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Introduzione di Bruno Tabacci

Giovanni Goria ha percorso, ricoprendo importanti incarichi di governo, tutta la parabola che ha portato alla fine della c.d. «prima repubblica» ed alla dissoluzione delle forze politiche di governo che ne erano state le interpreti.
A Goria va riconosciuto un ruolo da protagonista di questa travagliata e drammatica fase della storia del paese, nonostante la sua figura si collochi in modo piuttosto peculiare nel panorama della classe dirigente di quell’epoca ed in particolare in quella democristiana.
Non si tratta, si badi bene, solo di un fatto generazionale, ma di una serie di tratti e di elementi caratteristici del personaggio che risaltano nel confronto con il personale politico suo contemporaneo.
Giovanni Goria aveva salde radici nella cultura e nella tradizione democristiana.
L’impegno politico in giovane età, l’incarico di funzionario della Camera di commercio di Asti che lo pone in sintonia con la realtà socioeconomica della provincia, l’ingresso in Parlamento nel 1976, a soli 33 anni, non consentono certo di considerarlo un uomo prestato alla politica.
Dopo una positiva esperienza come sottosegretario al bilancio, nel 1982 avviene, in due tappe, il grande salto: prima De Mita lo chiama a dirigere l’ufficio economico di Piazza del Gesù poi, in maniera del tutto inaspettata, Fanfani lo nomina Ministro del tesoro.
Il quadro in cui matura la sua nomina a ministro merita di essere ricordato.
Al posto di Fanfani avrebbe dovuto esserci Giovanni Marcora che, per gravissime ragioni di salute, non poté accettare l’incarico.
Goria dimostrerà di essere a pieno titolo un esponente di quella fase nuova della vita politica italiana che il Governo Marcora avrebbe certamente aperto nel paese.
L’esigenza di una nuova cultura di governo, da introdurre attraverso un ricambio generazionale, è la direttrice ideale dell’impegno di Marcora in quegli anni.
Giovanni Goria è il prodotto di tale politica, l’espressione di un’istanza di cambiamento che non poteva essere ulteriormente differita. Veniva sottolineata con forza l’urgenza di cambiare passo, costruire un rapporto nuovo con il paese, prendere finalmente sul serio i fermenti di un Nord irrequieto e insoddisfatto da una politica prigioniera di logiche autoreferenziali e dal progressivo scivolamento verso sud del baricentro politico del paese.
L’adesione di Goria alla Base, la corrente della Democrazia cristiana guidata da Marcora, rappresenta molto di più di una scelta di schieramento e nasce soprattutto dalla consapevolezza che occorreva accostarsi alla politica con una grande capacità di ascolto, di approfondimento dei problemi, per costruire nell’impegno quotidiano una nuova cultura di governo.
All’interno della Democrazia cristiana, la tradizione della Base è stata sempre quella di un’attenzione assai maggiore alle esigenze di governo del paese piuttosto che alle dinamiche interne del partito.
Vi era, da un lato, la consapevolezza di non potere contare più di tanto in termini di tessere e, dall’altro, la presunzione intellettuale di poter pesare nell’azione di governo per la qualità delle idee che si era in grado di esprimere. Goria, che non ha mai accentuato il suo profilo di uomo di corrente, ha tuttavia sempre tenuto fede a questa impostazione politica.
Nel momento in cui fu chiamato ad assumere la responsabilità di Ministro del tesoro seppe mettere in campo uno stile di governo fortemente innovativo.
Si dimostrò, come in effetti era, del tutto estraneo ai modi dei giovani rampanti, e con assai pochi scrupoli, che proliferavano nei partiti di governo. Il suo approccio, alieno da ogni retorica, era, al contrario, ispirato alla mitezza ed alla semplicità dei comportamenti.
La propensione a sottolineare i suoi studi ragioneristici, di cui ci parlano le cronache, non rappresentava il vezzo di chi è arrivato ma esprimeva lo stile sobrio, misurato ed estremamente concreto con il quale si accostava ai problemi del governo della cosa pubblica.
Il giovane Ministro del tesoro dimostra una chiara consapevolezza della crescente difficoltà di comunicazione della politica con i cittadini.
Nelle sue dichiarazioni si coglie la preoccupazione di individuare un linguaggio in sintonia con l’opinione pubblica ed in grado di rifletterne le preoccupazioni e la sensibilità.
Goria sembra in tal modo percepire con lucidità i rischi derivanti dall’approfondirsi del solco tra la politica e, quel che più conta, le istituzioni, da una parte, e la società civile, dall’altro.
