![]() |
![]() |
2. Insediamenti e infiltrazioni delle organizzazioni di tipo mafioso.
La Commissione ha raccolto dati preoccupanti in ordine al rapporto intercorrente fra traffico illegale di rifiuti e criminalità organizzata inizialmente dalla testimonianza di vari magistrati, che hanno avuto modo di occuparsi della questione nel corso delle inchieste attinenti alle società criminali operanti in Campania, Lazio, Calabria e Sicilia.
Il classico modus operandi di tali associazioni criminali per realizzare questi traffici riguarda il sistema del cosiddetto «giro bolla», grazie al quale i rifiuti pericolosi vengono spediti da un soggetto ad un altro, il quale emette una ricevuta; tale ricevuta però è falsa, poiché quei rifiuti non vengono né ricevuti né inertizzati. In realtà, i rifiuti sono stati spediti altrove illecitamente, per lo più presso cave abbandonate o discariche non autorizzate a ricevere rifiuti di provenienza extra-regionale, se non addirittura mescolati al terriccio ed interrati
per essere utilizzati nella pavimentazione di strade o nella costruzione di abitazioni civili. Eppure, formalmente la documentazione è regolare: vi è un mittente di rifiuti pericolosi e vi è un ricevente che dichiara sia la ricezione che il declassamento.
Esemplificativa di tale attività è l'indagine condotta dal nucleo operativo ecologico dell'Arma dei carabinieri su delega della direzione distrettuale antimafia di Napoli, su traffici illeciti di rifiuti pericolosi provenienti da industrie del nord Italia, in specie dell'Emilia Romagna, e trasportati lungo le dorsali tirrenica ed adriatica, per essere abbandonati in aree del meridione controllate dalla criminalità organizzata (4).
L'indagine mostra chiaramente la penetrazione delle organizzazioni camorristiche nei traffici di rifiuti, situazione più volte denunciata dalla Commissione e da quella operante nella passata legislatura; la varietà di siti destinati allo smaltimento illegale come la pronta individuazione da parte dell'organizzazione di altri siti, a fronte di sequestri, è indice di un controllo del settore che va ben oltre il territorio in cui esse operano direttamente - come mostrano le connessioni fra traffici abusivi di rifiuti e criminalità organizzata emersi in Abruzzo e Lazio, nonché in Piemonte, Lombardia e Liguria - e della penetrazione che tali organizzazioni stanno attuando nelle cosiddette aree non tradizionali.
Altro elemento da sottolineare - e che la Commissione aveva già evidenziato nel forum di Napoli - riguarda l'estensione delle attività delle organizzazioni criminali: risulta infatti dalle indagini che i clan hanno ormai ampliato le loro attività specifiche nel settore dal semplice controllo dei siti finali di smaltimento ai momenti del trasporto e della commercializzazione, gestendo, quindi, tali attività illecite dal produttore di rifiuti sino al sito di smaltimento illegale. Con alcune peculiarità «regionali»: come ricordato dal prefetto di Napoli in sede di audizione e nell'ambito del seminario sull'istituto del commissariamento svoltosi nel capoluogo campano, i siti di smaltimento sono ora tutti gestiti dallo Stato, ma la quasi totalità delle imprese che organizzano il trasporto dei rifiuti appare in varia forma contigua alla criminalità organizzata.
Ma va aggiunto da subito - altrimenti si fornirebbe una chiave di lettura della realtà distorta - che sarebbe quanto mai errato ricondurre tutte le attività illecite nel settore dei rifiuti all'azione delle cosiddette «ecomafie», come dimostrano in maniera univoca i dati che la Commissione ha raccolto nel corso dei lavori. Esistono infatti, come vedremo più avanti, aziende non riconducibili alla criminalità organizzata che tuttavia paiono basare la loro attività proprio su una non corretta gestione dei rifiuti. Si registrano inoltre fatti di microcriminalità assai diffusa sull'intero territorio nazionale. Ricondurre tutta l'illegalità alle «ecomafie» significherebbe quindi dimenticare una gran parte di attività illecite.
È tuttavia evidente la rilevanza che l'azione della criminalità organizzata assume anche in questo contesto per via dei condizionamenti
- sociali ed economici - che mafia, camorra, 'ndrangheta e sacra corona unita riescono a porre in essere; inoltre deve essere denunciato da subito quanto si vedrà meglio in seguito, cioè che proprio il ciclo dei rifiuti è uno dei «motori» utilizzati dalla criminalità organizzata per penetrare nelle aree del centro e del nord del Paese.
2.1 Gli interessi della 'ndrangheta.
In Calabria connessioni tra criminalità organizzata e traffici illeciti di rifiuti sono emerse riguardo l'illecita gestione di circa 30 mila tonnellate di rifiuti pericolosi, precisamente ferriti di zinco provenienti dalla Pertusolasud di Crotone, azienda all'epoca dei fatti appartenente al gruppo Eni, da parte di un'associazione criminale legata ad organizzazioni mafiose della provincia di Cosenza. I materiali pericolosi venivano miscelati con rifiuti inerti, e quindi interrati in aree a vocazione agricola della Calabria, come i territori circostanti Cassano Ionio o la piana di Sibari.
Le «attenzioni» criminali al settore non hanno riguardato - in Calabria - la sola fase dello smaltimento illecito, ma anche quella degli appalti connessi alla realizzazione di impianti per il trattamento o lo smaltimento: per tali centri - nei comuni di Catanzaro, Rossano e Reggio Calabria - la regione Calabria ha ottenuto nel corso dei primi anni novanta cospicui finanziamenti statali (per circa 100 miliardi complessivi), che sono stati spesi senza conseguire, però, l'obiettivo della realizzazione di impianti per un efficiente smaltimento dei rifiuti, come dimostra il commissariamento della regione Calabria. Dei tre siti individuati dalla stessa regione su delega del Governo per la realizzazione degli impianti, infatti, quello di Rossano Calabro non è stato completato e non è mai entrato in funzione; quello di Catanzaro Lido-Alli ha operato solo come centro di raccolta e non di trattamento dei rifiuti, mentre l'impianto di Reggio Calabria è una struttura fatiscente che ha creato grossi problemi di inquinamento. Solo di recente gli impianti di Catanzaro Lido-Alli e di Rossano sono stati completati, mentre quello di Reggio Calabria è stato riattato, grazie all'intervento dell'ufficio del commissario per l'emergenza, potendo finalmente entrare in funzione.
Secondo l'ipotesi accusatoria, esisterebbero forti collusioni con gli organi amministrativi regionali, nonché la presenza di alcune ditte già coinvolte in vicende giudiziarie connesse al ciclo dei rifiuti, verificatesi in altre parti del Paese: sono infatti coinvolti l'assessore ai lavori pubblici della regione Calabria all'epoca dei fatti, il presidente pro-tempore della giunta della regione Calabria, il dirigente dell'assessorato all'urbanistica e all'ambiente della regione Calabria, unitamente ad amministratori e rappresentanti di imprese (come la De Bartolomeis, la Bonifati spa, la Snam progetti spa, la Termomeccanica italiana spa, la Castagnette spa), con l'imputazione di truffe e falsificazioni di atti pubblici poste in essere nel periodo 1994-1997 per gestire i finanziamenti statali, al fine di favorire i propri interessi e quelli di determinate imprese, che dall'operazione hanno conseguito ingiusti introiti per circa 90 miliardi complessivi.
All'illegittimità dell'aggiudicazione ed approvazione dei progetti degli impianti di smaltimento o trattamento di rifiuti, grazie alla
complicità degli amministratori, seguiva - nella contestazione giudiziaria - la falsa rappresentazione della situazione agli organi preposti alla verifica dell'attività (in particolare, al Ministero del bilancio, al quale si riportavano l'avvenuto perfezionamento della gara e l'utilizzo del finanziamento entro i limiti assegnati, mentre all'organo di controllo sugli atti regionali si comunicavano computi economici maggiori al solo scopo di ottenere l'esecutività dell'atto).
Negli anni successivi, le ulteriori somme Fio sarebbero state ottenute ricorrendo all'artificiosa e falsa rappresentazione di costi maggiori negli stati di avanzamento dei lavori per la realizzazione degli impianti, nonché mediante l'approvazione di una delibera regionale che stanziava, in maniera illegittima, nuovi fondi nella rimodulazione del piano regionale di smaltimento, al solo fine di ulteriormente spesare a favore delle imprese aggiudicatarie i costi di realizzazione di detti impianti, sottacendo tale rimodulazione al Ministero dell'ambiente competente per la sua ratifica, mentre il consiglio regionale approvava la rimodulazione del piano nel 1993, ignorando che l'ente attuatore degli appalti per gli impianti era lo stesso assessorato ai lavori pubblici della regione e non già i comuni interessati o loro consorzi. Tale operazione consentiva di fruire di oltre 90 miliardi spesi dall'ente regionale per gli impianti, a fronte dei 67 previsti dal Fio 84.
Si è così già messa in luce la forte penetrazione nel ciclo dei rifiuti da parte delle organizzazioni malavitose e l'estensione della loro sfera d'azione dal controllo della fase dello smaltimento alla gestione ed al controllo degli appalti, favorite dall'enorme potere economico di cui esse godono, specie in un territorio come la Calabria, afflitto da una endemica disoccupazione, che genera ancora, purtroppo e paradossalmente, un vasto consenso sociale tra varie fasce di popolazione, essenziale per costruire un sistema di collusioni e per favorire comportamenti omertosi funzionali al mantenimento e rafforzamento del controllo sulle attività economiche.
Illuminante al riguardo è anche un procedimento avviato dalla procura di Catanzaro, che vede coinvolti numerosi titolari e/o rappresentanti di imprese di pulizie e smaltimento di rsu operanti nella regione, accusati di associazione per delinquere finalizzata alla turbativa delle gare bandite da molteplici enti pubblici nella regione Calabria e relative al settore delle pulizie, tra cui la licitazione privata per l'affidamento del servizio di nettezza urbana del comune di Catanzaro negli anni 1995, 1996 e 1997.
L'organizzazione criminale realizzava, secondo l'accusa, il controllo delle gare d'appalto, da un lato attraverso la creazione artificiosa di una serie di società satelliti, tutte riconducibili all'impresa capofila facente capo al gruppo criminale, in grado di proiettarsi nelle gare con diversi ribassi percentuali al fine di prevenire le cosiddette offerte «scheggia» o quelle provenienti da ditte non controllabili in anticipo; dall'altro, ponendo in essere un'attenta politica di contatti finalizzata all'imposizione delle offerte e dei ribassi, sfruttando la propria potenza economica e la propria posizione dominante. Solo quando tale attività «preventiva» non consentiva di raggiungere gli esiti prefissati, si ricorreva alla coazione ed alla minaccia nei confronti degli altri imprenditori intervenuti alle gare, obbligandoli ad una partecipazione
alle gare secondo le condizioni stabilite dall'organizzazione, ovvero al loro ritiro.
In questo caso si ha non solo un allarmante spaccato del controllo operato dai gruppi criminali nel settore delle gare pubbliche, in particolare quelle relative alla gestione dei rifiuti, ma anche il senso del fortissimo clima di omertà e della fitta rete di collusioni con gli apparati amministrativi che rende estremamente difficile a forze dell'ordine e magistratura l'attività di individuazione di fonti testimoniali e di identificazione di tutte le imprese coinvolte nella spartizione illecita degli appalti, nonché delle responsabilità in capo ad amministratori pubblici.
