![]() |
![]() |
3. L'analisi dei dati del questionario.
3.1.1. La produzione di rifiuti speciali nelle aziende esaminate. La produzione nazionale di rifiuti speciali delle aziende prese in considerazione è stata di 1.727.049 tonnellate nel 1997 e di 1.982.306 tonnellate nel 1998 (5). Per quanto riguarda i soli rifiuti pericolosi, la
produzione nel 1997 è stata di 307.649 tonnellate, con un decremento - nel 1998 - a 297.435 tonnellate.
(5) I dati nel dettaglio sono pubblicati negli allegati VI/1 e VI/2 della presente relazione.
La maggiore produzione di rifiuti nelle aziende a rischio è stata registrata nel settore chimico (300.458 tonnellate nel 1997 e 266.156 tonnellate nel 1998), seguito da quello petrolchimico (196.755 tonnellate nel 1997 e 208.583 tonnellate nel 1998) e da quello petrolifero (180.025 tonnellate nel 1997 e 169.360 tonnellate nel 1998). Considerando i rifiuti pericolosi, è stato sempre il settore chimico ad aver fatto registrare anche la maggiore produzione: 185.081 tonnellate nel 1997 e 187.121 nel 1998. Va qui comunque evidenziato il dato del settore petrolifero, che tra il 1997 e il 1998 ha visto più che raddoppiata la produzione di rifiuti pericolosi: da 23.055 tonnellate a 43.057 tonnellate.
3.1.2. La produzione regionale dei rifiuti speciali nelle aziende esaminate. Incrociando i dati cumulativi per settore e per regione (6), si nota che nel settore chimico la maggiore produzione di rifiuti per il 1997 si è registrata in Lombardia (113.584 tonnellate), seguita da Veneto (85.415 tonnellate) e Liguria (19.028 tonnellate). Anche per il 1998 è la Lombardia che - per il settore chimico - ha fatto registrare la maggiore produzione di rifiuti (106.241 tonnellate), seguita da Veneto (62.486 tonnellate) e Friuli-Venezia Giulia (20.998 tonnellate).
(6) I dati sono pubblicati negli allegati VII-XXV della presente relazione.
Per quanto riguarda il settore petrolifero, nel 1997 la maggiore produzione di rifiuti si è registrata in Sicilia (76.148 tonnellate), seguita da Sardegna (47.877 tonnellate) e Marche (11.369 tonnellate). Nel 1998 la maggiore produzione di rifiuti nel settore petrolifero si è avuta sempre in Sicilia (79.451 tonnellate), seguita da Marche (24.681 tonnellate) e Sardegna (19.471 tonnellate).
Anche nel settore petrolchimico, per il 1997, è stata la Sicilia la
regione ove si è avuta la maggiore produzione di rifiuti (59.002 tonnellate), seguita da Sardegna (40.502 tonnellate) ed Emilia-Romagna (39.859 tonnellate). Nel 1998 in Sicilia, sempre nel settore petrolchimico, si sono prodotte 58.550 tonnellate di rifiuti, in Emilia-Romagna 48.960 tonnellate e in Sardegna 35.576 tonnellate.
Per quanto riguarda infine i soli rifiuti pericolosi, sia nel 1997 che nel 1998 la maggiore produzione (per quanto riguarda le aziende considerate) si è avuta in Lombardia: 87.040 tonnellate nel 1997 e 89.398 tonnellate nel 1998. In sostanza, in tale regione si è registrata una produzione di rifiuti pericolosi che rappresenta poco meno del 30 per cento del campione nazionale.
3.1.3. La produzione di rifiuti speciali nelle aziende non a rischio considerate. Per quanto riguarda le aziende non a rischio considerate dall'indagine, la maggiore produzione di rifiuti si registra quasi ovunque negli impianti Enel; fa eccezione il Piemonte, dove la maggiore produzione di rifiuti si registra presso la Fiat di Orbassano (895 tonnellate nel 1997 e 971 tonnellate nel 1998), che supera di gran lunga la centrale Enel di Trino Vercellese (53.2 tonnellate nel 1997 e 78 tonnellate nel 1998). È, a questo proposito, opportuno ricordare come
tale centrale sia alimentata a gas, il che determina una consistente riduzione anche nella produzione dei rifiuti.
Come si è visto, il trend di produzione dei rifiuti speciali nelle aziende a rischio è in crescita dal 1997 al 1998 ed in particolare la produzione dei rifiuti pericolosi è in aumento nei settori chimico e petrolifero, mentre è in diminuzione negli altri settori. L'aumento è legato a motivi vari, sia intrinseci al processo che connessi all'attività dell'azienda (come le fermate di impianto, che fanno aumentare notevolmente la quantità di rifiuti di manutenzione e bonifica impianti) o a problemi legati alle normali condizioni di housekeeping, che possono comportare l'accumulo di materiali vari anche pericolosi e la rimozione in tempi lunghi a volte dell'ordine di un anno. La crescita nella produzione dei rifiuti denota comunque:
una scarsa propensione delle aziende ad introdurre innovazioni nei cicli produttivi;
una insufficiente sensibilizzazione dei dipendenti delle aziende e delle ditte di manutenzione a rispettare spontaneamente regole di housekeeping ove queste non vengano imposte e richieste dalle aziende stesse.