Il suo tono informale e quasi dimesso appare la conseguenza della capacità di intuire cosa andava maturando nella società civile.
Vi era, in effetti, un estremo bisogno di fatti, di buona amministrazione e di un sano pragmatismo alimentato da una chiara visione degli obiettivi da perseguire.
Le liturgie della politica, la retorica sempre più distante dalla realtà, l’arroganza palesata da una buona parte del ceto politico, a livello locale e nazionale, stavano determinando una reazione di rigetto i cui esiti dirompenti sarebbero ben presto emersi.
In questo contesto Goria non teme di negare di essere un economista e si dichiara «soltanto un ragioniere che fa politica e che facendo politica si occupa di economia».
Il Ministro non è un «grande divulgatore di scienza economica» ma ha «una grande cultura in nasometria» ossia «valuto i problemi a naso». Un modo semplice per dire che in politica conta molto l’intuizione, la capacità di identificare le priorità, di assumere le iniziative giuste al momento giusto, di generare consenso anche quando le scelte da assumere hanno dei costi per la collettività.
Di queste doti sa dare prova dal 1983 al 1987 in qualità di Ministro del tesoro.
Deve misurarsi con i problemi generati da una spesa pubblica crescente e da un disavanzo proibitivo. Coerente con la sua impostazione, si dimostra in grado di compiere scelte anche difficili.
Varò il «piano Goria per il controllo sulla finanza pubblica» e non ebbe timore nel decidere, il 19 luglio 1985, la chiusura dei mercati dei cambi dopo «il venerdì nero» della lira che aveva fatto impennare il dollaro a 2200 lire.
L’anno successivo introdusse, anche a costo di subire forti critiche, la tassazione sui titoli pubblici di nuova emissione.
Il 17 dicembre 1986, nel corso della discussione sui disegni di legge finanziaria e di bilancio presso il Senato, rivendica l’azione di risanamento svolta da Governo e Parlamento concentrandosi sull’evoluzione della spesa pubblica in rapporto al prodotto interno lordo.
Tale rapporto, osserva, si è attestato intorno al 44,3 nel 1981, per poi salire al 52,1 nel 1982 e proseguire la crescita, in modo inerziale, nel 1983 sino al 54,1.
Negli ultimi anni, conclude, si è riusciti ad invertire la tendenza e dopo aver portato, nel 1986, tale rapporto al 52,2 «si presume che nel 1987 sarà al 50,6 per cento». Altro risultato, di cui da più parti gli è stato dato atto, è quello relativo al controllo dell’inflazione, che in quegli anni è stata stabilmente ridotta al di sotto del 5 per cento.
Nella discussione prima menzionata evidenzia tra l’altro il nesso inscindibile tra risanamento e sviluppo.
«Sappiamo bene – rileva – come alla base dell’investimento direttamente produttivo vi sia non tanto la legge di agevolazione o il regalo fiscale o qualcos’altro, quanto la voglia di investire degli imprenditori e sappiamo anche come la voglia di investire degli imprenditori sia intimamente connessa alla fiducia che gli imprenditori hanno in un paese migliore e sappiamo bene come questa si costruisca anche, nella nostra condizione, proponendo un disegno di risanamento della finanza pubblica.
È difficile lasciare pensare ad un domani in qualche modo accomodante, cioè con delle buone prospettive di sviluppo, avendo una finanza pubblica impazzita».
Le più attente ricerche sugli andamenti della finanza pubblica attestano che il miglioramento strutturale dell’andamento dei conti pubblici si svolge in modo costante nel decennio dal 1985 al 1995, smentendo l’opinione secondo la quale una politica di rigore finanziario sarebbe stata avviata solo all’inizio degli anni Novanta, dopo il trattato di Maastricht.
Il rilancio della politica di risanamento finanziario può essere certamente ascritta all’azione del giovane Ministro del tesoro e a lui si deve anche attribuire il merito di aver saputo dialogare efficacemente con il Parlamento.
All’inizio della sua azione come responsabile del Tesoro si colloca non a caso la elaborazione che conduce alla introduzione della sessione di bilancio nei regolamenti parlamentari e nel pieno di essa è avviata la riforma che conduce alla più importante riforma dell’intero sistema di bilancio, la legge n. 362 del 1988, con la introduzione del documento di programmazione finanziaria per la preventiva fissazione di vincoli e obiettivi della manovra annuale di bilancio.