2.1.1 La provincia di Reggio Calabria.
Nel corso del recente seminario sull'istituto del commissariamento per l'emergenza rifiuti a Reggio Calabria, la Commissione è venuta a conoscenza di nuovi particolari in ordine alla preoccupante situazione del territorio di quella provincia (5). Nell'ambito dell'inchiesta che ha consentito la cattura di elementi di spicco della cosca dominante Molè-Piromalli, alcune intercettazioni ambientali confermano infatti il grande interesse della 'ndrangheta per l'affaire rifiuti; in particolare, nelle conversazioni intercettate si commenta il differimento della realizzazione di una discarica abusiva di rifiuti pericolosi e radioattivi nel territorio reggino.
Da altre intercettazioni emerge inoltre, in maniera eclatante, la capacità di informazione raggiunta dalla criminalità organizzata calabrese: risulta infatti che la proposta del Governo Prodi, diretta al recupero ed al risanamento delle situazioni più degradate nelle città del sud, era nota ancor prima di essere resa pubblica, atteso che essa formava già oggetto di trattative tra faccendieri che, dovendo pensare a come speculare sulle risorse pubbliche destinate al sud, in un commento tra loro ne davano notizia, imponendo la creazione di imprese da far partecipare alle gare per lucrare profitti.
Per tornare al ciclo dei rifiuti, il dato più importante, riscontrato da dichiarazioni anteriori di alcuni collaboratori di giustizia, attiene al fatto che - transitando nel porto di Gioia Tauro navi che arrivano da tutto il mondo - faccendieri non calabresi, ma in stretto contatto con elementi della 'ndrangheta, avevano pensato di dar corso alla realizzazione della citata discarica abusiva giocando su più piani. Quello di maggiore interesse prevedeva il consorziarsi di alcune imprese dedite formalmente al recupero di rifiuti solidi, in particolare al recupero dei rifiuti che approdavano al porto di Gioia Tauro. Ciò in virtù del fatto che, durante le operazioni di sbarco ed imbarco delle navi, si procede alle pulizie di bordo e si recuperano gli oli esausti, per cui vi è un'attività di trattamento e recupero di questo tipo di rifiuti che già in passato aveva fatto registrare la presenza di imprese collegate a soggetti mafiosi.
La presenza massiccia della 'ndrangheta locale nel ciclo dei rifiuti era del resto già emersa nella gestione delle tre principali discariche del comune di Reggio Calabria: Pietrastorta, Sambatello, Longhi-Bovetto. In tutti e tre i siti e per tutte e tre queste vicende sono state giudizialmente accertate pesanti infiltrazioni mafiose, accertate nell'ambito di procedimenti penali. Addirittura, nel caso della discarica di Longhi-Bovetto, risulta che 19 delle 50 offerte di gara pervenute, che hanno determinato l'aggiudicazione avendo spostato la media ponderale di aggiudicazione, erano false, in quanto provenivano da imprese inesistenti. Ciò ha fatto sì che la gara fosse aggiudicata, ma quando il comune ha provveduto a restituire la documentazione alle imprese estromesse la documentazione stessa è ritornata al mittente essendo sconosciuti i destinatari! La circostanza, poi, che l'appalto sia stato aggiudicato ad un'impresa siciliana indagata per reati di mafia, nell'ambito di procedimenti penali della procura distrettuale di Palermo, traccia uno scenario complesso in cui si intrecciano collegamenti e collaborazioni tra i vari sodalizi mafiosi che operano in territori diversi, aumentando le difficoltà di pervenire all'accertamento dei fatti e delle responsabilità individuali, anche per l'intreccio delle competenze territoriali degli uffici giudiziari. Risulta a questo proposito alla Commissione che i clan criminali che controllano lo smaltimento illecito dei rifiuti nelle regioni meridionali sono propensi a 'scambi di favori' in questo settore: il clan che controlla un territorio momentaneamente sovraesposto ha sempre la possibilità di smaltire nell'area «di competenza» di un altro clan, col quale paradossalmente può essere in conflitto per altri interessi illeciti. Ciò a dimostrazione della redditività dell'affaire rifiuti che consiglia alla criminalità di non agire in accesa concorrenza, essendo comunque i guadagni molto soddisfacenti.
Un'altra seria difficoltà opposta alle investigazioni nella vicenda calabrese appena descritta (ma comune alle inchieste sugli appalti) riguarda il meccanismo di funzionamento dell'iscrizione all'albo dei costruttori, il quale dovrebbe certificare la serietà e l'affidabilità dell'impresa iscritta. In realtà, la possibilità che le imprese (specie quelle che operano nel nord) cedano un ramo d'azienda, e con esso anche l'iscrizione all'albo, vanifica questo tipo di controllo. Accade infatti che imprese costituite da soggetti mafiosi ed operanti da pochi giorni siano inserite in classi di iscrizione all'albo, elevate grazie all'acquisizione di rami d'azienda da imprese «pulite». Per questa via le imprese mafiose si accreditano come serie ed affidabili, operanti da tempo, riuscendo ad aggirare il sistema di partecipazione alla gara. Quando ciò accade, il direttore tecnico resta lo stesso, tant'è che sono a conoscenza della procura distrettuale nominativi di direttori tecnici che non hanno mai messo piede a Reggio Calabria e che tuttavia, formalmente, risultavano direttori tecnici di imprese aggiudicatarie di questi appalti incriminati. È evidente che un sistema siffatto esige complicità e disponibilità a più livelli, nonché una certa raffinatezza strategica.
La situazione registrata in Calabria non appare dissimile in Campania ed in Puglia, pur essendo minori i riscontri rispetto agli appalti della pubblica amministrazione. Forse la ragione è da ricercare nel commissariamento di queste regioni per l'emergenza rifiuti; l'affidamento delle discariche al prefetto ha significato il controllo statale del settore, che rende più difficile l'intervento della criminalità organizzata, quanto meno nella fase dello smaltimento finale - come
vedremo - anche se prefetti, magistratura e forze dell'ordine hanno evidenziato la diffusa infiltrazione criminale sulle attività economiche del territorio e, in particolare, nelle aziende di raccolta e trasporto dei rifiuti. Per quanto riguarda la Puglia, esiste un quadro generale di illiceità che appare preoccupante, nonché una situazione contingente che la espone ad elevati rischi: infatti, i territori confinanti della Campania - come la Commissione ha appreso dalla direzione distrettuale antimafia di Napoli - si rivelano in alcune circostanze poco «utilizzabili» dai clan camorristici operanti nel settore, il che rende probabile il coinvolgimento anche di regioni come la Puglia. Inoltre, sono emerse, nel corso delle indagini condotte dalla procura circondariale di Matera, attività illecite in Puglia (Taranto e Bari), che non sembrano collegate ad attività di tipo mafioso, quanto a smaltimenti transregionali.
2.2 Cosa nostra e l'affare rifiuti.
L'evoluzione «imprenditoriale» delle associazioni mafiose e in particolare di cosa nostra trova riscontro, in Sicilia, anche nel ciclo dei rifiuti, dove l'interesse delle organizzazioni mafiose si è esteso - già a partire dai primi anni novanta - al controllo degli appalti ed alle stesse scelte delle pubbliche amministrazioni (6).
Il settore della raccolta, del trattamento e dello smaltimento dei rifiuti risulta essere un business molto proficuo per le associazioni criminali che, ridottosi fortemente il flusso della spesa pubblica destinato alle opere pubbliche (terreno d'elezione dell'influenza mafiosa), si sono rivolte ad altri settori lucrosi, tra cui quello all'attenzione della Commissione, presentandosi sul mercato attraverso società di prestanomi che concorrono nelle gare d'appalto per i servizi di trasporto e smaltimento in discarica. Un elemento da sottolineare: sono questi i settori in cui più è evidente la penetrazione delle associazioni mafiose, che invece non sono così presenti nei settori più avanzati tecnologicamente (recupero, riutilizzo e termodistruzione). Tale elemento - unito alla constatazione quasi banale che l'emergenza per lo smaltimento riguarda le quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa - indica in maniera abbastanza evidente che tali associazioni criminali hanno da un lato lavorato alla creazione delle situazioni di emergenza e dall'altro ora si augurano che tale fase si prolunghi. Quando ci si interroga sui ritardi e le mancate realizzazioni dei commissariamenti è bene avere presente anche questa riflessione.
Illuminante, riguardo alle capacità di penetrazione di cosa nostra, è la relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari, relativa alla «infiltrazione mafiosa nei cantieri navali di Palermo» (7) dalla quale emerge un controllo territoriale completo, ivi compresa la gestione dei rifiuti e, più in generale, degli scarichi illeciti. Sin dal 1993
infatti, con il consenso della famiglia dell'Acquasanta e senza che la direzione della Fincantieri sia riuscita a esprimere un serio ed efficace dissenso, nei cantieri vengono introdotte rilevanti quantità di rifiuti, per rimanervi accumulate nelle forme più varie: ora semplicemente accatastate negli spazi liberi, ora chiuse in cassoni di cemento o in locali dismessi, ora compattati nelle banchine di cemento del porticciolo dei cantieri.
Tale stato di cose ha indotto la Commissione a svolgere un sopralluogo nel giugno 1999, durante il quale si è potuto constatare l'avanzato degrado ambientale del sito. Particolare impressione hanno destato, tra le altre cose, non solo circa cento bidoni di morchie oleose depositati in un'area incustodita dei cantieri (attualmente sotto sequestro), ma anche un cospicuo accumulo di sabbie sature dentro un capannone e l'esistenza di un enorme condotto fognario, privo di depuratore, che scarica a cielo aperto direttamente in un canale del cantiere e poi a mare.
L'inchiesta parlamentare dimostra come, per la criminalità organizzata, l'affaire rifiuti sia come tutti gli altri affari. Il meccanismo è sempre lo stesso e l'aveva ben compreso Gioacchino Basile quando denunciava - senza ascolto da parte di operatori di giustizia, di imprenditori e di sindacalisti: è opportuno ricordarlo per sottolineare il clima della vicenda ed il coraggio della persona - le interferenze illecite delle famiglie nella gestione dei cantieri navali di Palermo e, in particolare, nella gestione dei rifiuti, anche di amianto, all'interno dei cantieri stessi. Al riguardo le dichiarazioni testimoniali rese da Gioacchino Basile nel corso del dibattimento rendono evidente che proprio l'affaire rifiuti ha avuto una posizione predominante sia nella vicenda giudiziaria del Basile stesso, sia nell'intera gestione dei cantieri navali di Palermo, sia infine nel consolidare i collegamenti - gestiti dalla famiglia mafiosa dell'Acquasanta - tra la città siciliana e l'interno dei cantieri stessi.
Episodio emblematico dell'infiltrazione mafiosa nel ciclo dei rifiuti è quello in carico alla procura distrettuale di Catania nei confronti, tra gli altri, di Salvatore e Angelo Motta, entrambi operanti nel settore dello smaltimento dei rifiuti, mediante due ditte intestate alle loro mogli, ovvero la Assia e la Imat. Costoro venivano tratti in arresto per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, in quanto ritenuti contigui alla cosca facente capo a Giuseppe Pulvirenti (detto «u malpassotu») e successivamente condannati in primo grado per concorso in associazione mafiosa in relazione agli appalti aggiudicati alla ditta Assia nel comune di Paternò. Detta aggiudicazione era avvenuta grazie anche all'appoggio del clan mafioso facente capo al Pulvirenti, il quale beneficiava del «sostegno» di politici locali, ed altresì mediante l'alleanza con le altre organizzazioni criminali operanti nel centro paternese (quali quella dei c.d. «ex Alleruzziani», capeggiati da Rosario Fallica, e quella dei Morabito-Stimoli-Fiorello).
