblica amministrazione. L'inchiesta sul centro fieristico di Viale Africa.
Il momento più alto della lotta alla corruzione politica a Catania è stato raggiunto senza dubbio nel Maggio del 1993, allorquando veniva avviata l'inchiesta realtiva alla costruzione del Centro fieristico di viale Africa. Si trattava di una colossale opera pubblica realizzata nel cuore della città nuova, nella zona di territorio che è compresa tra la stazione centrale e l'inizio del lungomare cittadino, proprio a ridosso di un lembo di terra che si affaccia sul mare.
soggetti che avevano all'interno del consesso provinciale una maggiore esperienza nelle questioni di corruzione e tra questi vi era l'avv. Sciuto, ex presidente della provincia e capogruppo in consiglio del partito di maggioranza relativa. La stessa persona ritratta nelle fotografie scattate all'inaugurazione del negozio di Romeo, quando era presente anche Nitto Santapaola ed una vasta rappresentanza del mondo istituzionale catanese (v. supra n. 1.1). Ciò a testimonianza della radicata interfaccia presente in città tra la realtà politico-amministrativa ed i poteri criminali.
Tra le altre inchieste della Procura va segnalata quella sul consorzio agroalimentare di Catania, sfociata in pesanti condanne per i componenti del consiglio d'amministrazione dell'ente che avevano richiesto ed ottenuto tangenti dall'imprenditore Alfio Puglisi Cosentino,
proprietario dell'area su cui avrebbe dovuto realizzarsi un mercato all'ingrosso. Anche questa indagine aveva portato alla incriminazione degli uomini politici di vertice, due dei quali sono deceduti prima del processo ed il terzo, l'on. Salvo Andò, è stato assolto per non avere commesso il fatto.
perpetuando così il metodo che per anni aveva caratterizzato la gestione Miceli-Alidea.
1.3.2 L'indagine sul I lotto dell'ospedale Garibaldi. La collaborazione dell'onorevole Rino Nicolosi.
Una importante inchiesta è stata condotta dalla Procura di Catania sull'appalto per i lavori per la costruzione del primo lotto dell' ospedale Garibaldi eseguiti alla fine degli anni ottanta, ed aveva consentito l'accertamento di responsabilità penali a carico di politici imprenditori e funzionari, e l'emissione di ordinanze di custodia cautelare. L'indagine sul primo lotto era nata nel 1995, ed aveva a fondamento una serie di accertamenti tecnici dai quali era possibile desumere la presenza di gravi irregolarità tecnico-amministrative che tipicamente si accompagnano ai fatti di corruzione connessi agli appalti.
che vi era stata da parte dell'impresa aggiudicataria la ricerca di provviste per il pagamento di denaro, che, nella fase iniziale delle indagini, non era chiaro se fosse andato alla criminalità organizzata o se fosse servito per il pagamento di tangenti.
la loro giustificazione nell'aggiudicazione da parte della ITER di importanti lavori pubblici sul territorio della provincia di Catania, non vennero riferite esplicitamente ad un appalto, ma dovevano intendersi collegate alla costruzione delle scuole ovvero dell'Ospedale Garibaldi di Nesima. Del resto questo contributo ritengo che non escludesse altra dazione da parte della ITER al SALAMONE per il rispetto della regola operante nel sistema degli appalti. Ciò sicuramente almeno per quanto concerne l'appalto dell'ospedale che era opera di interesse regionale.
fu correttamente utilizzata dalla Procura di Catania solo per la parte inedita ricadente sul territorio di sua competenza.
1.3.3 La maxi-inchiesta sugli appalti per la costruzione dell'ospedale Garibaldi, della cittadella universitaria di Nesima e degli alloggi del Tavoliere.
Una nuova e più rilevante fase investigativa ha avuto ad oggetto i nuovi appalti banditi sul territorio della città alla fine degli anni novanta, ed ha riguardato i complessi intrecci tra mafia, politica ed imprenditoria nel mondo dei lavori pubblici a Catania.
la costruzione del palazzo dello sport di Palermo, e partecipò pure a due grossi appalti in Calabria, uno per la costruzione di una parte di un ospedale ed uno relativo all'Università.
funzionamento del c.d. «tavolino» trilatero attorno al quale sedevano contemporaneamente esponenti della politica, della mafia e della impresa. In effetti l'intervento di cosa nostra nelle vicende che ci occupano si è determinato sin dalla fase dell'espletamento delle gare, attraverso un condizionamento delle stesse operato per il tramite di faccendieri al soldo dell'organizzazione criminale e ben inseriti nel contesto burocratico e politico di riferimento.
1.3.4 I possibili interventi sulla normativa degli appalti alla luce delle esperienze giudiziarie.
I problemi legati alla corruzione negli appalti - ed alle profonde e sempre più frequenti infiltrazioni da parte della criminalità di tipo mafioso, - ripropongono, in maniera quanto mai attuale ed urgente, la necessità di intervento sulla normativa che regola il bando, l'espletamento, la gestione delle gare per lavori pubblici negli enti locali, ed in quelli territorialmente decentrati rispetto all'Amministrazione dello Stato.
stringendole ad aderire alle proprie imposizioni. Con la individuazione di un centro decisionale «romano» - posto al di fuori della realtà territoriale condizionabile dalla locale criminalità organizzata - gli appetiti della mafia sarebbero venuti meno, o comunque avrebbero dovuto fare i conti con una classe di amministratori sconosciuti e non avvezzi a pressioni o trattative, né direttamente assoggettabili dalle logiche di condizionamento e di omertà presenti sul territorio siciliano.
necessario, una riduzione del potere di decisione locale costituirebbe il logico contemperamento rispetto al preminente interesse di lasciare la mafia fuori dalla porta del luogo ove si decidono gli interessi della collettività.
1.4 La detenzione dei boss.
La forza dell' organizzazione mafiosa catanese, i rapporti con cosa nostra palermitana, e la sua particolare versatilità all'infiltrazione
all'interno del tessuto istituzionale, possono essere appieno valutate avendo riguardo alla capacità dei boss di eludere le rigorose prescrizioni carcerarie, volte ad impedire loro i rapporti con l'esterno e, con essi, il mantenimento della leadership ed il governo degli affari illeciti.
diversi ordini di problemi, particolarmente ricorrenti nella detenzione degli appartenenti alla mafia catanese, a causa del numero dei suoi affiliati e delle sue note capacità di penetrazione nel tessuto istituzionale: la questione relativa alla interruzione dei rapporti e delle comunicazioni dei capi-mafia con l'esterno, cui lo stato ha inteso porre rimedio attraverso l'introduzione del regime previsto dall'articolo 41-bis o.p.; e quella avente ad oggetto la comune detenzione dei capi all'interno delle medesime carceri, - anche quando si tratti di soggetti appartenenti ad organizzazioni diverse - con il conseguente pericolo che vengano adottate decisioni congiunte.
(17) Cfr. Relazione della Commissione Parlamentare Antimafia della X legislatura, pag. 42. In quella sede nel documento della Commissione si osservava che «...in passato le proposte venivano trasmesse non sufficientemente istruite, per cui si è determinata una stasi ed un ingolfamento presso il Tribunale, col pericolo reale che il soggetto proposto, avuta notizia del procedimento, alienasse i propri beni nelle more dell'istruttoria, vanificando così l'intervento dell'autorità giudiziaria nella sfera patrimoniale».
Negli ultimi anni, in una città ove l'attività di intrapresa economica diventava sempre più difficile per i rischi connessi alla crisi finanziaria e per la presenza di una mafia parassitaria, si erano viste sorgere lussuose attività commerciali, ove erano stati investiti senza risparmio ingenti capitali, molto spesso senza la prospettiva certa di una adeguata remuneratività dei mazzi impiegati. Bar, negozi di abbigliamento, innovative attività ricreative sorgevano e si moltiplicavano senza che fosse possibile conoscerne l'effettiva titolarità.
Per venire a capo dei fenomeni di riciclaggio e di reimpiego e sferrare un deciso attacco nei confronti degli interessi economici della criminalità organizzata è stato necessario riorganizzare la risposta giudiziaria e prevedere un sistema di automatismi nella procedura di inizio delle procedure per misura di prevenzione. In effetti si è così iniziato a porre un limite alla continua espansione dei patrimoni mafiosi, e si sono utilizzati in modo più efficace gli strumenti di prevenzione che negli anni ottanta, per ciò che riguarda Catania, erano rimasti nella sola intenzione del legislatore. Va comunque riconosciuto che un importante strumento nella lotta al capitale mafioso è stato offerto dall'articolo 12 sexies della legge n. 356/1992, che ha convertito il decreto-legge n. 306/1992, che consente, nel corso del procedimento penale di sequestrare tutti i beni dei soggetti imputati di fattispecie mafiose, dei quali non sia possibile dimostrare la legittima provenienza, e di ottenere la confisca in modo contestuale rispetto alla sentenza che pronuncia la condanna degli imputati.