Nella sessione di bilancio per il 1987, la nuova procedura di bilancio è sperimentata sulla base di una intesa tra il Ministro del tesoro e le Commissioni bilancio delle due Camere che approvano due risoluzioni identiche e parallele. Risale a questo periodo anche un’intesa tra il Presidente del Senato, Amintore Fanfani, e il Presidente della Camera, Nilde Iotti, per la disciplina del collegamento delle due Camere con il sistema informativo della Ragioneria generale dello Stato al fine di rafforzare il controllo parlamentare sulla gestione del bilancio e le coperture finanziarie.
Si tratta di enormi quanto sotterranei progressi che cambiano la cultura finanziaria del Parlamento e della classe politica e mettono le basi per un nuovo modo di percepire i valori della trasparenza finanziaria e dell’equilibrio della finanza pubblica, ponendo le premesse per la svolta degli anni successivi. I risultati concreti raggiunti nell’immediato sono sicuramente parziali e di questo, come emerge dai discorsi parlamentari, Goria era pienamente consapevole.
Il tema del risanamento, grazie anche alla sua azione, viene posto tuttavia stabilmente al centro dell’agenda politica e diviene, per la prima volta nella storia nazionale dai tempi della destra storica, un dato della cultura parlamentare di tutte le componenti politiche.
Nella storia politica di Goria è centrale la sua ricca ed intensa esperienza parlamentare sia come semplice deputato sia come Ministro della Repubblica e sia come Presidente del Consiglio.
All’inizio della sua esperienza di parlamentare, come semplice deputato della Commissione finanze svolge le funzioni di relatore sui più complessi disegni di legge.
La qualità e l’intensità dell’impegno parlamentare costituiscono un tratto fondamentale del suo profilo politico. Era consapevole di come le Camere siano la sede centrale del confronto democratico e di come il dibattito parlamentare, sebbene a volte possa apparire faticoso ed improduttivo, rappresenti in realtà un’occasione insostituibile per affinare gli orientamenti e per creare un consenso profondo e diffuso intorno alle politiche del Governo.
La democrazia, al di là degli aspetti procedurali, presuppone una sincera adesione al metodo del dialogo e del confronto. Richiede la disponibilità a sottoporre continuamente a verifica i propri convincimenti, a mettersi in discussione ed a modificare le proprie opinioni dinanzi a critiche e rilievi fondati.
L’adesione convinta ad un simile metodo non ha, di per sé, nulla a vedere con quello che, nel politichese corrente, viene comunemente definito «consociativismo» e neppure pone a rischio la capacità di decidere e di assumersi le relative responsabilità da parte dei governi.
Al contrario – come Goria aveva ben compreso – dal confronto parlamentare i governi possono trarre forza ed impulso per l’attuazione del programma e, riconoscendo in tal modo il ruolo istituzionalmente proprio dell’opposizione, contribuiscono a rafforzare il sistema nel suo complesso.
La lunga permanenza al Tesoro si spiega anche con questa sua adesione, frutto di un intimo convincimento, al metodo parlamentare, pur in una fase così complessa e irta di insidie per la finanza pubblica.
Il metodo parlamentare, in cui Goria crede e che contribuisce profondamente a radicare nella materia della finanza pubblica, non è l’accordo sulle politiche, su cui lo scontro con l’opposizione è fisiologico, ma comporta un’intesa riguardo alle regole ed alle procedure nonché l’acquisizione collettiva e condivisa dei dati di fatto. Giovanni Goria è stato sicuramente anche l’uomo dei momenti difficili.
Dopo le elezioni politiche del 1987 il quadro politico è segnato da un’aperta competizione tra democristiani e socialisti. Il ministro discreto ed operoso, diviene, quasi naturalmente, un possibile punto di incontro e di mediazione nell’attesa di ricostituire una più solida alleanza politica. Aveva tuttavia ben chiari i limiti della nuova esperienza che l’attendeva come Presidente del Consiglio. Durante le dichiarazioni programmatiche rese al Senato il 30 luglio 1987, osserva come in un «quadro politico, che il Presidente della Repubblica ha riscontrato caratterizzato da gravi difficoltà, l’incarico di formare il governo ha risposto primariamente all’esigenza imprescindibile di rendere possibile, dopo le elezioni, la normale ripresa dell’attività parlamentare e il rilancio di un’azione di governo in grado di affrontare i problemi che stanno di fronte al paese. Lo stesso incarico – prosegue – risponde anche alla necessità, altrettanto fondamentale, di favorire un’ulteriore, utile fase di confronto tra le forze politiche finalizzata a superare progressivamente le difficoltà ed a consentire quindi la ripresa di un’alleanza politica qualificata».
Il riconoscimento della natura transitoria del governo, non gli impedisce di affermare che «i governi si qualificano innanzitutto per quello che fanno ed il nostro impegno è quello di garantire il massimo di buon governo».
