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Doc. XXIII n. 47


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4. Le grandi imprese e gli illeciti nel ciclo dei rifiuti.

4.1 Il petrolchimico di Porto Marghera (VE).

La Commissione ritiene opportuno evidenziare le vicende relative al gravissimo stato di inquinamento della laguna veneziana, ad esemplificazione delle conseguenze connesse agli smaltimenti illeciti di rifiuti tossico-nocivi (ampiamente diffusi nelle regioni settentrionali) da parte di alcune imprese di rilevanza nazionale che hanno operato al di fuori della legalità, più inclini, purtroppo, alla ricerca del massimo profitto che non ad uno smaltimento corretto e pertanto più oneroso dei rifiuti.
È in fase dibattimentale presso il tribunale di Venezia il procedimento che vede coinvolte numerose persone e le società che esse rappresentano - tutte operanti nel petrolchimico di Porto Marghera - per condotte illecite commesse in un periodo che va dal 1970 al 1988, che hanno causato danni irreparabili sull'ecosistema lagunare veneziano (17).
L'indagine ha preso avvio dalla segnalazione di numerosi casi di decesso e patologie connesse alla lavorazione del cloruro di vinile, dei composti organici clorurati e dei suoi derivati, con cui negli anni settanta e nella prima metà degli anni ottanta si produceva il pvc nella zona di Porto Marghera.
Sono coinvolte società come la Montecatini Edison, la Fertimon, l'Audiset e la Montefluos. Il sostituto procuratore Felice Casson, titolare dell'indagine, ha riferito alla Commissione (18) che dagli accertamenti svolti è emerso che, sin dall'inizio dell'attività produttiva nell'area di Porto Marghera, i rifiuti di ogni specie e, soprattutto, tossico-nocivi venivano smaltiti senza alcun controllo, sia all'interno dello stabilimento che nelle sue vicinanze, contribuendo al progressivo avvelenamento delle acque di falda sottostanti l'area in cui sono state rinvenute tracce di composti anche cancerogeni superiori ai limiti consentiti. Si deve evidenziare che dagli accertamenti è risultato che, al più tardi dal 1972, la Montedison era a conoscenza del fatto che il cvm è una sostanza cancerogena, sicché sembra di poter affermare che la scelta sia stata dettata unicamente da meri interessi economici.
Ben diciotto sono i siti individuati, che presentano rifiuti pericolosi, gran parte dei quali vi sono stati sversati prima dell'entrata in vigore del decreto del Presidente della Repubblica n. 915 del 1982; da


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quel momento, come ha detto il magistrato, tali rifiuti sono stati portati altrove, anche all'estero (ad esempio in Nigeria). Le contestazioni dell'organo d'accusa a carico di 27 imputati, tutti dirigenti o amministratori (o entrambi) del gruppo Montedison-Enichem e loro società figlie, sono particolarmente gravi, poiché hanno ad oggetto non solo gli smaltimenti illeciti di ingenti quantitativi di rifiuti assai pericolosi con le gravissime conseguenze sullo stato dell'ambiente di cui si è detto, avendo le società iniziato un'opera di bonifica, peraltro parziale, soltanto nell'agosto 1995; ma riguardano altresì i delitti di strage e di disastro per i concreti pericoli cagionati alla pubblica incolumità, tanto che ne sono derivate la morte e la malattia di un numero «allo stato ancora imprecisabile di persone» (così si legge testualmente nella richiesta di rinvio a giudizio) che prestavano la propria opera presso lo stabilimento petrolchimico. Decessi di cui le società hanno riconosciuto la loro responsabilità, offrendo un risarcimento pecuniario alle parti lese, che - in gran parte - hanno accettato in cambio del ritiro dal procedimento.
Se la vicenda appena descritta fa riferimento agli anni passati, non possono trascurarsi altre fattispecie riscontrate presso lo stesso petrolchimico in epoca assai recente, culminate nel sequestro dello scarico Sm15 di Porto Marghera. In ordine a quest'ultima indagine lo stesso sostituto titolare, Luca Ramacci, ha denunciato alla Commissione (19) con toni allarmati «l'impressionante situazione di inquinamento e la concreta sussistenza di serissimo pericolo per la salute della popolazione» dovuta proprio agli scarichi del petrolchimico. Si legge nel decreto di sequestro che gli indagati avrebbero effettuato o lasciato effettuare e comunque non avrebbero impedito lo scarico di reflui pericolosi provenienti dall'impianto di depurazione biologico della ditta Ambiente spa, con recapito finale nelle acque lagunari in assenza della prescritta autorizzazione, ciò pur essendo a conoscenza non solo della situazione esistente, ma anche dei risultati di accertamenti disposti sulla qualità e lo stato delle acque lagunari.
La gravità del fenomeno risulta accentuata dalle responsabilità dei rappresentanti degli enti preposti ai controlli, che hanno minimizzato il fatto ed omesso i necessari interventi a tutela della salute pubblica, anche in presenza di pregresse verifiche dell'Istituto superiore di sanità sullo stato di inquinamento della laguna veneta, acclarato anche dalla specifica normativa a sua tutela e dai numerosi procedimenti penali che avevano interessato il sito.