Tale norma consente di raggiungere il duplice scopo di concentrare dinanzi ad un unico organo la decisione in ordine alla responsabilità personale ed il potere di ablazione rispetto ai beni la cui riconducibilità all'attività delittuosa non venga smentita dalla prova positiva della esistenza di una legittima fonte di reddito.
La Procura della Repubblica di Catania ha pertanto utilizzato per un verso ed in modo frequente questo agile strumento offerto dal legislatore, e per altro verso a partire dall'anno 1993, ha reso automatico l'inizio del procedimento per misura di prevenzione - ex l. n. 646/1982 - nei confronti di tutti i soggetti raggiunti da ordinanza di custodia cautelare in carcere per associazione mafiosa e reati fine commessi in tale ambito.
Il meccanismo ha prodotto frutti apprezzabili, consentendo di ottenere risultati ben diversi rispetto a quanto avveniva nel 1989, allorquando, in tutto l'anno giudiziario, erano stati emessi solamente 5 provvedimenti di sequestro dei beni per un valore complessivo di lire 762.000.000 e 4 sentenze di confisca per un valore pari a lire 698.000.000 (17).
Tra il 1993 ed il 1997 sono state inoltrate dalla Procura distrettuale di Catania 155 richieste di sequestro di beni per misura di prevenzione,
Il metodo utilizzato dall'ufficio giudiziario è consistito nell'iscrivere, nell'apposito registro delle misure di prevenzione, - all'indomani della esecuzione di provvedimenti restrittivi della libertà personale - un fascicolo nel quale venivano inserite cumulativamente le posizioni di tutti quegli indagati accusati di appartenere ad associazioni mafiose, e nei cui confronti fosse stata emessa la medesima ordinanza di custodia cautelare in carcere. La impossibilità di procedere simultaneamente e congiuntamente per più imputati nell'ambito del procedimento di prevenzione, comportava poi la necessità di operare dal procedimento principale un numero di stralci pari a quello degli iscritti, in modo da ottenere tante nuove iscrizioni quanti fossero i soggetti nei cui confronti non pendesse già un procedimento di prevenzione. Venivano poi effettuate una serie di iscrizioni (c.d. per aggravamento) nei confronti di coloro che risultavano già sottoposti ad una misura di prevenzione, ciò allo scopo di chiedere l'aggravamento della misura in corso di esecuzione alla luce delle nuove emergenze. Infine per coloro per i quali risultasse pendente il procedimento per l'applicazione di misura di prevenzione, non si procedeva ad iscrizione, ma venivano formati degli stralci relativi a tali singole posizioni che venivano successivamente trasmessi al P.M. assegnatario del fascicolo in istruttoria, ovvero, in caso fosse pendente l'udienza anche all'organo giudicante di primo o di secondo grado.
Contestualmente alla formazione dei fascicoli venivano inoltrate poi richieste di accertamenti al Comando Carabinieri, alla Questura ed al G.I.C.O. della Guardia di Finanza, affinché venisse acquisita, -
Questo meccanismo di automazione nella istruttoria dei procedimenti di prevenzione risulta essere stato attuato mediante l'apporto, a tempo parziale, di un procuratore della repubblica aggiunto e sei sostituti procuratori, ossia da un numero di magistrati idoneo all'espletamento della mole di lavoro, ma assistiti nel compimento di tali attività da una sola unità di personale di cancelleria, solo saltuariamente coadiuvata da un'altra unità, tratta dal personale a contratto trimestrale o dalla polizia giudiziaria.
A ciò occorre aggiungere che l'organico del Tribunale onerato delle decisioni sulle proposte di prevenzione, risulta essere il medesimo degli anni settanta, quando tali proposte costituivano un carico irrilevante - se non inesistente - e risulta complessivamente costituito da tre sezioni penali, le quali, con un meccanismo di rotazione e mediante la predisposizione di apposite tabelle, a turno trattano le misure di prevenzione insieme agli altri numerosissimi procedimenti penali pendenti in fase dibattimentale, ed in aggiunta alle udienze del tribunale in sede di riesame dei provvedimenti cautelari (19).
L'indagine sui sequestri effettuati ha portato alla luce una serie di problematiche legate alla inefficienza del sistema di rilevazione dei dati sulla entità delle misure di prevenzione patrimoniale. Benchè in sede ministeriale esistano delle rilevazioni effettuate su questionari, non si è provveduto a definire un sistema che consenta di ufficializzare i dati, con la previsione di apposite voci relative alle misure di prevenzione ed ai sequestri ex articolo12sexies l.n. 203/1992.
Infatti, per quanto riguarda le misure di prevenzione esistono delle voci nel relativo registro con riferimento al nome del proposto, al numero progressivo, alla data della proposta ed alla natura del provvedimento richiesto, se personale o reale. Nessuna annotazione invece è prevista con riferimento al valore di stima dei beni sequestrati, e manca persino la previsione di una voce che registri quale sia stato il provvedimento definitivo dell'organo giudicante. Pertanto dai registri della procura distrettuale non risulta possibile rilevare se un sequestro è stato convertito in confisca, e neanche il valore presuntivo dei beni sequestrati, il cui ammontare rimane affidato a stime prudenziali e del tutto ufficiose.
Sarebbe invece opportuno procedere alla contestuale integrazione e centralizzazione informatica dei registri per misure di prevenzione custoditi nelle procure della repubblica, in modo da potere monitorare con precisione l'entità dei sequestri, la loro percentuale di conversione
Per ciò che concerne i sequestri effettuati ex articolo 12sexies l.n. 203/1992 la situazione appare ancora più grave ed indefinita, perché non vi è alcun genere di raccolta di dati relativi a tale misura reale. La ragione va rinvenuta certamente nel fatto che tale strumento, - che ha di fatto ampliato enormemente e funzionalmente arricchito l"applicazione del sequestro penale preventivo ex articolo 321 c.p.p., - è stato introdotto dopo alcuni anni di entrata in vigore del nuovo codice. Allorché si procedette alla predisposizione dei nuovi registri per il rito penale, si considerò il sequestro preventivo come un istituto del tutto incidentale, - legato alla regiudicanda e funzionale ad impedire la commissione del tipo di reato che si perseguiva - senza una sua specifica finalità di contrasto ai poteri economici della criminalità mafiosa.
Ma con l'espansione conferita all'istituto del sequestro preventivo dalla l.n. 203/1992, e la sua parziale ma ampia sovrapposizione allo strumento della misura di prevenzione patrimoniale, occorre urgentemente procedere ad una disciplina che riordini la materia istituendo una registrazione degli strumenti preventivi endoprocessuali di natura patrimoniale, i quali altrimenti giacerebbero dimenticati all'interno dei singoli fascicoli processuali.
Potrebbe a tal fine istituirsi all'interno del Registro Generale Notizie di Reato, un registro di tutti i sequestri penali con una serie specifica e determinata di voci, tra cui, - oltre alle generalità del soggetto, o dei soggetti cui è riferibile la titolarità formale e quella sostanziale dei beni - immancabilmente dovrebbero essere compresi altri dati. E, tra questi, in particolare: l'entità in valore commerciale dei beni sequestrati, da determinarsi sulla base della indicazione fattane dal custode-amministratore in esito al primo degli adempimenti cui deve attendere nel momento del suo insediamento; l'annotazione relativa all'esito finale del provvedimento cautelare reale, con l'indicazione dell'eventuale confisca, dell'ente beneficiario, ovvero della data di dissequestro e restituzione; la eventuale indicazione relativa alla riferibilità del bene ad un gruppo criminale mafioso determinato. Una ulteriore ed eventuale indicazione potrebbe poi essere costituita dalla natura del bene sequestrato ( denaro, titoli, immobili, veicoli, natanti ed altro).
Con la informatizzazione di questi dati, grazie al metodo informatico di registrazione già in uso alle procure della repubblica denominato RE.GE., sarebbe possibile avere in ogni momento tutti i dati statistici relativi ai sequestri preventivi. E se si facessero confluire nel medesimo sistema anche i dati relativi alle misure di prevenzione si avrebbe un unico grande strumento di monitoraggio di tutti i sequestri penali.