Anche in tale occasione emerge il ruolo dei pubblici amministratori locali, accusati di avere illecitamente interferito nell'aggiudicazione a determinate imprese di appalti in materia di raccolta e smaltimento di rifiuti solidi urbani.
Davvero inquietanti sono, poi, le vicende relative alle discariche di Misilmeri e Pollina, poiché dimostrano un controllo completo del ciclo dei rifiuti da parte di cosa nostra; una gestione indifferenziata di tutti gli affari che, logicamente, non poteva e non può prescindere dal controllo della programmazione, costruzione e gestione di qualsiasi
impianto afferente ai rifiuti, tanto più quando questi impianti siano in mano pubblica o vengano dall'attività della pubblica amministrazione in un qualche modo agevolati.
2.2.1 I casi di Pollina e Misilmeri.
La vicenda relativa alla gestione della discarica di Pollina coinvolge diversi sindaci di quel comune, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa per avere contribuito, nella loro qualità, alla realizzazione degli interessi illeciti di cosa nostra, avendo affidato a Salvatore Butticè, per motivi di necessità ed urgenza ex articolo 12 del decreto del Presidente della Repubblica n. 915 del 1982, la gestione di una discarica comunale per la raccolta di rsu su un suo terreno, destinato in precedenza alla raccolta di materiali inerti, senza la necessaria previa comunicazione del provvedimento all'assessorato territorio e ambiente della regione, e mediante il sostegno in consiglio comunale della proroga della prima ordinanza sindacale e del ricorso alla trattativa privata, senza mai proporre una gara d'appalto o l'esproprio del terreno.
Sarebbe stato così vanificato lo stanziamento di 200 milioni già deliberato per l'istituzione di una discarica comunale in altra località e si sarebbe ignorato volutamente che il terreno in questione ricadeva in area sottoposta a vincoli paesaggistici ed idrogeologici, vincolato a bosco o a zona da rimboschire secondo il prg. I soggetti coinvolti imponevano, inoltre, ai comuni ed alle imprese che scaricavano i loro rifiuti nella discarica abusiva - di proprietà del comune di Pollina - prezzi superiori a quelli stabiliti dalla conferenza dei servizi.
Secondo la ricostruzione dell'organo inquirente, il Butticè, gestore della discarica, avrebbe goduto sostanzialmente dell'appoggio non solo dei sindaci di Pollina, ma anche della «famiglia» Farinella e di Cesare Musotto, soggetto colpito da misure di prevenzione antimafia e condannato in primo grado dal tribunale di Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa. Peraltro, l'affare della discarica era solo un tassello di un più ampio mosaico affaristico, costituito da appalti e subappalti pilotati in favore di soggetti legati a cosa nostra (8).
La relazione della commissione prefettizia, che ha portato allo scioglimento del consiglio comunale di Pollina per infiltrazioni mafiose, è pervenuta alle stesse conclusioni dell'organo giudiziario.
Con una condotta illecita protrattasi negli anni grazie alle collusioni politiche ed all'appoggio del clan mafioso è stato cagionato un gravissimo danno all'intera collettività: ai principali imputati (Butticè, i sindaci del comune e il responsabile dell'ufficio tecnico) si contesta, oltre alla completa illegittimità della gestione della discarica, il ben più grave disastro ambientale cagionato dalla disinvolta gestione della cosa pubblica e dalle collusioni con cosa nostra di tanti amministratori, sotto il profilo dell'inquinamento delle falde acquifere e della stabilità della montagna di detriti, non opportunamente compattati e quindi a
rischio di crollo a valle in caso di scossa tellurica o altro evento naturale (9). Poiché il ripristino dello stato dei luoghi comporterà un'ingente spesa, i fatti sono stati comunicati alla Corte dei conti, nella speranza che almeno i costi della necessaria bonifica non finiscano per gravare sulla collettività.
Il Butticè ha gestito anche un'altra discarica, ubicata nel comune di Misilmeri, in assenza della prescritta autorizzazione, per la quale sono in corso indagini della procura. L'utilizzo di questa discarica è stato vietato dal prefetto solo a partire dall'1 gennaio 1999. Nonostante ciò il Butticè - che non aveva ottenuto l'iscrizione all'albo nazionale delle imprese esercenti attività di smaltimento dei rifiuti per carenza dei requisiti tecnici - il 25 ottobre 1999, quando ormai il procedimento a suo carico per la gestione della discarica di Pollina era in fase avanzata, ha proposto ricorso al comitato nazionale dell'albo, al quale è stato perciò prontamente comunicato che la ditta Butticè e la discarica di Pollina erano sottoposte a sequestro preventivo nell'ambito del relativo procedimento penale, con conseguente nomina di un amministratore giudiziario, che è l'unico soggetto legittimato ad agire per la ditta stessa.
2.2.2 L'impianto di smaltimento e compostaggio di Trapani.
Un'ulteriore dimostrazione dell'interesse di cosa nostra per il settore viene dalla vicenda relativa alla realizzazione dell'impianto di smaltimento e compostaggio di Trapani, gestito per un lungo periodo (dal maggio 1988 al maggio 1993) dall'impresa De Bartolomeis di Milano, la stessa che lo aveva costruito. La De Bartolomeis - secondo quanto rilevabile dalla documentazione esistente in Commissione - fin dal 1989 si è mostrata permeabile all'influenza di cosa nostra, ponendosi a capo di un gruppo di imprese, tra cui ditte legate a soggetti mafiosi, con buone entrature presso l'amministrazione regionale, in grado di facilitare l'ottenimento di autorizzazioni e di altri provvedimenti abilitatori. La De Bartolomeis, fatto ancor più significativo, utilizzava regolarmente per la raccolta dei rifiuti automezzi noleggiati da società legate alla famiglia mafiosa trapanese di Vincenzo Virga.
La gestione De Bartolomeis termina nel 1993 e l'impresa fallisce nel 1996, non prima di aver ceduto un ramo d'azienda ad una società denominata Rot, riconducibile ad esponenti mafiosi.
Nel luglio 1993, si aggiudica il nuovo appalto la società cooperativa Lex anche in virtù del fatto che, sebbene non offra ribassi molto consistenti, il comune appaltante deve escludere dalla gara ditte concorrenti, le quali - pur dotate di notevole esperienza - compiono macroscopici (e sospetti) errori formali nel presentare le loro offerte. Giova alla Lex anche l'insistenza delle pressioni che i Virga esercitano sugli uffici comunali.
Sul finire del 1994, vince a sorpresa l'appalto la società Dusty di Catania, la quale, subito dopo l'aggiudicazione, si rende conto che non ha i mezzi idonei per assicurare il trasporto dei rifiuti, probabilmente
«consigliata» a ciò dai furti nei cantieri e da qualche piccolo danneggiamento: perciò deve ricorrere a subappalti, rivolgendosi a quelle stesse ditte che precedentemente, per motivi unicamente giudiziari, non avevano potuto aggiudicarsi la gara. Noleggerà, infatti, gli automezzi per il trasporto dalla De Bartolomeis, dalla Edilviro (società edilizia legata alla famiglia Virga) e dalla ditta individuale Autotrasporti Francesco Virga (figlio di Vincenzo), oltre che da altre imprese asseritamente legate anch'esse ai Virga.
Solo nel luglio 1998, con l'ordinanza di custodia cautelare emessa nei confronti degli indagati, cessa finalmente la gestione illecita del servizio. La cooperativa Lex è stata dichiarata fallita e sono tuttora pendenti vari procedimenti penali per i reati di truffa e falso, nonché di bancarotta fraudolenta. Attualmente l'impianto di riciclaggio di rifiuti di Trapani è gestito dalla Dusty srl di Catania.
La vicenda mette in chiara luce quello che è il classico ed indiscusso modus operandi delle associazioni camorristico-mafiose e che viene adoperato anche nel ciclo dei rifiuti: l'estorsione. L'ingerenza mafiosa si è realizzata anche grazie ad una fitta rete societaria che faceva capo al Virga, mentre la gestione dell'impianto di riciclaggio è avvenuta attraverso la cooperativa Lex, che svolgeva attività anche nella provincia di Catania, intrattenendo legami con i gruppi mafiosi locali facenti capo al noto Nitto Santapaola. Ciò è plasticamente descritto in un passaggio dell'ordinanza di custodia cautelare: «emergeva come il complesso aggregato societario riconducibile al capo del mandamento di Trapani, il latitante Virga Vincenzo, con le sue articolate propaggini e diramazioni abbia assolto ed assolveva tuttora ad un unitario disegno di cosa nostra, volto al pieno controllo del sistema del riciclaggio e dello smaltimento dei rsu nel capoluogo trapanese».
Il disegno illecito ha trovato, d'altra parte, l'appoggio di funzionari pubblici preposti agli uffici municipali, sia nella fase di aggiudicazione che dell'esecuzione dell'appalto alla cooperativa Lex. Ma l'infiltrazione nel contesto socio-economico appare così pesante che nessuno se ne può sottrarre ed anche amministratori, certamente non collusi, si sono trovati a rispondere di reati connessi alla loro attività di pubblici ufficiali, unicamente perché l'apparato burocratico li ha potuti indurre ad atti non corretti.
2.2.3 La mafia dei rifiuti a Palma di Montechiaro.
Va ricordato che il procedimento sull'impianto di Trapani origina da alcune investigazioni sull'organizzazione mafiosa del comune di Palma di Montechiaro che hanno offerto uno spaccato illuminante sul controllo che la criminalità organizzata opera - in quel territorio - anche sul ciclo dei rifiuti: il dominio è tale che l'impresa titolare dell'appalto per la raccolta e lo smaltimento non ha mai potuto occuparsene effettivamente, ma è rimasto appannaggio esclusivo del clan mafioso attraverso l'imposizione dei propri mezzi meccanici e dei conducenti, mediante la consueta formula fittizia del «nolo a freddo», ossia mascherando l'estorsione con l'emissione di fatture per il presunto noleggio di mezzi meccanici senza conducente.
Inoltre la discarica comunale è stata di fatto pressoché abbandonata, perché il titolare dell'appalto, oltre alle estorsioni imposte dalla
criminalità organizzata, è stato continuamente vessato da multe e penalità varie inflitte dalla polizia municipale che, pur essendo consapevole della grave situazione di illiceità relativa alla gestione della discarica, si è ben guardata dal denunciarla. Va inoltre sottolineato come le sanzioni della polizia municipale siano cessate nel periodo in cui il servizio è stato gestito dagli indagati Luigi e Gerlando Di Falco, entrambi esponenti del gruppo mafioso di Palma di Montechiaro.
Come detto, anche la fase della raccolta dei rifiuti è stata oggetto di pesanti estorsioni in quel comune, con l'imprenditore titolare del servizio costretto ad assunzioni fittizie di vari mafiosi locali e, nonostante tale evidente situazione di sofferenza, anch'egli ha continuato a subire l'imposizione di multe da parte della polizia municipale.
La vicenda presenta grande interesse sotto un altro profilo: le infiltrazioni mafiose nella fase di smaltimento dei rifiuti sono lo specchio preciso dell'alternanza, nella leadership mafiosa, delle varie cosche locali; cioè al cambiare del capo della «famiglia» reggente cambia la gestione di tali attività illegali, a dimostrazione del completo dominio delle organizzazioni mafiose «reggenti» sulle attività economiche del territorio.
