MARZIO BARBAGLI, Professore ordinario dell'Università di Bologna

L'argomento su cui io devo parlare è quello del rapporto tra movimenti migratori e criminalità. E' un argomento, come voi sapete, molto scabroso, molto delicato, molto difficile, molto imbarazzante, e devo dire francamente che il dibattito che avviene in questo Paese, e anche nella Comunità scientifica di cui faccio parte, è un dibattito fortemente influenzato dagli orientamenti politici di coloro che vi partecipano. Si tratta peraltro di una tematica che è facile ai frantendimenti. Vorrei sintetizzare il mio intervento in quattro proposizioni che leggerò molto lentamente sperando che qualcuno di voi le segua per dire che queste quattro proposizioni, se sottoposte a un campione qualsiasi di italiani, ne troverebbe una parte d’accordo e una parte contrari sulla base solo dei loro orientamenti politici. Quello che mi sforzerò di dirvi è che cosa risulta invece dai dati e dai risultati delle ricerche che noi abbiamo, non solo quelle fatte in Italia, ma quelle fatte numerose anche in altri paesi. Quindi io leggerò queste proposizioni e vi dirò se sulla base di questi risultati di ricerche esse sono vere o false, cioè trovano una verifica o no nei dati.

La prima, la più banale, è la seguente: l'immigrazione, i flussi migratori provocano sempre un aumento del numero dei reati nel paese di arrivo. Questa proposizione è vera ed è ovviamente vera senza bisogno di ricorrere a risultati di ricerca, nel senso che quando una popolazione si aggiunge ad un'altra, l'arrivo di una nuova popolazione, se questa è in centinaia di migliaia di persone, milioni di persone, provoca sempre anche un aumento della criminalità, così come provoca un aumento dell'abitazione, della domanda di scarpe o della domanda di pomodori.

La seconda proposizione è: il forte aumento della criminalità che vi è stato in Italia negli anni '90 è stato provocato dagli immigrati. Questa proposizione, se noi la sottoponessimo ad un sondaggio, troveremmo che una stragrande maggioranza degli italiani la sottoscriverebbe. Invece è invece falsa. Perché è falsa? Perché è falsa la prima parte della proposizione, la quale non corrisponde ai dati che noi abbiamo. So di dire una bestemmia, so di dire una cosa che nessuno condivide, ma non è assolutamente vero che nel corso degli anni '90 in Italia vi sia stato un aumento della criminalità. Quindi la proposizione è falsa per questo.

Terza proposizione: oggi nel nostro Paese gli immigrati extracomunitari commettono alcuni reati: furti, rapine, omicidi, spaccio e traffico di sostanze stupefacenti, più frequentemente dei cittadini italiani, a parità di sesso e di età. Le ricerche che noi abbiamo ci dicono che questa proposizione è vera e che questo non avveniva solo dieci anni fa. Dieci anni fa, alla fine degli anni '80, la situazione era esattamente l'opposto, in altri termini dieci anni fa questa proposizione non sarebbe stata vera. Vedete, la proposizione tre che vi ho appena letto non è in contrasto, in contraddizione con la proposizione due. Nel nostro paese infatti non vi è stato negli anni '90 un aumento della criminalità mentre vi è stato in periodi precedenti e nello stesso tempo non vi è dubbio dai dati che noi abbiamo che gli immigrati extracomunitari danno un contributo di rilievo nel commettere vari reati, in particolare i reati che vi ho detto. Non è in contrasto per un motivo molto semplice ma che è trascurato sempre nel dibattito: l'andamento della criminalità, infatti, così come l'andamento di tutti i fenomeni sociali, dipende da una pluralità di fattori e quindi ci sono fattori che agiscono in un senso e fattori che agiscono nell'altro senso.

Quarta proposizione: in tutti i paesi occidentali gli immigrati hanno sempre commesso alcuni reati, quelli che vi ho letto prima, più spesso degli autoctoni. Questa è una delle proposizioni io credo più interessanti e che più ci aiuta a capire che cosa sta avvenendo: questa proposizione è falsa. Perché è falsa? E' falsa perché uno dei risultati più importanti delle ricerche condotte in Europa, e non solo in Europa, anche negli Stati Uniti nell'ultimo secolo, è che noi sappiamo con abbastanza certezza che fino alla metà degli anni '70 in tutti i paesi occidentali gli immigrati commettevano meno reati della popolazione autoctona (sto sempre parlando dei reati che vi ho letto, non di tutti i reati in generale). Sappiamo anche che in tutti i paesi europei a partire dal 1975 circa la situazione è radicalmente cambiata, che la quota dei reati commessi dagli immigrati è fortemente aumentata e che attualmente quindi gli immigrati commettono in tutti i paesi europei più reati della popolazione autoctona. Questo cambiamento, che quindi è avvenuto in tutti, che non riguarda solo l'Italia, perché da noi come ben sapete i processi migratori sono iniziati molto dopo che in altri paesi, questo cambiamento si spiega in molti modi, si spiega con altre profonde trasformazioni avvenute nel mercato del lavoro, con trasformazioni avvenute per le maggiori o minori difficoltà incontrate dagli immigrati nell'inserirsi, nell'integrarsi nella società di arrivo e anche con mutamenti verosimilmente avvenuti nel rapporto tra aspirazioni e possibilità di realizzare queste aspirazioni da parte della popolazione immigrata. Ora se noi ritorniamo appunto all'Italia, i dati più recenti, i dati che vengono dal Ministero dell'interno e dall'Istat che cosa dimostrano? Ci mostrano che fino al 1998 la quota di immigrati sul totale delle persone denunciate per i reati che vi ho prima elencato, cioè per furti, rapine, traffico e spaccio di stupefacenti, omicidi è costantemente aumentata, cioè è aumentata anche nel 1998. Allora la domanda che noi possiamo farci a questo punto, anche se questo è un tema che sarà affrontato nella relazione successiva, è quali sono stati gli effetti della legge 40 del 1998 che è una legge molto criticata in questo momento in Italia. Ora c'è da dire che la legge, schematicamente, si proponeva due grandi obiettivi: quello dell'integrazione, favorire l'integrazione nella società italiana degli immigrati e quello di scoraggiare l'immigrazione irregolare. Per quanto riguarda il primo punto è evidente che è passato troppo poco tempo perché noi possiamo fare un qualsiasi bilancio degli effetti della legge, ma per quanto riguarda invece il secondo punto, tutti i dati che io ho visto mostrano che sono in corso delle profonde trasformazioni e, se la parola rivoluzione non fosse così abusata, io direi che è in corso una vera e propria rivoluzione. Mi colpisce il fatto che, come dire, non esista una piena consapevolezza tra gli osservatori e nemmeno nei mezzi di comunicazione di massa di quante profonde trasformazioni, per quanto riguarda ripeto il secondo punto, cioè scoraggiare l'immigrazione irregolare, abbia introdotto la legge 40. Talvolta ho pensato che questo dipendesse oltre che, come dire, dallo scarso interesse con cui i giornali guardano i dati statistici, anche dalle difficoltà che il ministero dell'interno ha nel presentare questi stessi dati. Ma senza darvi dei numeri posso assicurarvi che tutti i dati che io ho visto, che sono del ministero dell'interno, mostrano che la quota di persone di immigrati regolari che viene espulsa è straordinariamente aumentata. Si può dire che non era difficile farla aumentare visto che la legge Martelli era tale che la quota era straordinariamente bassa, ma tale quota è aumentata fortemente e - aggiungo - è molto difficile peraltro, per come è costruita la legge, fare dei confronti puntuali tra i dati attuali e i dati precedenti. Ora la cosa su cui io volevo concludere è che esistono tracce nei dati di cui disponiamo e che ancora non sono noti, dell'effetto che questa legge sta producendo anche riguardo alla criminalità. Se noi guardiamo questi dati, che sono prodotti da un nuovo ufficio, da un dipartimento straordinario del ministero dell'interno, reparto appunto antidroga, noi vediamo che ininterrottamente, dal 1987 fino alla fine del 1998, sulle persone denunciate per spaccio e traffico di stupefacenti la quota degli immigrati è continuamente aumentata, un anno dopo l'altro. La cosa straordinaria di cui ancora ahimè pare che nessuno si sia accorto, è che negli ultimi nove mesi questa quota ha per la prima volta subito una significativa flessione. Non vi voglio dare numeri qui, ma vi posso garantire che questa costituisce una inversione di tendenza significativa. A che cosa è dovuto questo? Io credo sia ragionevole pensare che sia il primo importante effetto della legge 40. La legge 40 ha quindi aumentato la quota degli irregolari espulsi, aiutata dagli accordi di riammissione conclusi dal governo italiano, in particolare quelli importantissimi che ci sono stati con il Marocco e con la Tunisia, che hanno permesso di aumentare fortemente - sottolineo fortemente - la quota di immigrati irregolari senza permesso di soggiorno espulsi. Ora noi sappiamo bene da tutti i dati di cui disponiamo che questi immigrati irregolari, in particolare gli immigrati magrebini, marocchini e tunisini, erano quelli o sono quelli che controllano appunto lo spaccio ed il traffico di stupefacenti. Per dirvi solo un numero, pensate che secondo i dati del 1998 se noi prendiamo la provincia nella quale il tasso, cioè la quota di immigrati sui denunciati per questi reati è più alta che è la provincia di Torino, abbiamo che il 72 per cento dei denunciati per questi reati è appunto costituita da non italiani, diciamo così, da stranieri. Ecco per la prima volta l'effetto della legge 40 è stato quello di mutare questa situazione. Io chiudo dicendo che naturalmente questo, ed è la filosofia che sta anche alla base della legge 40 del 1998, non è che uno dei modi attraverso i quali si può ridurre il contributo che gli immigrati irregolari danno in questo momento al numero di reati che vengono commessi nel nostro paese. Gli altri riguardano appunto il favorire una possibilità crescente di integrazione degli immigrati nel nostro paese.