Certamente contribuisce alla crescita dei rifiuti pericolosi nel 1998 anche l'effetto della nuova classificazione dei rifiuti ai sensi dell'articolo 7 del decreto legislativo n. 22 del 1997. Com'è noto, il decreto del Presidente della Repubblica n. 915 del 1982 definiva, tra l'altro, rifiuto speciale tossico e nocivo quello la cui concentrazione di un determinato inquinante in esso presente superava il limite di legge dello stesso inquinante. Con il decreto legislativo n. 22 del 1997 i rifiuti sono classificati come urbani e speciali secondo la loro origine e, secondo le caratteristiche di pericolosità, come speciali pericolosi e speciali non pericolosi. La tossicità e la nocività sono due (H6, H5) delle 14 classi di pericolosità: pertanto un rifiuto classificato speciale non tossico e non nocivo con il decreto del Presidente della Repubblica n. 915 del 1982, ora può essere classificato pericoloso se appartiene ad una delle altre 12 classi di pericolosità dell'allegato I del decreto legislativo n. 22 del 1977 (7).
(7) Nell'allegato XXVI vi è un esempio di classificazione di rifiuti pericolosi, già non tossici e non nocivi.
3.2. Processi produttivi e relativi flussi di rifiuti. Prima di descrivere i flussi di rifiuti più rappresentativi che originano dai singoli processi, va precisato che vi è una gamma di rifiuti speciali prodotti indipendentemente dall'attività dell'azienda, che a volte ha una incidenza non trascurabile sulla produzione totale di rifiuti. Si tratta di tipologie di rifiuti, pericolosi e non, che potremmo definire «rifiuti di impianto», come i residui di manutenzione, i residui di pulizia apparecchiature o gli imballaggi di apparecchiature e prodotti impiegati nel ciclo produttivo (8).
(8) Nell'allegato XXVII è riportato un elenco, non esaustivo, di tali tipologie di rifiuti.
3.2.1. Settore chimico e farmaceutico. Dalla conoscenza dei processi produttivi più rappresentativi di ogni azienda è possibile ricavare
numerose informazioni sui rifiuti che da essi residuano, sulle loro caratteristiche di pericolosità, sulla loro incidenza non solo sulla carica di processo impiegata ma anche sul prodotto ottenuto. Inoltre, dalle informazioni inerenti il processo produttivo può essere possibile comprendere se nel processo stesso (negli anni, presi come riferimento, 1997-1998) sono state o possono essere state apportate modifiche in termini di tecnologie innovative, in grado non solo di minimizzare la produzione dei rifiuti ma anche naturalmente di ottimizzare le rese di produzione e la qualità dei prodotti stessi (9).
(9) Negli allegati XXVIII e XXIX è riportato un elenco (non esaustivo) delle tipologie di rifiuti più ricorrenti nel settore chimico e farmaceutico.
3.2.2. Settore petrolifero. Le tipologie dei rifiuti più ricorrenti nel settore petrolifero consistono in fondami di serbatoi che originano dall'accumulo nel tempo di paraffine, ruggine, sali veicolati dall'acqua di spinta delle linee, eccetera. La presenza di acqua è anche la causa del formarsi di emulsioni oleose. Tipologie rappresentative sono anche i fanghi di alchilazione, sia acidi che alcalini, i catalizzatori esausti, i residui catramosi, gli acidi, gli alcali e la monoetanolammina esausti. I fanghi di alchilazione, sia acidi che alcalini, sono classificati, ai sensi di quanto previsto dall'allegato D del decreto legislativo n. 22 del 1997, come rifiuti speciali pericolosi. È da rilevare, a tale proposito, che da alcuni questionari emerge una erronea classificazione di tali fanghi, talvolta classificati dalle aziende come speciali non pericolosi, rifacendosi al decreto del Presidente della Repubblica n. 915 del 1982, non più vigente. Questo fatto, come è facilmente comprensibile, determina metodologie di smaltimento non adeguate, con ripercussioni negative dal punto di vista dell'impatto ambientale.
Un discorso a parte merita il problema delle sode esauste, ossia dei liquidi alcalini utilizzati per l'assorbimento dei gas acidi di raffineria. Nella quasi totalità delle raffinerie si è riscontrato che tali streams sono considerati a tutti gli effetti acque contaminate da alcali e come tali avviati alla depurazione come acque di scarico: ad avviso della Commissione, ciò costituisce una violazione della norma, poiché si tratta a tutti gli effetti di liquidi alcalini esausti, classificati rifiuti pericolosi dall'allegato D del decreto legislativo n. 22 del 1997. Dalle risposte dei questionari è emerso anche che alcune aziende ritengono di considerare come prodotto il tar derivante dagli impianti di visbreaking, contrariamente alla definizione di rifiuto che ne danno le direttive comunitarie e l'allegato D del decreto legislativo n. 22 del 1997. Tali aziende, in quanto «prodotto», lo utilizzano per alimentare gli impianti di gassificazione per la produzione di energia. Bisogna considerare che la classificazione del tar come rifiuto pericoloso richiederebbe, per gli impianti che lo smaltiscono, la prevista autorizzazione ai sensi del decreto legislativo n. 22 del 1997 (10).