4.2 Traffici e smaltimenti illeciti dei rifiuti delle grandi imprese.

La Commissione deve poi rilevare che quelli evidenziati per Porto Marghera non sono gli unici episodi che vedono coinvolte aziende del gruppo Eni per quanto concerne la non corretta gestione dei rifiuti. Oltre al caso - già descritto - relativo alla Pertusola Sud di Crotone, va segnalato che a Matera pende in primo grado un processo sulle attività svolte dall'Agip nel territorio della Basilicata, in cui sono imputati alcuni dirigenti e dipendenti dell'azienda in relazione al


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ritrovamento, in un pozzo minerario esaurito, di rifiuti di origine chimica (come fenoli e mercurio) che, secondo gli accertamenti svolti, sono assolutamente incompatibili con le attività di estrazione mineraria e, quindi, sono stati smaltiti illecitamente. Lo stesso sostituto titolare delle indagini ha rappresentato inoltre alla Commissione l'assenza di un presidio costante ai pozzi Agip ed il fatto che le vasche di decantazione presenti nell'impianto sono accessibili agli smaltitori che hanno l'appalto per il servizio di trasporto delle acque di strato, i quali si occupano di smaltimenti di rifiuti in discarica e, quindi, gestiscono notevoli quantitativi di rifiuti, non solo di provenienza Agip.
In Lombardia, la procura di Monza ha sequestrato circa 120 mila metri cubi di rifiuti pericolosi in relazione all'attività di una società - la Ecobat - che assorbe circa il sessanta per cento del mercato nazionale relativo al trattamento di batterie esauste ed a quella dell'Enirisorse, azienda del gruppo Eni. Secondo la documentazione in possesso della Commissione, l'Enirisorse avrebbe ceduto l'attività a due ditte, per i metalli piombosi alla Ecobat, per quelli non piombosi alla City Industrie: questi subingressi sarebbero avvenuti per la Ecobat nel marzo 1996 e per la City Industrie nell'agosto 1996. Tuttavia, la volturazione dell'annesso atto autorizzatorio per l'Ecobat è intervenuta soltanto nell'ottobre 1997, mentre per City Industrie non risulta mai avvenuta. Ovviamente l'Enirisorse, stante la dismissione dell'attività, si è trovata a gestire enormi quantitativi di sostanze senza preoccuparsi, secondo l'ipotesi accusatoria, di smaltirli nel rispetto della normativa vigente. Avrebbe trovato degli escamotages per disfarsi di questo rifiuto nel senso stretto del termine ed ottenere questo risultato con il massimo risparmio di spesa. In particolare, avrebbe interessato l'Ecodeco su Pavia e la ditta Lombardo su Marcianise per effettuare una miscelazione di questo rifiuto, che risulta illecita in quanto non è stata richiesta alcuna autorizzazione. Successivi accertamenti hanno evidenziato che vi erano anche percorsi diversi; uno di questi coinvolge la Calabria, dove una parte di questa sostanza è stata inviata alla ditta Meca di Lamezia Terme, e da qui sarebbe addirittura stata smaltita in una discarica di prima categoria, quindi dedicata ai rifiuti solidi urbani e assimilabili. Va peraltro evidenziato che la destinazione di questa miscela di ebanite da parte di Enirisorse in territorio campano e calabrese configura anche la violazione della legge regionale che preveda il divieto di importazione di rifiuti da altre regioni.
Emerge poi una difficoltà di classificazione, rispetto alla quale vi sono già stati provvedimenti intraprocessuali, del «mix di ebanite» contenente un residuo di piombo superiore a quello tollerato dalle tabelle allegate al decreto legislativo n. 22 del 1997. Nella discarica di Paderno Dugnano ed in quelle collegate di Marcianise, Crotone e Lamezia Terme, sono stati rinvenuti anche altri tipi rifiuti, ma la parte basilare dell'indagine ruota intorno proprio alla classificazione del mix di ebanite, evidenziando quindi il problema di stabilire se tale rifiuto sia da considerarsi o meno pericoloso. Infatti, sebbene l'ipotesi contestata preveda come reato anche lo smaltimento e lo stoccaggio illecito dei rifiuti non pericolosi, vi potrebbero essere altre attività illegali, tra cui la miscelazione, punibili solo nel caso in cui riguardino rifiuti pericolosi. Il problema nasce dal fatto che nell'elenco dei rifiuti pericolosi allegato al «decreto Ronchi» non è contemplato tale materiale;