 

RAFFAELE CANANZI, Presidente della Commissione affari costituzionali della Camera

Io ringrazio il Presidente Evangelisti ed i componenti del Comitato parlamentare per Schengen dell'invito fattomi per questo incontro di studio che a me pare particolarmente significativo, certamente in connessione con la prossima conferenza europea ma utile anche di per sé, cioè per i temi che sono alla nostra attenzione. Il tema che mi è stato specificamente affidato è quello del: "un primo bilancio sull'applicazione della nuova legge italiana sull'immigrazione", alla quale ha già fatto cenno, per quanto attiene in modo particolare agli obiettivi, il professor Marzio Barbagli. Io mi preoccuperò anzitutto, anche in connessione con la funzione da me esercitata presso la Camera, di offrirvi rapidamente ed in sintesi il quadro ordinamentale e applicativo della legge 40, che naturalmente non è una legge che è rimasta a sé, ma ha avuto una serie di applicazioni dal punto di vista normativo, e poi farò qualche rapida considerazione tenendo conto del fatto che sarà tra noi anche il ministro dell'interno. Sul piano ordinamentale e della disciplina normativa concernente l'immigrazione nel nostro paese credo che si debba ricordare che con legge 6 marzo '98 numero 40 si è dettata una nuova disciplina dell'immigrazione e anche norme sulla condizione dello straniero. Dico subito che con un diverso disegno di legge già approvato dal Senato ed ora all'esame della Commissione Affari costituzionali della Camera, che cercherà di concludere questo esame mi auguro almeno entro gennaio 2000, si dettano organiche disposizioni sul diritto di asilo, così seguendo anche l'indirizzo dell'Unione europea che tende a distinguere il diritto migratorio da quello di asilo per la differenza delle condizioni oggettive e soggettive che tali situazioni sostanziano. In attuazione dell'articolo 47, primo comma, della legge 6 marzo 1998, n. 40, è stato emanato con decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286, il testo unico sull'immigrazione. L'articolo 3 del testo unico definisce le procedure per la determinazione delle politiche di carattere generale concernenti l'immigrazione. Si prevede a tal proposito la predisposizione, con cadenza triennale, di un documento programmatico concernente la politica dell'immigrazione e degli stranieri nel territorio dello stato. Il documento, a norma del primo comma, è predisposto dal Presidente del Consiglio, previa consultazione di una serie di soggetti, ed è approvato dal Governo. Il documento è quindi trasmesso al Parlamento per l'espressione del parere da parte delle competenti commissioni parlamentari che devono pronunciarsi entro trenta giorni dal ricevimento dell'atto; il documento viene quindi pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Esso indica le azioni e gli interventi di carattere generale concernenti l'immigrazione e le misure economico-sociali per gli stranieri soggiornanti nel territorio dello Stato, nonché i criteri di carattere generale per la definizione dei flussi di ingresso degli stranieri in Italia; delinea inoltre gli interventi pubblici volti a favorire le relazioni familiari, l'inserimento sociale e l'integrazione culturale degli stranieri residenti in Italia e prevede ogni possibile strumento per il reinserimento nei paesi di origine comune. Sulla base delle indicazioni contenute nel documento programmatico, il Presidente del Consiglio definisce annualmente con proprio decreto, sentiti i ministri interessati e le competenti Commissioni parlamentari, le quote massime di stranieri da ammettere nel territorio dello Stato per lavoro subordinato anche a carattere stagionale e per lavoro autonomo. Nel definire le quote massime si dovrà tener conto dei ricongiungimenti familiari e delle misure straordinarie di accoglienza temporanea per eventi eccezionali disciplinati dal successivo articolo 18 della stessa legge. I visti di ingresso per le tipologie di lavoro sopra ricordate sono quindi rilasciati entro i limiti che sono così definiti. Il governo ha emanato, il successivo 5 agosto 1998, il primo documento programmatico relativo alla politica dell'immigrazione nel territorio dello Stato. Il documento è articolato in tre parti e contiene due allegati. Nella prima parte viene esaminato il quadro delle iniziative internazionali, sulle quali il governo italiano è impegnato in relazione al fenomeno della immigrazione. La seconda parte individua i criteri generali sulla base dei quali verranno definiti i flussi di ingresso degli stranieri in Italia, criteri che dovranno costituire la base per l'adozione dei decreti di programmazione annuali, che stabiliscono le quote massime di stranieri da ammettere nel territorio dello Stato per lavoro subordinato e lavoro autonomo. La terza parte del documento analizza le linee della politica dell'integrazione che dovrebbero essere eseguite al fine di realizzare una efficace attuazione della nuova normativa. Nel primo allegato sono contenuti i dati informativi e statistici sui flussi migratori nel 1997, quindi anteriori alla data di entrata in vigore della legge 40, mentre l'allegato che chiude il documento presenta un'analisi delle tendenze demografiche in Italia, della pressione migratoria nella regione euro-africana e alcune ipotesi di sviluppo demografico della popolazione straniera in Italia. Secondo la disciplina previgente alla legge 40, i flussi di ingresso per il 1998 sono stati determinati con decreto del ministro degli Affari esteri il 24 dicembre 1997; questo decreto ministeriale ha fissato in 20 mila le quote di ingresso per lavoro a tempo indeterminato e determinato, incluso quello stagionale, regolati in base all'accertamento della disponibilità di offerta di lavoro già presente sul territorio nazionale. Una quota del totale poteva essere riservata ai cittadini provenienti da paesi extracomunitari con cui l'Italia avesse sottoscritto nel corso dell'anno intese bilaterali finalizzate alla regolamentazione dei flussi di ingresso e delle procedure di riammissione, nell'ambito delle quali fossero stati definiti accordi specifici nel settore del lavoro stagionale. Il decreto ministeriale del ministro degli affari esteri ha altresì previsto di procedere ad un aggiornamento di tale numero con particolare riferimento al lavoro a tempo determinato alla scadenza del primo semestre 1998, sulla base delle indicazioni fornite dal ministero del lavoro e delle intese specifiche raggiunte nell'ambito degli accordi bilaterali o multilaterali. Secondo la nuova disciplina, il decreto ministeriale del 1997 è stato integrato con un decreto del Presidente del consiglio dei ministri del 16 ottobre '98 sempre concernente la programmazione dei flussi d'ingresso per l'anno '98 di cittadini stranieri non comunitari, decreto che aumenta di 38 mila unità la quota di 20 mila unità già prevista e fissa le condizioni per ottenere il rilascio del permesso di soggiorno da parte di lavoratori stranieri già presenti in Italia prima dell'entrata in vigore della legge 40/98 in possesso di specifici requisiti appositamente dettati per ciascuna categoria di lavoratori. Fuori della quota massima di 58 mila persone, il decreto del Presidente del consiglio dei ministri prevede per alcune categorie con le condizioni dettate dall'articolo 29 del testo unico la possibilità di ottenere il permesso di soggiorno per il ricongiungimento familiare. La complessiva quota di 58mila cittadini stranieri non comunitari è stata anche confermata per il 1999. A me pare che alla luce di questi dati normativi, naturalmente tutti dettati in applicazione della legge 40, la politica di ammissione sul nostro territorio risulta sufficientemente disciplinata. Essa va coniugata con un più puntuale ed efficace contrasto dell'immigrazione clandestina e dello sfruttamento criminale dei flussi migratori, nonché con un maggiore e più concreto sostegno ai percorsi di integrazione per gli immigrati regolarmente soggiornanti in Italia. Sono questi invero pure i canoni della politica migratoria dell'Unione europea, che si muove verso una comunitarizzazione di tale politica sia per rendere più omogenee le politiche nazionali sia per avviare iniziative comuni nei confronti dei paesi terzi. Sono stati favoriti in Italia i flussi per ricongiungimento familiare e nell'applicazione della legge 40 si è fatto ampio ricorso alle forme di protezione umanitaria per i rifugiati dal Kossovo e da altri territori dei Balcani colpiti dalle recenti vicende belliche. Queste forme hanno però efficacia temporanea, anche se necessariamente comportano ulteriori presenze di stranieri sul territorio nazionale e finiscono perciò coll'incidere sulla programmazione dei flussi. L'ampiezza delle frontiere italiane rende particolarmente complessa e difficile la manovra di controllo e di contrasto dell'immigrazione illegale o clandestina. Politica di sicurezza delle frontiere e politica di integrazione devono ricevere un approccio comunitario anche per la condivisione degli oneri che non sono di poca consistenza mentre si deve considerare un dato confortante, il dato al quale faceva riferimento il professor Barbagli nella sua relazione, quello delle 47mila espulsioni effettive, cioè le persone accompagnate alla frontiera dall'inizio dell'anno. I primi centri di permanenza temporanea ed assistenza sono già stati istituiti, viene però giustamente affermato che, ferma restando la necessità di una rigorosa, intensificata ed efficace azione repressiva della immigrazione illegale, sarebbe però illusorio pensare di bloccare o limitare seriamente tale fenomeno solo con strumenti di tipo repressivo. Sono infatti necessari anche altri strumenti di contenimento e di controllo e tra questi rivestono importanza essenziale gli accordi con i paesi da cui partono i flussi migratori, accordi di riammissione e di fissazione di quote di ingresso anzitutto, ma accompagnati, quando è possibile, da una più ampia intesa di cooperazione per lo sviluppo su basi bilaterali e multilaterali. Tali accordi risultano assunti dal governo italiano con alcuni paesi dell'area mediterranea ma vanno certamente estesi e soprattutto vanno comunitarizzati. Un primo sommario bilancio sull'ammissione degli immigrati e sul contrasto ai clandestini ed alla collegata criminalità pone in luce, a mio avviso, una complessiva efficace azione dello Stato, sia con riguardo all'attività propria delle forze dell'ordine e delle attribuzioni delle amministrazioni dell'interno e degli affari sociali, che con riguardo al generoso impegno di molte formazioni sociali che concretamente realizzano obiettivi umanitari di alto valore etico. Sul tema dell'integrazione sociale, le politiche di integrazione dettate nella terza parte del documento programmatico costituiscono certamente un significativo indirizzo culturalmente valido nella prospettiva di un nuovo secolo che sarà caratterizzato dal fenomeno migratorio. L'Europa non può blindare le frontiere, né può fare ricorso alla sanzione penale della condotta di immigrazione clandestina che fra l'altro comporterebbe un aggravamento assai serio delle politiche nazionali penitenziarie. Fermo restando il principio di legalità con i principi della sussidiarietà e della solidarietà, l'Europa può ben affrontare questo problema nella luce di due millenni di civiltà cristianamente ispirata, di duecento anni di rivoluzioni liberali e sociali che hanno generato una nuova cultura fondata su alti valori etici, per un verso presenti nel patrimonio delle singole coscienze perché già interiorizzati, per altro verso tradotti nel patrimonio giuridico del diritto internazionale e di molti diritti nazionali ed ora in attesa, come tutti ci auguriamo, di essere fatti propri, con effetti decisivi, dall'ordinamento dell'Unione europea.

 

MARIA JESUS DE LOURDES, Giornalista Rai

Il mio intervento sarà molto breve anche perché l'argomento è abbastanza noto, abbastanza conosciuto a tutti; l'immagine che il media normalmente trasmette del mondo dell'immigrazione. Cercherò di fare un brevissimo cappello per far capire come è cambiato il mio punto di vista e quello dell'opinione pubblica rispetto alla presenza degli immigrati in Italia. Il ruolo dei media può infatti ostacolare un processo di inserimento o facilitarlo se utilizzato in modo corretto. Concluderò infine su una mia riflessione relativamente ai mezzi e strumenti legislativi adoperati per combattere l'immigrazione clandestina e favorire un ingresso legale in Italia.