(10) Le tipologie di rifiuti più ricorrenti del settore petrolifero sono riportate nell'allegato XXX; alcuni esempi dell'incidenza della produzione di rifiuti sul processo globale di raffinazione sono riportati nell'allegato XXXVI.
3.2.3. Settore petrolchimico. La gamma di rifiuti derivanti dai processi petrolchimici è assai più ampia rispetto al settore della
raffinazione del petrolio, pur essendo quest'ultimo a volte integrato con la produzione petrolchimica. L'elenco delle tipologie più ricorrenti è riportato nell'allegato XXXI. Nell'allegato XXXV sono invece riportati alcuni esempi di incidenza della produzione di rifiuti sulla carica dell'impianto, per quanto attiene al processo cloro-soda.
3.2.4. Settore metallurgico. Le tipologie di rifiuti più ricorrenti nel settore metallurgico sono quelle dell'allegato XXXII.
3.2.5. Settore metalmeccanico. I rifiuti del settore metalmeccanico, rappresentato essenzialmente dagli impianti della Fiat, sono prevalentemente residui di verniciatura e sverniciatura, pitture e solventi esausti, particelle di materiali ferrosi, come si può evincere dall'allegato XXXIII.
3.2.6. Settore della produzione di energia. Il settore della produzione di energia da centrali termoelettriche è caratterizzato dalla presenza di rifiuti essenzialmente costituiti da ceneri leggere, ceneri pesanti, polveri da elettrofiltri, come riportato nell'allegato XXXIV. L'allegato XXXVII mostra invece alcuni esempi di incidenza per due parametri rilevanti: la produzione di rifiuti e l'emissione di polveri rispetto alla carica dell'impianto.
3.3. Le procedure di gestione dei rifiuti. Una corretta gestione dei rifiuti all'interno delle aziende deve rispettare una serie di condizioni come: le politiche aziendali, il rispetto della normativa vigente, la minimizzazione della produzione dei rifiuti, la scelta di operatori terzi dello smaltimento idonei e affidabili, in grado di garantire procedure corrette, la verifica che il costo di smaltimento sia adeguato alle tipologie da smaltire. La procedura inoltre deve essere interiorizzata dal personale aziendale, applicata correttamente allo scopo di minimizzare la vulnerabilità dell'immagine aziendale, verificata periodicamente tramite audit interni e/o esterni. Essa inoltre deve essere tempestivamente adeguata ogni-qualvolta muta il quadro normativo di riferimento, innovata se le tecnologie disponibili sul mercato, pur tenendo in debito conto il rapporto costi/benefici, sono in grado di garantire un miglior livello di qualità ambientale.
Dalle risposte al questionario è emerso che circa il 60 per cento delle aziende a rischio considerate è in possesso di una procedura di gestione dei rifiuti che - almeno in linea teorica - appare adeguata alle prescrizioni del decreto legislativo n. 22 del 1997. Relativamente al campione di aziende non a rischio, la procedura è adeguata alla normativa vigente nell'80 per cento dei casi e solo un'azienda ha dichiarato di non disporne affatto. L'azione della Commissione è servita in qualche caso da stimolo in quanto più di un'azienda ha avvertito la necessità di organizzare al proprio interno un sistema più razionale per le diverse fasi dello smaltimento.
3.4. La minimizzazione dei rifiuti. Sono ancora pochi i casi di aziende impegnate ad attuare programmi e procedure volte ad una effettiva riduzione della produzione di rifiuti all'origine. In termini
percentuali, il 26 per cento del campione delle aziende a rischio non ha risposto alla domanda, il 19 per cento ha affermato di avere programmi di minimizzazione in itinere e il 55 per cento di non averne. Il panorama è ancora meno soddisfacente nel settore delle aziende non a rischio, dove il 77 per cento del campione risponde di non avere programmi di minimizzazione, il 3 per cento di avere una procedura, mentre il rimanente 20 per cento non ha risposto al quesito.
I dati sopra esposti mostrano che tuttora viene generalmente disatteso dalle aziende uno dei caposaldi della politica comunitaria e nazionale del sistema di gestione dei rifiuti: la riduzione degli stessi all'origine non solo in quantità ma anche in pericolosità, attraverso il ricorso a nuove forme di progettazione e ad innovazioni tecnologiche nei cicli produttivi. Peraltro, quanto sopra detto è confermato dal trend in crescita della produzione nazionale di rifiuti speciali, sia pericolosi che non pericolosi, nei due anni oggetto dell'indagine.
3.5. La contrattualistica e i costi di smaltimento. Per quanto riguarda lo smaltimento dei rifiuti, le imprese hanno sostanzialmente di fronte a sé due strade: la prima è quella dello smaltimento in proprio, la seconda è connessa all'affidamento in appalto di tale servizio. In entrambi i casi è evidente la necessità del rispetto delle norme ambientali, che deve essere sentito sia al proprio interno da tutto il personale nelle operazioni quotidiane, sia verso l'esterno quando un prodotto, o un rifiuto, varca la soglia dell'azienda stessa. Per attuare tali regole comportamentali è opportuna, a monte di tutto ciò, la creazione di una struttura interna tecnico-amministrativa che segua l'evoluzione della normativa ambientale e dei vincoli che questa impone, e che sia in grado di elaborare i criteri per identificare e qualificare sul mercato soggetti e aziende terze specializzati in servizi ambientali.