Una trattazione a sé merita una vicenda relativa alla gestione dell'attività di raccolta e smaltimento di rifiuti assimilabili agli urbani nel comune di Palermo, che è ormai alle sue battute finali, avviata a seguito di una segnalazione alla procura da parte della Commissione.
Con nota del 3 marzo 1999, la Commissione comunicava infatti a quell'ufficio che nei giorni 8 e 9 luglio 1998 erano state costituite a Palermo ventitre ditte individuali per la raccolta e lo smaltimento di rifiuti assimilabili agli urbani: queste avevano tutte sostanzialmente la medesima denominazione sociale (cambiava soltanto la lettera dell'alfabeto finale) e lo stesso indirizzo. I successivi accertamenti effettuati, su mandato della procura di Palermo, dal Gico della Guardia di finanza hanno dimostrato che si trattava di ditte individuali dedite alla raccolta di materiale ferroso che, dopo una differenziazione per tipologia, necessaria per accrescerne il valore, veniva venduto ad una società specializzata nella lavorazione e trasformazione dei rottami metallici.
Con l'entrata in vigore del «decreto Ronchi», per tutte le ditte che operavano nel settore dei materiali ferrosi erano sorti grossi problemi proseguimento dell'attività, in quanto occorreva munirsi di specifica autorizzazione. Gli operatori del settore recupero dei materiali ferrosi avevano richiesto all'autorità comunale di emettere ordinanze che consentissero la prosecuzione di tale attività. Non avendo il comune ottemperato, si erano rivolti ad un faccendiere, il quale dietro compenso si era assunto l'incarico di costituire le ditte individuali ed una cooperativa, al fine di ottenere le autorizzazioni prescritte.
In realtà si è trattato di un'attività truffaldina, perché il faccendiere non ha fatto alcunché per ottenere le autorizzazioni, ma ha solo fornito senza molta fantasia le denominazioni alle ditte individuali e a tutti gli operatori del settore ha promesso di organizzare la cooperativa, limitandosi invece a cambiare le partite IVA delle ditte individuali in una partita IVA della cooperativa.
Le investigazioni non hanno comunque individuato collegamenti diretti con i gruppi criminali, ma solo irregolarità amministrative, trattandosi di soggetti che operano tuttora senza autorizzazione.
2.2.4 L'attività della procura distrettuale di Palermo.
Il controllo esercitato dalla criminalità organizzata anche sul ciclo dei rifiuti in Sicilia emerge in maniera netta; la Commissione deve a questo proposito segnalare in termini positivi l'attività portata avanti dalla procura distrettuale antimafia di Palermo, che mira anzitutto ad individuare tutti i produttori di rifiuti che operano sull'intero territorio, per verificare se in regola con la normativa, e da essi discendere poi agli smaltitori finali per avere un quadro esatto ed aggiornato della situazione. Sinora, purtroppo, l'esito dei controlli ha evidenziato che coloro i quali gestiscono attività che presuppongono uno smaltimento di rifiuti non rispettano affatto le norme di legge e non conferiscono a ditte autorizzate allo smaltimento degli stessi.
Non sembra esserci, quindi, dubbio che dietro queste attività si mascheri la consegna dei rifiuti in maniera clandestina a soggetti che poi li portano abusivamente da qualche altra parte, li smaltiscono in luoghi segreti o li fanno sprofondare in mare, con grave pericolo per la tutela dell'ambiente.
Con riferimento ai produttori di rifiuti, un'attività mirata è stata rivolta in particolare ai centri di rottamazione che operano nel territorio di Palermo. Il sindaco del capoluogo siciliano (non è un caso isolato) ha autorizzato l'esercizio provvisorio di tali centri pur in mancanza dell'adozione del piano regionale per lo smaltimento dei rifiuti. Invero, il «decreto Ronchi» ha previsto che lo smaltimento di tali rifiuti avvenga in centri autorizzati, da collocare in siti da individuare a cura delle regioni; poiché detto aspetto della normativa in Sicilia è rimasto inattuato (come del resto gran parte delle previsioni del «decreto Ronchi»), per sopperire alle emergenze legate allo smaltimento dei rifiuti è stata contemplata la possibilità di emanare ordinanze contingibili ed urgenti. Alcuni sindaci, tra cui appunto quello di Palermo, hanno ritenuto di essere i titolari di tale potere ed hanno autorizzato con ordinanze temporanee, ma rinnovate ad ogni loro scadenza, l'esercizio dei centri di rottamazione, mentre il Ministero, di recente, ha precisato che il potere in questione non spetta ai comuni, ma fa capo all'assessorato regionale al territorio ed all'ambiente. Il comune di Palermo allora ha immediatamente revocato le ordinanze, ma avverso detta revoca i titolari dei centri di rottamazione hanno fatto opposizione dinanzi al giudice amministrativo e si versa ora in uno stato di totale incertezza. I centri di rottamazione continuano la loro attività senza le ordinanze, perché sono state revocate (seppure si è impugnata la loro revoca), quindi in una situazione di palese illegittimità.
Un altro aspetto rilevante è relativo allo smaltimento dei rifiuti ospedalieri della città di Palermo: risulta alla Commissione che il rifiuto ospedaliero prelevato dal privato non viene pesato, benché l'ente pubblico paghi a peso. I danni economici che ne conseguono sono rilevanti. Il meccanismo è semplice: la ditta ritira i rifiuti, non li pesa (in alcuni casi l'ente pubblico non ha neppure installato gli strumenti
per l'operazione di pesatura), ma attesta un determinato peso che viene 'certificato' dall'operatore addetto al ritiro. Sulla base di tale documentazione, la ditta privata chiede ed ottiene il pagamento dei rifiuti nelle quantità a suo dire smaltite. È difficile sostenere che non vi sia complicità da parte dell'ente pubblico, tenuto quantomeno a predisporre gli strumenti per vigilare; certo è che il destinatario finale dei rifiuti attesta a sua volta falsamente l'avvenuto smaltimento in discarica di quanto l'appaltante ha dichiarato. In alcuni casi l'apparente destinatario finale nega in maniera decisa di aver mai ricevuto i rifiuti ed allora è chiaro che essi sono stati sepolti in qualche sito lontano da occhi indiscreti o, addirittura, gettati in mare.
2.3 Il controllo criminale in Campania.
In questa regione, tuttora in fase emergenziale per quanto concerne lo smaltimento dei rifiuti, il ruolo preminente delle organizzazioni camorristiche nel settore del trasporto e dello smaltimento illecito dei rifiuti appare evidente, anche in riferimento alla presenza quasi monopolistica imposta nel settore della commercializzazione del calcestruzzo, attraverso la formazione di due società consortili, corrispondenti alle aree di influenza delle due principali organizzazioni camorristiche operanti nella regione: la Procal, operante nella zona vesuviana, nolana e della città di Napoli, area di influenza del clan Alfieri, e la Cedic, operante nel casertano, area di influenza del clan dei casalesi. Tali consorzi sono stati addirittura sanzionati dall'autorità antitrust per l'abuso delle posizioni di monopolio conquistate nel settore.
Questa ripartizione (finalizzata anche alla suddivisione interna delle quote spettanti alle varie organizzazioni criminali) viene riprodotta dalla camorra anche nel settore dei rifiuti, ove le organizzazioni criminali più importanti assolvono ad un ruolo catalizzatore degli interessi riconducibili ad organizzazioni di minore importanza.
Sul punto, è di particolare interesse quanto riferito dal comandante della regione dei carabinieri Elio Toscano, nel corso dei lavori del seminario svoltosi a Napoli il 18 febbraio 2000 sull'istituto del commissariamento per l'emergenza rifiuti, il quale, dopo aver sottolineato l'identità dei soggetti appartenenti alla criminalità organizzata che ruotano attorno al ciclo del cemento ed a quello dei rifiuti, ha rappresentato che gli illeciti commessi nell'ambito del ciclo del cemento, riferiti alla criminalità organizzata, sono stimati in Campania intorno al 17 per cento sul totale nazionale.
Certo, la gestione commissariale ha contribuito ad un miglioramento della situazione almeno per il settore delle discariche, grazie alla gestione diretta delle stesse da parte del commissario delegato, ma la situazione rimane ancora assai critica negli altri settori, specie quello del trattamento dei rifiuti industriali, che si offre in particolar modo all'attività di declassificazione dei rifiuti pericolosi in rifiuti non pericolosi, per finire poi in cave e discariche abusive disseminate sul territorio. Le informazioni a disposizione della Commissione mostrano un sensibile incremento di tali attività illecite.
Sono univoci inoltre i segnali in merito alla riconducibilità di molte imprese del ciclo dei rifiuti all'azione delle organizzazioni camorristiche. Si tratta in molti casi di società di particolare rilevanza nel settore dell'intermediazione, del trasporto e dello smaltimento di rifiuti, che dispongono di notevoli mezzi finanziari, possono imporre tariffari controllati per la trattazione di materiali ed hanno la capacità di gestire i traffici con efficienza e mobilità sull'intero territorio nazionale.
Tale attività produce effetti devastanti, a volte irreversibili, sul piano ambientale, come ha dimostrato già all'inizio degli anni novanta l'indagine «Adelphi», che individuò un fenomeno di smaltimento abusivo per milioni di tonnellate di rifiuti di ogni tipologia, nonché gravissimi casi di occultamento di rifiuti tossici. È qui opportuno evidenziare che, a livello processuale, tale indagine si è conclusa con il non luogo a procedere per tutti i principali artefici del traffico, poiché i reati contestati erano estinti per il decorso del termine di prescrizione: ciò a dimostrazione dell'inadeguatezza del sistema sanzionatorio in materia, più volte denunciata dalla Commissione. Da allora (le inchieste lo confermano) la situazione si è persino aggravata e si è consolidata la vocazione della Campania a fungere da «pattumiera d'Italia», al punto che oggi il suo territorio sembra essere saturo e si registra quel fenomeno - già posto in evidenza dalla Commissione ed in continuo aumento - per cui i rifiuti vengono smaltiti illegalmente in altre regioni, come il Lazio, la Basilicata e soprattutto l'Abruzzo.
Un ulteriore esempio della cosiddetta «circolarità» di cicli d'impresa apparentemente diversificati emerge in Campania dall'attività di estrazione della sabbia - materiale che, insieme agli inerti, è uno degli elementi impiegati nella produzione del calcestruzzo - regolata da normative e potestà amministrative regionali: per evitare tali controlli e sostituirli con quelli di competenza delle amministrazioni comunali, giudicati più facilmente condizionabili, si è diffusa la pratica di impiantare attività di allevamento di pesci che mascherino le attività di estrazione della sabbia e quelle di successivo occultamento dei rifiuti nei vuoti provocati dalle pratiche estrattive. In alcune zone si sono diffuse vasche ittiche nelle quali sono presenti (quando va bene) pochissimi pesci e le stesse vasche segnano i luoghi in cui, a seguito dell'estrazione incontrollata di sabbia, si sono determinate fratture tali da provocare l'abbassamento del livello del suolo in aree piuttosto estese del casertano e nella zona di Villa Literno: questi vuoti vengono colmati attraverso lo sversamento abusivo di rifiuti, in modo da «saldare» le fratture precedentemente provocate.
Emblematica l'indagine sul clan dei casalesi capeggiato da Francesco Schiavone soprannominato «Sandokan», attualmente detenuto: i rifiuti - provenienti in gran parte dal nord Italia e costituiti principalmente da scorie di natura tossico-nociva - cambiavano denominazione, divenendo rifiuti normali, in appositi centri di stoccaggio e poi venivano immessi nel casertano, mediante certificazioni false, soprattutto nelle zone di Villa Literno e Baia Verde. In queste località è stato reperito un considerevole numero di bidoni contenenti rifiuti di natura tossica, di difficile recupero.