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da qui lo sforzo interpretativo volto a dimostrare che si tratta di un rifiuto pericoloso per le sue caratteristiche intrinseche di elevata tossicità. Una tale classificazione porterebbe alla contestazione dell'illecita miscelazione, non essendo stata chiesta alcuna autorizzazione, in quanto l'articolo 5 del decreto legislativo n. 22 del 1997 punisce anche chi effettua attività non consentita di miscelazione limitatamente ai rifiuti pericolosi.
Sono numerosi i casi riscontrati dalla Commissione di illeciti smaltimenti di rifiuti pericolosi prodotti da aziende a rilevanza nazionale (quando non internazionale) in impianti non idonei a ricevere tali materiali. È quindi il caso di fare riferimento almeno agli episodi più eclatanti: a Scurcola Marsicana si scaricavano fanghi che sarebbero dovuti derivare da insediamenti civili, ma che in realtà erano tali solo nella misura dell'1,9 per cento; per quanto riguarda la parte rimanente, il 28 per cento proveniva da pubbliche fognature, il 30 per cento da nuclei industriali ed il 40 per cento da insediamenti produttivi. È stata dimostrata la provenienza di tali fanghi da impianti produttivi, da industrie, alcune delle quali anche di tipo farmaceutico, come la Refem di Rovereto e l'Abbott di Latina, e da una serie di altri insediamenti industriali che hanno utilizzato cromo, piombo e zinco. La presenza di questi metalli dimostra la pericolosità della situazione. È stata rilevata una notevole quantità di materiali sversati nel comune abruzzese: complessivamente otto discariche, per un totale di circa 90 mila quintali di materiali depositati, e in particolare, dietro un fittizio impianto di compostaggio, si celava una discarica di fanghi, particolarmente estesa e pericolosa.
Sempre in Abruzzo, presso il depuratore di Montesilvano, sono stati smaltiti rifiuti industriali provenienti da diverse zone del nord Italia, in prevalenza stoccati presso un impianto di Forlì e trasportati da un indagato, che nel piazzale di sua proprietà aveva creato un abusivo allaccio alla pubblica fognatura con sversamento direttamente dai mezzi. Tale soggetto era già indagato dalla procura presso il tribunale per false fatturazioni emesse nell'ambito di illecite attività di smaltimento dei rifiuti. Sono coinvolte ben sessanta ditte (in prevalenza produttori e trasportatori di rifiuti) nonché un addetto alle analisi chimiche, sospettato di aver sistematicamente redatto falsi certificati di analisi per consentire classificazioni più «benevole» dei rifiuti e, quindi, smaltimenti a costi meno onerosi. In questo caso è stata anche riconosciuta l'associazione per delinquere fra gli indagati, elemento che ricorre assai di rado in tale materia.
A dimostrazione della dimensione della vicenda di Montesilvano e della rilevanza degli interessi in gioco, già dal 1995 erano stati acquisiti la gestione ed il controllo di una vasta attività, anche con l'impiego di capitali provenienti dal riciclaggio degli illeciti guadagni del traffico illegale dei rifiuti, anche pericolosi, realizzati con il sistema della «triangolazione», consistente nel far transitare i rifiuti presso il centro di stoccaggio il quale, dopo averli presi in carico, li faceva ripartire con propria bolla ecologica senza apportare alcuna modifica nelle componenti costituenti il rifiuto, ma con altro codice e denominazione.
Da Milano giungevano in Abruzzo i rifiuti solidi urbani prodotti. L'azienda municipalizzata del capoluogo lombardo (Amsa), però, non li inviava direttamente in quella regione - atteso il divieto fissato da