Il più giovane Presidente del Consiglio dell’Italia repubblicana non nasconde gli elementi di debolezza del suo governo ma confida, anche a rischio di apparire ingenuo, che la capacità di affrontare concretamente i problemi sia il terreno sul quale si deciderà il futuro dell’esecutivo.
Le logiche della politica, in quella fase apertamente autodistruttive, gli daranno torto ma il suo messaggio, come emergerà a breve, risultò assai meglio recepito dall’elettorato. Nelle dichiarazioni programmatiche è presente un riferimento forte alla necessità di proseguire l’opera di contenimento della spesa pubblica attraverso «un piano di risanamento della finanza pubblica che persegua l’azzeramento del disavanzo pubblico al netto degli interessi».
Ancora, «il problema di fondo» del sistema economico è per lui rappresentato da «un ritmo di crescita della spesa pubblica non in linea con i vincoli esistenti ed un tasso elevato di elusione ed evasione fiscale» incompatibili con il risanamento della finanza pubblica.
Con queste parole manifesta chiaramente la volontà di proseguire il lavoro avviato come Ministro del tesoro. Non mancano inoltre gli accenni agli obiettivi rappresentati da «una politica fiscale moderata ed un qualificato intervento nelle infrastrutture del paese e nei servizi pubblici».
Riguardo alla riforma dello Stato egli si pone in primo luogo l’obiettivo di «superare le condizioni di uno Stato che è molto assistenziale e poco sociale, poiché distribuisce molto, ma con poca efficacia nei confronti di chi ha veramente bisogno».
Già intervenendo alla Camera dei deputati il 4 novembre 1986, in veste di Ministro del tesoro, osservava come lo Stato sociale sia in crisi «perché sta diventando insopportabile ai cittadini».
Il cittadino «non comprende più l’intermediazione totale che sulla maggior parte delle prestazioni viene operata.
La questione vera è che quando non si riesce a creare una relazione diretta tra contribuzione e prestazione, la contribuzione sembra sempre troppo elevata e la prestazione insufficiente».
Occorre in particolare – aggiunge nelle dichiarazioni programmatiche – «riportare nella famiglia, con tutto il supporto economico necessario, i segni di una solidarietà più profonda, ritraendo lo Stato da situazioni in cui la sua presenza può creare nuove situazioni di inefficienza e disagio».
Le leve sulle quali puntare per l’integrazione delle conquiste ottenute sono «la valorizzazione del merito, della professionalità e della responsabilità».
Ed ancora, registra una accentuata sensibilità «per l’inefficienza dell’apparato amministrativo, sia esso periferico e centrale, e dei servizi, in particolare, che pesano negativamente sull’efficienza del sistema produttivo e sulla qualità della vita».
Per quanto riguarda, in particolare, la riforma dell’amministrazione, le dichiarazioni programmatiche ebbero, nella pur breve e travagliata esperienza di governo, seguiti concreti.
Pochi ricordano che il Governo Goria svolse l’attività di preparazione del disegno di legge sulla riforma del procedimento amministrativo, poi divenuto la legge n. 241 del 1990, un provvedimento fondamentale che ha cambiato radicalmente la posizione del cittadino nei confronti dell’Amministrazione.
Altro tema oggetto di attenzione fu «l’informazione istituzionale» che, nelle intenzioni del Presidente del Consiglio, doveva mettere in relazione amministratori e cittadini, consentendo a questi ultimi di essere tempestivamente informati in termini comprensibili degli atti di governo. Anche questo secondo tema è divenuto successivamente un punto essenziale della riforma amministrativa.
Il Governo Goria, nell’arco di soli nove mesi, dovette affrontare una serie di emergenze interne ed internazionali.
La nascita del Governo coincide innanzitutto con la disastrosa frana che mise in ginocchio la Valtellina. La risposta fu eccezionale in termini di rapidità di reazione e di organizzazione del processo di ricostruzione. A settembre del 1987, per proteggere il naviglio nazionale nel Golfo persico, il Governo invia alcune navi militari. Si tratta di una delle prime missioni militari internazionali svolte con l’obiettivo di assicurare la sicurezza e la pace. Una strategia che negli anni a venire si sarebbe consolidata ma la cui applicazione, in quel momento, suscitò vaste critiche e qualche mormorio anche nell’ambito della maggioranza. Nell’ottobre successivo si verifica il crollo delle borse mondiali.
È il famoso «lunedì nero» di Wall street che deprime inesorabilmente i mercati finanziari. A primavera il Governo cade per vicende tutte interne alla coalizione ed ai partiti che la compongono. Il credito riscosso nel paese ha tuttavia modo di manifestarsi a breve.