Evidenti ed allarmanti sono qui le interconnessioni tra imprenditoria deviata e criminalità organizzata. A condurre i traffici illegali
era infatti tale Statuto, un soggetto affiliato alla camorra, con compiti prettamente imprenditoriali interessandosi di vari settori della finanza. Il suo ruolo chiave risulta confermato dal fatto che presso la sua ditta sono state individuate ingenti quantità di rifiuti pericolosi gestiti illecitamente. Il condurre tale attività presso aziende ben individuabili (come la Italbeton di Santa Maria Capua Vetere), in luoghi abitati e non molto lontani dal centro, dimostra ulteriormente la possibilità per i clan criminali di agire in maniera del tutto indisturbata. Tale è anche l'esempio di Villa Literno - luogo di costanti rinvenimenti di rifiuti tossici e nocivi - ove, almeno negli anni passati, si sono succeduti sindaci come Riccardi e Vincenzo Tavoletta, legati all'organizzazione camorristica; ed ancora quello di Casal di Principe, comune nel quale, per anni, è stato imposto con i voti controllati dalla camorra un sindaco della stessa: cioè una vera e propria immedesimazione tra politica e criminalità organizzata.
La Italbeton di Rodolfo Statuto venne individuata come una delle prime società presso cui venivano depositati i rifiuti tossico-nocivi fin dagli inizi del 1994; la vicenda di questa società ha mostrato la capacità della criminalità organizzata di muoversi agilmente sul territorio, e dunque il suo controllo dello stesso. Dopo il sequestro dell'impianto è stato infatti individuato lo stabilimento della ex Fonderie Castelli di Tortona come il luogo ove venivano stoccati temporaneamente i materiali, in attesa del dissequestro dell'area di Serre, altro sito di proprietà della Ecologia Ambientale del quale disponeva Pasquale Di Giovanni. Lo stoccaggio presso la ex Fonderie è proseguito fino al febbraio 1995, periodo in cui è stata sequestrata e, in attesa dell'imminente dissequestro della discarica di Serre, ha avuto inizio la ricerca di una serie di altre località attraverso le quali poter garantire lo stoccaggio delle sostanze.
I successivi siti furono localizzati a Capalbio presso la società Marsid, a Grosseto (la Busisi Rottami), ad Orvieto (Trenta Vizi), Capranica (Ecoliner) e Fabrica di Roma (Raffinerie Metalli Quartaccio); i siti di queste società sono stati utilizzati come centri di stoccaggio intermedio tra le ditte produttrici del rifiuto e quella che sarebbe dovuta essere la discarica finale. Addirittura, presso il centro di stoccaggio della Trenta Vizi ad Orvieto, sono giunte direttamente le polveri di abbattimento fumi, sostanze con una tossicità così elevata che il titolare, per non detenerle in grosse quantità, ad un certo momento ne ha rifiutato una parte. Il meccanismo di continue nuove individuazioni di siti di smaltimento abusivo è proseguito per tutto il 1996, interessando diverse parti del territorio nazionale e coinvolgendo aziende operanti sia nell'Italia settentrionale che in quella meridionale.
Le vicende illustrate, in un contesto complicato e difficile quale è il territorio campano, mostrano in maniera univoca le forti interessenze tra apparati dell'amministrazione pubblica ed organizzazioni criminali. Al riguardo, basta ancora citare alcune altre realtà locali, come quella del comune di San Tammaro, il cui sindaco è stato arrestato per collegamenti con l'organizzazione che operava estorsioni ai cantieri dell'alta velocità; così per il sindaco di Mondragone, arrestato per favoreggiamento aggravato in relazione ad una serie di estorsioni poste in essere in danno di imprenditori; così per il sindaco
di Parete, presidente di un consorzio che ha versato ripetutamente alla camorra somme di denaro a titolo di tangenti legate ad appalti.
2.3.1 L'inchiesta «Eco».
Per illustrare in maniera ancora più incisiva come la criminalità organizzata voglia assegnare alla Campania il ruolo di «pattumiera d'Italia» è opportuno fare riferimento specifico all'inchiesta «Eco» della direzione distrettuale antimafia di Napoli, prossima alla chiusura della fase delle indagini, relativa al controllo delle attività di smaltimento di varie tipologie di rifiuti, che il clan dei casalesi ha esercitato sul territorio nazionale nel periodo 1994-1997.
L'attività investigativa svolta - di cui la Commissione ha ritenuto opportuno essere informata in maniera costante - ha consentito di ricostruire gli ingenti flussi economici e finanziari derivanti dai profitti dell'attività illecita consumata da parte di numerosi soggetti (101) e società sia commerciali (13) che di trasporto (21), nonché aziende produttrici di rifiuti (9), centri di stoccaggio intermedi (6) e società di smaltimento rifiuti (8). Il flusso illecito di scorie movimentate sul territorio nazionale nel periodo compreso tra il giugno 1994 ed il marzo 1996 si aggira intorno agli 11 milioni di chilogrammi di rifiuti pericolosi tra il 1994 ed il 1996 (oltre un milione di chilogrammi di rsu risultano movimentati nel solo periodo marzo 1996-giugno 1997).
Alcuni collaboratori di giustizia hanno fornito un quadro inquietante della situazione esistente, poiché dalle loro dichiarazioni emerge la «territorializzazione» di questo tipo di attività illecita da parte delle organizzazioni criminali operanti nel casertano. Risulta, a questo proposito, alla Commissione che il gruppo dei casalesi continua ad esercitare il suo dominio sull'intera provincia di Caserta, attraverso un controllo capillare del territorio che gli assicura - per quanto riguarda il ciclo dei rifiuti - pronta disponibilità di luoghi dove creare dei buchi in cui nascondere rifiuti o addirittura sversarli a cielo aperto.
Dalla fine degli anni ottanta è poi cambiato l'approccio dei gruppi criminali rispetto ai tradizionali metodi violenti (si tratta peraltro di un fenomeno di portata più generale, che la Commissione ha dovuto registrare e sul quale torneremo più avanti). Le industrie produttrici di rifiuti - in particolare nei processi industriali legati all'alluminio, che sono prevalente oggetto delle investigazioni della dda di Napoli - nel corso della lavorazione dei metalli devono farsi carico di costi elevati per lo smaltimento del materiale di scarto prodotto, costituito da rifiuti speciali e tossico-nocivi (polveri di macinazione delle schiumature di alluminio e polveri di abbattimento dei fumi), che non possono essere riciclate e reinserite nel ciclo produttivo, a causa dell'elevato costo di lavorazione e dell'esigua quantità di alluminio che se ne potrebbe ricavare. Inoltre, sul territorio nazionale sono poche le discariche attrezzate ed autorizzate allo smaltimento di tale materiale. L'organizzazione criminale, in siffatto contesto, offre un efficiente servizio alternativo che abbatte i costi e garantisce la continuità nello smaltimento dei rifiuti, poiché assicura il superamento di qualunque ostacolo di tipo burocratico e consente l'immediato deflusso degli scarti di produzione, senza andare troppo per il sottile nel rispetto della
normativa vigente. Si determina, quindi, uno stretto rapporto tra produttore dei rifiuti ed organizzazione criminale, in cui il primo - consapevolmente o meno - si rivolge a soggetti che scientemente e per proprio tornaconto mettono in atto un micidiale ciclo illegale. Al di là della consapevolezza dei produttori, a questi va comunque rimproverata una scarsa attenzione nella scelta dei soggetti cui affidare i propri rifiuti, scelta dettata più che altro da ragioni di risparmio d'impresa.
2.3.2 Una disamina a sé meritano le vicende all'attenzione della procura di Santa Maria Capua Vetere, che si è dimostrata ben consapevole delle dimensioni del fenomeno dello sfruttamento illecito delle cave e delle forti implicazioni criminali, aprendo indagini ad ampio raggio sulla situazione delle cave presenti nel circondario e procedendo, negli ultimi anni, al sequestro di oltre ottocento aree trasformate in discariche abusive.
fumi di industrie siderurgiche del nord Italia. Si tratta di un riscontro giudiziario di particolare gravità, poiché evidenzia come tale rifiuto sia stato utilizzato per la realizzazione di rilevati stradali nonché per materiali da costruzione: in sostanza, esistono abitazioni realizzate con rifiuti pericolosi.
2.4 Il clan dei casalesi: un paradigma delle ecomafie.
Già la Commissione d'inchiesta operante nella XII legislatura aveva indicato la provincia di Caserta come «il territorio dell'ecomafia». È noto come su tale area esista il dominio criminale del clan dei casalesi, guidato fino al momento del suo arresto da Francesco Schiavone, detto «Sandokan». Il clan, che ha la sua base a Casal di Principe, estende le sue attività a tutta la provincia di Caserta, ad alcune aree del beneventano e dell'avellinese, nonché alla provincia di Latina; secondo quanto riferito alla Commissione, il clan conterebbe su un numero di affiliati intorno alle diecimila unità. Dal punto di vista dell'organizzazione criminale, il clan dei casalesi presenta caratteristiche affini a quelle della mafia siciliana più che a quella della camorra campana; per ciò che più direttamente riguarda questa relazione, invece, si deve da subito rilevare che le attività economiche sulle quali il clan maggiormente si concentra lo fanno in qualche maniera assurgere a «paradigma» dell'ecomafia. I due cicli economici tipici dell'ecomafia - cemento e rifiuti - sono infatti sfruttati a fondo e in tutte le direzioni dal clan dei casalesi: l'attività estrattiva, l'edilizia abusiva, lo smaltimento dei rifiuti, sia esso illecito o gestito da imprese in qualche modo comunque riconducibili all'organizzazione criminale.
commissario di governo (il prefetto di Napoli) e dunque sono da escludere infiltrazioni della criminalità organizzata, come peraltro confermato dallo stesso prefetto di Napoli in sede di audizione davanti alla Commissione. Le fasi della raccolta e del trasporto sono invece fortemente a rischio, come evidenziato, sempre nella stessa audizione, dal prefetto di Napoli, che ha precisato circa il 90 per cento delle aziende che operano in questo settore hanno collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata.
edotte del problema furono invitate a far pervenire, in busta chiusa, l'offerta per l'aggiudicazione entro le ore 12 del 22 maggio 1992. Ma nessuna delle tre ditte fece pervenire l'offerta. A questo punto, la commissione straordinaria provvedeva ad invitare altre otto ditte, delle quali solo la Capasso Ciro di Grumo Nevano si presentava e, resa edotta del problema, veniva invitata a far pervenire l'offerta per l'aggiudicazione entro le ore 11 del 29 maggio 1992. Anche questa ditta non faceva pervenire alcuna offerta e, con fax del 28 maggio 1992, manifestava la propria indisponibilità. Quindi, in considerazione dell'urgenza e non essendoci altre ditte specializzate nel settore per svolgere detto servizio, risultando indispensabile assicurare il servizio per i rsu, veniva deliberato di continuare ad affidare alla Covim le operazioni con decorrenza dall'1 giugno 1992, con le stesse condizioni dell'appalto revocato in precedenza;
ma veniva altresì specificato che in data 18 luglio 1997 l'aggiudicataria della gara era stata l'Ecocampania. In data 31 luglio 1997, la Covim chiedeva che fosse sospesa la gara e che, in data 6 novembre 1997, venisse redatto verbale di gara infruttuosa per vizi formali. Nel contempo, a causa della necessità di dover proseguire il servizio di raccolta, spazzamento, smaltimento e trasporto dei rsu, veniva confermata alla Covim la proroga a continuare a svolgere le operazioni in argomento, con le stesse modalità, patti, prezzo e condizioni stabiliti nel contratto del 10 marzo 1993;
L'appunto è del 6 maggio 1998 e a quella data l'appalto per il servizio di raccolta dei rsu a Mondragone non era ancora stato aggiudicato! Per la camorra che si fa impresa, com'è il caso del clan dei casalesi, quello dei rifiuti è un settore economico nel quale intervenire come in qualsiasi altro dove esista la possibilità di aggiudicarsi pubblici appalti. Dall'intervento nel ciclo dei rifiuti conseguono guadagni illeciti poi reinvestiti - ad esempio - in attività turistiche, com'è il caso di un centro residenziale a Montecatini Terme (Pt) che, secondo la ricostruzione della direzione distrettuale antimafia di Napoli, è stato acquisito proprio con capitale derivante dall'attività ecomafiosa. Se l'ecomafia ha l'intuizione imprenditoriale dei settori economici di maggior rendimento, è - almeno allo stato attuale - carente dal punto di vista delle capacità tecnologiche. L'intervento diretto si riscontra pertanto nei settori della raccolta e del trasporto dei rifiuti, il che non equivale a sminuire la gravità della situazione, ma a sottolineare che la realizzazione di cicli integrati ad alto contenuto tecnologico potrà contribuire a risanare questa fetta di mercato.
di Sessa Aurunca (di dimensioni pari a Mondragone) la tangente richiesta alla ditta aggiudicataria dell'appalto (non collegata al clan) era assai simile.
