Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari

Manuel Seco Gordillo
Componente del Congresso dei deputati del Regno di Spagna

        Per quanto un’affermazione come quella che mi appresto a pronunciare sia sempre aperta a sfumature o correzioni, occorre muovere dalla premessa che lo sviluppo di una politica di sicurezza comune non rientra fra quelli che tradizionalmente sono stati gli scopi della costruzione europea.
        Lo spirito eminentemente commerciale ed economico dell’Unione Europea al suo nascere ha fatto sì che l’attenzione si concentrasse su di una serie
di principi (libera circolazione delle persone, dei beni, dei capitali e dei servizi) nel cui ambito le questioni inerenti alla sicurezza, e segnatamente alla cooperazione di polizia, non trovavano una collocazione precisa.
        Eppure, sembra evidente che una progettazione efficace del mercato comune quale prefigurato dal Trattato di Roma esigeva, come presupposto basilare e sostrato comune ai quattro principi summenzionati, la ricerca di canali e strumenti atti a far sì che la zona di libero scambio che l’Europa ambiva a diventare offrisse garanzie sul piano della sicurezza: che il libero scambio fosse, anche, un libero scambio sicuro. La mancanza di una strutturazione della cooperazione comunitaria nel campo della sicurezza ha però determinato, in tale ambito, un considerevole ritardo rispetto ai progressi della cooperazione in altri settori, ed ha inoltre portato alla nascita e allo sviluppo, negli anni, di fòri paralleli di cooperazione di polizia, all’esterno delle strutture comunitarie.
        Durante tutta la sua evoluzione, la cooperazione comunitaria nel campo della polizia è stata dunque legata e subordinata in primis all’attuazione del principio della libera circolazione di persone e beni, e in secondo luogo al fine dell’abolizione delle frontiere interne alla Comunità. La particolare difficoltà con cui sempre sono stati ottenuti i progressi verso tali scopi, essenzialmente causata dalle reticenze o diffidenze di alcuni Stati membri, ha inciso anche, per estensione, sulla cooperazione di polizia. Proprio per questo fu lanciata l’iniziativa di creare un nucleo di cooperazione extracomunitario che inglobasse gli Stati comunitari più propensi a puntare verso la meta di un’Europa senza frontiere, mentre ne rimanevano fuori gli Stati che ostacolavano o rallentavano tale possibilità.
        Così nacque, nel 1985, l’Accordo di Schengen, cui seguì nel 1990 la Convenzione attuativa, che sarebbe entrata in vigore soltanto nel ’95. All’interno di Schengen la cooperazione ricevette impulso dalla risoluta volontà, o volontarismo, degli Stati membri, giacché gli unici a far parte di tale fòro erano gli Stati realmente intenzionati ad andare avanti nell’edificazione di uno spazio interno senza frontiere, sicuro ed efficiente sul piano giuridico e di polizia. Per tale motivo, nel corso della sua evoluzione parallela, Schengen ha senz’altro rappresentato un canale di cooperazione assai più agile ed efficace che quello definito nel Terzo pilastro del Trattato di Maastricht.
        Indubbiamente l’Europa odierna, l’Europa unita, con la sua prosperità economica e la sua assenza di frontiere interne costituisce una cornice allettante per la criminalità organizzata. I Paesi membri dell’Unione condividono, assieme ai benefici e vantaggi che ne derivano, una serie di rischi e minacce che possono essere efficacemente combattuti solo se affrontati di concerto.
        In primo luogo, quindi, la criminalità organizzata trova nell’Unione Europea un quadro propizio alla sua azione. Vuoi come destinazione finale, nel caso delle reti del traffico di droga, vuoi come luogo ove commettere reati, nel caso — per fare un solo esempio — delle reti per il furto delle auto di lusso. L’Unione offre un ampio territorio che, in mancanza di adeguate misure di polizia e giudiziarie, può prestare un’attraente coltre d’impunità a gruppi siffatti. A tale attrattiva si combinano le estese opportunità offerte dai sistemi finanziari degli Stati comunitari al momento di riciclare i proventi dei reati. La congiunzione tra una criminalità che acquisisce un carattere sempre più sovranazionale, e un vasto spazio di libertà confinaria, rappresenta la combinazione perfetta per far sì che la crescita delle minacce promananti da reti organizzate di qualsiasi natura che investano lo spazio europeo di sicurezza possa divenire esponenziale nei prossimi anni.
        Un fenomeno parallelo e di pari incidenza è quello dell’immigrazione illegale. L’Unione Europea è una destinazione ovvia quanto privilegiata per chiunque sia in cerca di un’occasione per migliorare le proprie condizioni di vita trasformandosi, in questo tentativo, in facile vittima delle reti che trafficano in esseri umani, ridotti a mera merce su cui lucrare.