Ciò facendo - nel caso di affidamento a terzi del servizio di smaltimento - l'azienda può predisporre una vendor list ambientale in maniera che l'affidamento, a seguito di gara indetta tra aziende della vendor list, avvenga nei confronti dell'operatore o dell'azienda che offre le maggiori garanzie per quel determinato tipo di rifiuto da smaltire.
Nel settore dei rifiuti, il buon esito dello smaltimento definitivo dipende spesso dalle modalità e dalle clausole con cui è stato perfezionato il contratto con la ditta terza.
Dall'esame dei questionari è emerso invece che i rapporti intercorrenti tra l'azienda ed i fornitori di servizi (smaltimento in discarica, trattamenti di inertizzazione, termodistruzione) sono sostanzialmente carenti sotto il profilo tecnico. I contratti non indicano, cioè, le modalità effettive di gestione dei rifiuti da smaltire. Ciò comporta anche difficoltà, sia per l'azienda che per l'organo di controllo, di poter operare concretamente nell'azione di vigilanza. Ad esempio, risulta estremamente difficile seguire i percorsi fisici del rifiuto dal momento della consegna da parte del produttore (si ricorda che da questo momento la responsabilità di legge passa a colui che prende in consegna il rifiuto), nonché individuare le modalità chimico-fisiche degli eventuali trattamenti, la destinazione finale del rifiuto, eccetera. Le piccole e medie aziende, soprattutto, difficilmente istruiscono gare
tra aziende precedentemente selezionate e qualificate, e non si curano quindi di imporre vincoli, basando la trattativa quasi esclusivamente sul ribasso dei prezzi. La conferma di ciò viene osservando i costi di smaltimento di alcune aziende chimiche che non trovano giustificazione in un corretto smaltimento, arrivando a medie di 70/100 lire per chilo di rifiuto industriale da smaltire in discarica (un costo che risulterebbe competitivo anche per il corretto smaltimento di una equivalente quantità di Rsu avviato in discarica controllata).
Tra le medie aziende chimiche e farmaceutiche si sono riscontrati casi di imprese che hanno elaborato una propria vendor list, hanno compiuto visite preliminari ai siti e alle strutture delle aziende di smaltimento, ma non hanno poi esercitato le necessarie azioni di follow up, vanificando in parte le loro esigenze di un corretto smaltimento: in alcuni casi è emerso che del rifiuto conferito allo stoccaggio provvisorio si è poi persa ogni traccia. L'introduzione dell'articolo 33 del decreto legislativo n. 22 del 1997 e del decreto ministeriale 5 febbraio 1998 (che attengono, rispettivamente, alle procedure semplificate ed alle regole per il riciclo e il riutilizzo dei rifiuti speciali non pericolosi), più che occasione per vivacizzare il mercato delle materie prime seconde, è stato colto da diverse aziende come un vincolo di legge in meno da rispettare nel liberarsi dei propri rifiuti, senza particolari attenzioni per la destinazione effettiva del rifiuto stesso; per gli operatori «deviati» è apparso poi come un'occasione per effettuare trattamenti di recupero virtuali, alterando i prezzi del corretto smaltimento e, cosa ancora più grave, mettere fuori mercato o creare forti difficoltà alla categoria dei corretti smaltitori-recuperatori.
Nei contratti perfezionati dalle grandi aziende a rischio del settore petrolchimico e in quelle di produzione dell'energia elettrica vi è una generalizzata «attenzione» ad attribuire ogni responsabilità del buon andamento delle operazioni di smaltimento alla ditta terza. Va detto che si tratta di un modus operandi del tutto in linea con la vigente normativa che considera, contrariamente a quanto si verificava con il decreto del Presidente della Repubblica n. 915 del 1982, responsabile dello smaltimento il detentore, e quindi colui che, da quando il rifiuto varca il cancello dell'azienda, lo trasporta, lo tiene in stoccaggio, lo conferisce agli impianti di smaltimento; tuttavia un simile atteggiamento denota uno scarso interesse dell'azienda a verificare se le operazioni indicate nel contratto vengano realmente effettuate, se il servizio venga effettivamente reso per quanto è stato pagato, se i trattamenti di inertizzazione siano stati corretti, eccetera. Solo in pochi casi i contratti di smaltimento perfezionati da alcune raffinerie con operatori terzi che effettuano trattamenti di inertizzazione di rifiuti pericolosi, e con smaltimento successivo in discariche autorizzate interne alle aziende o esterne, appaiono ben strutturati. In tal caso, infatti, costi di trattamento e smaltimento riportati nei contratti sono più conformi alla realtà operativa ed ai costi effettivi dei chemicals impiegati nel trattamento di inertizzazione. Negli allegati XXXVIII, XXXIX e XL vengono riportati, a titolo di esempio, i costi di smaltimento globali per il 1997 e per il 1998 riferiti alle aziende Enichem, al settore petrolifero e alle centrali termoelettriche dell'Enel.