In particolare l'attenzione è stata incentrata sul mondo degli appalti e su quei fenomeni di corruzione del costume politico-amministrativo che, oltre che rappresentare una fonte di finanziamento per una classe dirigente che aveva scelto l'illegalità quale metodo di gestione della cosa pubblica, fungevano da terreno di coltura degli interessi mafiosi, offrendo molteplici momenti di collegamento tra mafia, imprenditoria e pubblici poteri.
L'opera pubblica, oggi funzionante dopo anni mancato utilizzo nonostante la ultimazione dei lavori, consisteva nella ristrutturazione di vecchi caseggiati e ciminiere industriali in uso agli inizi del secolo, accuratamente riadattati e trasformati in centro fieristico, con la realizzazione di nuove strutture.
L'indagine giudiziaria prese spunto dalle dichiarazioni dell'imprenditore titolare della ditta che aveva proceduto alla realizzazione dell'opera, il cavaliere Francesco Finocchiaro. Questi, dopo non poche esitazioni, decise di iniziare un percorso di collaborazione con la Giustizia, riferendo dei molteplici pagamenti effettuati in favore della classe politica e burocratica dell'epoca ai quali - a suo dire - era stato costretto per assicurasi l'aggiudicazione dell'opera pubblica.
Il procedimento penale così instaurato provocava in città uno scandalo di enormi dimensioni, essendo stati coinvolti in esso gli esponenti politici che sino a quel momento costituivano i riferimenti catanesi nella politica nazionale, e tra essi gli onorevoli Drago, Nicolosi e Andò, che guidavano a Catania i partiti rappresentati nel governo della città e del paese. Ma numerosissimi sono stati anche i presidenti della provincia, gli assessori e i consiglieri provinciali, coinvolti nel processo e condannati una prima volta in primo ed in secondo grado (20).
Il dato essenziale della indagine, confermato nel dibattimento, era costituito dalla enorme capacità di inquinamento delle strutture politiche e burocratiche della Provincia di Catania da parte del cav. Finocchiaro. Questi era in grado di porre in essere un duplice meccanismo di corruzione, dall'alto e dal basso, che gli consentiva di tenere fuori tutte le altre imprese concorrenti. Il ruolo di mediazione, nel rapporto tra l'imprenditore ed i politici di vertice, veniva svolto dai
A questa inchiesta ne seguiva poco dopo un'altra, avente come imputati sempre gli stessi personaggi, e come oggetto la costruzione di scuole sul territorio della provincia di Catania per un importo complessivo di lire 140 miliardi. Anche in questo caso, oggetto delle imputazioni e delle condanne (21) erano i molteplici versamenti in denaro del Finocchiaro in favore della classe politica e burocratica.
Venivano svolti poi altri approfondimenti processuali dai quali era possibile venire a conoscenza dei rapporti intrattenuti dal Finocchiaro con alcuni esponenti della criminalità organizzata, ed in particolare con il clan dei cursoti, ai quali venivano versate somme di denaro sotto forma di sponsorizzazione, e con cui si concordava la scelta di talune ditte cui erano affidati lavori in subappalto.
Inoltre nell'inchiesta sulle scuole era possibile accertare che il Finocchiaro benchè pretendesse di aggiudicarsi in unico appalto l'intero lotto degli edifici da realizzare, doveva subire la scelta politica della divisione delle costruende opere in due tronconi da settanta miliardi, e la successiva scelta di predeterminare l'aggiudicazione di uno dei tronconi in favore di un raggruppamento del mondo cooperativo.
Dal complesso degli scandali si poteva desumere che:
a) La classe politica di vertice in città aveva il potere di influenzare le scelte politiche dell'amministrazione provinciale, fungendo l' ente locale da cinghia di trasmissione delle volontà dei politici di riferimento.
b) Il Finocchiaro raggiungeva accordi con i responsabili dell'amministrazione, degli Uffici amministrativi dell'ente appaltante, e con i registi esterni dell'attività dell'ente, prima ancora che le opere pubbliche venissero bandite, condizionando così le scelte amministrative miseramente legate alla logica della spartizione delle tangenti.
c) La decisione di appaltare le opere proposte dal Finocchiaro, impegnava in maniera quasi totalizzante la spesa pubblica prevista nel bilancio della provincia, mentre in città, alla fine degli anni ottanta, il disagio sociale raggiungeva livelli mai visti in precedenza, ed il territorio e la popolazione erano affamati di interventi di recupero sociale.
Significativa risultava la deposizione del collaboratore di giustizia Angelo SIINO che nel descrivere gli interessi di cosa nostra, anche palermitana, nell'affare dei centri agroalimentari, riferiva del pestaggio subìto dal presidente del Consorzio professore Rossitto - principale imputato del processo - organizzato da Nitto Santapaola, su mandato di un esponente politico di vertice, proprio per punirlo per l'avidità dimostrata nella percezione di una tangente miliardaria.
Anche il settore delle forniture e della refezione ospedaliera non era immune da gravissimi fatti di corruzione che vedevano co-interessata la criminalità organizzata.
Le indagini svolte sulla Unità Sanitaria Locale n. 35 di Catania avevano consentito alla magistratura catanese di appurare un sistema illegale di aggiudicazione di pubbliche forniture che per anni aveva fruttato ai componenti di maggioranza del comitato di gestione una percentuale fissa del 14% per ciascun acquisto che veniva autorizzato.
A mettere in luce l'incredibile volume d'affari illegale era l'ex componente del Comitato di gestione prof. Platania, il quale, senza nulla chiedere in cambio alla Giustizia, si era reso disponibile a rivelare tutti i contenuti ed i retroscena della corruzione politica presso le Unità Sanitarie.
Il Platania era rimasto coinvolto in una inchiesta condotta nel 1987, in esito alla quale per la prima volta erano stati intaccati i santuari della grave commistione politico-imprenditoriale catanese.
Dopo avere riportato condanna in primo e secondo grado, e la radiazione dalle funzioni di preside presso l'istituto industriale, egli decise di riferire ogni fatto a sua conoscenza ammettendo in primo luogo le proprie personali responsabilità, e confessando di avere gestito personalmente un volume d'affari di decine di miliardi all'anno di tangenti (22).
Il meccanismo di percezione del denaro era semplice. Ogni componente di maggioranza del Comitato di gestione aveva un numero di ditte a lui vicine che favoriva nelle aggiudicazioni delle forniture di materiale sanitario. Tali assegnazioni avvenivano con procedura d'urgenza ed a trattativa privata, benché, per lo più, si trattasse di comunissima merce di largo consumo. Il fornitore riconosceva una tangente fissa del 14%, che veniva raccolta dal suo referente all'interno della USL 35, e conferita nel monte del denaro provento di tangente che doveva essere suddiviso tra i vari componenti. Il più delle volte la organizzazione procedeva al riparto mediante «stanza di compensazione», tanto vasto e frequente era l'illecito afflusso di denaro.
La principale fonte di reddito illegale era costituita dalla fornitura dei pasti precotti, che veniva effettuata dalla ditta Alidea, il cui titolare Antonio Miceli versava il 10% di tangente al Comitato di gestione per ogni mandato di pagamento ricevuto. Il centro di produzione Alidea, dopo il fallimento della società, venne ben presto riconvertito in altra attività industriale del settore alimentare, sotto la diretta gestione ed il controllo di cosa nostra catanese rappresentata dal titolare Tuccio Salvatore, uomo d'onore incaricato della gestione degli interessi economici della famiglia.
Il Tuccio aveva avuto rapporti commerciali con il Miceli - il quale dopo essere stato tratto in arresto nel procedimento Orsa maggiore, venne successivamente prosciolto dalle accuse di mafia - e tali contatti erano noti nell'ambiente commerciale ed in quello politico.
L'amministrazione della USL 35, rappresentata dal commissario straordinario ed ex prefetto della città Saverio Carrubba, in sintonia con gli schemi decisionali del vertice politico della città, nel procedere ad aggiudicazione della nuova gara per il servizio di refezione con il sistema della licitazione privata, aggiudicò l'appalto alla ditta milanese Pellegrini. Ne scaturì una nuova inchiesta giudiziaria, all'esito della quale vennero contestati da parte della procura distrettuale gravi fatti di corruzione commessi da politici e funzionari e venne pertanto esercitata l'azione penale ancora una volta nei confronti dei rappresentanti del vertice politico della città.
Peraltro cosa nostra catanese non dismise i propri interessi dalle forniture di pasti, venendo in qualche modo in contatto con la Pellegrini per approvvigionarsi di una nuova fonte di reddito.