        Il primo imprescindibile requisito per poter parlare di spazio sicuro all’interno dell’Unione consiste nell’ottenere una sicurezza adeguata sul piano della protezione e del controllo delle sue frontiere esterne. Davanti ad una pressione migratoria crescente non si tratta tanto di costruire un’Europa-fortezza, quanto di regolare e incanalare attraverso la legalità l’accesso, la circolazione, il soggiorno e l’integrazione, se del caso, di cittadini di Paesi terzi nell’Unione.
        La terza grande minaccia — e non la meno importante per chi vi parla — allo spazio europeo di sicurezza è quella che proviene dal terrorismo in tutte le sue manifestazioni, che si tratti di terrorismo locale, che colpisce questo o quello Stato membro, o di terrorismo di ambito sovranazionale, quale può essere il terrorismo islamico. È indubbio che lo sforzo di propaganda che ogni atto terroristico presuppone trova per definizione il proprio scenario migliore nell’Europa unita, e che solo mediante il lavoro congiunto in materia d’informazione tra gli Stati membri si può esser pronti ad anticipare eventi di tal natura e a reagirvi.
        Infine, assieme a quanto sin qui menzionato, ad assumere una rilevanza cruciale è anche ciò che costituisce, per così dire, un reato orizzontale, legato a tutti quelli sopra descritti, ossia il già citato fenomeno del riciclaggio dei capitali. Certo è che nessun reato è vantaggioso se il suo ricavo non può essere immesso nel sistema finanziario legale, come pure è certo che il riciclaggio dei capitali ha sempre luogo nel Paese dove tale sistema presenta il maggior numero di falle. Di conseguenza agire contro il riciclaggio, proteggere il sistema, insomma chiudere il rubinetto di quest’ultima fase della trafila criminale ha tanto peso quanto ridurre la minaccia derivante da tutti i fenomeni antecedenti.
        Di fronte a tutte queste minacce, di cui gradualmente in seno all’Unione si è presa coscienza, sono stati delineati piani e obiettivi che, in ultima istanza, condensano le ricette d’azione nella combinazione di due elementi formulati nel Trattato di Amsterdam: la cooperazione giudiziaria penale e la cooperazione di polizia.
        In quanto alla seconda, essa si suddivide a sua volta in tre grandi principi od obiettivi, irrinunciabili per poter fronteggiare efficacemente le minacce emergenti nell’Europa senza frontiere interne. Essi sono: a) l’avanzamento verso una concezione operativa della cooperazione di polizia; b) il rafforzamento, sul piano dei mezzi e della fluidità, degli scambi d’informazioni tra i vari corpi di polizia europei; c) il consolidamento di un’istituzione unica che centralizzi, coordini e controlli la cooperazione suddetta in modo stabile, strutturato e permanente, scopo, quest’ultimo, a cui risponde Europol.
        Prima che entrasse in vigore il Trattato di Maastricht era stata creata, tramite un Accordo ministeriale siglato dai Ministri del Gruppo Trevi a Copenaghen nel 1993, la cosiddetta Unità Droghe di Europol (UDE), che attraverso un susseguirsi di azioni comuni degli Stati membri avrebbe man mano ampliato il proprio ambito di competenze. Grazie all’UDE si è potuta avere una visione globale dei diversi modi in cui i servizi di polizia degli Stati membri erano in grado d’integrarsi in un servizio europeo d’informazione centralizzato e istituzionalizzato, tramite la figura dell’ufficiale di collegamento di stanza presso la sede dell’Aia. Tale esperienza sarebbe stata all’origine del successivo lancio di Europol.
        Al di là dei vari Piani d’azione e iniziative affini, tese più a delimitare degli obiettivi che a dotare la cooperazione di polizia di strutture istituzionali, Europol si trasforma, con l’entrata in vigore del trattato di Amsterdam e la definizione dei suoi compiti prevista dal nuovo articolo K2, oltre che dalla sua stessa Convenzione regolatrice, nella chiave di volta, nello strumento fondamentale per lo sviluppo dello spazio europeo di sicurezza.
        È ancora presto per valutare l’efficacia di Europol come strumento a tal fine. Ad ogni modo sono state aperte delle piste che consentono d’intravedere ciò che quest’istituzione potrà offrire in futuro. Il riconoscimento ad Europol di una sua dimensione operativa, sia pur limitata, secondo quanto deciso durante la Conferenza Intergovernativa di Revisione dei Trattati (CIG), e ripresa poi nell’articolo K2 del Trattato di Amsterdam, nonché l’allargamento del suo ambito di competenze a materie non contemplate all’inizio, come ad esempio il terrorismo, permettono di considerare con ottimismo il futuro che si prospetta a medio termine. Il consolidamento all’interno di Europol di una serie di funzioni, quali l’uso di banche dati congiunte, la cooperazione nel campo dell’analisi e dell’informazione o il coordinamento operativo fra i corpi di polizia dei vari Stati membri, possono far sì che questa istituzione divenga davvero il nucleo strutturante dello spazio europeo di sicurezza.