2.5 Il nesso tra cave abusive e smaltimenti illeciti.
La connessione tra coltivazione abusiva di cave e smaltimenti illeciti è stata già all'attenzione della Commissione operante nella passata legislatura. In questa si sono avute ulteriori e numerose conferme dalle audizioni dei magistrati impegnati nel settore. È anzitutto opportuno fare riferimento alla situazione normativa rilevata in Campania, regione che più delle altre è colpita da tale doppio fenomeno illegale. Una prima legge regionale del 1985 è stata replicata nel 1995: il testo prevede, in assenza di un piano-cave specifico per la regione Campania, la possibilità di continuare ad effettuare l'attività estrattiva in alcune cave, sia pure a certe condizioni, nonché la possibilità di recupero ambientale o di riqualificazione delle aree
oggetto delle vecchie cave dismesse, cosa che rischia di diventare la leva per consentire attività di illecito utilizzo.
a misure cautelari antimafia; a questi rifiuti, vanno aggiunti altri quarantamila fusti che sarebbero stati seppelliti - a detta dello stesso Fazzari - dalla medesima organizzazione in una cava sita nei pressi di Lavagna, non ancora individuata.
2.6 La Commissione ritiene di dover sottolineare come tali traffici illegali di rifiuti siano significativi non solo - o non tanto - dal punto di vista della gestione illecita dei rifiuti, ma soprattutto per ciò che rappresentano in termini di infiltrazioni mafiose nelle aree «non tradizionali». Infatti l'ingresso delle società mafiose nell'affare, o comunque l'utilizzo di metodiche e strumenti tipici della cultura mafiosa, ingenera inevitabilmente la nascita di gruppi criminali organizzati satelliti che operano nel nord Italia, magari non ancora classificabili come veri e propri sodalizi delinquenziali di stampo mafioso, ma che possono avviarsi a diventarlo, e le vicende piemontesi più recenti, di cui diremo appresso, ne sono un segnale evidente.
criminalità organizzata nel business dei rifiuti. Del resto, questa regione è stata nei passati decenni terra interessata dai soggiorni obbligati di numerosi soggetti appartenenti alla criminalità organizzata, in particolar modo alla 'ndrangheta calabrese. Ciò ha determinato - specie nel savonese - l'arrivo di familiari ed amici di tali soggetti, i quali hanno in certa misura ricreato le attività delittuose tipiche di dette associazioni. Si tratta, del resto, di un fenomeno già ampiamente illustrato da altri soggetti istituzionali (si vedano, in particolare, le relazioni delle Commissioni parlamentari d'inchiesta sul fenomeno della mafia).
di elementi delle organizzazioni camorristiche in questa regione, mentre il rapporto relativo all'anno 1998 ha evidenziato il fenomeno dell'abbandono incontrollato di rifiuti anche pericolosi sul territorio, anche in relazione al forte rischio della penetrazione di elementi della criminalità organizzata nel mercato dei rifiuti, oltre che per le ripercussioni negative sull'ambiente.
2.6.1 Il caso del Piemonte.
Significative del fenomeno sin qui descritto e delle dimensioni che esso va assumendo sull'intero territorio nazionale sono - come si è anticipato - le indagini condotte dalle procure di Torino e di Milano, da cui emerge il collegamento tra società di intermediazione dell'Italia centro-settentrionale con la criminalità organizzata operante nell'Italia meridionale: i «collettori» dei rifiuti del nord si avvalgono, in sostanza, dell'opera di soggetti inseriti o comunque vicini alle organizzazioni criminali, che - grazie al controllo del territorio che garantiscono in determinate aree del Paese - offrono garanzie di facili e sicuri smaltimenti.
sono stati, infatti, sequestrati alcuni camion contenenti miscelazioni di rifiuti speciali pericolosi (nichel, manganese e cadmio) provenienti da un'altra società e destinati ad una ditta di Arezzo, che è risultata inesistente, mentre è stato accertato che i trasporti di rifiuti speciali pericolosi delle ditte venete erano, in realtà, tutti destinati ad una società di Napoli.
delle «attenzioni» degli interlocutori telefonici, sono stati effettivamente rinvenuti diversi bidoni contenenti rifiuti di varia tipologia emersi in superficie in occasione della citata alluvione; mentre si è accertato che nel sito era stato smaltito di tutto, dai rifiuti costituiti da sfridi e ritagli da lavorazione di gomma e plastica a rifiuti urbani, da polveri di fonderia a lattine, contenitori di plastica, legno e stracci.
(4) V. doc. XXIII, n. 12 (relazione sulla Campania), doc. XXIII, n. 23 (relazione sull'Abruzzo) e doc. XXIII, n. 32 (relazione sull'Emilia Romagna).
Le prime indagini hanno portato all'arresto in flagranza di sei persone colte nell'atto di interrare a circa dieci metri di profondità, all'interno di buche realizzate in un fondo coltivato a barbabietole da zucchero sito in Castel Volturno, centinaia di tonnellate di rifiuti pericolosi. Alcuni dei sei fermati hanno gravi precedenti penali e sono sospettati di gravitare nei clan camorristici. A monte dell'attività di smaltimento illecito vi era un centro di stoccaggio di Cassino, dove nel tempo sono state accumulate ingenti quantità di rifiuti speciali di varia tipologia: è singolare notare che, nonostante la non regolarità del centro, i rifiuti erano ammassati con un certo ordine, suddivisi a seconda della loro natura.
Sono stati poi accertati ingenti sversamenti illeciti di rifiuti di ogni tipo, compresi bidoni contenenti rifiuti tossici, presso una cava abusiva di S. Angelo in Formis, a pochi metri dal fiume Volturno, nel quale sono finiti i reflui di tale illecita attività. In assenza di una norma che sanzioni l'attivazione, coltivazione e gestione di una cava senza concessione o autorizzazione, è stato possibile contestare solo il deturpamento e la distruzione di bellezze naturali.
Altra inchiesta avviata dalla procura ha per oggetto la vicenda degli aiuti umanitari della Caritas, finiti in discariche abusive nell'agro aversano ed avellinese. È emblematico che il primo luogo in cui questi materiali sono stati rinvenuti nell'ottobre 1999 è Casal di Principe, territorio da sempre utilizzato per lo smaltimento illegale di rifiuti ed ormai ridotto ad un enorme immondezzaio, con nocumento gravissimo non soltanto ai beni ambientali, ma anche alla salute dei cittadini. È interessante notare che alcuni gestori di tali traffici illeciti si identificano negli stessi soggetti arrestati in flagranza di reato nell'operazione effettuata a Castel Volturno di cui sopra. Su quest'ultima vicenda, peraltro, sta indagando anche la dda di Firenze, in relazione all'omicidio di un pregiudicato camorrista di Ercolano.
Da ultimo, il 12 luglio 2000, è stata posta sotto sequestro l'azienda Bitumitalia, dove sono stati rinvenuti circa centomila quintali di rifiuti pericolosi, precisamente polveri provenienti dagli impianti di abbattimento
Il ciclo economico ecomafioso nasce e finisce nell'elemento cava: da qui vengono estratti - direttamente in maniera illecita o comunque da imprese del clan - i materiali inerti per le costruzioni (in gran parte abusive); una volta esaurita l'attività estrattiva nella cava, vengono sepolti in maniera illecita i rifiuti provenienti da tutta Italia. Da questo punto di vista l'emblema dell'attività ecomafiosa è senz'altro l'area di Sant'Angelo in Formis - sequestrata dalla procura di Santa Maria Capua Vetere - dove erano presenti sia i macchinari per l'attività estrattiva (che nel frattempo aveva rotto la falda creando uno dei noti «laghetti»), sia migliaia di tonnellate di rifiuti di ogni tipologia smaltiti ovviamente in maniera illecita.
Una delle costanti dell'azione del clan dei casalesi è quindi l'aggressione e il depauperamento, fino al degrado più estremo, dell'ambiente. Ma se questa è una caratteristica di diversi clan criminali, ciò che rende «paradigmatica» l'azione di questa organizzazione è la sua imprenditorialità. È stato infatti evidenziato alla Commissione che - ad esempio - il mercato del calcestruzzo è sotto il controllo del clan che, con la realizzazione di un consorzio ad hoc, ha di fatto imposto a chiunque volesse operare in tale settore economico l'adesione all'economia criminale.