I vantaggi economici derivati alla classe politica in coincidenza con l'appalto furono cospicui. Tramite un intermediario catanese, tale Vittorio Prestifilippo, il Pellegrini pagò tangenti per alcuni miliardi,
Va precisato che, in data 15.3.2000, il Tribunale di Catania, a conclusione del processo che si è celebrato in merito ai versamenti di denaro da parte del Pellegrini, qualificando i fatti secondo lo schema dell'illecito finanziamento a partiti, ha dichiarato prescritti i reati ed assolto tutti gli imputati. Nella stessa sentenza si è ritenuto non sussistente il reato di associazione per delinquere a carico dei soggetti che costituivano il vertice politico della città.
Ma aldilà degli esiti dei processi penali, - che in alcuni casi hanno reso giustizia alla innocenza di taluni imputati, ma hanno comunque risentito in modo penalizzante del tempo trascorso tra la commissione dei fatti ed il loro accertamento; ed in altri casi sono stati tardivi, monchi o insufficienti, - il quadro complessivo della vita politico-amministrativa della città, alla luce dell'inchiesta parlamentare, rimane tracciato a tinte fosche. In un contesto così articolato di illegalità appare evidente che il fenomeno criminale mafioso abbia trovato terreno fertile per coltivare i propri interessi. Gli appalti a Catania negli anni ottanta erano infatti divenuti ricche occasioni di finanziamento della classe politica; la corruzione non risparmiava la sanità, che, invasa dalla gestione partitocratica, veniva gestita trascurando gli interessi collettivi; la criminalità organizzata penetrava nei reparti ospedalieri e pretendeva di ricevere la propria parte di utili. Ciò avveniva anche attraverso le assunzioni, spesso orientate a collocare nella qualità di ausiliari all'interno di delicate strutture sanitarie, soggetti appartenenti o gravitanti nella criminalità organizzata. È successo per un tale D'Acquino, la cui funzione all'interno dell'ospedale Vittorio Emanuele fu principalmente quella di fornire assistenza specifica agli esponenti mafiosi ricoverati perché vittime di agguati o comunque bisognosi di cure. Il D'Acquino venne poi ucciso platealmente a colpi d'arma da fuoco all'interno dell'ospedale presso cui prestava servizio.
Tutto ciò avveniva mentre i servizi ospedalieri restavano male organizzati, concentrati su tre vecchie strutture al centro della città a poche centinaia di metri l'una dall'altra, caratterizzati dalla sporcizia e dal caos, spesso al centro di clamorosi episodi di «malasanità».
In particolare, erano state disposte dal pubblico ministero delle consulenze tecniche, attraverso le quali era stato possibile accertare
Dopo parecchi mesi dal conseguimento di tali risultati investigativi, riguardanti tutti coloro che avevano avuto un ruolo nell'aggiudicazione di questo primo lotto, è intervenuta nelle indagini, del tutto autonomamente, la collaborazione dell'onorevole Nicolosi, il quale frattanto aveva espresso la volontà di fare aperture su un sistema di finanziamento da parte dell'economia alla politica, risalente al tempo in cui era presidente della regione siciliana.
Il «sistema» descritto dal Nicolosi è di impressionante gravità ove si pensi che lo stesso riferisce di un meccanismo nel quale quasi tutte le forze politiche erano in grado di lucrare illeciti profitti dalla spesa pubblica.
In particolare il Nicolosi ha posto in luce, accanto al finanziamento della classe politica di governo, lo specifico e sistematico ingresso, nei meccanismi della corruzione e della spartizione degli appalti, anche di aziende espressione della realtà cooperativistica. Tale realtà - secondo il racconto del Nicolosi contenuto nei suoi memoriali - doveva possedere una notevole forza se riusciva non solo a concorrere ad appalti pubblici di rilievo, ma altresì a risultarne talora assegnataria, nonostante la presenza concorrenziale delle aziende facenti capo ai cavalieri del lavoro.
E così ad esempio a Catania dovendosi aggiudicare tre ospedali da parte delle tre USL ricadenti sul territorio, uno di essi - l'ospedale Garibaldi - avrebbe dovuto essere aggiudicato al raggruppamento di imprese capeggiato dalla Iter-ravennate, perché questo avrebbe previsto l'accordo politico complessivo con la maggiore forza politica di opposizione, mentre gli altri due ospedali da costruire - il Vittorio Emanuele ed il Cannizzaro - sarebbero stati appannaggio delle due maggiori forze politiche di governo.
Analoghi procedimenti spartitori sarebbero stati adottati in appalti per le scuole.
Egli, nel descrivere il panorama del finanziamento illecito ai partiti, così si espresse testualmente davanti ai magistrati catanesi in data 27 Settembre 1997:
«Ho cercato di sintetizzare l'organizzazione che ho dato agli uffici della Regione per realizzare una netta separazione tra il momento della scelta delle opere da realizzare e quello dell'assegnazione degli appalti alle imprese secondo un meccanismo predeterminato tra le imprese interessate.
Per ottenere tale razionalizzazione nel settore dei lavori pubblici mi avvalevo delle valutazioni tecnico/amministrative di un apparato burocratico qualificato svincolato da ogni discrezionalità politica.
Momento distinto rispetto al precedente era quello concernente la individuazione delle imprese che veniva effettuata attraverso intese che intercorrevano tra le medesime in modo da realizzare nel tempo un'equa distribuzione tra di esse degli appalti e che venivano coordinate dall'Ing. Salomone, deputato a tale compito anche per la sua qualità di Presidente del C.R. dei Costruttori.
Una terza fase successiva o concomitante a questa era quella nella quale le imprese o consorzi di imprese aggiudicatari dei singoli appalti versavano i contributi all'Ing. SALAMONE che fungeva da collettore e quindi ne curava la redistribuzione tra le varie aree politiche, secondo criteri di proporzionalità commisurata alla rispettiva consistenza. Preciso altresì che tale meccanismo di usuale distribuzione di contributi non escludeva però che in casi non infrequenti ditte tradizionalmente legate ad un partito o ad un referente politico versassero direttamente a costoro il contributo by - passando l'Ing. SALAMONE.
Quanto avveniva nella terza fase era, però, il risultato di determinazioni che venivano assunte d'accordo e in piena consapevolezza tra il sottoscritto e i predetti ing. SALAMONE, Prof. ROSSITTO e Prof. MUSCO A me ed ai miei due consiglieri economici competeva altresì l'organizzazione dell'iter burocratico/amministrativo per la ricerca dei finanziamenti.
Aggiungo ancora che soprattutto per le opere da realizzare nella provincia di Catania al momento decisionale e anche esecutivo riguardante la attribuzione e ripartizione dei contributi versati dalle ditte aggiudicatarie partecipava attivamente anche il Prof: Rossitto, come non posso escludere facesse in qualche caso anche il Prof. Musco,per altre aree siciliane.
In definitiva i miei diretti abituali interlocutori erano il Prof. Sandro MUSCO ed il Prof. Elio ROSSITTO che insieme all'Ing. SALAMONE costituivano lo staff nel cui ambito si concordavano le scelte da fare e si adottavano le decisioni conseguenti. Era pertanto ben chiaro a tutti i componenti dello staff il meccanismo che regolava il sistema di distribuzione degli appalti e di ripartizione tra aree e personaggi politici dei contributi versati dalle imprese.
Anche se non mi risulta direttamente, mi sembra logico ritenere, per la posizione nevralgica ricoperta da ROSSITTO e MUSCO nell'iter sopra rassegnato, che gli stessi potessero beneficiare di gratificazioni di varia natura da parte delle imprese.
Al di là degli incontri ufficiali, e dei rapporti istituzionali che mantenevo con le persone sunnominate nelle sedi proprie, per le questioni sopra rassegnate, data la loro delicatezza, ero solito incontrarmi con gli stessi presso la mia abitazione in Acireale, ovvero presso la mia segreteria politica, in Catania, Corso Italia n. 111 dove si discuteva e programmava quindi ogni questione attinente agli appalti ed al relativo meccanismo sopra descritto.
Nello stesso luogo avveniva la consegna del denaro che serviva per finanziare le attività della mia corrente politica.
Tra le imprese più significative che, ricordo, partecipavano al sistema degli appalti, ne concordavano la distribuzione e versavano il denaro a SALAMONE vi erano la COGEFAR, la LODIGIANI, la GRASSETTO, la ASTALDI, e le Cooperative vicine al P.C.I.. Queste ultime mantenevano uno stretto rapporto anche con il Prof. ROSSITTO, tant'è che in una occasione, intorno agli anni 1991 - 1992, quest'ultimo accompagnò l'Ing. CAVALLINI presso la mia segreteria politica in Catania ove mi furono consegnati complessivamente circa quaranta milioni in contanti. In altra circostanza lo stesso CAVALLINI - come ho già avuto modo di dichiarare - ebbe a consegnarmi un'altra somma all'incirca di pari importo; entrambe le dazioni, che certamente trovavano
....