        Tuttavia Europol non è l’unico strumento che l’Unione Europea abbia posto al servizio di tale spazio di sicurezza. Il Vertice (o Consiglio Europeo) di Tampere ha segnato un momento fondamentale sul piano della determinazione degli obiettivi in materia di sicurezza e di selezione degli strumenti necessari a promuoverla. Nelle sue Conclusioni, il Consiglio indica dunque una serie di provvedimenti aggiuntivi da adottare in un avvenire più o meno immediato per conseguire una maggior efficacia nella lotta contro la criminalità organizzata su scala dell’Unione (Conclusioni da 40 a 58). Tra di essi si segnalano: a) la creazione di una Unità operativa europea di capi delle Polizie; b) l’estensione delle competenze di Europol al riciclaggio di capitali, quale che sia il reato da cui derivano; c) il varo di Eurojust; d) la fondazione di una Scuola Europea di Polizia.
        In sostanza, Tampere ha confermato l’idea secondo la quale l’Unione ha compiuto un passo irreversibile nel trattare la sicurezza come uno degli obiettivi prioritari dell’Europa unita; ha ribadito gli obiettivi sanciti nel Trattato di Amsterdam; ha enunciato le misure concrete che saranno adottate in tale campo nell’immediato futuro. Il processo evolutivo della cooperazione di polizia comunitaria, che abbiamo sin qui esposto, culmina così, raggiungendo una maggiore età forse un po’ tardiva, ma comunque inevitabile ed irreversibile, che farà di tale settore della cooperazione un battistrada nell’Europa del futuro.
        La valutazione complessiva dell’evoluzione tratteggiata attraverso le nostre parole deve senz’altro essere ottimistica, o quantomeno fiduciosa. Sono state gettate le basi dello spazio europeo di sicurezza, si è addirittura cominciato a costruire la casa, ma rimane difficile prevederne l’aspetto finale e capire se davvero basterà a far posto alle esigenze che verranno sorgendo in futuro.
        In questo senso non possiamo scordarci che, nonostante il fatto che questa cooperazione di polizia si muova in un quadro intergovernativo, nonostante esista l’aspirazione a costruire uno spazio comune di sicurezza per i quindici Stati membri, a leggere tra le righe i meccanismi giuridici di cooperazione definiti ad Amsterdam traspare in essi una certa rinuncia a far sì che gli eventuali progressi si realizzino ad un ritmo omogeneo per tutti gli Stati membri.
        Le diffidenze sussistono e riguardano in particolare la difesa della sovranità nazionale e la sfiducia verso le istanze di decisione sovranazionali. Le differenze tra gli ordinamenti giuridici e le concezioni delle politiche di sicurezza dei vari partner comunitari hanno costretto a ricercare formule di compromesso che permettessero di continuare ad andare avanti, pur se non congiuntamente o di conserva. Così, i meccanismi di cooperazione rafforzata consacrati dal Trattato di Maastricht evidenziano le difficoltà che tradizionalmente sono sempre esistite per raggiungere accordi all’unanimità in tale ambito, e aprono uno spiraglio passando per il quale gli Stati che lo desiderino potranno puntare ad un livello superiore di cooperazione, mentre al tempo stesso potrà uscire dalla casa comune chi non abbia una volontà di progresso altrettanto netta.
        La tecnica della cosiddetta geometria variabile, ossia la possibilità di adottare decisioni solo tra alcuni Stati membri, già contemplata a Maastricht e enfatizzata ad Amsterdam; la possibilità di stabilire clausole di entrata in vigore provvisoria delle Convenzioni per alcuni Stati, prima che tutti i quindici membri abbiano concluso i rispettivi iter di ratifica; le opzioni di configurazioni à la carte, come quella prevista per il Regno Unito e l’Irlanda nei confronti dell’acquis di Schengen, che consente a quei due Stati di decidere unilateralmente che cosa recepire e che cosa no dell’acquis complessivo; oppure l’uso sempre più frequente delle cosiddette clausole di opt in / opt out possono essere tutti considerati come mezzi per facilitare i progressi nella cooperazione, ma anche come segni di rinuncia a conseguire un unico spazio di libertà, sicurezza e giustizia che abbia carattere e dimensioni uguali per tutti gli Stati membri.
