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Doc. XXIII n. 48


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PARTE PRIMA

1. Il territorio e la criminalità.

Sui mezzi di informazione la mafia siciliana è spesso rappresentata come una realtà unitaria ed omogenea, nella quale sopravvivono tradizioni, forme e riti di iniziazione, strutture organizzate in maniera rigorosamente gerarchica e verticistica, e naturalmente attività criminali connotate da particolare efferatezza. Le differenze con altre organizzazioni criminali vengono dunque spesso evidenziate solo se il confronto avviene tra Cosa nostra e la 'ndrangheta calabrese, la camorra napoletana e la Sacra corona unita.
Invece, all'interno dell'universo mafioso siciliano, sono profonde le divergenze riscontrabili tra l'organizzazione mafiosa palermitana e quella catanese. In particolare, la struttura della mafia palermitana si caratterizza per un sistema di gerarchie di tipo piramidale; mentre la mafia catanese risulta stratificata orizzontalmente, con la presenza di più gruppi antagonisti tra loro, sui quali la supremazia viene esercitata dal gruppo, appartenente a cosa nostra, e storicamente guidato da Nitto Santapaola.
La criminalità catanese ha subìto una evoluzione nella sua tradizionale struttura genetica, insinuante e creativa.
Il suo modo di operare negli anni si era infatti sempre contraddistinto più per la creatività e l'astuzia - erano diffusissime le truffe ed i reati commessi con il concorso dell'ingegno - che per la efferatezza; il rapporto con le Istituzioni e le forze di polizia improntato ad un formale rispetto; e l'uso della violenza, sia pure frequente e spesso efferato, diffuso solo nelle lotte tra componenti dei clan rivali.
Oggi la criminalità catanese appare invece particolarmente efferata, forse la più feroce dell'universo criminale siciliano; propensa al compimento di vendette trasversali che vedono spesso cadere vittime innocenti; spietata ed irresponsabile nella esecuzione delle azioni di fuoco, commesse ad ogni costo, spesso con il coinvolgimento fisico di passanti e di persone estranee.
Particolare sconcerto hanno destato in città delitti quali quello in cui rimanevano uccisi il padre ed il figlio dell'ex collaboratore di giustizia Ferone; la moglie di Benedetto Santapaola e la figlia di Puglisi Antonino fatti poi uccidere per vendetta dallo stesso Ferone, mentre si trovava sotto programma di protezione. Ed ancora l'agguato di mafia nel quale veniva accidentalmente coinvolto un bimbo di cinque anni, Nico Querulo, il quale, - attinto dal rimbalzo dei proiettili esplosi dai sicari, mentre era intento a giocare per le vie del quartiere San Cristoforo - perdeva l'uso di entrambi gli occhi.
Atti questi dimostrativi di una realtà criminale impazzita, nella quale si sono perdute anche le regole minime presenti nelle forme più rozze di delinquenza organizzata, quali quella di tenere fuori dalle


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faide le persone innocenti, le donne, i bambini e gli anziani. Ma rivelatori pure della grande capacità delle strutture criminali organizzate, che appaiono in grado di sfruttare a proprio vantaggio le opportunità offerte dalla legge, financo eludendo - come nel caso Ferone - le finalità dello strumento della collaborazione giudiziaria, per trarre vantaggi strategici dalla nuova condizione giuridica assunta, senza mai abiurare neanche per un istante alla vocazione per il crimine, alla propria sete di potere ed alla brama di vendetta.
Questa degenerazione della criminalità, con i suoi effetti diffusivi di violenza commessa senza regole, è il frutto abnorme della sottovalutazione, pluriennale e sistematica, che la società civile e quella istituzionale hanno operato nei confronti di quei fenomeni criminali che danno luogo allo scontro tra bande criminali contrapposte. Sovente si sente affermare da alcuni benpensanti che queste forme di criminalità, caratterizzate da associati mafiosi che si uccidono tra di loro, siano fisiologiche, se non addirittura utili, perché eliminerebbero dalla circolazione soggetti pericolosi, in grado di compiere azioni delittuose anche a danno di persone non appartenenti alla delinquenza.
Si tratta di un ragionamento profondamente errato ed inaccettabile. Non solo per ragioni connesse alla difesa della vita umana come valore - la cui violenta soppressione costituisce una ferita per tutto il sistema sociale, quand'anche si tratti della vita del peggior malfattore, - ma soprattutto per la sottovalutazione degli effetti diffusivi della violenza omicida. Non studi approfonditi, ma semplici e ricorrenti dati colti dalla comune esperienza, ci suggeriscono che la maggior parte dei killers di mafia sono persone che a loro volta hanno subito ai danni dei propri cari gli effetti della violenza omicida. Come correttamente si afferma infatti «la violenza genera altra violenza», anche quando colui che la subisce è morto e non può ricambiarla. A Catania i cento morti ammazzati all'anno hanno provocato in altrettante famiglie cento nuove possibili vocazioni alla vita criminale. Salvo che non vi sia un personale e cosciente rifiuto della vita criminale, nelle famiglie a rischio la uccisione del padre determina nei figli maschi un sistematico desiderio di vendetta; nelle donne una mentalità votata alla violenza ed alla sopraffazione che viene trasmessa ai propri compagni ed ai propri figli. In essi si afferma prorompente il desiderio di restituire ad altri il dolore che si è personalmente subìto, per vincere il senso di frustrazione e di impotenza patito a seguito di un evento irreversibile e significativo come la morte violenta. E se si considera che spesso questi fatti omicidiari colpiscono famiglie numerose, si comprende come il meccanismo di morte che viene così innescato abbia effetti moltiplicativi impressionanti.