A.D.R.: Chiarisco che il ruolo dei professori MUSCO e ROSSITTO, atteneva principalmente alla cura di tutta la gestione degli appalti, delineando il percorso attraverso il quale, dopo che veniva impegnata la spesa pubblica, si procedeva ad individuare gli strumenti tecnico amministrativi per giungere all'assegnazione degli appalti. Mentre la distribuzione e turnazione degli appalti tra le imprese avveniva viceversa attraverso una intesa tra le medesime, con il coordinamento del SALAMONE che ne dava comunicazione a me, ROSSITTO e MUSCO nel corso delle riunioni.
L'intesa raggiunta tra gli imprenditori, era volta a garantire una partecipazione «mirata» ad ogni singola gara d'appalto.
In definitiva la razionalizzazione degli appalti così determinatasi passava attraverso il condizionamento di tutte le gare, mediante la presentazione di domande di appoggio, l'astensione dalla partecipazione alle gare da parte di imprese che avrebbero dovuto risultare aggiudicatarie di altre gare, dalla predisposizione di consorzi tra imprese che realizzavano caratteristiche confacenti a quelle previste dal bando così da consentirne l'esecuzione anche ad imprese che singolarmente considerate non avrebbero potuto partecipare.
Il ROSSITTO, nel periodo successivo a quello in cui si era dimesso dalla carica di consigliere economico, aveva assunto un ruolo di «consulenza» nelle imprese del catanese, facendosi anche promotore di dazioni di denaro al mondo politico
Ricordo a tal proposito un episodio nel quale il ROSSITTO intervenne versandomi denaro proveniente dall'impresa COSTANZO, in relazione all'appalto della costruzione di un reparto dell'ospedale Cannizzaro. Il ROSSITTO venne a trovarmi a Catania presso la mia segreteria politica di Corso Italia, nel periodo successivo alla mia Presidenza della Regione, e quindi, orientativamente nella primavera del 1992, mi consegna una somma pari se non ricordo male a circa 80 - 90 milioni di lire in contanti, provenienti dall'imprenditore COSTANZO.
A.D.R.: Il fatto avvenne in epoca in cui il Cavalier COSTANZO era già defunto, pertanto la dazione di denaro doveva riferirsi al figlio Pippo COSTANZO ed al fratello Pasquale
A.D.R.: Negli anni tra il 1988 ed 1992 il bilancio complessivo della Regione Siciliana sarà stato pari ad una cifra quantificabile in ventimila miliardi. Di questi oltre mille miliardi venivano destinati alla realizzazione di opere pubbliche. L'ammontare delle tangenti versate dalle imprese aggiudicatarie degli appalti può essere commisurato nell'ordine del 2,5%. E pertanto l'ammontare complessivo del denaro proveniente dagli appalti ed utilizzato per finanziare i partiti ammontava a circa venticinque miliardi l'anno.
Occorre, tuttavia, precisare che rispetto a questo sistema esistevano parallelamente alcuni imprenditori che mantenevano un rapporto storicamente privilegiato con alcuni esponenti politici, e procedevano a finanziarli direttamente senza passare dal sistema SALAMONE. Peraltro anche l'On. SCIANGULA, che era Assessore Regionale ai Lavori Pubblici, curava un rapporto diretto con alcuni imprenditori in relazione ad opere pubbliche nel quale interveniva il suo Assessorato».
La collaborazione dell' onorevole Nicolosi ebbe dunque ad oggetto, tra l'altro, alcune dichiarazioni in cui si faceva riferimento ad episodi di illecite dazioni di denaro connesse alle vicenda della costruzione del I lotto dell'ospedale GARIBALDI, e dell'Ospedale CANNIZZARO. Tale dichiarazione, disgiunta dal pacchetto delle dichiarazioni complessive, venne utilizzata immediatamente per portare a profitto l'indagine, che era già a buon punto sotto il profilo delle rilevate gravi violazioni di carattere tecnico-amministrativo.
In tempi rapidissimi, pertanto, nell'arco di 10-15 giorni, la procura formulò una richiesta di misura cautelare, che venne concessa dal GIP nei confronti dell'imprenditore agrigentino Filippo Salamone, del manager delle cooperative Ravennati Michele Cavallini e del prof. Elio Rossitto, che era stato consulente particolare dell'onorevole Rino Nicolosi. Tutti questi personaggi avevano avuto un ruolo in questa spartizione di tangenti in relazione all'appalto del I lotto dell'ospedale.
L'inchiesta scaturita dalle dichiarazioni di Nicolosi ha creato anche problemi di coordinamento tra l'ufficio giudiziario catanese e l'omologa procura di Palermo. Infatti mentre i carabinieri di Catania si attivavano per arrestare Salamone, contemporaneamente erano in corso arresti da parte della procura di Palermo, nel processo scaturito dalle dichiarazioni di Angelo Siino.
Pertanto l'imprenditore Salamone venne raggiunto da due distinti provvedimenti restrittivi, prima da quello emesso dal GIP di Palermo, e successivamente dalla ordinanza dei giudici catanesi. Esisteva infatti un grande interesse intorno a questo personaggio, poichè si sperava molto nel contributo che Salamone poteva dare alle autorità giudiziarie.
Questa situazione, - di concorrenza, ma anche di polemica tra uffici del pubblico ministero -, fu oggetto di un incontro organizzato dal procuratore nazionale antimafia presso la sua sede romana, il lunedì della settimana successiva agli arresti avvenuti il venerdì precedente. In quella sede si discusse di come gestire la figura del Salamone, detenuto in comune per iniziativa delle procure di Palermo e di Catania, e in quell'occasione vi fu uno scambio di informazioni sullo stato delle indagini al fine anche di individuare un criterio di competenza territoriale per le investigazioni. In quella sede i magistrati palermitani riferirono, tra l'altro, che le dichiarazioni rese dal Nicolosi erano già state rese negli anni precedenti dallo stesso Nicolosi alla procura di Palermo in relazione alla vicenda SIRAP. Riferirono inoltre che quanto dichiarato dal Nicolosi era già stato oggetto di un processo a Palermo del quale era in corso di celebrazione il dibattimento. Per questa ragione la collaborazione dell'ex presidente della regione siciliana - che aveva ingenerato tante aspettative, ed altrettanti timori -
Tale attività d'indagine è risultata di particolare interesse per la Commissione, giacchè gli esiti investigativi raggiunti sono stati ad essa anticipati dai magistrati inquirenti, nel corso delle visite e dei sopralluoghi effettuati, tanto da consentire all'organo di inchiesta parlamentare di essere informato degli sviluppi, ben otto mesi prima che ne dessero notizia gli organi di informazione, in conseguenza dei primi arresti effettuati. Si è trattato, dunque, di una proficua e costruttiva esperienza che ha messo in condizione il Parlamento di adempiere i suoi compiti di inchiesta e vigilanza, senza per nulla nuocere al segreto investigativo dell'indagine giudiziaria.
L'attività investigativa ha avuto ad oggetto tre appalti aggiudicati tra il 1996 ed il 1997: due di essi erano connessi allo svolgimento a Catania della manifestazione sportiva internazionale delle Universiadi, ed avevano ad oggetto la costruzione di alloggi e la realizzazione di un centro sportivo universitario; il terzo appalto riguardava invece il secondo lotto di completamento dell'Ospedale «Garibaldi».
Il dato che emergeva subito con evidenza dall'analisi delle tre gare d'appalto era costituito dalla circostanza che in tutti e tre i casi era risultata aggiudicataria dei lavori la ditta C.G.P. Costruzioni Generali di Giulio Romagnoli. Il Romagnoli è un giovane imprenditore il quale aveva iniziato la propria attività di impresa nel settore dei lavori pubblici, proseguendo la tradizione che aveva già visto impegnato sia il padre, sia lo zio, il noto imprenditore Lodigiani. Le indagini svolte dalla procura di Catania, fondate anche sulle ampie ammissioni e sul contributo processuale del Giulio Romagnoli, hanno consentito di accertare che quest'ultimo si era introdotto nell'ambiente dei lavori pubblici in Sicilia, stabilendo un rapporto diretto e stabile con la organizzazione «cosa nostra» catanese, che all'epoca dei fatti aveva in Giuseppe INTELISANO il suo reggente.