        Il rischio è evidente: il proliferare di tutte queste scappatoie può condurci, in futuro, a tramutare il preteso spazio comune di sicurezza in uno spazio frammentato, al cui interno il grado d’intensità degli obblighi, dei legami, dell’impegno e dello sviluppo di ciascuno Stato membro è variabile. Ciò non potrebbe essere inteso, in sostanza, se non come una sorta di dissimulato fallimento degli obiettivi perseguiti ad Amsterdam e Tampere.
        Davanti a questa cupa visione, vi è un fattore soggiacente a tutto ciò che precede e che mai dobbiamo trascurare: la costruzione europea, in qualsiasi ambito, è un processo inarrestabile e irreversibile. Possono esserci ostacoli, frenate o temporanei arresti, ma su di essi prevale una tendenza costante al consolidamento dell’Europa unita che s’impone alle singole volontà dei diversi Stati o Governi e che, alla fin fine, con la sua dinamica consente di ovviare alle difficoltà. Il ventunesimo secolo sarà certamente il secolo della globalità, l’era della transnazionalità, e su tale sfondo la costruzione europea diventa un requisito irrinunciabile per la stessa sopravvivenza degli Stati, per rafforzare e riaffermare attraverso la loro unione il ruolo e la presenza di ciascuno di essi in questo mondo globale.
        Sul terreno della sicurezza, la consapevolezza della natura comune dei rischi e delle minacce che si presentano, l’evidente valore aggiunto che l’azione comune dei vari Stati comporta per l’efficacia poliziesca, la dipendenza d’ogni Stato dagli altri per riuscire ad essere efficace, fanno della ricerca dello spazio europeo di sicurezza un’esigenza condivisa da tutti i partner comunitari, la quale assicura la continuità del processo avviato e garantisce, al di là di qualsiasi ostacolo o reticenza, il progressivo consolidamento di quello che è — e deve senz’altro essere — un obiettivo primario dell’Europa futura.
        In termini più specifici possiamo affermare che il Terzo pilastro dell’Unione Europea, o pilastro della Giustizia e degli Affari interni, è oggi come oggi uno dei più dinamici. Dopo il Trattato di Amsterdam e il Consiglio Europeo straordinario di Tampere — dedicato per intero a temi di giustizia ed affari interni — l’Unione Europea sta intraprendendo con serietà e risolutezza la costruzione di uno spazio comune di sicurezza e giustizia. La creazione di tale spazio non si radica soltanto in una visione teorica del progredire dell’integrazione europea, ma anche nella dimensione pratica di un più efficace perseguimento della criminalità transnazionale nell’ambito europeo.
        L’Unione Europea ha creato, infatti, uno spazio di pace e prosperità costituito dal mercato unico e dalla moneta unica, al cui interno sono garantite le famose quattro libertà di circolazione (delle persone, dei beni, dei capitali e dei servizi). Queste libertà permettono però anche la libera circolazione dei delinquenti e della criminalità organizzata. La necessità di coordinamento nelle sfere giudiziaria e di polizia e l’insorgenza in ambito europeo di reati specifici, che sfruttano come copertura le divergenze esistenti fra gli ordinamenti nazionali, hanno portato al formarsi di aree d’impunità, che rendono difficile attualmente rinviare a giudizio, con l’auspicabile celerità, delinquenti che si trovano in altri Stati dell’Unione.
        La Spagna si è subito posta all’avanguardia di quest’avanzata dell’Unione Europea, esigendo risultati rapidi sia a livello europeo sia sui piani nazionale e bilaterale. Nell’Unione Europea la Spagna sostiene da tempo il riconoscimento reciproco delle sentenze e deliberazioni giudiziarie preliminari, di natura civile come penale, per assicurare l’effettiva costituzione dello spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia cui accennavamo poc’anzi. È bene sottolineare — come nel caso del mercato unico — l’importanza dei progressi sulla strada dell’armonizzazione e avvicinamento tra le legislazioni nazionali, come contributo ad una miglior intesa fra europei. Tali progressi non costituiscono però una condizione sine qua non — come accadde, invece, con il mercato unico — per puntare al riconoscimento reciproco, specie nell’ambito penale, ove la rapidità nel perseguire, indagare e processare la criminalità organizzata è la chiave dell’efficacia.