2. L'eredità dei cavalieri del lavoro.

Il prefetto DALLA CHIESA aveva ben intuito quale fosse il legame tra la criminalità mafiosa palermitana e quella catanese e quale fosse il vincolo di quest'ultima con il mondo degli affari e quello istituzionale. Non esitò egli a manifestare le proprie opinioni alla stampa nel corso di una intervista pubblicata il 10 Agosto 1982, dimostrandosi allarmato del fatto che cosa nostra catanese avesse consentito alle quattro maggiori imprese della Sicilia orientale di penetrare fin dentro


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il territorio palermitano (3). Tale sua esternazione, oltre che provocare in forma ufficiale il risentimento dei cavalieri catanesi, ebbe l'effetto di innescare la reazione dell'allora presidente della regione D'Acquisto che in forma scritta e pubblica invitò il prefetto a definire nei dettagli e meglio specificare il contenuto di quanto da lui comunicato alla stampa - ed implicitamente - ad astenersi da tali giudizi qualora tali circostanze non fossero state provate.
Nel frattempo, sul piano operativo, il DALLA CHIESA in data 2.6.1982, e dunque un mese dopo il suo insediamento, aveva richiesto al prefetto di Catania una scheda completa riguardante i nuclei familiari, gli interessi, le società ed i possedimenti degli imprenditori GRACI e COSTANZO. Ne avrebbe ottenuto in risposta, qualche tempo dopo, una nota redatta con stile compilativo nella quale si teneva a precisare la rilevanza degli interessi economico-finanziari gestiti dagli stessi, e la natura del tutto necessitata di alcuni rapporti mantenuti con esponenti della criminalità catanese, giustificati, a dire del massimo esponente istituzionale della provincia di Catania, dalla necessità di «non compromettere» il buon andamento di tali interessi; veniva specificato anzi che l'impresa Costanzo era oggetto di «mire aggressive da parte della criminalità a causa del suo ingente patrimonio».
Frattanto la vera identità della mafia catanese, connotata dalla spregiudicata capacità di penetrare all'interno del tessuto istituzionale procurandosi appoggi e connivenze, ed ispirata dunque ad una logica collusiva che si contrapponeva alla logica di scontro propria del modo di agire delle famiglie operanti nella Sicilia occidentale, veniva alla luce nel corso di una occasionale attività di polizia.
All'indomani del duplice omicidio avvenuto in città il 18 Marzo 1982, che aveva visto vittime tale Rosario Romeo - titolare di una azienda di vendita di abbigliamento denominata SCIMAR - ed il m.llo dei Carabinieri Alfredo Agosta, le forze dell'ordine decisero una perquisizione all'interno dell'azienda del Romeo, ubicata in Misterbianco, presso il polo commerciale della zona industriale, e lì rinvenirono due raccolte di fotografie riproducenti l'inaugurazione dell'attività commerciale ed il pranzo che ne era seguito. Degne di particolare rilevanza per la natura e la connessione dei rapporti di cui erano disvelatrici risultavano alcune foto di gruppo. Tra di essi era possibile riconoscere - distribuiti in ordine sparso nel conviviale