Il rapporto con l'INTELISANO, - al quale il Romagnoli riconosceva delle cospicue somme di denaro per l'attività svolta in suo favore, - aveva consentito all'azienda guidata dal giovane spregiudicato imprenditore di aggiudicarsi a Catania, nel 1996, l'appalto per la cittadella dello sport, e nel 1997 gli appalti per la costruzione degli alloggi del tavoliere e per il II lotto dell'ospedale Garibaldi. Ma tale penetrazione nel mondo degli appalti riguardava tutto il territorio siciliano, e non solo, estendendosi gli interessi del Romagnoli pure in Calabria, sotto la guida e le prepotenti coperture di cosa nostra catanese. Prova di ciò è nel fatto che - come è emerso dal contesto delle indagini, anche per ammissione dello stesso Romagnoli - grazie all'appoggio di cosa nostra, l'imprenditore riuscì ad aggiudicarsi nel 1996 l'appalto per
Come se ciò non bastasse - a riprova della copertura totale che cosa nostra catanese aveva fornito a Romagnoli - è emerso che l'imprenditore aveva ottenuto l'appoggio dell'organizzazione mafiosa anche per l'esecuzione di un appalto eseguito a Milano. Si trattava di un lavoro, sempre relativo all'edilizia, da eseguirsi per conto dell' istituto case popolari di Milano, per il quale proprio da Romagnoli è stato richiesto un intervento della famiglia catanese di cosa nostra. I lavori in subappalto, infatti, erano stati dati ad un'impresa in qualche modo collegata con la mafia palermitana, - l'impresa dei fratelli Schillaci, - e c'era addirittura stato un conflitto per una percentuale dell'importo dei lavori che doveva essere corrisposta dal Romagnoli agli Schillaci subappaltatori. Tale problema venne risolto con l'intervento della mafia catanese a favore di Romagnoli, che trovò una intesa con la mafia palermitana, ponendo ancora una volta i suoi «buoni uffici» a tutela di quell'azienda.
Ma il dato più rilevante dell'intera inchiesta è costituito dal peso specifico determinante assunto dalle organizzazioni mafiose nella aggiudicazione degli appalti, e dalla evoluzione significativa del ruolo di cosa nostra nella realtà dei lavori pubblici, che può essere così schematizzato:
1) Il modello precedente, e sinora conosciuto, di intervento della mafia negli appalti era infatti impostato secondo una regola che vedeva i mafiosi scendere in campo, ed avanzare pretese, nella fase successiva alla aggiudicazione degli appalti; per lo più attraverso la imposizione di tangenti, rivendicate in ragione della incidenza dell'appalto sul territorio, nel cui ambito si esercitava il controllo da parte di una determinata organizzazione mafiosa.
2) A questo schema ne era succeduto un altro, senz'altro più evoluto, che aveva visto la mafia interessata in prima persona alla esecuzione dei lavori, attraverso la imposizione, alla ditta aggiudicataria, di sub-appalti da affidare ad aziende vicine alle organizzazioni mafiose, quando non addirittura loro espressione diretta. Si tratta di uno schema operativo, già verificato nell'ambito di altre indagini sulla famiglia catanese di cosa nostra, che consentì di porre sotto sequestro una serie di società, le quali avevano ottenuto in sub-appalto parte dei lavori per la esecuzione del I lotto dell'ospedale. In quella occasione fu possibile notare che le ditte subappaltarici - espressione diretta delle famiglie mafiose Santapaola ed Ercolano - avevano emesso fatture per importi enormemente superiori ai beni e servizi erogati in favore delle ditte aggiudicatarie dei lavori, così contribuendo anche alla formazione dei fondi neri utilizzabili per la remunerazione illecita della criminalità organizzata e della classe politico-amministrativa.
3) La solidità del rapporto mafia-impresa, che ha caratterizzato l'aggiudicazione degli appalti alla Romagnoli, rappresenta invece una novità assoluta, - quanto meno per la realtà criminale della Sicilia orientale, - strettamente assimilabile a quella riferita, dall'imprenditore palermitano legato a cosa nostra Angelo SIINO, che descrisse il
L'esperienza giudiziaria più recente, che è stata descritta nei paragrafi che precedono, ha dimostrato, infatti, non solo il perdurare delle logiche di tipo corruttorio alla base delle condotte di turbativa, ma anche l'avanzamento degli interessi della criminalità mafiosa in una fase che precede l'aggiudicazione della gara, quando non addirittura la stessa formazione del bando.
Va peraltro premesso che l'ultima delle leggi emanate per regolare l'aggiudicazione degli appalti pubblici, - la legge 18 Novembre 1998 n. 415 c.d. «Merloni-ter», che ha introdotto modifiche alla legge quadro in materia di lavori pubblici, l. 11 Febbraio 1994 n. 109, c.d. legge «Merloni» - con la introduzione di un sistema prestabilito di determinazione delle c.d. «offerte anomale», ha conseguito il duplice effetto, da un lato, di ridurre al minimo la discrezionalità della commissione di gara nell'esercizio del potere di esclusione; e dall'altro, di costringere le imprese ad effettuare ribassi «realistici» per essere competitive ai fini dell'aggiudicazione.
Tali meccanismi legislativi, per quanto efficaci allo scopo di ridurre al massimo il pericolo di interventi di turbativa d'asta organizzati dall'esterno, - ed anche di turbative fondate sull'intervento callido dei responsabili di gara nell'esercizio del loro potere discrezionale - sono risultati comunque insufficienti ad arginare le turbative effettuate con il concorso materiale di impiegati dell'ente che procedano a sostituzioni e falsificazioni di atti. Di fronte a tali condotte non vi è legge che possa fungere da strumento di prevenzione, e le soluzioni, pertanto, dovranno essere rinvenute altrove e non nella sola legge che disciplina le regole di gara!
A tal fine una prima soluzione, - proposta anni fa dall'allora presidente della regione siciliana Rino Nicolosi, e ribadita dallo stesso anche dopo le vicende giudiziarie che lo hanno travolto - prevedeva la possibilità di trasferire al centro dell'amministrazione la fase di espletamento delle gare di appalto. Questo modo di procedere, si diceva, sarebbe stato idoneo ad allontanare gli interessi della mafia, la quale, attratta dai miliardi erogati per la realizzazione delle opere pubbliche, pressava le forze politiche presenti negli enti locali, co
Una simile soluzione avrebbe presentato degli innegabili vantaggi, ma lasciate irrisolte e senza tutela molte altre questioni. Tanto per iniziare si sarebbero mantenuti gli interessi della mafia nella fase esecutiva delle realizzazioni pubbliche, che costituisce storicamente una delle principali forme di intervento, a cagione della sua specifica capacità di infiltrazione nella realtà dei sub-appalti, e della diffusione capillare del fenomeno delle estorsioni sul territorio. Un lavoro pubblico assegnato sulla base di una gara corretta, garantisce dal pericolo di intervento della mafia nella fase di aggiudicazione, ma ripropone, per l'azienda risultata vittoriosa, tutti i problemi legati al controllo territoriale della criminalità. Analogamente i fenomeni di corruzione connessi alle illiceità commesse in fase esecutiva - adozioni ingiustificate di varianti tecniche, sospensioni dei termini per la consegna dei lavori, calcolo degli stati di avanzamento dei lavori, verifiche e collaudi non corrispondenti per quantità e qualità a ciò che si è realizzato - potrebbero riproporsi, poiché inerenti a funzioni rimesse alla competenza di organi territoriali ad alto rischio di condizionamento. La mafia, pertanto, dopo l'aggiudicazione avvenuta in sede centrale, non avrebbe che da attendere il ritorno del controllo della gestione dell'opera pubblica agli organi amministrativi periferici, che provvederanno a curare le fasi esecutive dei lavori.
Proprio prendendo spunto dalle insufficienze di un simile sistema, un'altra soluzione di tutela preventiva, - formulata alla fine degli anni Ottanta da Giovanni Falcone, e da ultimo rilanciata anche dal procuratore Giovanni Tinebra, - prevedeva di prestare molta più attenzione al controllo della fase esecutiva dei lavori pubblici, proponendosi di sottrarre del tutto al controllo delle realtà di amministrazione locale la gestione degli appalti, e di affidarla a soggetti di provata esperienza, i quali risultassero sganciati da collegamenti ed influenze di natura politica e da condizionamenti territoriali. Il principale limite di questo sistema risultava essere quello di privare l'ente locale del controllo sull'opera pubblica nel suo complesso, e dunque anche sulla verifica della corrispondenza di ciò che veniva realizzato, con ciò che si era deciso nella fase deliberativa, venendosi così ad incidere in ultima analisi sulla autonomia finale dell'ente. Inoltre, verrebbero così sottratte alla volontà dell'ente tutte quelle decisioni interlocutorie volte a precisare il contenuto dell'opera, allo scopo di procedere ad eventuali modifiche per renderla più consona alle finalità pubbliche.