Per quanto riguarda invece la gestione dei rifiuti, il discorso è in parte più complesso: il controllo sulle attività di illecito smaltimento è purtroppo fuori discussione, dato il capillare controllo del territorio operato dal clan. L'aspetto legale va invece considerato da diverse angolazioni: la fase dello smaltimento è gestita direttamente dal
Come si esplica tale controllo, e come tale controllo abbia in buona misura determinato l'attuale fase emergenziale per il ciclo dei rifiuti in Campania, emerge in maniera evidente dalle vicende relative all'appalto per la raccolta e lo smaltimento a Mondragone (Caserta). Si tratta di un episodio emblematico, che è opportuno ripercorrere seguendo la ricostruzione cronologica eseguita dalla direzione investigativa antimafia di Firenze:
«4 marzo 1991: il consiglio comunale, con verbale n. 17, a prosieguo della seduta del 18 febbraio 1991 ed a chiarimento della delibera n. 1253 del 19 settembre 1990, delibera l'approvazione del capitolato stanziato per lo smaltimento dei rsu. Nella delibera viene specificato l'ammontare della spesa di gestione pari a lire 2.952.936.000;
20 dicembre 1991: viene deliberata l'aggiudicazione dell'appalto per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti alla ditta Covim, che si aggiudicava l'asta per la somma di lire 2.923.000.640 al netto del ribasso dell'1 per cento sul prezzo a base d'asta. Si rappresenta che dagli atti risulta che delle ditte invitate alla gara d'appalto solo tre, tra cui la Covim, si presentarono; una, la ditta Fungaia Monte Somma di Ottaviano, non veniva ammessa perché facente parte di un raggruppamento di imprese, mentre la gara era per ditte individuali; l'altra, la Ciccarelli G. Battista di Giugliano, offriva un ribasso dello 0,6 per cento, quindi non veniva accettata. Altre due ditte inviavano una raccomandata nella quale specificavano di non poter partecipare alla gara;
10 febbraio 1992: la commissione straordinaria delibera di fornire chiarimenti al Coreco della provincia di Caserta in merito all'esclusione della ditta Fungaia Monte Somma. Detta ditta veniva esclusa in quanto invitata come ditta individuale e non come capogruppo di imprese riunite e veniva detto che la ditta facente parte del gruppo non era stata invitata a partecipare alle gare;
15 maggio 1992: la commissione straordinaria deliberava che doveva essere revocata la delibera del 20 dicembre 1991, con la quale veniva conferita l'aggiudicazione della gara di appalto alla ditta Covim e che la cessazione entrava in vigore dall'1 giugno 1992, in quanto il decreto regionale di autorizzazione per il predetto servizio presentato all'atto della gara era illeggibile;
19 maggio 1992: la commissione straordinaria, in merito alla revoca dell'appalto alla Covim, bandiva una nuova gara di appalto. Delle sette ditte invitate, a rispondere alla gara furono la Fungaia Monte Somma, la Ciccarelli G. Battista, la Tedesco Antonio, che rese
3 luglio 1992: la commissione straordinaria per i chiarimenti richiesti dal Coreco delibera che la Covim è autorizzata a smaltire i rsu presso l'impianto della società Alma, sita in Villaricca;
18 marzo 1993: a seguito della delibera n. 169 del 20 dicembre 1991 viene ratificato il contratto di appalto per la raccolta e lo smaltimento dei rsu tra il comune di Mondragone e la Covim. Dal contratto si evince che l'importo mensile per le operazioni di cui sopra è di lire 243.617.220; l'appalto sarebbe terminato al momento del conferimento dell'incarico alla ditta vincitrice della gara in quel momento in corso di espletamento;
18 dicembre 1995: il consiglio comunale, in merito all'indizione della gara di appalto per la raccolta dei rsu, delibera l'approvazione del nuovo capitolato speciale d'appalto, pari a lire 10.426.200.000 con affidamento triennale per il periodo 1996-1998;
23 settembre 1996: il consiglio comunale chiarisce al Coreco della provincia di Caserta quanto deliberato in data 18 dicembre 1995, in merito all'indizione della gara d'appalto per la raccolta dei rsu e dell'approvazione del capitolato speciale di appalto stanziato per tale scopo;
14 febbraio 1997: il consiglio comunale, in merito alla gara d'appalto per l'affidamento del servizio di raccolta, spazzamento, smaltimento e trasporto dei rsu, delibera di indire una gara di appalto a mezzo di licitazione privata con procedura accelerata;
30 maggio 1997: il consiglio comunale delibera l'approvazione dell'elenco delle ditte per la gara di appalto. Le ditte in argomento risultano essere: Covim, Ecocampania, Risan, Solapuma, Italo-Australiana, Consorzio Nazionale Servizi, mentre veniva esclusa Il Triangolo;
29 novembre 1997: la giunta comunale delibera l'approvazione di gara infruttuosa per il servizio di raccolta, spazzamento, smaltimento e trasporto dei rsu. Nel verbale viene fatto riferimento alla delibera dell'11 novembre 1996, vistata favorevolmente dal Coreco di Caserta, nella quale si provvedeva alla riapprovazione del capitolato speciale d'appalto per il servizio in argomento. Inoltre, viene specificato che alla gara avevano partecipato due ditte: la Covim e l'Ecocampania,
23 dicembre 1997: il responsabile del servizio per la ripartizione tecnica urbanistica, in merito alla gara di appalto per il servizio di raccolta, spazzamento, smaltimento e trasporto dei rsu, determina di indire una gara a licitazione privata, la riapprovazione del bando di gara e la lettera di invito per il servizio».
L'attività del clan dei casalesi, tuttavia, conferma l'allarme che la Commissione aveva lanciato in occasione del già richiamato forum di Napoli, relativo al salto di qualità che le ecomafie stavano compiendo. I clan criminali non si limitano più al solo smaltimento illecito, ma si trasformano essi stessi in impresa anche nel ciclo dei rifiuti. Non si accontentano più di imporre la «tassa camorra» - cioè una quota percentuale fissa su ogni lira guadagnata dalle aziende nel territorio controllato dall'organizzazione - ma si fanno impresa. Nel settore del calcestruzzo la creazione dei consorzi controllati dalla camorra - come è stato ben delineato alla Commissione - ha portato all'eliminazione della «tassa camorra» ed alla conseguente riduzione del prezzo di questo materiale. Una soluzione del genere non si è ancora registrata nel settore rifiuti; infatti, dalla documentazione esistente in Commissione, emerge con chiarezza come il clan dei casalesi imponga una sorta di tariffario a seconda dell'importo dell'appalto, per cui se dal comune di Mondragone, con un'azienda ad essi direttamente collegamente, pretendevano di guadagnare sessanta milioni al mese imponendo loro l'importo dell'appalto. Per quanto riguarda il comune
Non è più quindi la realizzazione della «semplice» discarica abusiva, o il «solo» condizionamento degli appalti, ma è tutto ciò più l'intervento diretto nel ciclo dei rifiuti che rende paradigmatica l'azione del clan dei casalesi: è la criminalità organizzata che prima impone la «tassa camorra», poi crea i consorzi, esclude dal mercato le aziende che non aderiscono ai consorzi, crea le sue imprese e - grazie ai consorzi - controlla le altre; in questa maniera (particolare non secondario) controlla anche la distribuzione dei posti di lavoro, creando consenso e quindi un clima quanto meno di non ostilità al giogo criminale. Un intervento diretto in questo settore economico al quale, secondo la Commissione, si debbono opporre strumenti investigativi ed amministrativi sofisticati, quali un effettivo controllo della titolarità delle aziende, una trasparenza piena degli appalti pubblici, il coordinamento anche telematico e la condivisione di tutte le informazioni a disposizione dei singoli apparati dello Stato. La mano pubblica destra deve sapere ciò che fa (e sa) la mano pubblica sinistra: la sinergia e la collaborazione possono solo moltiplicare le forze e le conoscenze, come questa Commissione ha avuto di constatare direttamente, purtroppo in non molte occasioni.
È opportuno ricordare come il numero degli affiliati al solo clan dei casalesi sia stimato intorno alle diecimila unità (superiore di alcune migliaia all'intero organico del Corpo forestale dello Stato). Negli ultimi anni, comunque, i presidi dello Stato sono aumentati: nella provincia di Caserta è stato aperto un comando del nucleo operativo ecologico dell'Arma dei carabinieri, è attiva - presso la prefettura - un'unità di crisi dedicata proprio al ciclo dei rifiuti. Un'attenzione che ha indotto il clan dei casalesi a modificare la sua attività nel campo degli sversamenti illeciti: come collaboratori di giustizia hanno rivelato alla Commissione, la criminalità organizzata ha infatti ritenuto di non usare enormi cave abusive come discariche, ma di procedere con il meccanismo dello «sversa e fuggi». Non solo, dalla provincia di Caserta il clan ha cominciato a «esportare» questa illecità attività al matese e alla marsica.
Si può ora parlare di un ulteriore aspetto e di altre implicazioni, rispetto ad una vecchia discarica abusiva in provincia di Salerno, già esaurita da qualche anno, nelle cui aree circostanti erano presenti altre discariche abusive ove si svolgevano attività estrattive e di sversamento, soprattutto di inerti da costruzione e di materiali plastici. Attorno alla discarica vi era uno sversamento di percolato che aveva dato luogo addirittura a veri e propri laghi. La situazione si è aggravata allorché il titolare, che nella zona portava avanti un'attività di escavazione, scavando ha contribuito a far crollare parzialmente una parte della vecchia discarica, causando una fuoriuscita di percolato che incrementava la superficie dei laghi e laghetti già esistenti. Questo ha creato problemi igienico-sanitari, per cui si è provveduto a sequestrare l'intera area della discarica e tutta l'area di cava oggetto dell'abusiva estrazione.
Significativo - in una zona limitrofa - appare l'utilizzo delle cave nella marsica, divenute sito elettivo di discarica; in tal caso si è riscontrata la capacità di adeguamento dei pregiudicati locali, divenuti in breve tempo la manovalanza deputata al rinvenimento dei siti di discarica, ed una prontezza nel reperimento di sempre nuove discariche. Così la camorra casertana non solo ha potuto continuare le sue attività di smaltimento illecito, ma ha anche creato clan «satelliti» in territori dove prima non era attiva: in questo casi il ciclo dei rifiuti rappresenta per la criminalità organizzata anche un'opportunità di espansione nelle aree non tradizionali.
È opportuno fare riferimento anche alla cosiddetta «operazione Mori», di cui la Commissione ha ritenuto essere informata direttamente dall'autorità giudiziaria di Lanciano. L'indagine, molto delicata e complessa, è ancora in corso, ma già emergono con chiarezza sia fenomeni di collusione amministrativa per il rilascio di autorizzazioni alle discariche, sia l'esistenza di collegamenti (mediante i noti meccanismi di smaltimento) tra attività di traffico illecito di rifiuti ed attività di gestione di cave per l'estrazione di materiale inerte per l'edilizia. Nel centro di smaltimento della ditta coinvolta nelle indagini, localizzato a Cerratina di Lanciano, ove formalmente veniva condotta un'attività di «cava con annesso impianto di frantumazione inerti», è risultato che in realtà nella parte esaurita della cava, sottoposta al ripristino ambientale, veniva effettuato uno smaltimento illecito di rifiuti miscelato con inerti; inoltre, i materiali stoccati producevano percolato che si immetteva, naturalmente senza alcun rispetto degli indici tabellari della legge n. 319/76, in un vicino rigagnolo affluente del fiume Sangro.
Altre vicende significative sono quelle relative alla gestione della cava Masci, in provincia dell'Aquila, dove risultano smaltimenti illeciti di rifiuti pericolosi provenienti da altre regioni (10).
In Liguria, a Borghetto Santo Spirito, sono state rinvenute circa 25 mila tonnellate di rifiuti pericolosi in una cava di proprietà di tale Federico Fazzari, parente di Carmelo Gullace, persona già sottoposta
In Sicilia è stato accertato lo smaltimento illecito di rifiuti pericolosi presso una cava abusiva sita in Montanaro (TP): in tal caso la scoperta è stata effettuata a seguito delle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia trapanese, che ha riferito su attività di intermediazione ad opera di cosche mafiose operanti nella provincia di Trapani.
L'utilizzo delle cave come discariche è un fenomeno comune anche all'interno di stabilimenti industriali: a Colleferro, nell'insediamento industriale Bpd, in una ex cava di pozzolana, dismessa da molti decenni, l'attività estrattiva ha comportato nel tempo la formazione di una serie di terrazzamenti a varie quote fino ad una profondità di cinquanta metri. Tale cava, tra la fine degli anni settanta ed il dicembre 1985, è stata utilizzata come discarica per rifiuti speciali provenienti dalle lavorazioni dello stabilimento, in virtù di una specifica autorizzazione regionale. I rifiuti - per i quali è stato approntato un piano di messa in sicurezza - provenivano essenzialmente dalla lavorazione di carri ferroviari e dalle lavorazioni chimiche e dei propellenti.