3.6. Impianti interni autorizzati per alcune fasi dello smaltimento. Sono le grandi aziende del settore petrolifero, petrolchimico, farmaceutico, metallurgico, di produzione di energia, e - in misura minore - del settore chimico a disporre di impianti autorizzati per alcune fasi dello smaltimento quali discariche interne di tipo 2B e 2C, stoccaggi provvisori, trattamento e termodistruzione. Il 34 per cento del campione delle aziende a rischio ha risposto di avere propri impianti, il 46 per cento ha risposto di non averne, mentre il rimanente 20 per cento non si è espresso. Nel caso delle aziende non a rischio il 70 per cento risponde di avere propri stoccaggi provvisori, il 17 per cento di non averne e il rimanente 13 per cento non si esprime. Occorre però notare, sulla base di verifiche dirette, che tali impianti interni non sempre rispettano le prescrizioni dei decreti assessoriali, anzi in qualche caso tali decreti vengono del tutto disattesi (un caso emblematico è quello dello stoccaggio provvisorio della raffineria di Milazzo) e i rifiuti vengono stoccati nei punti più disparati degli impianti con evidenti violazioni della norma che regola lo stoccaggio dei rifiuti pericolosi. Si osserva quindi che, in mancanza di severi controlli da parte dell'organo amministrativo, il detentore del rifiuto può usufruire di un rilevante grado di libertà.
Un caso di una certa rilevanza attiene alla centrale Enel di S. Filippo del Mela, presso la quale sono state stoccate quantità rilevanti di «legno contaminato da oli, vernici e solventi» e da qui avviate a smaltimento come rifiuti speciali non pericolosi nella discarica Andolina di Siracusa.
Un altro esempio riguarda le traversine ferroviarie stoccate nel 1997 dall'Enichem Marghera, avviate a smaltimento come rifiuti speciali non pericolosi nella discarica Geonova di Istrana (Treviso), quando ancora non era in vigore il decreto ministeriale del 5 febbraio 1998.
3.7. Gestione di particolari rifiuti.
3.7.1. Amianto. La gestione dei rifiuti di amianto ancora presente nelle aziende sotto forma di coibentazioni di tubazioni in corda o misto a fluoruri, silicati, solfati, o sotto forma di pannellature montate in alcuni edifici o sotto forma di miscela amianto-cemento (eternit), richiede particolare attenzione dati i gravi danni alla salute che possono provocare le fibre libere. Negli ambienti di lavoro, com'è noto, al fine di prevenire inconvenienti o rischi, la normativa vigente impone che venga predisposta una mappa con indicazioni precise dei punti in cui l'amianto è presente sotto qualsiasi forma, in maniera da assicurare la più ampia protezione del personale nel momento in cui si decidesse di rimuovere dai manufatti il materiale asbestoso. Solo così può essere predisposto il piano di lavoro di rimozione da inviare alla competente Asl e ricevere il nulla osta per l'inizio delle attività di cantiere. Il quesito posto nel questionario aveva quindi il duplice scopo di avere precise informazioni sulle quantità di amianto ancora presenti nelle aziende considerate e di poter identificare sulla mappa i punti in cui esso si trova. Esperienze sul campo da parte della Commissione
hanno consentito di verificare che in realtà industriali complesse la mappa è di fondamentale importanza. Il 53 per cento del campione delle aziende a rischio ha risposto di essere in possesso della mappa dell'amianto, il 22,4 per cento ha affermato di non possedere la mappa perché non ha amianto, il rimanente 24,6 per cento non ha risposto al quesito.
Sul versante delle aziende non a rischio il 73,3 per cento risponde di avere la mappa dell'amianto, il 7 per cento di non averla perché non ha amianto e il 19,7 per cento non risponde. Appare comunque utile effettuare una stima dell'amianto ancora presente presso le aziende, dati i problemi che esso comporta ai fini dello smaltimento e in considerazione anche della esiguità del numero di impianti nazionali idonei allo smaltimento e dell'ampio ricorso allo smaltimento in impianti esteri o in discariche nazionali, non sempre dimostratesi adeguate. In riferimento all'eternit installato ancora nelle aziende a rischio, il 31 per cento delle aziende ha dichiarato di avere ancora eternit installato, mentre per le aziende non a rischio la risposta positiva è stata del 70 per cento. Sul particolare tema dell'amianto, tuttavia, la Commissione ha in corso una specifica attività d'indagine alla quale sin d'ora si rimanda per valutazioni più specifiche.
3.7.2. Policlorobifenili (PCB). Com'è noto, l'olio sintetico costituito da policlorobifenili/policlorotrifenili non è più commerciabile nei Paesi comunitari date le sue caratteristiche di pericolosità. L'olio PCB e le sue miscele con policlorotrifenili sono stati a lungo impiegati come oli isolanti in apparecchiature elettriche (trasformatori, condensatori, etc.). La normativa comunitaria e nazionale impone che non vengano più effettuati rabbocchi di PCB nelle apparecchiature che lo contengono (peraltro sul mercato non sarebbe possibile trovarlo) e che quando le caratteristiche dell'olio non sono più sufficienti per garantirne l'impiego primario esso debba essere smaltito. A livello nazionale vi è un grave deficit di impianti in grado di smaltire tale tipologia di rifiuto, per cui la gran parte dell'olio PCB e le sue miscele vengono avviate verso impianti di altri Paesi europei (prevalentemente Francia, Finlandia, Gran Bretagna e Norvegia).