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una legge regionale - ma erano le società commerciali aggiudicatarie di appalti per la separazione delle diverse frazioni di rifiuto che li spedivano in Abruzzo per le operazioni di trattamento e cernita. Ma una volta entrati nel presunto stabilimento, il materiale acquistava «cittadinanza» abruzzese e, di conseguenza, per circa il novanta per cento veniva smaltito come rifiuto in quel sito.
In Liguria, nella cava di Borghetto Santo Spirito - già citata - sono stati rinvenuti, tra gli altri, anche fusti provenienti da importanti aziende pubbliche, come la Snam, e da aziende private di rilevanza nazionale, come la Farmitalia e la Stoppani.
Ravenna, nel maggio 1998, è stata teatro di un incendio di vastissime proporzioni sviluppatosi presso il capannone della società Fertildocks srl (oltre 7000 mq.), destinato al trattamento di rifiuti provenienti dall'Amsa di Milano che dovevano, poi, essere avviati alla termocombustione sperimentale nella centrale Enel di Fusina (Veneto), in virtù di un'intesa stipulata nel luglio 1997 tra le regioni Lombardia ed Emilia Romagna. Al momento dell'incendio giacevano nel capannone circa 5000 tonnellate di tali rifiuti, posti sotto sequestro penale unitamente al capannone.
L'episodio ha determinato l'avvio di un'indagine da parte della procura di Ravenna, che ha accertato la natura certamente dolosa dell'incendio, la cui opera di spegnimento, protrattasi per ben ventidue giorni (19 maggio-10 giugno 1998), ha richiesto l'impiego delle forze dei vigili del fuoco dei comuni di Bologna, Forlì, Lugo e Faenza, oltre che di Ravenna. Nel capannone giacevano già dal settembre 1997 rsu e fertilizzanti che non erano stati trattati, motivo per il quale proprio il giorno precedente al verificarsi dell'incendio era stata convocata la giunta comunale per ottenere chiarimenti relativamente alla corretta esecuzione del contratto da parte della società Area, impegnata nelle attività di stoccaggio e trattamento dei rifiuti, e dell'azienda d'intermediazione, una ditta (la Sea) avente sede nella Repubblica di San Marino.
Fra gli episodi illeciti, merita segnalare il ritrovamento in Emilia Romagna di 88 fusti metallici contenenti reflui industriali esausti, abbandonati su un terreno in prossimità di Montale di Piacenza (il procedimento penale è tuttora in corso). Altro episodio preoccupante questa regione è stato il rinvenimento di un contenitore per rifiuti radioattivi addirittura nell'oasi naturalistica di Punte Alberete, nei pressi di Ravenna (già nel luglio 1997 nella stessa area erano stati trovati contenitori con un materiale altamente tossico quale il policlorodifenile); le analisi del contenuto hanno evidenziato la presenza di scorie di cesio e di berillio. E ancora, in una discarica abusiva del comune di Ravenna, sono state abbandonate diverse tonnellate di rifiuti pericolosi (anche lastre di amianto), mentre nel comune di San Pietro in Casale è stata scoperta una vasta area destinata a deposito non autorizzato di rifiuti pericolosi (oli esausti e batterie per auto) e speciali (veicoli a motore, rimorchi ed altro, rifiuti derivanti da attività di demolizione e di costruzione, ecc.). Si tratta di ben 15 mila quintali di rifiuti speciali e di dieci quintali di rifiuti pericolosi, che stavano lì depositati senza che il titolare fosse munito di alcuna autorizzazione.
Interessante è, ancora, la vicenda scaturita dalla denuncia dell'organizzazione sindacale Fiom-Cgil, relativa alle morti per cancro di


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alcuni dipendenti delle società Beraud Santino & Mauro e Beraud sud spa, operanti nel polo chimico di Brindisi, che ha portato al sequestro dei cantieri delle citate società nonché all'emissione di avvisi di garanzia nei confronti di dieci amministratori delle ditte coinvolte. Le indagini hanno già evidenziato l'inquinamento ambientale derivato da lavorazioni pericolose e fuori norma, anche con amianto e derivati, ma sono in corso ulteriori rilievi mirati ad accertare la natura e l'entità delle alterazioni prodotte nel sottosuolo, nelle acque e nell'atmosfera.
Ancora in Puglia, la Commissione si è interessata dell'area dell'azienda Fibronit (che ha cessato la sua produzione), accusata di omicidio colposo a danno di numerosi operai, deceduti per forme tumorali correlate all'amianto. Per decenni nell'area sono state interrate le scorie prodotte dall'azienda. Non solo: anche i capannoni ed i piazzali di produzione sono stati realizzati con materiale di cemento-amianto; anche alcune coperture sono inquinate da rifiuti tossico- nocivi. Il quadro si aggrava se si tiene conto che le forme tumorali legate all'amianto, che si registrano nel quartiere vicino all'area della Fibronit, sarebbero aumentate in maniera esponenziale negli ultimi anni e sono statisticamente superiori alla media nazionale.
Sempre a proposito di amianto, è opportuno citare anche la vicenda relativa all'attività di produzione di amianto in Sicilia fino a tutti gli anni ottanta, per la quale è attualmente in fase dibattimentale presso il tribunale di Siracusa un processo che vede coinvolti amministratori e dirigenti dello stabilimento Eternit siracusano, imputati per l'omicidio colposo di numerosi operai deceduti per asbestosi contratta nel trattamento dell'amianto.

(17) V. il procedimento n. 3340 del 1996 (doc. 213/8b).
(18) V. audizione del 12 maggio 1998.
(19) V. audizione del 24 giugno 1998.

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