        In un gruppo di Stati come quelli che fanno parte dell’Unione Europea deve regnare il principio di fiducia reciproca nei rispettivi ordinamenti giuridici, deve esistere in seno all’Unione una presunzione iuris et de iure di legittimità democratica degli ordinamenti di tutti, avente come corollario logico il riconoscimento reciproco delle sentenze e delle deliberazioni giudiziarie preliminari. Facendosi forte di questi argomenti la Spagna ha propugnato il superamento della procedura di estradizione fra Stati membri dell’Unione Europea, giudicandola una procedura anacronistica. Sotto il profilo politico anzitutto, poiché la procedura d’estradizione con intervento del Governo nazionale, con la quale si esprime una valutazione politica sull’opportunità dell’estradizione stessa, fondata sulla diffidenza nei confronti dell’ordinamento dello Stato richiedente, non ha più senso in una Unione Europea composta da Paesi non soltanto pienamente democratici, ma che come tali si riconoscono esplicitamente fra loro. Sotto il profilo tecnico-giuridico o tecnico-giudiziario, poi, perché occorre che la procedura sia più snella — come se si trattasse d’eseguire la deliberazione d’un organo nazionale — per conseguire una maggior efficacia nella lotta contro la criminalità organizzata nell’ambito europeo.
        La Spagna ha difeso queste idee in tutte le sedi nelle quali ne ha avuto occasione, come al Parlamento europeo, dove di recente è stata adottata una risoluzione nata per iniziativa degli eurodeputati spagnoli (popolari, socialisti, etc.), che tra l’altro esorta la Commissione a varare quanto prima il mandato di ricerca e cattura europeo. Ha difeso altresì tale idea sul piano bilaterale, intavolando trattative con alcuni Paesi, tra cui l’Italia, il Belgio e ben presto la Germania. Il negoziato più inoltrato è quello in corso con l’Italia, tanto che si può parlare della possibilità di risultati tangibili a breve termine.
        Tale negoziato — è bene rammentarlo — fu avviato a causa delle condizioni imposte dalla Corte Costituzionale spagnola alla Repubblica italiana per dare il proprio accordo all’estradizione di alcuni mafiosi italiani. Già il 20 luglio 2000 sono stati firmati due documenti: nel primo, che è un protocollo allegato alla Convenzione europea sull’estradizione del 1957, si cercava di snellire le procedure mediante una maggiore estensione esplicativa delle richieste di estradizione; nel secondo, i due Stati s’impegnavano a negoziare l’abolizione dell’estradizione tra loro per taluni reati gravi, mediante il riconoscimento reciproco e la messa a disposizione dell’autorità giudiziaria richiedente della persona reclamata e detenuta nello Stato richiesto.
        Le trattative hanno registrato rapidi progressi, e si basano sulle seguenti idee fondamentali:
– superamento dell’estradizione, attraverso la soppressione del livello politico di tale procedura;
– applicazione della convenzione summenzionata a reati gravi quali il terrorismo, la delinquenza organizzata, il traffico di esseri umani, le violenze sessuali incluse quelle a carico di minori, il traffico di stupefacenti, etc.;
– massimo snellimento del livello tecnico-giudiziario, mediante un mandato di ricerca e cattura spiccato da un giudice dello Stato richiedente che dovrebbe essere eseguito immediatamente nello Stato richiesto;
– cooperazione fra le autorità dei due Paesi al fine di assicurare in misura adeguata la presenza della persona ricercata ai procedimenti penali in corso, nonché ai fini dei trasferimenti e delle condanne da scontare qualora la persona ricercata avesse procedimenti pendenti nello Stato dell’autorità giudiziaria richiesta.
        Grazie a queste semplici idee è possibile, nell’ambito bilaterale, trovare soluzioni che possono essere successivamente presentate a livello europeo, come contributo italiano e spagnolo alle attività in corso per giungere alla creazione d’un autentico spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
        Concludo dichiarando che voglio essere più ottimista del mio illustre collega, Mr. Malins, M.P., e vedere in questi strumenti bilaterali l’embrione di una politica comune e di un’armonizzazione legislativa dello spazio europeo nella materia di cui ci occupiamo.

 

Julio Villarrubia Media Villa
Componente del Congresso dei deputati del Regno di Spagna

        Grazie, signor Presidente, dell’invito a questo importante e interessante seminario sulla costruzione dello spazio giuridico europeo contro la criminalità organizzata. Premetto che nel complesso sottoscrivo quanto detto negli interventi qualificati e brillanti di ieri pomeriggio e quanto è stato detto anche stamane; dico nel complesso perché ci sono in certi punti delle discordanze. Nella sostanza condivido, tuttavia, gli approfondimenti e la maniera in cui è stato trattato il problema della delinquenza organizzata transnazionale. Fatta questa premessa, per non fare ripetizioni, giacché durante tutti questi interventi i concetti e le situazioni di fatto sono state ben descritte, mi permetterò solo di svolgere qualche breve considerazione e riflessione su taluni principi ed esprimerò un’opinione, che è poi quella del Gruppo parlamentare socialista nel Parlamento spagnolo, su una realtà quale quella della delinquenza organizzata nell’Unione Europea, che è in crescita allarmante. I gruppi criminali formano, infatti, associazioni all’interno e all’esterno del territorio dell’Unione. Tuttavia per venire all’interno dell’Unione questi gruppi si stanno potenziando, ricorrendo a specialisti e a strutture imprenditoriali legali impiegate nelle loro attività delinquenziali. La crescente complessità dell’organizzazione di molti gruppi criminali organizzati permette loro di approfittare delle palesi lacune giuridiche presenti in vari Paesi e di sfruttare queste anomalie per conseguire i loro fini. Se così è, e questa è una premessa accettata da tutti, che dobbiamo fare? Direi che, a parte dibattere e analizzare come qui stiamo facendo, e anche bene, bisogna passare ai fatti, passare all’azione, giacché le bande organizzate non stanno lì ad aspettare per commettere reati e sfruttano, nella misura in cui possono, la situazione. Quindi noi puntiamo chiaramente alla costruzione di uno spazio comune europeo omogeneo per lottare contro la criminalità organizzata; cioè puntiamo alla creazione di uno spazio transnazionale di legalità.