L'immagine che l'opinione pubblica aveva fino ad alcuni anni fa della presenza degli immigrati in Italia è profondamente cambiata. Prima si pensava all'immigrazione come a un fenomeno di passaggio, un transito di stranieri che prima o poi sarebbero rientrati nel paese di origine. Oggi questa percezione si è modificata nel senso che la maggior parte degli italiani ha capito che l'immigrazione è un fenomeno ormai stabile e che la maggior parte degli immigrati presenti nel territorio rimarranno in questo paese. Questa consapevolezza ha provocato vari tipi di reazione. Una parte degli italiani ha capito che non vi è alternativa possibile se non quella di imparare a convivere con la presenza di persone di culture diverse, altri vivono questo nuovo fenomeno con preoccupazione, con indifferenza, senza schierarsi né da una parte né dall'altra, altri ancora si sono schierati apertamente contro la presenza e l'inserimento degli immigrati rifiutando categoricamente e di fatto la società multiculturale. Questo atteggiamento di rifiuto, che era impensabile fino a qualche anno fa, quando la presenza degli stranieri immigrati suscitava semmai disinteresse o al massimo la curiosità, oggi è diventato un atteggiamento diffuso di xenofobia. Non soltanto in Italia, ma anche in altri paesi d'Europa, trova un appoggio e un avallo da parte di qualche partito che per ideologia o per opportunità politica cavalca il malcontento. Se si tenta di giustificare molte volte con l'ignoranza un atteggiamento di razzismo nella gente comune, nel caso di leader politici non si tratta di ignoranza, ma di lucido calcolo di interessi, come facilmente possiamo vedere in alcuni partiti europeo di chiaro stampo razzista. In questa azione di ostacolo allo sviluppo di una società multiculturale, un ruolo fondamentale lo giocano i mass media, la stampa e la televisione italiana, che in alcuni casi hanno trattato il fenomeno correttamente, ma sono casi sporadici, non rappresentativi del modo generale con cui viene affrontato un tema così delicato. Nella maggior parte dei casi l'immigrazione viene trattata in termini di delinquenza o di pericolo per la sicurezza sociale, allarmando sempre di più l'opinione pubblica già così fortemente condizionata dai pregiudizi. L'immagine dell'immigrato che viene trasmessa molte volte dai media è talmente stereotipata in senso negativo e talmente brutta che anche in molti immigrati nasce un senso di rifiuto per quelle comunità che vengono maggiormente prese di mira. Per cui non solo gli italiani, ma anche l'immigrato finisce per prendere le distanze da quelle comunità che vengono presentate in blocco come delinquenti, spacciatori, ladri, protettori o prostitute, fatto anche comprensibile perché ovviamente nessuno si vuole identificare in un'immagine negativa per di più imposta da altri. E oltre al continuo flusso negativo di informazioni sul mondo dell'immigrazione, lo spettatore è informato in modo univoco, distorto e parziale attraverso alcuni servizi giornalistici sui vari paesi di provenienza. I temi centrali sono quasi sempre massacri, carestie, o terribili malattie contagiose. Viene data spesso una informazione scandalistica che usa le sensazioni forti per trasmettere un'immagine disastrosa dei paesi di provenienza dei flussi migratori, quindi per conseguenza sull'intera popolazione qui immigrata. Basti pensare che un paese dell'Africa di oltre 100 milioni di abitanti e ricco di arte e di storia, con letteratura che ha conquistato anche un premio Nobel in Italia è conosciuto solo per qualche centinaio di prostitute che infestano le strade di alcune città. Detto questo, potete immaginare quanto è difficile riuscire a contrastare questo continuo flusso di informazione negativa, perché è sufficiente uno di questi servizi televisivi per annullare tanti sforzi fatti per riscattare l'immagine dell'immigrato. Io credo che una corretta informazione potrebbe svolgere un ruolo decisivo nella società che si sta formando in Italia ed in Europa. La televisione, soprattutto perché può entrare in casa di tutti e raggiungere tutta la popolazione per la capacità di imporre immagini, modelli di vita, gioca un ruolo, una funzione determinante nel processo di integrazione in atto. Sto parlando di una comunicazione attuata attraverso i mass media che vada oltre la cronaca, utilizzando un linguaggio più rispettoso degli altri. Questo vuole essere un discorso rivolto anche agli intellettuali, che rappresentano la coscienza critica di questo Paese affinchè possano prendere posizione a favore di questa società che sta cambiando, a favore anche dell'immigrazione. Bisognerebbe che la televisione italiana dedicasse uno spazio preciso ai film realizzati dai paesi più poveri; abbiamo visto film americani, alcuni film fatti sugli indiani, alcuni film africani che in qualche modo ci aiutano ad imparare qualcosa, hanno qualcosa da insegnarci. Ed infine credo che bisognerebbe stabilire uno spazio definito per la trasmissione di questi programmi, perché non si può immaginare di sconfiggere i pregiudizi con un ciclo di trasmissioni. I pregiudizi sono formati e si sono consolidati nel tempo. Non basta un episodio positivo per contrastare anni di cattiva informazione, bisogna definire uno spazio continuo e collocato in orario decente. Ci sono state esperienze precedenti: Non solo nero, il TG2, alla radio Permesso di soggiorno che continua anche quest'anno, c'è adesso un'altra trasmissione alla Rai educational, però non basta, non è sufficiente, perché sono trasmissioni che hanno un carattere di provvisorietà ed è importante che ci sia uno spazio continuo. E adesso vorrei dire un'ultima cosa riguardo al tema generale che stiamo trattando qui in questa giornata di studio e si tratta appunto degli strumenti legislativi da attuare per combattere gli ingressi clandestini e facilitare invece gli ingressi legali in Italia. Mi riferisco al ricongiungimento familiare, al lavoro subordinato e a quello autonomo. Di questi tre strumenti legislativi, solo il primo, quello del ricongiungimento familiare per ora è percorribile, è più sicuro, più facile, anche se limitato appunto agli immigrati che hanno familiari di primo grado in Italia. Gli altri due per ora sono i più difficili, quasi impraticabili perché il lavoro subordinato è condizionato alla chiamata nominativa da parte del datore di lavoro il quale, noi possiamo immaginare, difficilmente potrà assumere una persona che non ha mai visto e conosciuto. L'altra invece riguarda l'ingresso per lavoro autonomo e anche questa viene ostacolata dalla necessità di dimostrare un reddito minimo. Per cui l'unica soluzione che rimane alla maggior parte di coloro che sono spinti ad emigrare dalla povertà è rischiare in prima persona cercando di raggiungere il paese di immigrazione attraverso le numerose vie clandestine pronte a supportare tutto quello che ciò comporta. E questo rischio non lo possono tentare tutti, per esempio chi proviene da altri continenti non può imbarcarsi per l'Europa se non ha superato prima il controllo dei visti. Vorrei fare notare bene che fra coloro che vengono respinti, ci sono anche i rifugiati politici che ingiustamente vengono penalizzati. L'unica via che resta praticabile è appunto quella di giungere in Europa attraverso le frontiere italiane, soprattutto attraverso la via marittima, utilizzando appunto gli scafisti, ma questo favorisce, aumenta di fatto l'immigrazione clandestina, che non si sa dove andrà a finire poiché fuori dal controllo dello Stato. Io credo che il modo migliore per controllare l'immigrazione è quello di facilitare gli ingressi legali. Questo non significa lasciare le frontiere aperte, significa lasciare la possibilità di controllare l'immigrazione attraverso un canale legale, ossia quello delle quote di ingresso per ricerche di lavoro, che tra l'altro è già previsto dall'articolo 23 della legge 40. Io concludo e vorrei che il governo italiano sperimentasse queste norme e diventasse portatore in Europa di un modo nuovo di affrontare un tema delicato come questo dell'immigrazione.

 

JAN HOEKAMA, Commissione affari europei del Parlamento olandese

Ringrazio molto il Presidente Evangelisti.

Signor Presidente, questa giornata di studio sul controllo parlamentare legato ai temi della sicurezza e della giustizia è di grande interesse per noi. Si è detto che l'esperienza olandese può essere considerata di interesse per voi, comunque una cosa già posso notare io come rappresentante olandese: il nome di questo Comitato, il Comitato Schengen-Europol è molto interessante; non sono a conoscenza del momento in cui è maturata la decisione che istituisce questo Comitato, decisione di cui comunque mi congratulo e mi rallegro moltissimo.

Il mio paese ha una tradizione molto lunga in questo settore: già durante la fase di approvazione in Parlamento del trattato di Maastricht la Camera bassa del Parlamento ha approvato l'emendamento che stabiliva come un progetto di decisione da parte del Consiglio venisse presentato di fronte ad entrambe le Camere del Parlamento prima che la decisione potesse essere approvata in Consiglio, e stiamo parlando del VI titolo del TUE. In particolare si prevedeva che il parere del Parlamento dovesse essere espresso dopo 15 giorni tacitamente oppure esplicitamente entro questo termine, affinchè il paese, per il tramite del Parlamento, potesse prestare il proprio consenso alla presa della decisione in oggetto: quindi vediamo che il controllo parlamentare sulla giustizia e gli affari interni è massimo nel nostro Paese.

All'inizio degli anni '90 la Seconda Camera approvò un emendamento il quale decideva che i progetti di decisione del Comitato esecutivo di Schengen dovessero esserle sottoposte prima che si potessero prendere decisioni efficaci. Il motivo di questi due emendamenti (relativi al Trattato di Maastricht e al Trattato di Schengen) era dato dal fatto che sia a livello nazionale che a livello europeo non si prevedeva una supervisione parlamentare nel contesto del Trattato di Maastricht. Il governo olandese, dopo il Trattato di Amsterdam del '97, ha proposto una legge per la ratifica del Trattato stesso nell'ambito della quale, all'articolo 3 si riproponeva la stessa procedura di approvazione prevista per la legge di ratifica del Trattato di Maastricht.

Quindi sostanzialmente anche per questo Trattato, è stata prevista la procedura di approvazione tacita del Parlamento entro 15 giorni o approvazione esplicita entro il medesimo termine. Il Parlamento olandese durante l'esame per la ratifica del Trattato di Amsterdam ha fatto anche di più: la Seconda Camera ha approvato due emendamenti che prevedevano la stessa procedura sopra descritta anche per altri due temi: per il titolo VI del Trattato sull'Unione europea e per il titolo IV del Trattato sulle comunità europee relativo ai visti, al diritto di asilo, all'emigrazione e altre politiche legate alla libera circolazione delle persone. A questo riguardo, è stato in particolare preso in considerazione il problema del periodo di transizione di cinque anni nell'ambito del quale il Parlamento europeo non ha ancora diritto di codecisione ed il processo decisionale richiede l'unanimità fino a quando, come sapete dal Trattato di Amsterdam, dopo cinque anni o fra cinque anni, il Consiglio prenderà una decisione relativamente ai temi che dovranno essere oggetto di codecisione. Comunque il Parlamento olandese ha già fatto in modo che il Parlamento eserciti il massimo del controllo sia dall'inizio che per tutta la fase quinquennale prevista.