Il quesito posto dal questionario tendeva a conoscere, tra l'altro, quanti trasformatori con PCB siano ancora presenti nelle aziende del campione. Il questionario ha fornito il seguente dato: il 27 per cento ha ancora trasformatori con PCB, il 38 per cento non ha trasformatori con PCB ma con altri oli minerali, il rimanente 35 per cento non ha risposto. Nelle aziende non a rischio il 67 per cento del campione (si tratta esclusivamente di impianti Enel) ha risposto di avere ancora trasformatori con PCB, mentre il 20 per cento ha risposto di avere trasformatori con altri oli minerali; il rimanente 13 per cento non ha risposto.
Un problema che si pone è quello relativo allo smaltimento delle carcasse metalliche dei trasformatori. Non sempre queste vanno all'estero per essere termodistrutte, ma vengono riciclate o avviate nelle acciaierie nostrane. Alcune aziende che ritirano gli oli PCB e le apparecchiature affermano di effettuare la decontaminazione delle carcasse metalliche e di avviare queste ultime al recupero metalli. La
Commissione deve, a questo proposito, evidenziare le rilevanti difficoltà tecniche di tale processo di decontaminazione, con rischi connessi al fatto che quantità residue di PCB in tali apparecchiature vengono poi liberate nel processo di recupero termico sotto forma di diossine.
3.7.3. I catalizzatori esausti. Questa categoria di rifiuti, comune a tutti i settori produttivi considerati nell'indagine ad eccezione degli impianti Fiat ed Enel, è attualmente all'attenzione della Commissione, che non solo ha attivato una serie di audizioni, ma sta elaborando uno studio specifico nell'ambito di un documento relativo al trasporto transfrontaliero dei rifiuti destinati al recupero. Vi sono sull'argomento alcuni punti in discussione riguardo ai codici, all'appartenenza alle liste (verde, ambra, rossa) del regolamento CEE n. 259 del 1993, all'effettiva rigenerazione o all'effettivo riciclo. Anche le risposte fornite dalle aziende mostrano un panorama assai articolato, che fa ben comprendere come la materia necessiti di una regolamentazione chiara e definitiva.
3.7.4. Gli oli usati. Il consorzio obbligatorio degli oli usati - istituito con decreto del Presidente della Repubblica n. 691 del 1982, di recepimento della direttiva CEE n. 439 del 1975 - ha, tra l'altro, il compito di «assicurare, incentivare e garantire» la raccolta degli oli usati ritirandoli dai detentori e dalle imprese autorizzate. Successivamente al recepimento della prima direttiva CEE, con decreto legislativo n. 95 del 1992 come integrato dal decreto ministeriale n. 392 del 16 maggio 1996, è stata recepita nell'ordinamento italiano anche la direttiva CEE n. 101 del 1987. L'articolo 1, comma 1, del decreto legislativo n. 95 del 1992 definisce l'olio usato come «qualsiasi olio industriale o lubrificante a base minerale o sintetica, divenuto improprio all'uso cui era inizialmente destinato, in particolare gli oli usati dei motori a combustione interna e dei sistemi di trasmissione, nonché gli oli minerali per macchinari, turbine, comandi idraulici e quelli contenuti nei filtri usati». Il consorzio provvede inoltre al ritiro delle emulsioni oleose. La Commissione, al fine di avere un quadro aggiornato della situazione nazionale e di dettaglio degli oli esausti conferiti in alcune regioni, ha richiesto al consorzio i dati ufficiali con lettere del 5 ottobre e del 19 novembre 1998. Sulla base delle risposte pervenute è stato possibile rilevare, in particolare, che non sempre vi è corrispondenza tra i dati ufficialmente resi dal consorzio e quelli dichiarati alla Commissione dalle aziende nel questionario. A tale proposito, si evidenzia il caso della raffineria Erg di Priolo Gargallo (Siracusa) (11).
(11) V. allegato XLI.
3.7.5. I materiali radioattivi. In numerose aziende (a rischio e non a rischio) sono presenti materiali radioattivi, quali gli indicatori di livello dei serbatoi, i parafulmini, le sorgenti di apparecchiature gas-cromatografiche di laboratorio (detector a cattura di elettroni), gli analizzatori di zolfo, i rivelatori di fumo, gli analizzatori di polveri. Il
quesito posto alle aziende sulla presenza delle sorgenti vuole essere un contributo ai censimenti effettuati dall'Anpa sui rifiuti radioattivi nazionali, in preparazione di una gestione nazionale che dovrebbe essere curata dall'Angerir (Agenzia nazionale per i rifiuti radioattivi), della cui istituzione la Commissione si è fatta promotrice. I dati ottenuti per le aziende a rischio mostrano che il 33 per cento del campione dichiara di utilizzare sorgenti radioattive, il 32 per cento di non averne, mentre il rimanente 38 per cento non risponde al quesito. Il 57 per cento del campione delle aziende non a rischio risponde di detenere sorgenti radioattive, il 30 per cento dichiara di non averne ed il restante 13 per cento non risponde. Le sorgenti radioattive più ricorrenti sono costituite da curio 244, americio 241 , cobalto 60, cesio 137, ferro 55, promezio 147 e carbonio 14.