In effetti le possibilità di intervento dei fenomeni di condizionamento mafioso e di corruzione, può avvenire in più livelli ed in più fasi, ed in funzione di ciò il meccanismo di tutela preventiva deve avere una articolazione ad essi corrispondente. Certo è che il processo di centralizzazione delle decisioni e dei controlli sugli appalti non può spingersi sino al limite estremo di obliterare il valore e la funzione stessa del decentramento e delle autonomie locali; ma, ove ciò sia
Il procedimento per la realizzazione di un'opera pubblica inizia con la fase della progettazione della stessa ed il finanziamento del relativo progetto. Spesso anche queste fasi - più che preliminari rispetto alla gara d'appalto - vengono seguite in prima persona da soggetti che intendono operare condizionamenti e turbative di tipo mafioso o corruttorio. Ciò avviene quando i personaggi che sono in grado di ottenere il finanziamento dell'opera - in genere grossi esponenti della politica o della burocrazia - hanno anche possibilità di intervento nelle successive fasi di formazione del bando, espletamento della gara, e gestione della esecuzione.
Un primo scopo è, dunque, quello di impedire tale continuità, riservando all'ente pubblico le sue preminenti facoltà - quali quelle di scegliere il progetto dell'opera da realizzare, e di individuare i fondi ai quali attingere mediante la previsione in bilancio della relativa spesa, nel rispetto della sua autonomia amministrativa e gestionale, - ma affidando le fasi di formazione dettagliata del bando, ed espletamento della gara, ad organismi dell'Amministrazione centrale dello Stato.
Ciò avrà lo scopo di ridurre al minimo le interferenze mafiose a favore di taluni concorrenti, - le quali spesso prendono forma attraverso la formazione di bandi con previsioni corrispondenti alle caratteristiche di talune imprese, - e di ripartire tra organismi diversi le competenze sulla scelta dell'opera e quelle sulla scelta del contraente.
Anche il momento esecutivo dell'opera pubblica potrebbe essere garantito dalla presenza di un soggetto estraneo all'Amministrazione locale, ma con previsioni volte a preservare l'autonomia delle scelte amministrative dell'ente. I poteri legati alla gestione esecutiva delle opere potrebbero essere esercitati con l'intervento di un organismo terzo - rispetto all'Ente committente del lavoro pubblico ed all'organismo centrale incaricato dell'espletamento della gara, - costituito in «Authority» e formato da soggetti con specifiche esperienze nell'azione di contrasto contro la criminalità organizzata, ed approfondite conoscenze in materia di criminalità economica e di riciclaggio. L'Authority, che può avvalersi della consulenza di tecnici di propria fiducia, avrebbe il compito di autorizzare tutti gli atti di gestione dell'appalto, facendo salvi in ogni caso i poteri di vigilanza dell'ente sulla corretta esecuzione dei lavori, e le sue scelte volte a modificare o precisare le caratteristiche dell'opera, allo scopo di renderla più consona alle finalità pubbliche, o alle esigenze della collettività che l'ente rappresenta. Si tratta, dunque, di mettere a punto un sistema che funga da strumento di salvaguardia delle esigenze di sicurezza degli appalti, e delle prerogative del decentramento e dell'autonomia.
Il problema si è riproposto con riguardo ad una recente vicenda che ha visto quale protagonista il boss detenuto Santo MAZZEI, recentemente collocato dai palermitani in posizione dominante nelle gerarchie della famiglia catanese di cosa nostra (si veda il n.2.1).
Pur essendo detenuto all'interno della speciale sezione 41-bis o.p. dell'istituto di Brucoli, il boss, insieme al co-affiliato MERTOLI Salvatore veniva messo in condizione di comunicare con l'esterno e gestire le questioni di potere dell'organizzazione, grazie all'utilizzo di un telefono cellulare messo a sua disposizione degli agenti di polizia penitenziaria addetti alla speciale sorveglianza. Attraverso l'attività investigativa eseguita inizialmente sotto le direttive della Procura della repubblica di Palermo era stato possibile infatti appurare gli intensi rapporti tra le famiglie catanesi e palermitane ed i frequenti incontri tra il boss Vito VITALE e Massimiliano VINCIGUERRA, elemento emergente del clan carcagnusi, da poco collocato al vertice dell'organizzazione catanese (vedi n. 2.1). Le indagini tecniche effettuate sull'utenza cellulare in uso a VINCIGUERRA consentivano di verificare che egli era rimasto in costante contatto telefonico con il MAZZEI, che gli inquirenti ben sapevano essere sottoposto al regime dell'articolo 41-bis o.p.
L'attenzione degli investigatori veniva pertanto a spostarsi sulla utenza telefonica in uso al boss detenuto, la cui voce era stata riconosciuta senza dubbio dagli agenti addetti al servizio di intercettazione telefonica. Esaminando la lista-traffico del telefono in uso al VINCIGUERRA si veniva pertanto a conoscenza del fatto che i contatti tra quest'ultimo ed il MAZZEI avvenivano per mezzo di una scheda prepagata intestata a persona non conosciuta agli atti di indagine. Per potere comprendere chi fosse l'effettivo utilizzatore della scheda si è dovuto dunque verificare - sempre mediante l'analisi della lista traffico - quali fossero i numeri composti più frequentemente, e soltanto così è stato possibile risalire alla persona di MIGLIORE Giovanni, agente di polizia penitenziaria in servizio presso l'istituto di Brucoli.
Si è potuto inoltre constatare - verificando l'orario delle telefonate che i boss effettuavano dal carcere di Brucoli - che le stesse avvenivano sempre durante i turni di servizio di un altro agente Nicolò INDOVINA. La estensione delle indagini tecniche sui telefoni delle abitazioni dei due agenti di polizia penitenziaria consentivano di rilevare il timbro vocale degli stessi, e di desumere che vi era un rapporto costante tra i due e gli esponenti di cosa nostra sia liberi che detenuti.
Utilizzando denominazioni di comodo - il MIGLIORE si qualificava come «Alfio», l'INDOVINA come «amico di Alfio» - gli stessi portavano a conoscenza i boss liberi di fatti che potevano essere di interesse dell'organizzazione. In particolare provvedevano ad informare il Massimiliano Vinciguerra che il MAZZEI era stato trasferito dal carcere mentre il MERTOLI era ancora presente.
La predisposizione di un apposito circuito carcerario ad alta sicurezza destinato alla detenzione di coloro che siano imputati in custodia cautelare, ovvero condannati per i delitti più gravi - di associazione mafiosa, di associazione finalizzata al traffico degli stupefacenti, e di sequestro di persona a scopo di estorsione - non risulta da sola strumento sufficiente a contrastare il fenomeno. Per questa ragione è stata predisposta dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria la circolare n. 3359 del 21.4.1993, con la quale si prescrive che il luogo di detenzione dei boss debba essere sempre in istituti collocati a grande distanza rispetto alla regione di appartenenza (23).
Le eccezioni - purtroppo frequenti - a questa regola hanno determinato le condizioni perché alcuni capi ed esponenti di spicco della criminalità catanese fossero mantenuti in detenzione presso istituti siciliani, con il conseguente rischio di mantenimento dei contatti con gli affiliati in libertà. Orbene, la permanenza in istituto carcerario siciliano di un soggetto pericoloso - rientrante nel circuito dell'alta sicurezza, ma non anche nel regime carcerario speciale previsto dall'articolo 41-bis o.p. - può ritenersi necessitata a volte con l'esigenza di garantire la più agevole celebrazione dei processi a suo carico. Ciò che è da ritenersi inaccettabile è invece la permanenza in territorio siciliano dei boss sottoposti al regime speciale carcerario dell'articolo 41-bis o.p. Per costoro infatti è stata disposta con legge la possibilità di partecipare al dibattimento a distanza mediante il sistema della multi-videoconferenza, e pertanto nessuna ragione plausibile dovrebbe esservi per derogare alla regola della detenzione dei capi-mafia in luoghi distanti dalle regioni di origine.