Il secondo nuovo emendamento approvato dal Parlamento olandese nell'esame di questa legge di ratifica del Trattato di Amsterdam riguarda Schengen, ed in esso è stabilita una procedura parlamentare di approvazione per una serie di elementi legati all'acquis di Schengen. Quando parliamo di acquis di Schengen parliamo degli accordi del '95, della Convenzione del '90 e degli altri Protocolli legati alla posizione particolare di Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca. Si è voluto quindi assicurare il pieno controllo parlamentare sulla gestione dell'acquis di Schengen: una soluzione diversa sarebbe stata considerata del resto totalmente antidemocratica, per cui il Parlamento olandese ha deciso di intervenire e di prevedere questo tipo di controllo per l'approvazione delle decisioni concernenti l'acquis di Schengen da parte del Consiglio. Quindi in pratica cosa succede, come viene attuata questa procedura di approvazione parlamentare? Quindici giorni prima della riunione del Consiglio dei ministri della giustizia e degli interni dell'Unione europea il ministro della giustizia e degli affari interni inviano alla Camera una cosiddetta agenda annotata accompagnata da tutta una serie di documenti. In questa agenda, in questo programma, si indicano gli elementi che sono vincolanti per il Regno e che quindi richiedono un'approvazione parlamentare. Viene anche espresso il punto di vista del governo olandese per altri punti dell'agenda o dell'ordine del giorno, come lo vogliamo chiamare, che viene coperto interamente. La Commissione permanente per la giustizia e gli affari interni, non ne abbiamo una speciale per Schengen, si consultano con i ministri prima della data del Consiglio, dopo di che, in seduta plenaria, la Camera, di solito senza dibattito perché il dibattito ha già avuto luogo in Commissione, approva formalmente il progetto di decisione per cui serve l'approvazione parlamentare conformemente agli articoli della legge per la ratifica del Trattato di Amsterdam. Una evoluzione molto recente è la seguente: il governo olandese la settimana scorsa, durante il Consiglio a Luxemburgo, il Consiglio della giustizia e degli affari interni ha comunicato di non poter collaborare fintanto che non saranno poste le condizioni per informare il Parlamento in tempo, quindi quindici giorni prima della riunione del Consiglio. E' stata posta questa questione, per cui il Consiglio dovrà mandare i documenti per tempo, cosa che finora non accadeva regolarmente. Questa idea di un periodo di quindici giorni è stata espressa in una mozione parlamentare che era stata approvata il 1° luglio di quest'anno. Nel corso di uno dei Consigli successivi sulla giustizia e gli affari interni si è tenuto un dibattito generale su questa proposta olandese e in particolare sull'informazione ai Parlamenti nazionali: quindi chiederei ai colleghi italiani di partecipare attivamente a questi dibattiti del Consiglio per quanto riguarda la giustizia e gli affari interni, cercando di ottimizzare le possibilità di controllo parlamentare, che naturalmente deve avvalersi di tutte le informazioni disponibili, i documenti devono essere quindi trasparenti e forniti per tempo. Per concludere vorrei dare un esempio concreto dei preparativi per Tampere. Il Parlamento olandese già due volte ha discusso del Vertice di Tampere. Ai primi di settembre si è tenuto un dibattito col ministro della giustizia, degli interni, il segretario della giustizia per gli affari legati all'asilo, il segretario di Stato per gli affari esteri che ha anche il portafoglio europeo sul libro bianco proposto dal governo olandese a giugno su Tampere. Quindi anche qui un controllo parlamentare a tutto campo. Il dibattito dicevo si è svolto anche alla fine di settembre, dopo l'ultimo consiglio informale dei ministri della giustizia e degli interni, e proseguirà giovedì prossimo con tutti i ministri ed i segretari di Stato interessati, con la presenza anche del primo ministro, che naturalmente rappresenterà il nostro Paese a Tampere. Quindi anche qui un controllo parlamentare a tutto campo sulle decisioni prese dal governo olandese e anche un obbligo da parte del governo olandese di informare nella massima misura possibile il Parlamento circa le posizioni prese dagli altri governi. Concludo dicendo quanto segue: i temi discussi a Tampere, legati ad aspetti che sono molto importanti per l'Olanda, che sono legati ai suoi interessi vitali, hanno enorme importanza dal punto di vista del controllo parlamentare. Le politiche dell'asilo, dell'emigrazione, della concessione di visti, ma anche altri temi altrettanto importanti come la cooperazione in campo di diritto penale sono estremamente delicati anche dal punto di vista nazionale: diventeranno però sempre più "comunitarizzati" e quindi un controllo parlamentare adeguato e approfondito è sempre più necessario. L'esperienza olandese spero potrà esservi utile.

 

FABIO EVANGELISTI

Davvero mille grazie a Jan Hoekama perché ci ha portato un prezioso contributo. Io sento il dovere di dover in qualche modo rispondere al quesito almeno iniziale che lui poneva, com'è che si è scelto questo nome: Comitato Schengen-Europol. Tutto è venuto in seguito alle leggi di ratifica della Convenzione di Schengen prima e alla legge che ha ratificato la Convenzione Europol. Il legislatore italiano ha inteso in questo modo supplire in parte al deficit democratico che poteva riguardare queste materie che facevano riferimento al terzo pilastro e quindi si è costituito un Comitato ad hoc, dieci deputati e dieci senatori, che debbono seguire questa materia. Lei dice che è un bel nome. Mi fa piacere, però debbo dire che a dispetto del nome io ho una preoccupazione. In Olanda non esiste un comitato ad hoc ma mi è sembrato di capire che la Commissione che segue queste materie gode di una considerazione da parte del governo probabilmente superiore a quella di cui gode il Comitato parlamentare italiano. In Italia si dovranno assolutamente mettere in campo modalità e procedure per poter discutere in anticipo i contenuti dei consigli GAI .

 

JURGEN HUMBURG, Funzionario Alto Commissariato Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR)

Grazie, grazie dell'invito al Comitato, al suo Presidente, al suo Vice Presidente.

Vorrei dividere il mio intervento in quattro parti, un piccolo excursus storico per meglio inquadrare la nozione del paese terzo, sicuro, legato alla questione della libertà di movimento per i richiedenti asilo; esporre poi brevemente i principi che ispirano l'operato dell'ACNUR in questo contesto e poi fare un riferimento appunto alla situazione in Italia e tentare di tirare qualche conclusione.

Libertà di movimento ovvero restrizione di libertà di movimento per i richiedenti asilo: il perché di tale situazione sembra evidente. Il richiedente asilo per definizione è una persona che non ha ancora uno status legale ben definito nel paese che lo ha accolto e non si sa ancora se sarà riconosciuto rifugiato, se quindi avrà il diritto di potersi stabilire in questo paese e pertanto sembra come dire logico il doverne restringere la libertà di movimento per quanto riguarda la possibilità di attraversare le frontiere di quel paese che lo ha accolto. E' tuttavia giusto anche illustrare che questo non è un dogma, non necessariamente deve essere così; vorrei appunto fare questo piccolo excursus storico prendendo come riferimento alcune conclusioni del comitato esecutivo dell'ACNUR , la legge italiana n. 39 del 1990, la risoluzione sul paese terzo ospitante dell'Unione europea del '92 e il nuovo disegno di legge in materia di asilo attualmente all'esame della Commissione affari costituzionali della Camera. Nel 1979, quindi venti anni fa, la conclusione numero 15 del comitato esecutivo affermava il principio che l'asilo non deve essere rifiutato per il solo motivo che avrebbe potuto essere richiesto in un altro Stato e si aggiungeva che se il richiedente ha già stabilito legami o intrattenuto rapporti stretti con questo paese, primo paese di asilo, gli può essere chiesto, se ritenuto equo e ragionevole, di presentare la sua domanda di asilo prima in questo Stato. Quindi venti anni fa esisteva una formulazione estremamente aperta e liberale della nozione del primo paese sicuro o terzo paese sicuro. Dieci anni dopo, nel 1989, la conclusione numero 58 del comitato esecutivo dell'ACNUR affermava che il richiedente asilo può essere rinviato in un paese terzo se ha già trovato protezione in questo paese, ha il permesso di rimanervi e viene trattato secondo standard umani; fino alla soluzione definitiva del suo caso, si invoca chiaramente il rispetto del principio del "non refoulement" però si aggiunge anche la regola per cui chi ha trovato protezione in un paese non dovrebbe lasciarlo irregolarmente per cercare altrove una soluzione durevole. Quindi in questa conclusione vediamo già la restrizione del concetto di libera circolazione del richiedente asilo. Tale conclusione l'abbiamo anche in una definizione molto formale, nella legge n. 39 del '90, appunto un anno dopo dove, nell'articolo 1, comma 4, lettere a) e b) c'è questo riferimento al terzo paese di asilo per dire che non è ammesso sul territorio italiano come richiedente asilo chi è già riconosciuto rifugiato in un altro paese, quindi si presume che abbia effettivamente trovato protezione in quell'altro paese oppure ha soggiornato e non solo transitato in un paese firmatario della Convenzione. In questo caso però abbiamo una definizione assai formale del paese sicuro, come paese firmatario della Convenzione, il che non tiene conto che ci possono essere dei paesi che hanno firmato la Convenzione ma non la rispettano del tutto. Nel 1992, la risoluzione dell'Unione europea sul "paese terzo ospitante" come viene chiamato, definisce alcuni criteri però più sostanziali, che riguardano anche la situazione effettiva, la situazione sotto il profilo della reale possibilità di ottenere protezione in questo terzo paese, in quanto si dice che il richiedente asilo può essere mandato in questo terzo paese ospitante se in tale paese non vi è il rischio di subire minacce contro la vita o la libertà, se vi è la garanzia di non essere sottoposto a trattamenti disumani e degradanti e se ha già avuto protezione o ha avuto la possibilità di chiederla in tale paese oppure vi sono chiare prove della sua ammissibilità in questo paese. Chiaramente viene anche qui ricordato il rispetto del principio del "non refoulement". Nel nuovo disegno di legge sul diritto di asilo, attualmente, come dicevo, all'esame della Camera, praticamente troviamo la versione identica a quella della "Legge Martelli" con l'aggiunta di un esplicito rispetto per il principio del "non refoulement", introdotto durante i lavori del Senato, nell'articolo 6, comma 6, che effettivamente tiene in considerazione la situazione reale nel paese terzo d'asilo. Quindi abbiamo visto che questa nozione del paese terzo di asilo è effettivamente un concetto che ha uno sviluppo verso una applicazione più restrittiva ed è evidente il perché: infatti a metà degli anni '80 c'era un grosso numero di arrivi di richiedenti asilo in Europa non tanto in Italia. Solo recentemente, infatti, il fenomeno coinvolge in termini numerici assai rilevanti anche l'Italia che appunto, fino a pochi anni fa, aveva numeri di richiedenti asilo relativamente bassi in confronto ad altri paesi europei, se non contiamo gli afflussi durante la crisi in Bosnia Erzegovina o gli afflussi nel '91 di albanesi o nel '97 sempre di albanesi. Tuttavia (condivido quello che ha detto il professor Barbagli: non è sempre facile ottenere dati in materia) sembra che quest'anno i richiedenti asilo saranno intorno ai 30 mila il che però, e lì arriviamo al problema che riguarda l'Italia, non significa che l'Italia attualmente sta o starà esaminando 30 mila domande di asilo. Come sappiamo, infatti, se ad esempio prendiamo in considerazione gli afflussi in Puglia vediamo che tanti di quelli che arrivano anche come richiedenti asilo (lascio un attimo da parte questioni di immigrazione, o anche chi arriva con intenzioni non del tutto limpide) quindi tra i richiedenti asilo, il tasso di quelli che tuttora considerano l'Italia un paese di transito è molto alto. Non ci sono cifre su questo, però io azzardo una stima e direi che saranno intorno al 70 o 80 per cento coloro che fanno la domanda di asilo in Italia ma non aspettano in Italia l'esito della domanda, non si presentano quindi in Commissione centrale per l'audizione, presumibilmente perché hanno lasciato il territorio italiano. Questo è un problema che va affrontato. In questo contesto la posizione dell'ACNUR, è chiaro, non è a favore di questi movimenti irregolari: quando infatti parliamo della separazione della materia di immigrazione e di asilo chiaramente come conseguenza e proprio in nome della coerenza dobbiamo anche dire che il nostro mandato e la nostra preoccupazione prioritaria riguarda la protezione dei richiedenti asilo e non i motivi generali di immigrazione, legati al pur comprensibile interesse del singolo di migliorare la situazione sotto il profilo sociale, economico, di educazione. Quindi essendo contro movimenti irregolari di richiedenti asilo per contrastare questi movimenti, oltre come dire, all'appello morale di scoraggiarli, cosa che comunque abbiamo fatto anche nelle nostre visite nei centri in Puglia, conviene, o è necessario, a nostro avviso, creare condizioni per i richiedenti asilo tali da poter rimanere nel primo paese di asilo. Questo in termini generali vorrebbe dire creare situazioni analoghe e di un certo livello nei paesi che effettivamente garantiscono la protezione, il che vuol dire l'introduzione di standard riguardanti la procedura di eleggibilità soddisfacenti, un'applicazione corretta, non direi neanche liberale o restrittiva della Convenzione di Ginevra, in particolare dell'articolo 1, e standard comuni anche sotto il profilo dell'assistenza, sia per quanto riguarda i richiedenti asilo in attesa della determinazione del loro status, sia per i rifugiati riconosciuti tali: prevedere altresì aiuti all'integrazione per far sì che la permanenza in questi paesi possa diventare una soluzione durevole per lo meno finchè perdura questo status di rifugiato. In vista del summit di Tampere l'ACNUR a questo riguardo ha chiesto di evitare che l'armonizzazione degli standard, sia procedurali che sostanziali, che sotto il profilo dell'assistenza, avvenga ai livelli più bassi, perché se in un paese poi, e soprattutto in vista delle prossime adesioni all'Unione europea, se in questi paesi si considerano come standard soddisfacenti quelli minimi a livello più basso è chiaro che l'incentivo di lasciare questi paesi per cercare una sistemazione definitiva in altri paesi dell'Unione europea permane e molto probabilmente permangono anche i movimenti irregolari. Pensiamo del resto che sia nell'interesse di tutti, anche dei paesi europei che attualmente sono quelli che ricevono i richiedenti asilo in base appunto a questi movimenti irregolari, evitare questo fenomeno che può essere indotto anche da un'armonizzazione verso il basso degli stardard di accoglienza. Per quanto riguarda l'Italia, bisogna dire che la situazione a nostro avviso non è del tutto soddisfacente per quanto riguarda soprattutto l'aspetto dell'assistenza. Sarà vero che chi arriva in Puglia, se pensiamo che in gran parte sono curdi, turchi, iracheni, voglia come meta ultima raggiungere la Germania dove c'è una grossa comunità turca, curda e anche di iracheni turchi. Tuttavia ci saranno anche delle persone che non hanno il cugino o il fratello in Germania e che sono indecisi, che vorrebbero restare in Italia e però bisogna dire che l'assistenza attualmente prevista di 45 giorni, un massimo di 45 giorni, 34 mila lire al giorno, che è nettamente al di sotto della durata media della procedura (la procedura in prima istanza dura attualmente 6, 9 mesi, fino ad un anno) non è chiaramente una soluzione che secondo noi è in grado di offrire una vita dignitosa in attesa della determinazione dello status. Vorrei quindi rivolgere un appello, proprio per voler dare un contributo nel senso di diminuire questi movimenti irregolari, a che l'Italia migliori la situazione sotto il profilo dell'assistenza per i richiedenti asilo e, in questo contesto, vorrei rivolgere anche l'appello di approvare al più presto, per quanto possibile, la nuova legge sull'asilo, il disegno di legge che attualmente è alla Commissione affari costituzionali della Camera. Spero che il termine di gennaio 2000, menzionato dal Presidente Cananzi prima, sia veramente il termine entro il quale avremo questa legge, nonostante l'ACNUR insieme ad organismi non governativi abbiano elaborato un set di proposte per emendamenti che per certi versi potrebbe essere visto come una complicazione dell'iter parlamentare, però rappresenta un contributo costruttivo alla discussione del disegno di legge per migliorare quello che già comunque consideriamo una buona base per la discussione.