3.8. I siti contaminati e i rifiuti potenziali da essi derivanti. Com'è noto, l'articolo 17 del decreto legislativo n. 22 del 1997 riguarda la bonifica e il ripristino ambientale dei siti contaminati. Il comma 1-bis prevede inoltre che «i censimenti di cui al decreto ministeriale n. 121 del 26 maggio 1989 vengano estesi alle aree interne ai luoghi di produzione, raccolta, smaltimento e recupero dei rifiuti, in particolare agli impianti a rischio di incidente rilevante di cui al decreto del Presidente della Repubblica 17 maggio 1988, n. 175, e successive modificazioni. Il Ministro dell'ambiente dispone, eventualmente attraverso accordi di programma con gli enti provvisti delle tecnologie di rilevazione più avanzate, la mappatura nazionale dei siti oggetto dei censimenti e la loro verifica con le regioni».
L'obiettivo del quesito in materia era quello di fare una stima dei rifiuti provenienti dalle operazioni di bonifica e prevedere le necessità impiantistiche aggiuntive, per far fronte all'aumentata quantità di rifiuti. Infatti, i quesiti posti riguardavano gli spills superficiali e sotterranei nel periodo 1992-1998 e i terreni contaminati in maniera più estesa e consistente. Per quanto riguarda gli spills (fuoriuscite di materiale), non va dimenticata al riguardo la bonifica dei siti inquinati, all'interno delle aziende, nei casi in cui si verifichi sversamento e/o perdite di prodotti dalle strutture impiantistiche (tubazioni, valvole, serbatoi, eccetera). La risposta del campione delle aziende a rischio, relativamente agli spills, è stata la seguente: il 17 per cento ha dichiarato di avere avuto spills superficiali di prodotto nel periodo considerato, il rimanente 83 per cento ha dichiarato di non averne avuti. Per ciò che riguarda gli spills nelle aziende non a rischio, il 2 per cento ha risposto positivamente e il 98 per cento di non averne mai avuti. Per quanto attiene al quesito sui terreni contaminati in maniera più estesa, va detto che è emerso un panorama tutto sommato variegato, con siti (in particolare i petrolchimici) che hanno evidenziato una conoscenza dettagliata, corredata da analisi e studi, mentre alcune aziende non hanno fornito alcun dato al riguardo, asserendo un'assenza normativa in materia. Vi sono poi da considerare alcuni casi di aziende che hanno negato episodi di contaminazione, nonostante nel recente passato la stampa nazionale si sia occupata di tali vicende.
3.9. Il ciclo di depurazione delle acque. Avendo la Commissione appurato - con sopralluoghi diretti - che, in alcuni casi, i fanghi di
depurazione venivano conferiti allo smaltimento tal quali (senza stabilizzazione) e direttamente sversati in discarica allo stato liquido o semiliquido (un caso è quello della discarica Andolina di Siracusa), si è deciso di acquisire maggiori informazioni sul ciclo di depurazione delle acque. Il quesito è stato posto per conoscere le aziende in possesso di propri impianti di depurazione delle acque contaminate, la quantità di rifiuti fangosi da questi derivanti e destinati allo smaltimento e la procedura di eventuale trattamento e stabilizzazione dei fanghi prima del conferimento in discarica controllata. Il campione delle aziende a rischio ha fornito i seguenti dati: il 43,3 per cento delle aziende è in possesso di impianti di depurazione, il 29,1 per cento ne è sprovvisto, il 27,6 per cento conferisce a smaltimento acque contaminate o è collegato ad impianti consortili. Sul versante delle aziende non a rischio, l'83,3 per cento delle aziende è in possesso di propri impianti, il 3,3 per cento non ne dispone, il rimanente 13,4 per cento conferisce i reflui liquidi a terzi o per la depurazione o per lo smaltimento.
3.10. Il mondo degli smaltitori. L'elaborazione dei dati ha evidenziato un panorama nazionale per il quale emergono segnali di preoccupazione:
sono pochi gli impianti di trattamento che presentano procedure idonee ad una corretta gestione dei rifiuti. In alcune regioni (Sicilia, Lombardia, Toscana, Puglia) i trattamenti a volte paiono virtuali o effettuati per enfatizzare i costi di smaltimento, senza quindi tenere conto dell'adeguato chimismo da applicare alle matrici del rifiuto da inertizzare;
vi è un grave deficit di impianti di discarica di tipo 2C ed un esiguo numero di discariche di tipo 2B (se si escludono gli impianti interni in alcuni siti, per conto proprio o per aziende del gruppo);
si registrano situazioni di oligopolio, se non di monopolio, nel settore dello smaltimento dell'amianto e degli oli PCB; in quest'ultimo settore, che comprende anche le apparecchiature elettriche contaminate da PCB (trasformatori, condensatori, eccetera), operano infatti a livello nazionale solo cinque aziende (Decoman, Rochem, Ecodeco, Sea Marconi, Elma);
è in funzione un numero insufficiente di impianti di termodistruzione e di depurazione dei rifiuti liquidi in conto terzi;
vi è un proliferare di stoccaggi provvisori; tali centri sono già stati oggetto di attenzione da parte della Commissione, alla luce anche di inchieste giudiziarie che hanno evidenziato come i rifiuti in uscita abbiano perso ogni loro identità iniziale;
numerosi e in quantità crescente appaiono invece gli impianti di recupero e riciclo.