        A questo fine occorre omogeneizzare, se non accomunare, nella misura maggiore possibile, le norme di incriminazione almeno per quei reati che hanno a che fare soprattutto con la criminalità organizzata. Questa omogeneizzazione, questo tentativo di fare norme analoghe, deve puntare sia alle norme sostanziali del diritto comune, sia a quelle procedurali, anche qui ove possibile, con tutte le difficoltà giuridiche, connesse ai principi costituzionali che potranno essere coinvolti. Tutte queste situazioni devono essere coniugate nella ricerca di una meta comune. Noi pensiamo che vi sia una questione di fondo: il rafforzamento delle istituzioni europee, su cui scommettiamo; un rafforzamento di tutte quante le istituzioni. Non basta, per noi, ratificare trattati e convenzioni. È questo un meccanismo necessario, imprescindibile, ma lo scopo a medio e lungo termine è il potenziamento reale e funzionale delle Istituzioni europee nel loro insieme. Riteniamo, infatti, che questo spazio di giustizia, libertà e sicurezza sia una parte sostanziale dell’Europa che vogliamo, un’Europa cioè che non sia solo dei mercati e degli affari, come è stato già detto prima, ma anche un’Europa dei cittadini, un’Europa delle persone. A questo fine è necessario, e questo lo diciamo apertamente, che un certo grado di sovranità sia ceduto, nel senso giusto, perché a volte, per salvaguardare i concetti formali, possiamo poi lasciarci sfuggire i contenuti di fondo, possiamo perdere di vista, possiamo allontanarci dagli obiettivi della giustizia, della libertà e della sicurezza di cui prima dicevamo. Anzi, dal mio punto di vista — la mia è un’opinione personale — non è soltanto necessario cedere parzialmente parti di sovranità nei termini in cui prima lo esponevo, ma, man mano che si punta a questo potenziamento, che deve essere reale, delle istituzioni e dello spazio giuridico europeo, occorre anche elaborare strumenti efficaci di sanzione nei confronti degli Stati che su queste questioni fondamentali o non ratificano le Convenzioni o non le applicano a dovere.
        Per concludere, dato che ho detto che avrei semplicemente delineato qualche concetto, questo è il pensiero generale del mio gruppo: puntare al rafforzamento delle Istituzioni europee nel loro insieme, quindi il Parlamento, la Commissione e, sotto il profilo dello stato di diritto, puntare anche all’istituzione di una magistratura suprema in ambito europeo, specie sul terreno penale, e in particolare per certi reati. Riteniamo anche opportuno istituire la figura del Procuratore europeo, non già come figura individuale, ma come struttura. Puntiamo anche ad un aumento delle funzioni di Europol attraverso un aumento delle risorse economiche, dei mezzi materiali e del personale, affinché non si migliori soltanto la fase informativa, che è già abbastanza avanzata, ma si migliori anche sul terreno operativo. Siamo, quindi, a favore dell’impiego di tutti gli strumenti di cooperazione internazionale in materia di polizia e giudiziaria per lottare contro la piaga del crimine organizzato. Tutto ciò incide sull’applicazione effettiva dello stato di diritto. Riteniamo quindi, che quanto prima si debba passare dalle parole e dagli studi rigorosi, che esistono, ai fatti al fine di combattere al meglio la piaga del crimine organizzato.

 

Michele Figurelli
Componente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari

        Il lavoro da noi svolto all’interno del Comitato riciclaggio, usura e racket della Commissione parlamentare Antimafia e quello fatto per la relazione sulla Calabria e sulla ’ndrangheta hanno portato la nostra attenzione su due operazioni giudiziarie compiute una settimana fa dalla direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria che, a prima vista, dalle notizie di stampa, appaiono assai significative.