 

CHRISTOPHER HEIN, Direttore del Consiglio italiano per i rifugiati (CIR)

Grazie per questa opportunità Presidente Evangelisti, grazie al Comitato Schengen-Europol per aver dato questa possibilità, pochi giorni prima del consiglio straordinario di Tampere di fare una riflessione tra personaggi così illustri, parlamentari, esponenti del governo, esponenti anche dei sindacati, del non governativo, per arrivare a Tampere tra pochi giorni con una linea italiana se si può dire così, che sia all'altezza della sfida che Tampere ci presenterà. Io parlo qui anche come membro del direttivo del Consiglio europeo per i rifugiati ed esuli, che farà una riunione parallela a Tampere questo venerdì e devo dire che tutto il mondo non governativo: enti di tutela, le chiese, i sindacati, le associazioni di difesa dei diritti dell'uomo in tutta Europa e non solo in quella comunitaria guardano verso Tampere con molta speranza. Con molta speranza dopo anni, come avete visto è il difficile percorso dell'armonizzazione dell'asilo, dopo anni dove effettivamente questa armonizzazione tra gli stati membri dell'Unione ha avuto più ostacoli che non progressi. Adesso con il Trattato di Amsterdam, con un catalogo preciso delle misure comunitarie da prendere nei prossimi cinque anni, abbiamo una base giuridica comunitaria che permette finalmente il percorso verso la piena comunitarizzazione di questo settore. Del resto si tratta di un fenomeno che riguarda tutto il continente, anche se tra paese e paese in modo diverso, che deve essere governato ed affrontato con una normativa europea. Però tuttora abbiamo la necessità di avere il consenso di tutti i quindici governi, quindi non ancora la possibilità di legiferare con la maggioranza qualificata ma solo all'unanimità e questo sarà anche a Tampere un problema, quello di trovare proprio l'accordo tra tutti. Comunque adesso esiste questa base giuridica, e abbiamo conoscenza di un documento di tre stati membri importanti, un documento congiunto tra la Germania, Francia alla quale si è pochi giorni fa aggiunto anche il Regno Unito, un documento che sottolinea chiaramente innanzitutto l'importanza e la valenza della Convenzione di Ginevra relativa alla protezione dei rifugiati del 1951. Questo è importante e l'Italia dovrebbe sottolinearlo, visto che un anno fa, sotto la presidenza austriaca, in un documento, una bozza di un documento strategico del Consiglio è stata messa in dubbio questa valenza della Convenzione di Ginevra sui rifugiati ponendo in luce il rischio di una tendenza che lascia la politica di asilo alla politica, non più considerando l'asilo come diritto, mentre in Italia, uno dei pochi paesi in Europa dove esiste un articolo preciso della Costituzione che garantisce il diritto soggettivo di asilo, l'asilo non è una disposizione delle convenienze politiche o economiche o di politica estera. L'asilo è un diritto ed è un obbligo degli stati, anche degli stati dell'Europa, di concedere asilo. Vorrei sottolineare questo aspetto perché da dieci mesi sta lavorando il gruppo di lavoro ad alto livello istituito dal Consiglio di Vienna a dicembre scorso che si occupa della situazione di sei paesi, dalla Somalia all'Afganistan dall'Albania, sotto la presidenza italiana, al Marocco e allo Sri-Lanka per cercare delle vie per affrontare la situazione dell'esodo dei rifugiati da questi paesi in modo complessivo ed organico, attraverso anche meccanismi di cooperazione internazionale, di monitoraggio del rispetto dei diritti umani e di favorire il processo democratico in questi paesi. C'è tuttavia in questi documenti che adesso saranno presentati a Tampere tra pochi giorni una tendenza, per quanto riguarda l'asilo, alla "regionalizzazione", dando quasi l'unica responsabilità degli esodi ai paesi confinanti dei paesi di origine dei richiedenti asilo: Etiopia, Kenya, Gibuti nel caso della Somalia per esempio, o Pakistan e Iran nel caso degli afgani. Noi pensiamo che è necessario certamente favorire, attraverso anche aiuti economici, la capacità ricettiva e di protezione di questi paesi confinanti a quelli in crisi, però non può essere questa l'unica risposta, non può essere l'alternativa alla responsabilità propria dell'Unione europea e dei suoi membri di garantire l'accesso alla protezione in Europa e di garantire la protezione alle persone che lo meritano e che ne hanno bisogno. Abbiamo visto in primavera di quest'anno anche da parte del governo italiano una tendenza verso una regionalizzazione dell'esodo dei rifugiati kossovari, Albania innanzi tutti, ma anche Macedonia ed altri paesi del sud dei Balcani, con motivi certamente validi; però in un certo momento anche qui abbiamo dovuto cambiare la linea, quando era evidente che la Macedonia non poteva più sopportare la presenza di centinaia di migliaia di esuli kossovari e quindi è scattata l'operazione del trasferimento umanitario da Skopier a Comiso. Questa è una lezione da imparare per il futuro, per analoghe situazioni, e con questo vorrei sottolineare un punto che più di altri ci sta a cuore e per il quale l'Italia si dovrebbe fare, secondo noi, portavoce anche a Tampere: le modalità con cui arrivano i rifugiati nel territorio dell'Unione europea. Oggi arrivano al 95 per cento in modo illegale, attraversando l'Adriatico, attraversando il fiume Oder, attraversando le montagne, con rischi, con morti e con, chiaramente, un aumento della criminalità organizzata internazionale dei traffici di persone. L'Italia, che è uno dei principali paesi di frontiera esterna dell'Unione europea, dovrà insieme con i partner cercare modi alternativi a quello dell'arrivo illegale attraverso i trafficanti di persone, dovrà aprire canali di arrivo legale e protetto, sempre sulla base di una attenta armonizzazione anche di un tale appoggio a livello comunitario e quindi questo sarebbe, insieme con la necessaria repressione del traffico internazionale di persone una risposta del futuro. Finisco con un paragone forse un po' azzardato: l'Italia, negli ultimi anni, ha affrontato il problema della evasione fiscale non solo con meccanismi repressivi, ma anche dando una specie di incentivo indiretto per esempio nell'edilizia, che praticamente costringe economicamente le persone a pagare le tasse perché c'è un vantaggio. E' un ambito molto lontano da quello di cui stiamo parlando, però penso che si potrebbe pensare, come esempio per combattere l'illegalità, l'illegalità dell'arrivo, ad una possibilità alternativa alle persone che sono costrette a fuggire dal proprio paese per cercare protezione qui.