Nel dettaglio dei singoli settori, emerge il quadro che viene di seguito sintetizzato:
smaltimento dell'amianto: in tale settore operano numerose aziende specializzate in scoibentazioni, bonifiche (Perfetisol, Riva e Mariani, Aprile, Demont, Montalbetti, Cibesa Thermosound, Remic, Rendelin, Ste) e pochi impianti di smaltimento conto terzi. Sono tre le discariche 2C censite (Coniv di Vasto, La Barricalla di Orbassano e Area di Ravenna); vi è poi la discarica 2B della Ecodeco di Pavia e la discarica Nuova Esa di Venezia (dopo trattamento). A questi vanno aggiunti gli impianti di discarica 2C autorizzati all'interno di alcuni siti produttivi (Agip di Gela, Ilva di Taranto);
stoccaggi provvisori: sono numerosi in campo nazionale e dai dati dell'indagine si evince un elevato ricorso a tali impianti. Non sempre ad essi si ricorre per trattamenti (inertizzazione, stabilizzazione, trattamenti vari). Tra i principali centri di stoccaggio provvisorio di rifiuti speciali emergono: Svr, Blu Ambiente, Ecoservizi, Ecodeco, F.C. (Lombardia); Sed e Saraceno Demetrio (Piemonte); Pulitecnica Ambiente (Friuli-Venezia Giulia); Servizi Costieri (Veneto); Alfarec, La Cart, Petroltecnica, Geat, Otsu, Ecoquattro, Agea, Manutencoop, Monti Valter, Meta e Sat (Emilia-Romagna); Seal, Ecomar, Teseco e Toscana Ecofanghi (Toscana); Ecocentro, Sibilla, Ecosystem (Lazio); Coniv (Abruzzo); Ecoservice, Orim (Marche); Perna ecologia e Ramoil (Campania); Tsc, Rdb Fantini, Euro Ecology Services (Puglia); Aprile Giovanni e Nico Siciliana (Sicilia). Lombardia ed Emilia-Romagna hanno il primato del numero di stoccaggi provvisori di rifiuti speciali. In Emilia, in particolare, su un totale di 335 impianti di stoccaggio ben 91 sono in provincia di Reggio Emilia, di cui 19 per rifiuti speciali pericolosi;
impianti di trattamento di rifiuti pericolosi: sono presenti prevalentemente nelle seguenti regioni: Sicilia, Sardegna, Lazio, Marche, Veneto, Lombardia, Piemonte, Toscana, Emilia-Romagna. Aziende che operano nel settore della inertizzazione sono: Aprile Giovanni (Siracusa), Servizi Industriali (Torino), Ecoservizi (Brescia), Ecodeco (Pavia), Riccoboni (Parma), Ecotec (Roma), Ecotherm (Roma), Ecocentro (Roma), Consortium (Frosinone), Teseco (Pisa), Ecomar (Livorno), Ecoservice (Macerata), Ambiente Mare (Ravenna), Teorema (Bari), Serveco (Taranto), Furia (Piacenza), Chimet (Firenze), Euro Ecology Services (Taranto);
intermediazione dei rifiuti industriali: le principali società che operano nella intermediazione dei rifiuti industriali (a volte esse stesse società di smaltimento) sono: Servizi Industriali di Orbassano, Ramoco di Genova, Ste di Milano, Svr di Milano, Ambiente di Milano, Ecoitalia di Milano, Asm di Piacenza, Siloeco di Pescara;
discarica conto terzi per rifiuti speciali: gli impianti più ricorrenti sono nelle seguenti regioni: Lombardia (Cervesina e Logica del gruppo Ecodeco); Liguria (Bossarino), Piemonte (Barricalla), Puglia (Immobildaunia, Bleu), Veneto (Bastian Beton, Geonova, Ecoveneta, Boneco), Sicilia (Andolina, Aprile Giovanni, Igmi, Smari), Calabria (Sovreco),
Emilia Romagna (Area 2c, Sotris 2b), Sardegna (Ecoserdiana), Molise (discarica consortile di Termoli);
trattamento delle acque contaminate: gli impianti per conto terzi più utilizzati sono quelli di: Depuracqua, Ireos, Chemiber, Idroclean, Solvic;
impianti di termodistruzione: l'indagine ha evidenziato una forte carenza di tali impianti sul territorio nazionale. Gli impianti utilizzati per conto proprio o per le aziende del gruppo sono quelli gestiti dalla società Ambiente (Ravenna), dalla Basf di Caronno Pertusella, dall'Enichem di Porto Marghera, e per conto terzi dalla Ecodeco (Ecolombardia 4, Bg), dalla Oma di Rivalta (Torino), dalla Smae di Lentella (Chieti) (impianto per argille espanse), dalla Unicem di Enna (impianto per argille espanse);
impianti di recupero di rifiuti speciali non pericolosi: operano ai sensi dell'articolo 33 del decreto legislativo n. 22 del 1997 ed applicano il decreto ministeriale del 5 febbraio 1998 (rifiuti speciali non pericolosi). Sono numerosissimi, ma non sono infrequenti i casi di impianti che hanno evidenziato attività di recupero scarsamente trasparenti, se non addirittura virtuali.
![]() |
![]() |