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- Benedetto SANTAPAOLA, per lunghissimi anni reggente della famiglia catanese di cosa nostra; Calogero CAMPANELLA detto Carletto fedelissimo del primo e capo-decina della famiglia; l'on. Salvatore LO TURCO, componente dell'Assemblea Regionale Siciliana nelle fila del P.S.D.I.; l'avv. Giacomo SCIUTO, presidente dell'amm.ne provinciale di Catania e partecipe di vicende relative alla distribuzione illecita degli appalti alla provincia di Catania (vedi infra n. 5.3.1); il Sindaco di Catania Salvatore COCO; gli imprenditori Giuseppe e Vincenzo COSTANZO, nipoti del cavaliere Carmelo COSTANZO; Placido AIELLO, nipote del cavaliere GRACI ed insieme a quest'ultimo successivamente coinvolto nel procedimento penale denominato ORSA MAGGIORE nei confronti della mafia catanese (vedi infra n. 2.1); ed ancora il dott. Franco Guarnera, dirigente del servizio sanitario della casa circondariale di Catania ed altri esponenti politici minori e professionisti.
A Catania dunque agli inizi degli anni ottanta cosa nostra, istituzioni politiche e grande impresa avevano stretto un patto stabile, forte e consacrato dalla contemporanea presenza dei rispettivi esponenti in manifestazioni ufficiali.
In effetti il SANTAPAOLA Benedetto aveva ritenuto vincente questa formula gestionale di collusione con i poteri pubblici mantenendo sempre basso il profilo dello scontro con le Istituzioni - rectius: con quei (pochi) rappresentanti delle Istituzioni - che si contrapponevano apertamente alla espansione del suo controllo sulla città.
I risultati ed i vantaggi di una tale impostazione non tardarono a venirgli. Già all'indomani della sparatoria avvenuta il 6.6.1981 in via delle Olimpiadi - ove vennero feriti i suoi fedelissimi Natale DI RAIMONDO e Salvatore PAPPALARDO - quando su di lui convergevano molti indizi in ordine al ruolo rivestito in cosa nostra ed in ordine alla commissione di gravi reati, ivi compresa la presenza della sua autovettura blindata sul luogo di una sparatoria avvenuta in viale delle Olimpiadi, e dopo che per venti giorni egli si era reso irreperibile alle ricerche delle forze dell'ordine, il SANTAPAOLA, rintracciato dagli inquirenti venne subito successivamente rilasciato, benchè avesse presentato un alibi davvero inconsistente (4).
Con un ritardo di un anno e mezzo, nel Novembre del 1982, per questi fatti la magistratura catanese emise un ordine di cattura nei confronti del SANTAPAOLA, ossia appena un mese dopo l'ordine di cattura emesso nei suoi confronti dalla magistratura palermitana che gli contestava, nella qualità di mandante, la strage della circonvallazione di Palermo, avvenuta il 16.6.1982, in cui era rimasto ucciso il boss Alfio Ferlito suo acerrimo rivale.
Ciò senza tacere il fatto che egli era riuscito ad ottenere il 4 Agosto 1979 la licenza di porto di fucile ed il il rilascio del passaporto in data 5.12.1981, ossia nel bel mezzo della faida tra il suo gruppo e la fazione contrapposta del FERLITO.