 

ENRICO LETTA, Ministro per le politiche comunitarie

Grazie. E' stata già sottolineata l'importanza del momento temporale nel quale si svolge questa giornata. Io entro subito nel merito delle questioni. Venerdì e sabato il Vertice di Tampere è un appuntamento al quale il governo italiano assegna grande importanza, un appuntamento che è stato fortemente voluto, che non vogliamo si trasformi in un momento di formalizzazioni, di impegni teorici, ma che vogliamo fortemente siano due giornate dalle quali escano contenuti concreti. Io voglio fare alcune riflessioni molto concrete e precise che seguono l'audizione che trovate poi nel testo dell'indagine. Parto però da un titolo generale che vuole essere un po' il titolo che voglio dare a questo intervento conclusivo. Il titolo generale è questo: questa è una materia che formalmente è già stata comunitarizzata, almeno in gran parte, perché complessivamente il terzo pilastro è comunitarizzato, lo è attraverso il Trattato di Amsterdam, lo è perché negli anni scorsi è stato individuato questo come il pilastro sul quale far fare passi di comunitarizzazione maggiore. Ai primi anni '90 e in seguito al Trattato di Maastricht dei due pilastri intergovernativi sembrava che si dovesse dare maggiore accelerazione in termini di comunitarizzazione al secondo, quello sulla politica estera di sicurezza comune, poi nei fatti, invece, alla metà degli anni '90, ha cominciato a prevalere l'esigenza politica che i governi dei quindici e che le istituzioni comunitarie hanno voluto dare di dare un'accelerata alla comunitarizzazione del terzo pilastro. Formalmente, in gran parte, questa comunitarizzazione è avvenuta con l'incorporazione dell'acquis di Schengen nel quadro giuridico dell'Unione europea anche se si ha però la netta impressione che a questa comunitarizzazione formale non siano seguiti oggi passaggi di tipo concreto, di tipo pratico. Io credo che questo debba essere l'esito del consiglio e l'impegno del consiglio di Tampere, cioè la necessità, per esempio, che da Tampere nasca un mandato del consiglio alla Commissione a elaborare direttive comunitarie su questa materia. Io credo che se si arrivasse a questo punto, il vertice di Tampere rappresenterebbe un successo, perché questo vorrebbe dire che la comunitarizzazione è avvenuta veramente e che i meccanismi di regolamentazione sono meccanismi reali, non legati soltanto alla necessità di armonizzare. E' necessario, in altri termini, che lo strumento giuridico tipico della comunitarizzazione, che è la direttiva comunitaria, venga effettivamente messo in azione. Questa è, secondo me, la priorità di Tampere, che è una priorità trasversale rispetto ai singoli temi di Tampere, ma essenziale, perché se non si passa attraverso questo salto di qualità io credo che la difficoltà complessiva della materia a livello comunitario, a livello europeo rimane tutta, su una materia che formalmente è comunitarizzata, ma che non può certo dirsi oggi incastonata nel primo pilastro comunitario in termini di regole, procedure, modo di fare e modo di essere. Parto facendo un riferimento al documento complessivo, perché questo è il punto di partenza dal quale prende spunto la giornata di oggi. Il documento è una fotografia preziosa dei caratteri e del contenuto del processo che ha condotto all’incorporazione di Schengen nell’Unione europea, è un esempio di come il Parlamento possa svolgere un ruolo di rilievo nella formazione nelle posizioni sulle questioni comunitarie, acquisendo informazioni, ascoltando opinioni e idee che emergono nel Paese e facendo informazione, proponendo dati e chiavi di lettura che costituiscono un punto di riferimento importante nel dibattito nazionale sui temi europei. Toccherò tre brevi cenni che credo, dopo anche le cose che ho sentito possono essere significativi. Parto da una tensione, un piccolo paradosso, che caratterizza il discorso pubblico sui temi dello spazio di libertà, di giustizia e di sicurezza nell’Unione. Questi temi sono diventati un obiettivo centrale, prioritario dell’azione delle istituzioni comunitarie nel momento in cui, con Amsterdam, entrano nel quadro del primo pilastro, almeno formalmente, e si intrecciano strettamente con il concetto di Mercato interno, come spazio senza frontiere all’interno del quale è assicurata la libertà di circolazione delle persone e dei fattori produttivi.

Nel Trattato e nei documenti che il Consiglio dell’Unione ha elaborato in preparazione del Consiglio straordinario di Tampere è frequente il ricorso alle immagini e ai termini tipici dell’esperienza del Mercato interno per descrivere gli obiettivi e i metodi per la costruzione di uno spazio giuridico comune, ad esempio la fissazione di un termine di cinque anni per l’adozione del programma legislativo tracciato dal trattato, la previsione di un mix di strumenti giuridici, quali l’armonizzazione, la creazione di norme con standard

minimi, l’applicazione del principio del mutuo riconoscimento, e infine l’accento posto sulla necessità di rimuovere ostacoli giuridici alla cooperazione.

Prevale, in sintesi, se rivediamo tutti questi titoli che ho appena citato, una impostazione di integrazione negativa quando parliamo di standard minimi, mutuo riconoscimento ecc.

Eppure il significato profondo della novità, della rottura segnata dal Trattato di Amsterdam sta proprio nell’idea di andare oltre la concezione delle misure di sicurezza interna e di cooperazione giudiziaria come misure destinate a compensare la progressiva scomparsa delle frontiere interne.

L’ambizione di creare uno spazio di libertà di sicurezza e di giustizia europea è l’ambizione di creare uno spazio di diritti e di libertà condivisi che rendano effettiva la cittadinanza europea.

Se le cose stanno così, il problema che ha di fronte il vertice di Tampere non è quello di dare un ordine ad una lista di misure indicate dal Trattato o entrate recentemente nell’agenda politica europea, ma di trovare le forme e il consenso politico su un progetto di ridefinizione delle coordinate fondamentali di un elemento decisivo per l’identità e la qualità della costruzione europea. Di trovare cioè un nucleo comune di valori, a partire dai quali affrontare i singoli problemi concreti.

In questo senso può diventare anche meno sorprendente l’importanza e il rilievo assolutamente centrali che nell’Europa del dopo euro hanno acquisito i temi di cui discutiamo oggi. L’esempio dell’esperienza americana ci ammonisce che il tessuto giuridico federale è nato proprio sul terreno del diritto penale e della necessità di assicurare tutela giuridica a situazioni che si verificano all’interno di uno spazio economico integrato.

La costruzione di uno spazio giuridico comune merita quindi il massimo di attenzione e di energia perché costituisce il banco di prova su cui l’Unione europea, dopo l’introduzione dell’euro, deciderà quale sarà la sua identità e la sua natura politica nei prossimi decenni.

Per questo credo importante che il Vertice di Tampere sappia dare un senso di direzione comune a cui guardare nei prossimi anni, oltre a indicare priorità e tempi concreti per una serie di misure necessarie per dare l’idea che lo spazio di libertà e di giustizia è una realtà concreta e che esiste una capacità di risposta europea alle preoccupazioni che salgono dalle nostre società.

Secondo tema, collegato strettamente, è quello di una definizione dei diritti e delle libertà fondamentali dei cittadini europei che si muoveranno all’interno dello spazio comune europeo.

Forse è opportuno ripensare alla sequenza tipica del modo di procedere funzionalista che ha finora ispirato l’azione comunitaria su questi temi: integrazione economica, integrazione delle strutture e delle norme connesse alla libertà di circolazione delle persone, definizione poi di una identità politica e di una carta costituzionale. Non è rinviabile un impegno per la redazione di una Carta europea dei diritti dell’uomo, una Carta che stabilisca una serie di diritti e di tutele effettive. Senza una carta dei diritti fondamentali rischiano di rimanere insolubili anche molti nodi che restano per la costruzione di uno spazio giuridico comune, penso alla questione della concessione di effettivi poteri operativi a Europol, che richiede adeguate misure di controllo giurisdizionale od anche al riconoscimento immediato delle sentenze.

Terzo e ultimo tema, che attraversa tanto l’esperienza dell’integrazione di Schengen quanto la sfida per uno spazio giuridico europeo: quello di un adeguato quadro istituzionale, tanto europeo che nazionale, per il governo delle politiche della sicurezza.

Nella vicenda dell’esperienza federale americana lo spazio giudiziario comune si sviluppa dal basso, come diritto giurisprudenziale, ma va a riempire un perimetro già segnato da istituzioni giudiziarie e politiche.

L’esperienza europea ha seguito e seguirà traiettorie diverse, perché ha una tradizione giuridica diversa a cui corrisponde un atteggiamento differente alla soluzione dei problemi sociali. Un approccio in un certo modo costruttivista, dove le soluzioni sono pensate e attuate dal legislatore e calate poi nella realtà. Il processo di costruzione dello spazio di libertà di sicurezza e di giustizia è, in fondo, un processo che nasce dall’ingegneria giuridica dei governi e delle istituzioni comunitarie. Le tappe che hanno segnato sino ad adesso questo percorso, Amsterdam, il Consiglio di Cardiff, il consiglio informale di Portschack, la decisione di convocare il Consiglio straordinario di Tampere, l’adozione del Piano d’azione congiunto della Commissione e del Consiglio da parte del Consiglio di Vienna, hanno visto come protagonisti essenzialmente i governi. Questo ovviamente non basta.

C’è una crescita di ruolo della Commissione europea, che acquista un potere di iniziativa, seppur in condomino con gli stati membri nel corso del periodo transitorio di cinque anni e che si è attrezzata a questa nuova responsabilità con la revisione delle proprie strutture. Considero che questo del ruolo della Commissione europea sia uno degli aspetti decisivi della decisione di Tampere e delle decisioni operative dei prossimi mesi.

Non c’è invece ancora un ruolo incisivo degli organismi parlamentari, tanto europei quanto nazionali. Il Parlamento europeo con la sua Commissione per le Libertà pubbliche ha seguito con attenzione l‘evoluzione di questo settore, così come dimostra anche la risoluzione adottata in seduta plenaria lo scorso 15 settembre in vista di Tampere, ma non è stato consultato sull'integrazione di Schengen ed avrà un ruolo consultivo nei primi anni di sviluppo dello spazio giudiziario comune, gli anni decisivi per la sua formazione e la sua fisionomia. Credo che questo secondo tema, il ruolo del Parlamento europeo, ridiventa anche questo tema decisivo per una comunitarizzazione reale, soprattutto per un collegamento reale come territorio comunitario.