Nel caso del MAZZEI e del MERTOLI, dunque, la comune detenzione dei due boss nello stesso istituto costituiva ragione di pericolo - essendo gli stessi co-detenuti in un istituto ricadente in una zona a forte influenza da parte dell'organizzazione cosa nostra cui appartenevano - ed essi avrebbero dovuto essere reclusi in istituti diversi situati in località del nord Italia, partecipando ai processi mediante il collegamento a distanza. In effetti, dunque, la vicenda ha sollevato due
L'obiettivo di limitare le comunicazioni con l'esterno è stato perseguito restringendo drasticamente il numero dei colloqui per i soggetti sottoposti al regime speciale e limitandoli agli stretti congiunti (24). Tali colloqui vengono effettuati uno alla volta in apposite salette e senza il contatto fisico tra detenuto e visitatore. Queste cautele derivano dalle recenti esperienze maturate nel contrasto alla organizzazione mafiosa catanese, che hanno consentito di apprendere come attraverso i colloqui effettuati congiuntamente dai detenuti, questi ultimi potessero colloquiare anche con affiliati in libertà venuti a visitare i propri parenti a loro volta detenuti, ed in queste occasioni impartire ordini all'esterno, commissionando omicidi, disponendo la commissione estorsioni, dirimendo contrasti insorti all'interno della organizzazione o con altri gruppi.
Un problema a parte - idoneo a vanificare del tutto le rigide prescrizioni introdotte dal regime speciale dell'articolo 41-bis o.p. - è costituito dalla possibilità di utilizzo dei telefoni cellulari dentro le carceri, la cui introduzione all'interno degli istituti, viste le dimensioni ridottissime di alcuni apparecchi, può avvenire con relativa facilità. Una soluzione proposta da questa Commissione (25) è quella di provvedere alla totale schermatura dei ponti radio ETACS e GSM, collocati in prossimità delle zone ove ricadono gli istituti di pena attrezzati di apposite sezioni per la detenzione di soggetti sottoposti al regime di cui all'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario.
Per ciò che riguarda il diverso problema della detenzione dei responsabili delle organizzazioni mafiose all'interno della medesima sezione speciale per soggetti sottoposti al regime dell'articolo 41-bis o.p., va rilevato come il problema si pone in termini particolarmente gravi per i soggetti appartenenti alla criminalità organizzata catanese. Essi costituiscono, infatti, un cospicuo numero rispetto ai circa 400 detenuti complessivamente sottoposti al regime speciale, e distribuiti su un totale di sette istituti, all'interno dei quali sono state ricavate altrettante sezioni destinate ad ospitarli. Sarebbe pertanto utile, come già auspicato, realizzare ulteriori sezioni per detenuti sottoposti al regime dell'articolo 41-bis o.p. in modo da diluire la presenza al loro interno di soggetti appartenenti alla stessa area.
(18) Cfr. Note e prospetti statistici relativi alle misure di prevenzione personali e patrimoniali ed ai sequestri preventivi ex articolo 321 c.p.p., trasmessi dalla Procura distrettuale della Repubblica di Catania pag. 5.
(19) Cfr. Relazione della Commissione Parlamentare Antimafia della X legislatura, pag. 43, laddove si faceva già riferimento ai problemi legati agli organici dei magistrati e del personale: « Tra le cause dell'avvenuta contrazione dei procedimenti penali in concomitanza dell'aumento della criminalità, è stata indicata la cronica carenza dei magistrati e del personale ausiliario, la cui incidenza si è ulteriormente aggravata per le esigenze del nuovo codice di procedura penale...».
(20) Il processo, dopo l' annullamento con rinvio della Corte di Cassazione, pende attualmente in Appello in attesa che venga celebrato un nuovo processo di secondo grado.
(21) Il processo per lo scandalo delle scuole è stato celebrato congiuntamente a quello relativo alla costruzione del centro fieristico di Viale Africa.
(22) Nel verbale di dichiarazioni rese al pubblico ministero in data 17.12.1993 il Platania aveva così descritto il rapporto tra la società Alidea e gli amministratori della U.S.L. n. 35 di Catania: «In occasione dell'instaurazione del rapporto con l'»Alidea« conobbi il sig. MICELI Antonio. Appena fu iniziato il servizio di fornitura dei pasti ebbi modo di constatare che gli importi cui l'Ente doveva fare fronte erano di rilevante entità, pari a circa 200-300 milioni al mese. Mi accorsi altresi' che i pagamenti a favore della Ditta »Alidea« che forniva i pasti venivano effettuati a mezzo di delibere presidenziali che erano immediatamente esecutive anche se soggette a successive ratifiche dell' organo collegiale. Chiesi conto allo STRANO della ragione di tale prassi che mi sembrò eccezionale rispetto alla normale evasione della pratiche di pagamento. Mi informai anche con lo STRANO se anche per questo rapporto, come per qualche altro rapporto di fornitura con ditte private, esistesse un rapporto economico »sottostante« fra i componenti della USL e l'imprenditore MICELI dell' »Alidea«. Lo STRANO mi disse che il MICELI corrispondeva personalmente a lui una somma pari all' otto per cento (8%) dell'importo totale della fornitura, e mi fece presente che era disposto a corrispondere a me una parte della tangente, così come avveniva per le altre parti politiche che componevano la maggioranza all'interno del Comitato di Gestione della U.S.L. 35. Mi risulta, perchè furono tanto lo STRANO quanto il MICELI a dirmelo, che i versamenti delle tangenti avvenivano subito dopo la riscossione di mandati di pagamento da parte del MICELI, e venivano effettuati in contanti nelle mani dello STRANO. In qualche occasione io stesso ero presente all'atto del versamento del denaro, che solitamente avvenivano negli Uffici della Presidenza della U.S.L. 35. Questo rapporto economico tra gli amministratori della USL durò almeno per tutto il tempo in cui io fui vice-presidente dell'ente, e cioè fino al Marzo del 1986.Mi risulta che tale rapporto perdurò anche successivamente almeno per tutto il periodo in cui l'avv. STRANO è stato Presidente, e cioè fino al momento del suo arresto avvenuto nel Novembre 1987. La redistribuzione ad opera dello STRANO del denaro versato dal MICELI avveniva sin dall'inizio secondo un criterio che teneva conto della funzione e del partito.Pertanto in occasione della riscossione periodica del mandato di pagamento il MICELI versava nelle mani dello STRANO una somma pari all' otto per cento di quanto incassato. L'importo poi veniva redistribuito dallo STRANO agli altri componenti di maggioranza del Comitato di Gestione, in modo che egli tratteneva per sè una quota pari al doppio, ed anche più , di quanto spettava agli altri, ed anche a me - che ero vicepresidente - veniva corrisposta una quota leggermente superiore rispetto a quella corrisposta agli altri».
(23) L'argomento ha costituito già materia di interesse di questa Commissione, tanto da meritare specifico approfondimento nell'ambito della relazione sui criteri per la custodia dei collaboratori di giustizia, dei detenuti del circuito di alta sicurezza e di quelli sottoposti al regime di cui all'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario. In tale documento, a pag. 12, si fa riferimento alla circolare n. 3359 del 1993, nonché alle problematiche connesse alla possibilità che hanno i detenuti di comunicare tra loro e mantenere ruoli e gerarchie all'interno delle carceri: «Con la citata circolare è stata poi prevista in maniera altrettanto opportuna l'esigenza di impedire con ogni attenzione e decisione fenomeni di proselitismo, di supremazia o di subordinazione, e di dedicare particolare attenzione alla sistemazione dei detenuti di primo livello anche all'interno delle sezioni, evitando che stiano insieme, specie se nella medesima camera, detenuti che potrebbero sfruttare la loro vicinanza a fini criminali. La realtà, però, è davvero diversa: sia perché, come s'è detto, è frequentissimo che impegni giudiziari portino il detenuto, anche se di primo livello, ad essere custodito in istituti situati nelle zone d'origine soggette all'influenza sua e dell'organizzazione di appartenenza (sicchè altrettanto frequenti e diffuse sono le occasioni di proselitismo e di affiliazione con cerimonie e rituali all'interno delle carceri); sia perché l'esperienza giudiziaria indica che è di fatto impossibile tenere i detenuti di primo livello separati tra loro, sicchè la conseguente vicinanza viene sfruttata a fini criminali non soltanto quando essi appartengano al medesimo gruppo o alla medesima associazione per delinquere o di tipo mafioso, ma anche quando si tratti di organizzazioni diverse.
(24) In ordine a questa ed alle altre misure che contraddistinguono il regime speciale di detenzione previsto dall'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario, nonché sul contenuto della circolare emanata in data 20 Febbraio 1998, contenente i criteri da adottare in concreto nell'applicazione del regime detentivo, vd. Audizione del Direttore del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, dott. Alessandro Margara, innanzi alla Commissione Bicamerale d'inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari, avvenuta il 25 febbraio 1998.
(25) Vd. La cit. relazione sui criteri per la custodia dei detenuti, pag. 13.