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Ed anche nella nota di risposta del prefetto di Catania al generale DALLA CHIESA circa i rapporti dei cavalieri del lavoro con la mafia il SANTAPAOLA non era citato, segno questo che egli era in grado di mantenere grazie a questo suo atteggiamento un profilo così basso, che aveva avuto quale conseguenza quantomeno il fatto che erano sfuggiti persino alla conoscenza del massimo responsabile provinciale dell'ordine e la sicurezza pubblica i suoi rapporti con l'imprenditore COSTANZO. Peraltro le successive indagini giudiziarie consentivano di accertare che il boss aveva trascorso insieme alla sua famiglia un lungo soggiorno, dal 22 Giugno 1982 al 31 Dicembre 1982 presso un residence del complesso turistico denominato «La Perla Ionica», di pertinenza dei fratelli COSTANZO, e dunque mentre era ricercato dalle forze dell'ordine perché sospettato di essere autore dell'eccidio alla circonvallazione di Palermo ove perirono insieme al boss Alfio FERLITO anche i Carabinieri incaricati della traduzione.
A fronte di una tale compattezza del fronte politico-mafioso-imprenditoriale le forme di reazione della società civile al fenomeno mafioso risultavano sporadiche ed insufficienti. Tali manifestazioni erano peraltro idonee a ritagliare una condizione di totale isolamento rispetto a chi si fosse schierato apertamente contro i c.d. poteri forti della città. Era questo il caso del giornalista Giuseppe FAVA, che da profondo conoscitore della realtà catanese aveva iniziato una audace campagna di stampa contro i cavalieri del lavoro mettendo a nudo i rapporti che questi intrattenevano con SANTAPAOLA e cosa nostra catanese. La sua uccisione, avvenuta il 5 Gennaio del 1984, segnò probabilmente l'inizio di una nuova epoca di maggiore attenzione nei confronti della realtà mafiosa. Cosa nostra catanese, che da sempre aveva evitato lo scontro frontale con le Istituzioni ed i rappresentanti della società civile, aveva lanciato un segnale forte di violenza che la opinione pubblica catanese raccolse prima ancora di quanto non fecero i rappresentanti delle Istituzioni (5).
Ma gli anni a seguire furono di lunga attesa rispetto al lento risveglio della coscienza civile. Soltanto a partire dagli anni novanta, in coincidenza con la gravissima recrudescenza mafiosa sfociata nelle stragi di mafia che hanno colpito al cuore le Istituzioni, Catania ha iniziato a dare una risposta al bisogno di legalità che sino a quel momento pochi reclamavano. Il problema della mafia a Catania è divenuto oggetto di confronto e di proposta nei palazzi delle Amministrazioni locali, anche in coincidenza di scandali che hanno travolto una intera classe politica di governo; ha trovato spazio nelle scuole e nei dibattiti universitari; è divenuto parte dei programmi politici dei partiti. Il fenomeno ha dunque assunto una dimensione pubblica che prima non aveva, facendo venire meno alcuni dei capisaldi che ne consentivano la crescita e la perpetuazione: il silenzio e la sottovalutazione.


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Il costume è cambiato. Una parte rilevante dei catanesi ha compreso che avere rapporti di amicizia con personaggi dell'ambiente malavitoso non era una ragione di forza o di vanto, ma una rinuncia grave al bisogno di legalità. Una nuova classe politica ha compreso che non è possibile «gestire» i mafiosi come pacchetti di voti elettorali, perché è la mafia che ha la pretesa di gestire la politica, piegandola ai propri fini di lucro e di potere.
Ma altri gravi presupposti strutturali permangono e rendono difficile lo sradicamento del sistema di potere mafioso. Sono questi i problemi legati allo sviluppo economico, alla questione minorile, alla endemica disoccupazione, ai modelli culturali di riferimento, alle problematiche di urbanizzazione, alla corruzione, al reinserimento sociale degli emarginati, per i quali qualcosa si è fatto, ma molto è ancora da compiersi.
È per questa ragione che tuttora la famiglia di cosa nostra e gli altri gruppi di criminalizzata sono presenti e forti sul territorio nonostante lo sforzo enorme e qualificato che ha contraddistinto la risposta dello Stato negli anni novanta (vd. Infra capitoli 5 e 6).

(3) "... Oggi mi colpisce il policentrismo della mafia, anche in Sicilia, e questa è davvero una svolta storica. È finita la mafia geograficamente definita della Sicilia Occidentale. Oggi la mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?
Domanda:
Scusi la curiosità, generale. Ma quel Ferlito mafioso, ucciso nell'agguato sull'autostrada, si, quanto ammazzarona anche i carabinieri di scorta, non era il cugino dell'assessore ai lavori pubblici di Catania?
Risposta: Si".
Tratta dall'intervista rilasciata dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa il 10 agosto 1982 a Carlo Bocca sul quotidiano "La Repubblica".
(4) Il Santapaola sostenne di essersi trovato a passare casualmente dal luogo ove avvenne la sparatoria, di aver citofonato al fratello che lì abitava, ed infine di avere abbandonato sul posto la propria autovettura blindata, - che era dotata di un dispositivo con codice segreto per l'avviamento del motore - poiché aveva dimenticato il numero della combinazione. (Cfr Sentenza del Tribunale di Catania del 4 Novembre 1983 nel processo per la sparatoria di viale delle Olimpiadi).
(5) Nonostante il Fava si fosse da tempo sovraesposto con pubbliche denunce circa i rapporti tra cosa nostra ed i cavalieri del lavoro, gli inquirenti dell'epoca fecero a lungo indagini seguendo la pista del delitto passionale ed ingenerando sconcerto nella opinione pubblica più avveduta.

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