Sul piano nazionale non ho bisogno qui, in questa sede, di sottolineare l’impegno svolto dal Parlamento italiano, come significativo è stato l’impegno di altri Parlamenti nazionali, quello inglese, quello francese, quello olandese. Abbiamo parlato spesso sia nel Comitato Schengen ma anche nella Commissione XIV della Camera e nella Giunta al Senato delle forme e dei modi attraverso i quali può fare un salto di qualità nel nostro paese la partecipazione delle due Camere alla fase ascendente di formazione della posizione italiana in vista delle decisioni comunitarie. Questo fa parte di un lavoro complessivo che il paese nel suo complesso sta cercando di fare perché si colmi un vuoto che in Italia è strutturalmente esistito negli anni scorsi, un vuoto di scarsa abitudine ad attuare la fase ascendente, di scarsa abitudine a presentare una posizione nelle istituzioni comunitarie dove si decide, che sia una posizione che rappresenta già un'elaborazione compiuta all'interno degli organi che rappresentano il paese. Da questo punto di vista in questi mesi credo che si sia, sia stato questo almeno, forse il più impegnativo punto di impegno del ministero delle politiche comunitarie, avendo individuato nell'assenza di questa fase ascendente di preparazione della posizione nazionale, o nel farla male, uno dei motivi per cui l'Italia è così carente nella fase di applicazione del diritto comunitario nel nostro ordinamento interno, perché è evidente che quando non vi è un coinvolgimento preventivo di quelle istituzioni, di quegli organi che devono poi approvare, applicare il diritto comunitario una volta che questo viene deciso dalle istituzioni comunitarie salta un meccanismo che invece è essenziale. Quello sul quale ci stiamo muovendo è una forma di coinvolgimento che parta da alcune priorità. Prima priorità è il coinvolgimento degli enti locali, delle regioni, delle grandi città. Siamo reduci da due giorni a Palermo, venerdì e sabato, nei quali le regioni italiane, i comuni, le province si sono incontrati con il governo nazionale per definire le forme ed i modi attraverso i quali rendere questo rapporto tra le autonomie locali e il governo nazionale nei confronti di Bruxelles un rapporto non più di "tentativo" del governo nazionale di far passare tutto attraverso Roma e attraverso i canali diplomatici, che ormai sono insufficienti per tutto il corpo di ricchezze e di iniziative che partono dalle autonomie locali e che cercano un raccordo con Bruxelles. La concomitanza della partita dei fondi strutturali, di Agenda 2000, del quadro comunitario di sostegno 2000 e 2006 di cui saranno protagonisti gli enti locali e le autonomie locali rende ancora più stringente questa necessità. Sono uscite alcune decisioni importanti da Palermo, non voglio più di tanto sottolineare questo aspetto, ma il problema riguarda poi il ruolo del Parlamento anche se evidentemente, questo aspetto è più rilevante. Tra le iniziative emerse in ambito locale, abbiamo individuato una idea, che è quella di fare strutturalmente alcune iniziative di coinvolgimento delle autonomie locali, la prossima sarà quella di svolgere la sessione comunitaria della conferenza Stato-regioni a Bruxelles coinvolgendo anche i rappresentanti delle città, quindi fisicamente dando l'idea che vi è un lavoro comune di governo e autonomie locali.

In secondo luogo rispetto alle parti sociali, agli imprenditori, ai sindacati, alle associazioni di categoria, che sono poi in gran parte coloro che vengono toccati dalle direttive comunitarie, verrà compiuto semestralmente un lavoro di concertazione con i rappresentanti appunto delle categorie imprenditoriali, dei sindacati, delle associazioni di categoria, sul programma legislativo della Commissione europea, quindi sulle direttive che verranno.

Terzo punto, la questione del Parlamento. E' evidentemente una questione importante, rilevante. Considero comunque che qualche passo in avanti, anche se in modo ancora insufficiente, perché evidentemente non è stato fatto in modo strutturato, è stato fatto, attraverso l'inizio di un invio di materiale e l'inizio di una presenza del governo nella fase ascendente del procedimento decisionale maggiore sicuramente rispetto a quanto è accaduto nel passato. Il problema qui naturalmente non è tecnico, ma di scelta. Quale tipo di modello di partecipazione parlamentare decidiamo di individuare. Io credo che questo debba essere oggetto di una riflessione comune. In Europa abbiamo modelli diversi, abbiamo il modello della Danimarca, che è un po' il modello di riferimento di tutti coloro che vedono la presenza del Parlamento, diciamo il massimo di presenza parlamentare, nel momento in cui si decide. E' noto che in Danimarca, esiste una clausola per cui nelle decisioni dei consigli europei tante volte i negoziatori danesi, i rappresentanti danesi, chiedono tempo perché ad horas hanno la possibilità di una decisione parlamentare sulla posizione che il governo va a prendere. Vi sono ovviamente considerazioni positive e negative su questo tipo di strumento. Positive perché evidentemente a quel punto la posizione che il governo danese porta, che il governo in questione porta, è una posizione che non avrà sorprese in un secondo momento, quando sarà formalizzata e dovrà essere applicata. Il Parlamento non potrà infatti fare la sorpresa di non approvare, di non considerare la decisione assunta dai negoziatori. Ma presenta anche ovviamente delle ombre, nel senso che nel momento nel quale si va verso ad una ulteriore corsa, ad una maggiore comunitarizzazione, ad uno spirito comunitario delle decisioni europee, verso uno spostamento sul Parlamento europeo e sulla Commissione europea di un maggior numero di poteri decisionali togliendoli dal Consiglio, questa rischia di essere una forma, se estremizzata, di rinazionalizzazione di alcune decisioni.

Il secondo punto è quello, io lo enuncio soltanto perché è un problema di autonomia degli organi costituzionali della Camera e del Senato, di come viene organizzato il lavoro da Camera ed Senato, perché è evidente che se vi è la necessità di tempi eccessivamente lunghi, come ogni tanto capita; se non vi è, come per esempio nel nostro Paese, una specularità di organismi interni alle due Camere (la Camera dei deputati ha una commissione speciale XIV sui temi dell'integrazione europea, che funziona in tempo reale ed il Senato non ha una Commissione per gli affari comunitari permanente) questo ovviamente crea un problema di diseguaglianza tra le due Camere. Questo è il complesso dei problemi. Credo che vi sia, io lo vedo, il governo la vede, la necessità di un approfondimento di questa materia e la necessità insieme di arrivare a delle forme attraverso le quali, come dicevo prima, il completamento delle modalità di creazione della fase ascendente del paese, della posizione paese, faccia sì che l'Italia, chiunque la rappresenti a Bruxelles in quel momento, sia, abbia una posizione condivisa. Evidentemente questo passa dalla necessità che vi sia un meccanismo di questo genere. Ho individuato i tre grandi temi: le istituzioni parlamentari, le parti sociali, il mondo delle autonomie locali. Individuo nel riuscire attorno a questi tre momenti a superare i problemi e le difficoltà che abbiamo avuto nel passato un modo per riuscire a far fare un salto di qualità fondamentale. E' ovvio poi, ma questo è scontato dirlo, che l'altro grosso problema è che il governo riesca sempre a presentare una posizione unitaria nei confronti delle istituzioni comunitarie. E il tema di cui stiamo parlando è un tema chiave da questo punto di vista perché è molto trasversale rispetto alle competenze dell'amministrazione. Credo che su questo tema vi sia la possibilità di fare molti passi in avanti, a partire dall'esperienza del Comitato Schengen e dall'esperienza di questa materia, che è una materia che tocca molto più di altre l'attenzione ed il ruolo di rappresentatività dei parlamentari, perché oggi evoca un'attenzione ed un interesse da parte della vasta opinione pubblica. Per quanto ci riguarda siamo disponibili a studiarli insieme e credo che l'occasione di oggi sia un'occasione che abbia dimostrato come, anche per il tempismo con la quale si è svolta, questi passi avanti fanno sicuramente bene all'Italia.

 

UMBERTO VATTANI, Segretario Generale del ministero degli affari esteri

Sono lieto di poter accogliere, a nome del Ministro Dini, il cortese invito ad intervenire sul tema dell’imminente Consiglio Europeo di Tampere, e ad esporre le linee essenziali della posizione italiana in vista di questo Vertice.

Come noto, quello di Tampere sarà il primo Vertice di Capi di Stato e di Governo interamente dedicato ai temi della Giustizia e degli Affari Interni. A testimonianza della crescente sensibilità nei confronti di questo settore di competenze dell’Unione, è nata l’idea di un Consiglio Europeo straordinario dedicato espressamente ai temi della cooperazione nel campo della giustizia e degli affari interni approvata, come loro sanno, dal Consiglio Europeo di Vienna nel dicembre dell'anno scorso, insieme al Piano di Azione per la creazione di uno "spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Tale Piano, alla cui elaborazione da parte italiana si è molto contribuito, costituisce un dettagliato programma di lavoro per la realizzazione di politiche comuni nel campo dell’immigrazione, dell’asilo, dei controlli alle frontiere e della cooperazione giudiziaria civile (settori che, come noto, sono ormai incorporati nel quadro comunitario con il Trattato di Amsterdam), così come per il rafforzamento della cooperazione giudiziaria penale e di polizia (queste ultime invece, come noto, sono rimaste nell‘ambito intergovernativo e di fatto costituiscono il terzo pilastro).

Su un piano generale, da parte italiana si auspica che dal Vertice di Tampere emerga un forte e visibile segnale politico di impulso ai lavori dell’Unione nel settore della Giustizia e degli Affari Interni, in grado di accelerare l'elaborazione, e successivamente l'attuazione, di una politica comune dell’Unione nei settore dell’immigrazione e dell’asilo, e di far avanzare l’idea, che non è nuova, di uno spazio giudiziario comune, in cui risulti potenziata e agevolata la lotta al crimine. Abbiamo insistito da ultimo, in occasione della venuta a Roma del primo ministro finlandese Lipponen, sul carattere propulsivo e sulle incidenze operative che dovrà avere il Consiglio Europeo, per evitare che esso si limiti a ribadire obiettivi già enunciati nei Trattati, o che sono stati successivamente individuati nel quadro del Piano di Azione. Le conclusioni di Tampere dovrebbero quindi, a nostro avviso, consentirci di passare all’esame di proposte concrete e a decisioni operative.

Tre sono le aree prioritarie che la Presidenza finlandese ha indicato come assi intorno ai quali si articoleranno le conclusioni del Consiglio. Per ognuna di queste, qualche settimana fa sono state elaborate, di concerto con i Ministeri dell’Interno e della Giustizia, una serie di proposte italiane che riassumono le nostre priorità e che noi abbiamo già utilizzato nei contatti bilaterali con i nostri partner nella fase preparatoria del Vertice. Ne sintetizzerei qui di seguito gli aspetti di maggior interesse.

In primo luogo il settore dell’immigrazione e dell’asilo. Siamo convinti che nel campo della politica migratoria esista una comune e condivisa esigenza di una forte differenziazione tra il fenomeno della immigrazione legale e quello dell’immigrazione clandestina o irregolare. Cosi’ come dovrebbe esistere una obiettiva convergenza verso forme di disciplina comune sia dell’uno che dell’altro aspetto. Siamo anche convinti che sia difficile, per non dire impossibile, accettare l’idea di una immigrazione a tasso vicino allo zero, cosi’ come dovremmo evitare di avvalorare l’ipotesi di una Europa "fortezza", anche in questo settore, chiusa e sulla difensiva di fronte a fenomeni che possono anche contribuire alle economie dei Paesi membri.