        La prima consiste nell’arresto di alcuni capimafia calabresi, di personaggi genovesi e di uomini di paglia di Cesena. È questo un grosso colpo inferto ad una rete tra cartelli colombiani, intermediari siciliani e calabresi e un cartello calabrese tra diverse cosche della ’ndrangheta. Cosa è successo? Un container dal Brasile pieno di legname destinato a una segheria di Cesena, e contenente in realtà un ingentissimo carico di droga, viene intercettato al porto di Genova. Fino a questo punto non c’è nulla di eccezionale o di diverso rispetto a tante altre operazioni importanti contro i narcotrafficanti. La cosa interessante è che questo container è stato intercettato perché il suo vero carico era stato individuato attraverso un monitoraggio, effettuato dall’Ufficio italiano dei Cambi, in merito ad operazioni di pagamento internazionali connesse a fittizie operazioni commerciali. Quindi non dalla droga al denaro, ma dal denaro alla droga. Afferriamo questo circolo combattendo da entrambi i lati.
        La seconda operazione è quella rappresentata dal sequestro di conti correnti bancari, certificati di deposito, titoli azionari e obbligazionari, titoli di Stato, quote di fondi di investimento, a decine di migliaia (lo dico perché questo indica la grande pervasività mafiosa sul territorio). Questo sequestro è avvenuto con una doppia imputazione: per riciclaggio, secondo l’articolo 648-bis del codice penale e per attribuzione fittizia ad altri della titolarità o disponibilità di denaro, beni, ecc. (articolo 12-quinquies della legge n. 356 del 1998). Voglio richiamare l’attenzione soprattutto a questa seconda imputazione, pensando a quanti prestanome, in Italia e fuori, a quanti mafiosi ricchi da ricercare addirittura nell’elenco dei poveri (è capitato anche questo) possono celarsi tra i normali titolari di conti o acquirenti e venditori di titoli. Ho voluto trarre dalla cronaca più recente questi due esempi, per entrare subito nel merito, per dire che se l’Europa ha la forza nuova della moneta unica, tuttavia, nonostante progressi significativi negli ultimi anni ’90, non ha ancora tutta la forza necessaria a garantire la difesa di questa moneta unica dal denaro sporco, dall’inquinamento della mafia e dai signori del riciclaggio, che costituiscono un pericolo non solo per l’economia, ma per le istituzioni e lo sviluppo della democrazia.
        Da un lato noi abbiamo la forza nuova della moneta unica, dall’altro lato la debolezza della difesa dal denaro sporco (perché mai — tanto più a fronte di quanto è avvenuto e avviene nell’Est europeo — dovremmo dimenticare la massima della moneta cattiva che scaccia quella buona?).
        Da un lato abbiamo la forza nuova della integrazione dei mercati, dall’altro lato la debolezza sul versante della integrazione per il contrasto al riciclaggio e più precisamente per il contrasto all’interazione tra mercati legali e mercati criminali. Da un lato la libertà di circolazione dei capitali e per la verità anche di criminali e mafiosi, e dall’altro una libertà ancora minore di questa: la libertà di circolazione dei magistrati e degli uomini dell’intelligence finanziaria.
        Io quindi parlo soprattutto di questa contraddizione, e mi riferisco ad alcuni problemi della prospettiva di un contrasto comune della immissione del capitale criminale nell’economia legale, per dire che il riciclaggio non si può impedire e sconfiggere in un Paese solo. La politica di prevenzione e di contrasto o è comune o non è. E questa politica comune o si dispiega al più presto o rischia di non essere più adeguata ed efficace rispetto ai mutamenti continui e sempre più veloci dei canali e dei metodi del riciclaggio. La politica comune di prevenzione e di contrasto non può essere costretta ad una eterna rincorsa, non deve rischiare di trovarsi esposta, come si è già verificato, ai sistemi già collaudati di difesa e di aggiramento da parte dei riciclatori.
        Queste affermazioni possono apparire ovvie per la loro corrispondenza ai processi oggettivi della integrazione dei mercati e alle domande politiche nuove che ne derivano. Tuttavia ribadire queste affermazioni è, purtroppo, ancora indispensabile a fronte del riproporsi di posizioni euroscettiche all’interno dell’Italia, come pure in altri Paesi del continente europeo. E ciò anche a fronte delle difese del proprio particulare e della propria piccola sovranità, come quelle manifestate da chi in Italia continua a ripetere che sarebbe bello se l’Italia diventasse un paradiso fiscale o come quelle espresse dal principato di Monaco nei confronti della Francia in risposta alla missione parlamentare francese che nel giugno scorso aveva individuato nel Principato, cito testualmente, "un luogo propizio al riciclaggio di capitali" o, ancora, a fronte delle resistenze che si oppongono all’avanzamento e al rafforzamento delle istituzioni comuni o alle cosiddette cooperazioni rafforzate e si arroccano, invece, a difendere quella pesantissima palla al piede per l’Europa che è il diritto di veto.