Alle europee del 1989 Goria conquista oltre 600 mila preferenze, superando tutti gli altri candidati democristiani.
È un voto schiettamente di opinione che attesta come l’uomo avesse saputo intercettare la domanda di profondo rinnovamento espressa dall’opinione pubblica, specie nel nord del paese.
Lo stile sobrio, pacato e misurato ma anche una serie di scelte, di atteggiamenti concreti e puntuali avevano colpito i cittadini, suscitandone il favore per un modo nuovo, anche all’interno del suo partito, di concepire le istituzioni e di fare politica.
Sarà successivamente chiamato a ricoprire nuovamente l’incarico di ministro, prima come titolare dell’agricoltura nel sesto Governo Andreotti e poi come responsabile delle finanze con il primo Governo Amato.
In entrambi i casi la sua azione è tutt’altro che anonima.
All’Agricoltura, incurante delle polemiche, decreta il commissariamento della Federconsorzi: il più importante ente economico del comparto agricolo. Alle Finanze introduce la contestata «minimun tax».
La sua vicenda politica è quindi travolta e precocemente interrotta dagli eventi di «Tangentopoli».
Nel febbraio del 1993 rassegna le dimissioni per meglio difendersi dalle accuse di tangenti per la realizzazione, mai avvenuta, dell’ospedale di Asti.
La fine prematura gli impedirà di veder proclamata in giudizio la propria innocenza. Ma la causa che lo tormenta per lunga parte della sua carriera politica è quella relativa alla Cassa di risparmio di Asti, conclusasi con l’archiviazione del caso e la piena assoluzione di tutti gli amministratori.
Eppure soprattutto tale vicenda proiettò l’ombra del sospetto e alimentò illazioni sulla vicenda personale e politica di Giovanni Goria con conseguenze sommamente ingiuste e gravi. Si smarrì, in questa come in altre analoghe vicende, qualsiasi equilibrio nei rapporti tra politica e magistratura e la cultura garantista venne sacrificata sull’altare di un giustizialismo di marca giacobina che, nel nome della ricerca della verità, non esitò a mettere alla gogna un’intera classe dirigente.
La responsabilità di quanto verificatosi, in questo come in molti altri casi, non può essere semplicisticamente attribuita alla magistratura, la cui azione va storicamente collocata.
Tra i magistrati vi furono eccessi e protagonismi anche gravi ma molti seppero invece conservare equilibrio e imparzialità.
Lo dimostra la stessa vicenda della Cassa di risparmio di Asti per la quale il pubblico ministero chiese l’archiviazione ma il giudice ordinò che si procedesse ugualmente.
La questione sulla quale incentrare la riflessione attiene piuttosto al clima determinatosi nella società italiana e che, alimentato dagli organi di informazione e da alcune forze politiche e sociali, agì come un rullo compressore, travolgendo anche uomini come Goria.
Venne improvvisamente alla luce il grado di isolamento e di estraneità in cui era sprofondata la classe politica di allora rispetto ad amplissimi settori dell’opinione pubblica – a motivo, anche ma non certamente solo, della diffusione del malaffare – e «tangentopoli» poté divenire la leva per promuovere un cambio di regime.
Dimostrarsi ostinatamente refrattari al cambiamento ed incapaci di comprendere i riflessi delle trasformazioni interne ed internazionali risultò esiziale per i partiti di governo.
Il cuore della vicenda di Giovanni Goria coincide con la crisi di un regime politico-istituzionale e la conclusione di un ciclo della storia repubblicana. Egli ha operato all’interno di un sistema fortemente indebolito dalla propria incapacità di mettersi in discussione, di rigenerarsi, di individuare un percorso non traumatico per realizzare una democrazia dell’alternanza.
L’esperienza politica e istituzionale di Giovanni Goria è, in una qualche misura, il primo capitolo di una storia di riforma e di rinnovamento della politica rimasta gravemente incompiuta. In particolare, per la Democrazia cristiana di quell’epoca è risultata esiziale la mancanza di una nuova classe dirigente.
Nuova negli uomini e nei metodi, nuova nella sintonia con gli umori profondi del paese, nuova nel comprendere la prospettiva europea dell’Italia ed i riflessi di un quadro internazionale radicalmente mutato, nuova nel recepire l’insofferenza di un’economia che voleva essere posta nelle condizioni di competere e non soffocata dalla politica, nuova nell’intercettare una domanda di legalità e di moralità che, per quanto confusa e contraddittoria, richiedeva risposte adeguate.