Già nella relazione sul Lazio si era evidenziato l'allarme lanciato dalla magistratura antimafia di Roma su località quali Cassino, Latina, Formia, Pomezia, Anzio, Nettuno e Ardea dove, dalla fine degli anni settanta, si sono insediati gruppi appartenenti alla criminalità organizzata calabrese, siciliana e, in particolare, campana, anche se a tutt'oggi queste ipotesi su tali filiere criminali operanti anche nel ciclo dei rifiuti hanno avuto solo un parziale e superficiale riscontro nelle audizioni di alcuni magistrati che se ne sono occupati e nei procedimenti penali attivati nel distretto.
Infiltrazioni di personaggi vicini alla criminalità organizzata campana sono già state citate nella vicenda della discarica di Pitelli, gestita dalla Contenitori Trasporti di Orazio Duvia: amministratori della società furono, nei primi anni novanta, elementi poi coinvolti nell'indagine «Adelphi» della magistratura napoletana.
In Liguria, la vicenda della cava rinvenuta a Borghetto Santo Spirito (v. sopra) è un altro esempio di presenza di elementi della
La diffusione di tali traffici illegali in aree non tradizionali è evidenziata anche dal percorso che rifiuti speciali e pericolosi stoccati presso vari centri della Lombardia effettuavano verso la Basilicata. Secondo la documentazione cartacea, i rifiuti erano avviati allo smaltimento presso discariche autorizzate lucane, ma tale destinazione era solo apparente, perché i gestori delle discariche negavano di averli mai ricevuti. Le difficoltà investigative non hanno reso sempre possibile l'individuazione dei siti finali di smaltimento ed il ritrovamento dei rifiuti, ma secondo l'organo inquirente vi è la certezza che lo smaltimento sia avvenuto nel territorio della Basilicata o, al più, in territori limitrofi, e che i ricettori finali dei rifiuti siano nella stessa regione.
Il traffico illegale di rifiuti anche pericolosi oggetto dell'inchiesta, tuttora in corso, è indicativa di quella «vocazione» della Basilicata - rappresentata dai vari soggetti istituzionali - a diventare meta di destinazione ideale degli smaltimenti illeciti anche in considerazione delle caratteristiche morfologiche del terreno, della presenza di impianti in via di abbandono e della scarsissima densità abitativa che consentono di sfuggire facilmente ai controlli.
Al riguardo, sono del tutto condivisibili le affermazioni del sostituto procuratore presso il tribunale di Potenza, (11) secondo il quale «è logico ritenere che la criminalità presente soprattutto nel materano, ma anche nel potentino, nella Val d'Agri e nel melfese non si può disinteressare di affari di questo genere. Non si vede perché un traffico di rifiuti, al quale è interessata la criminalità organizzata che si muove verso la Campania e la Puglia, non debba coinvolgere anche la Basilicata, che presenta un assetto territoriale che può apparire più idoneo a traffici di questo tipo». Una conferma viene dai numerosi sequestri di discariche abusive, da quella Ecobas nel comune di Pisticci (dove si sospetta siano stati smaltiti rifiuti pericolosi provenienti dal nord del Paese) a quella sita nel comune di Ferrandina, dove è stato rinvenuto anche amianto. Ancora, nel comune di Policoro, il sequestro di un ex zuccherificio, in cui giacevano circa 270 fusti contenenti rifiuti pericolosi, mentre nel sottosuolo è stata scoperta una discarica illegale con rifiuti di ogni genere, compresi molti materiali con amianto. In due capannoni non distanti da quest'area, le forze dell'ordine hanno scoperto circa 570 fusti contenenti rifiuti pericolosi.
Del resto, il rapporto sulla criminalità organizzata presentato dal Ministero dell'interno per l'anno 1997, pur non evidenziando la presenza di gruppi criminali nel ciclo dei rifiuti, ha indicato l'infiltrazione
In particolare, i fatti recentissimi (anni 1998-2000) all'attenzione della procura distrettuale di Torino, relativi ad alcuni smaltimenti illeciti di rifiuti anche pericolosi, confermano l'esistenza di un circuito criminale tra le regioni Veneto, Emilia Romagna, Piemonte e Campania, che opera con il coinvolgimento di ditte produttrici e smaltitrici di tali rifiuti, nonché avvalendosi dell'opera di intermediari (12).
La vicenda, che ha portato all'arresto in flagranza di uno dei responsabili nel giugno 2000, origina da alcuni fatti estorsivi commessi ai danni del titolare di una società di stoccaggio e smaltimento di rifiuti speciali sita nei pressi di Torino. La matrice dei fatti estorsivi era proprio la riscossione di crediti per l'illecito smaltimento di rifiuti speciali pericolosi.
Uno degli autori degli illeciti ha ammesso di aver firmato i formulari di identificazione per il trasporto dei rifiuti (imballaggi metallici), consegnando alla società gestita dalla vittima fatture che attestavano l'avvenuto smaltimento, mentre, in realtà, i rifiuti venivano consegnati a nomadi del luogo, che li abbandonavano sul territorio. Nel corso delle indagini è stato verificato che i luoghi di destinazione indicati nei formulari di trasporto corrispondevano, però, a discariche di rifiuti sequestrate in aree del Veneto e dell'Emilia Romagna. I trasportatori dichiaravano di aver eseguito i trasporti nei luoghi indicati affermando, però, che i carichi contenevano rifiuti speciali (morchie di verniciatura, pitture e altro) oltre che rifiuti metallici. Scaricati i rifiuti, i responsabili si recavano con lo stesso formulario presso due società venete, dove effettuavano un nuovo carico di rifiuti speciali con le stesse destinazioni illegali in zone di Rovigo, Ferrara e Bologna (aree visitate dalla Commissione).
La direttrice degli smaltimenti illeciti Piemonte-Emilia-Veneto non faceva capo solo alla società gestita dalla vittima degli atti estorsivi:
In sostanza, durante il tragitto da Venezia a Napoli i camion, muniti di formulari emessi dalle ditte venete per i rifiuti speciali pericolosi, ricevevano formulari (della società della vittima) che attestavano il trasporto di rifiuti speciali non pericolosi, così che la società di Napoli li poteva ricevere e riciclare nell'attività di produzione di bitume, altrimenti vietata per i rifiuti speciali pericolosi.
Gli smaltimenti illeciti, poi, avrebbero avuto la regia di un solo personaggio del milanese, che gestirebbe l'intero mercato parallelo ed illegale di rifiuti pericolosi nel nord Italia, avendo sotto il proprio controllo sia le imprese dedite alla produzione e stoccaggio dei rifiuti, che i siti destinati allo smaltimento illecito. Tale personaggio - secondo quanto sin qui emerso - «reclutava» fra gli stessi imprenditori in difficoltà, commissionando trasporti e stoccaggi di rifiuti pericolosi, naturalmente illeciti, ed indicando altresì le località in cui i rifiuti dovevano essere prelevati e successivamente occultati ed abbandonati; in cambio dell'attività d'intermediazione svolta, il predetto riceveva consistenti somme di danaro «in nero» sia dallo smaltitore dei rifiuti che dal produttore degli stessi.
Nella vicenda è coinvolto anche un personaggio attualmente sottoposto a misura di prevenzione per associazione per delinquere di stampo mafioso e collegato a note «famiglie» camorristiche del napoletano, che aveva il compito di indicare i terreni in cui i rifiuti dovevano essere abbandonati.
Tale vicenda rivela l'esistenza di ramificati rapporti tra alcune società produttrici di rifiuti, ubicate prevalentemente nel nord Italia, e società dedite allo stoccaggio e smaltimento illecito, nonché società «fantasma», che vengono costituite fittiziamente, al solo scopo di giustificare l'avvenuto smaltimento e riciclaggio previsto dalla legge. In ciascuna di queste società (vuoi di smaltimento, vuoi di autotrasporto dei rifiuti) interessate alle diverse fasi dell'attività illecita, gravitano, poi, soggetti collegati o comunque vicini alla criminalità organizzata, adusi a regolare i loro rapporti interni facendo ricorso sistematico all'intimidazione violenta ed armata.
Sempre relativamente al Piemonte, un collaboratore di giustizia sulle attività di cosa nostra ha parlato del riciclaggio del denaro proveniente dal traffico degli stupefacenti proprio nel settore dello smaltimento dei rifiuti speciali e pericolosi. In un'intercettazione telefonica, non mancano riferimenti ad una discarica piemontese dove, a seguito dell'alluvione del 1994, galleggiavano dei fusti ed alcuni personaggi esprimevano una certa preoccupazione; in particolare, uno di essi, poi identificato nel titolare della discarica abusiva di Montanaro, si esprimeva dicendo che «l'acqua bolle» e non poteva più ricevere nulla.
L'ipotesi della ricorrenza dell'associazione per delinquere non ha comunque retto al vaglio dell'organo giudiziario, ma questo solo per via della natura contravvenzionale delle norme in materia di smaltimento di rifiuti e l'assenza di riscontri di eventuali operazioni finanziarie o intrecci societari sospetti, che potessero confortare le ipotesi di riciclaggio. È certo tuttavia che nella cava di Montanaro, oggetto
Le analisi effettuate nell'immediatezza dell'evento alluvionale hanno inoltre rivelato la presenza nella discarica di coloranti classificabili come rifiuti tossico-nocivi, nonché la contaminazione delle acque da azoto ammoniacale e da rifiuti speciali non assimilabili agli urbani.
Anche questa vicenda mostra le difficoltà che angustiano l'operato degli organi investigativi impegnati nella lotta ai crimini contro l'ambiente, difficoltà che la Commissione intende continuamente ricordare. Anzitutto, l'incompatibilità strutturale tra la fattispecie associativa ed i reati in materia ambientale, che sono prevalentemente di natura contravvenzionale, tranne i casi in cui ricorrono altre ipotesi delittuose, come la truffa, le false fatturazioni, il disastro ambientale o l'avvelenamento delle acque (come nella vicenda estorsiva sopra descritta); il fatto che tali indagini richiedono tempi lunghi e l'utilizzo di una serie di strumenti investigativi non conciliabili con la natura contravvenzionale delle fattispecie sanzionate, caratterizzate dalla brevità del termine di prescrizione e dall'impossibilità, appunto, di accedere a strumenti investigativi particolarmente utili, come le intercettazioni telefoniche ed ambientali; la necessità di cogliere, al di là della singola vicenda di questa o quella discarica abusiva, aspetti di connessione e collegamenti con società e/o persone che spesso travalicano la competenza territoriale di un singolo ufficio giudiziario e, quindi, richiedono forme stabili di collegamento tra uffici giudiziari, nonché delle forze dell'ordine; l'assoluta inidoneità sotto il profilo sanzionatorio delle condotte incriminate in materia, perché le pene, davvero assai blande a fronte, poi, di profitti considerevoli e del breve termine di prescrizione, da un lato non fungono da deterrente ai comportamenti illeciti e, dall'altra, non sembrano giustificare l'impiego di mezzi e risorse investigative così consistenti e costose.
(5) V. interventi di Antonino Catanese e Alberto Cisterna.
(6) V. doc. XXIII, n. 34 (relazione sulla Sicilia).
(7) V. doc. XXIII, n. 21, approvato dalla Commissione antimafia il 26 gennaio 1999.
(8) Sul punto vedi anche l'audizione del procuratore distrettuale di Palermo, dottor Pietro Grasso, del 13 giugno 2000.
(9) V. audizione cit. e doc. XXIII, n. 34.
(10) V. doc. XXIII, n. 19 (relazione sull'Abruzzo).
(11) V. missione del 25 settembre 1998.
(12) V. audizione del procuratore distrettuale di Torino, dottor Marcello Maddalena, del 21 giugno 2000.