Per quanto riguarda le presenze legali, riteniamo che ci si debba muovere verso l’ipotesi di regole comuni non solo in materia di ammissione e soggiorno, inclusa la concessione di visti, ma anche di diritti sociali, educazione, accesso al lavoro, acquisto della nazionalità, con l’obiettivo ottimale di giungere ad uno status non eccessivamente difforme della condizione dello straniero all’interno dell’Unione. Nel far questo si dovrebbero prevedere opportuni margini di flessibilità, cosi’ da consentire di tenere conto di situazioni particolari proprie di ciascuno Stato membro, con la conseguenza che quindi probabilmente lo strumento più idoneo dovrebbe essere quello della direttiva comunitaria, che, come noto, consente di fissare obiettivi minimi comuni, lasciando un margine di discrezionalità agli Stati membri per la loro realizzazione.

Particolarmente importanti sono per noi le questioni connesse al regime dell’asilo e delle altre forme di protezione , anche a causa del preoccupante squilibrio che si registra a svantaggio degli Stati europei di frontiera come l’Italia.

Condividiamo pienamente in questo campo l’esigenza di adottare norme minime comuni vincolanti sulla definizione degli aventi diritto, sulle procedure di riconoscimento, e sul trattamento complessivo da riservare ai rifugiati. Tali norme potrebbero costituire un vero e proprio Codice europeo sull’asilo. Ed anche in questo caso riteniamo che una direttiva comunitaria dovrebbe costituire lo strumento più idoneo, per la flessibilità che lascia agli Stati membri sul piano applicativo.

Pur condividendo peraltro l’esigenza di "comunitarizzare" alcuni specifici profili dell’asilo attraverso l’adozione di un Codice europeo sull’argomento, non possiamo trascurare i rischi per noi della comunitarizzazione del principio, attualmente sancito in un atto intergovernativo quale la Convenzione di Dublino, che attribuisce la competenza — e dunque gli oneri - ad esaminare una domanda di asilo agli Stati membri di prima accoglienza collocati sulle frontiere esterne dell’Unione. Su di essi, oltre a quelle appena descritte gravano anche responsabilità ed oneri associati all’afflusso massiccio ed improvviso di profughi ed alla conseguente adozione di regimi di protezione temporanea. L’eventuale definizione di norme comuni relative alla concessione dello status di rifugiato rischierebbe quindi di tradursi in un ulteriore onere per tali Stati membri se non venissero accompagnate da adeguate misure di solidarietà, nel quadro di un concetto "responsibility sharing", che e’ tra l’altro previsto dal Trattato di Amsterdam all’art.63, e sul quale intendiamo insistere per un suo adeguato recepimento nelle conclusioni del Vertice di Tampere.

Si dovrebbe in altre parole evitare di fissare il principio di norme comuni vincolanti in materia di protezione temporanea, e ciò sia nel caso dei rifugiati ai quali può essere concesso l’asilo politico, sia nel caso di massicci fenomeni migratori temporanei, senza associarvi misure di solidarietà. Questo potrebbe aver luogo sia attraverso una ridistribuzione delle persone, che, in subordine, con una opportuna ridistribuzione degli oneri finanziari. La gestione delle crisi e dei relativi oneri potrebbe essere così ripartita più equamente fra gli Stati membri all’interno dell’Unione, anziché essere lasciata a carico dei soli Stati di frontiera più vicini, e quindi più esposti, alle regioni colpite dagli eventi drammatici che sono all’origine dei flussi migratori, come di recente è stato il caso per l’Albania e per il Kossovo.

Sul fronte della lotta alla immigrazione clandestina, e al problema della tratta di esseri umani, l'inequivocabile transnazionalità del fenomeno richiede una sinergia degli sforzi e politiche comuni, anche per ciò che riguarda, allorquando la via comunitaria risulti preferibile, perchè più efficace, rispetto a quella bilaterale, l’adozione di norme comuni in materia di espulsioni e la conclusione di accordi di riammissione comuni. Per questi ultimi dovremmo prevedere una situazione in cui sia possibile di volta in volta valutare se convenga procedere attraverso lo strumento comune o tramite accordi bilaterali di tipo tradizionale. In questo settore dovremmo anche essere in grado di prevedere forme di cooperazione fra le forze di polizia in grado assicurare un migliore controllo delle frontiere esterne dell'Unione, che sono ormai frontiere comuni, e che quindi dovrebbero costituire fonte di legittima preoccupazione comune.

Per quanto riguarda la costruzione di uno spazio giudiziario comune, vorrei ricordare che il documento di lavoro italiano propone una serie di obiettivi precisi, complessivamente riconducibili all’opportunità di elaborare una disciplina omogenea, sia sul piano sostanziale sia su quello procedurale, per aspetti che coinvolgono ad esempio il diritto di famiglia, lo stato civile o l’anagrafe dei residenti. Tutto questo nel contesto di una società europea sempre più mobile, e con l’obiettivo di arricchire la nozione di cittadinanza europea, per farne a sua volta condizione per una reale libertà di movimento entro uno spazio giuridico e giudiziario per quanto possibile uniforme.

Dovremmo inoltre pervenire ad un sistema di riconoscimento tendenzialmente automatico delle sentenze e delle procedure in materia civile e commerciale, attraverso l’armonizzazione delle regole sostanziali e procedurali e di quelle applicabili nelle controversie transfrontaliere. Così come dovremmo cercare di realizzare una semplificazione dei sistemi di notificazione e della cooperazione nella assunzione di mezzi di prova, il superamento del principio dell"’exequatur", e lo sviluppo di forme comuni di mediazione e arbitrato pre-processuale per facilitare l’accesso dei cittadini europei alla giustizia civile.

Anche sul piano della cooperazione in materia di polizia e di giurisdizione penale, il terzo dei capitoli dell’agenda della presidenza finlandese, il percorso da noi indicato mira ad armonizzazioni e ravvicinamenti che concernono sia il diritto sostanziale che quello procedurale. Si è in tal senso proposta l' individuazione di reati e sanzioni comuni, con particolare riguardo alla criminalità organizzata, alle frodi comunitarie, al riciclaggio del denaro sporco, al traffico di stupefacenti, alla tratta di esseri umani, al terrorismo, ai reati informatici alla pedofilia ai reati contro l’ambiente, al razzismo e alla xenofobia. E si è proposta una collaborazione diretta tra le autorità giudiziarie dei diversi stati membri, con effetti processuali immediati nei rispettivi ordinamenti, nonché il riconoscimento automatico dei procedimenti giudiziari e la costituzione di un pubblico ministero europeo.

L’esperienza del "caso Ocalan" ci ha inoltre indotto a proporre che le richieste di estradizione debbano essere immediatamente esecutive, e che i mandati di cattura emessi dalle autorità di uno Stato membro debbano essere direttamente esecutivi su tutto il territorio dell'Unione.

Sul piano della cooperazione di polizia riteniamo che si dovrebbe assicurare una adeguata valorizzazione del ruolo di Europol, con la sua piena entrata a regime, e con l’estensione del suo mandato ad altri settori dell’illecito, ad esempio in particolare al traffico di armi o ai reati ambientali. Abbiamo proposto di assicurare da un lato l’uso e la validità in giudizio delle fonti di prova acquisite da operatori di polizia impegnati in altri Stati membri, e dall’altro il riconoscimento al personale di polizia operante all’estero della qualifica di agente ufficiale di polizia giudiziaria. Ed abbiamo anche proposto di costituire un’Accademia Europea di Polizia, che potrebbe avere la sua sede a Roma, per organizzare corsi per operatori di polizia di tutti gli Stati membri eventualmente con finanziamenti a carico del bilancio dell’Unione.

Sotto il profilo metodologico e procedurale, il Consiglio europeo di Tampere dovrebbe, a nostro avviso, indicare con chiarezza le modalità attraverso le quali l’Unione europea e i suoi Stati membri potranno dar seguito a ciascuna delle priorità individuate; dovrebbe fissare scadenze precise per la loro attuazione; e dovrebbe definire un meccanismo di monitoraggio che consenta di tenere sotto controllo il processo di attuazione degli impegni assunti. Si tratterebbe in altri termini di mettere a punto un itinerario, una "road-map" che consenta di passare dall’enunciazione di principi e obiettivi di carattere generale alla fase degli impegni concreti e operativi con il relativo calendario di attuazione.

Vorrei aggiungere che condividiamo pienamente l’iniziativa finlandese di far emergere dalle conclusioni del Consiglio Europeo di Tampere il consenso su un più deciso inserimento degli obiettivi in materia di Giustizia e Affari Interni, finora prevalentemente interpretati in chiave di tutela della sicurezza interna degli Stati membri e dei cittadini dell’Unione, nel quadro dell’azione esterna dell’Unione, quindi della politica estera dell'Unione. Si tratta di un’idea che abbiamo sempre sostenuto e per la quale confidiamo in una rapida definizione di metodi e obiettivi per la sua realizzazione. Siamo convinti della necessità che l’azione dell’Unione nei confronti di Paesi terzi o organizzazioni regionali debba essere ispirata da principi di efficacia e coerenza e che quindi, nel contesto di tali azioni, le misure nel campo della giustizia e degli affari interni debbano trovare una collocazione adeguata insieme agli strumenti tradizionali della politica estera comune.

Vorrei infine menzionare che è intenzione del Governo italiano, proprio in tale contesto, rilanciare a Tampere l’iniziativa per una Conferenza appositamente dedicata ai problemi della regione Adriatica, nel cui quadro sia possibile affrontare i problemi della cooperazione finalizzata a garantire condizioni di sicurezza, a risolvere i problemi dell’immigrazione illegale e della lotta contro la criminalità organizzata, con la partecipazione non solo dei Paesi rivieraschi, ma anche dell'Unione e di tutti i suoi Stati membri. Si tratta di una regione che è per noi fonte di speciale preoccupazione e per la quale ci auguriamo di riuscire a coinvolgere l’interesse e l’impegno di tutta l’Unione con la definizione di misure e iniziative comuni all’altezza della sfida. Ma non intendiamo restringere i lavori di questa conferenza adriatica esclusivamente a questo carattere repressivo e negativo, ma valorizzare insieme le possibilità di uno sviluppo comune di quest'area, della sicurezza della navigazione, della protezione dei dati ambientali, delle risorse ittiche, dei trasporti e dell'incentivazione per il turismo, e quindi vorremmo vedere i problemi dell'area adriatica come un insieme nel quale operano due paesi membri della Comunità come la Grecia e l'Italia, altri paesi che sono candidati ed altri infine che lo saranno forse in un periodo più lontano, ma valorizzandolo e mettendo insieme quello che costituisce di fatto un interesse comune. Vorrei ringraziare molto il Presidente per la cortesia che mi ha fatto; mi sono dovuto addentrare anche in alcuni aspetti che verranno con molta maggiore competenza e attenzione sviluppati dal ministro dell'interno e da altre autorevolissime personalità presenti in questo tavolo, ma pensavo che forse, dal punto di vista degli esteri, la preparazione di questo Consiglio è stata fatta, per forza di cose, di comune accordo con altri ministeri ed il risultato è questa azione che noi abbiamo presentato, anche da ultimo, al Presidente finlandese e rappresenta per l'appunto una posizione comune alla quale i ministeri interessati lavorano con grande impegno e con un'attenzione senza precedenti.

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