        La sicurezza dell’economia dall’inquinamento del denaro sporco non è un problema meno grande e meno importante di quello riproposto drammaticamente dalla cronaca di questi giorni: il problema della sicurezza del mare dai carichi di veleni e di sostanze pericolose, per la quale il Presidente Giuliano Amato aveva perorato al recente Consiglio europeo di Biarriz la necessaria adozione di misure urgenti e ha dovuto ora rammaricarsi del fatto che la Commissione non abbia ritenuto possibile fissare a prima del 2010 la scadenza dell’ammissibilità delle navi ad un solo scafo.
        Alla dimensione sovranazionale della lotta al riciclaggio e alla interazione tra capitali e mercati legali e capitali e mercati criminali io credo quindi che noi dobbiamo guardare con lo stesso spirito e con la stessa lungimiranza che, più di cinquanta anni fa, quando si doveva uscire dalle rovine della guerra, portò in Italia i costituenti a scrivere l’articolo 11 della Costituzione, secondo cui "L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente — ed è su questo che pongo l’accento — in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo".
        Che cosa significa giustizia tra le Nazioni? Non può, non deve, forse, comprendere i diritti sociali e individuali dei singoli, non deve forse intervenire sui rapporti tra questi diritti e il mercato mondiale, sia per le possibilità di emancipazione, sia per i pericoli di lesione, negazione ed esclusione? Ecco che nella nostra legge fondamentale, scritta più di cinquanta anni fa, si trova un elemento di nuovo costituzionalismo sovranazionale, l’anticipazione di un superiore ordinamento e quindi, della cessione a questo superiore ordinamento di quanto della propria sovranità si renda necessario alla giustizia.
        Quindi noi pensiamo all’Europa come ad un soggetto non più solo di diritto internazionale ma, al tempo stesso, e ancora di più, come ad un soggetto di diritto costituzionale, e riteniamo perciò siano stati molto importanti i discorsi del ministro tedesco Fisher all’Università di Humboldt il 12 maggio e quello del Presidente Ciampi a Lipsia il 6 luglio sulla necessità di una lotta decisa e anche coraggiosa contro i tentativi di ritorno al passato e contro gli euroscettici.
        Io credo che questo sia il terreno più fertile per coltivare le risposte più efficaci alle domande urgenti che noi abbiamo all’ordine del giorno: quale contributo dare alla costruzione del sistema sovranazionale di lotta al riciclaggio? Quali conseguenze trarre dalle acquisizioni sovranazionali già conseguite, e da quelle in itinere, per la riorganizzazione interna, nazionale, del sistema? E, più precisamente, quali conseguenze trarre dalle prospettive nuove aperte dalla nuova direttiva europea, dalla prossima Convenzione ONU di Palermo, dalla Carta europea dei diritti, dal lavoro e dall’ambizione dei costituenti che ha segnato questa Carta e dal prossimo vertice di Nizza, con le istanze di una vera e propria Costituzione europea?
        Per ricercare le risposte migliori e i correttivi necessari ad adeguare gli strumenti di prevenzione e di repressione, oggi, a dieci anni dalla prima direttiva europea, a quasi due anni dall’Azione comune del 3 dicembre 1998, ad un anno da Tampere, è utile costruire un bilancio del cammino percorso, sia dei successi conseguiti sia delle occasioni mancate. È utile una verifica della legislazione, un ripensamento critico del sistema interno, nazionale, antiriciclaggio, un ripensamento mirato ad una sua riorganizzazione non statalista, e spiegherò perché, e all’altezza delle sfide indotte dalle trasformazioni in atto nei mercati finanziari e dai processi di privatizzazione e riorganizzazione delle banche.
        Il bilancio del cammino percorso va costruito guardando alle ragioni che hanno determinato il deficit delle indagini patrimoniali e delle misure di prevenzione patrimoniali, e alle scelte capaci di superarlo e di determinare un grande e rapido salto di qualità. E io guardo alla proiezione europea internazionale delle indagini patrimoniali e delle misure di prevenzione patrimoniali.
        La verifica della legislazione, soprattutto se si accettasse di lavorare ad un testo unico antiriciclaggio, va operata non solo guardando ai suoi punti di forza e al loro adeguamento alle trasformazioni intervenute nell’economia e nella finanza nel nostro Paese e in atto per la moneta unica e per la integrazione dei mercati, ma anche facendo una ricognizione delle occasioni mancate e soprattutto delle resistenze conservatrici all’interno della macchina statale, come quelle che, fino a ieri, si sono opposte a realizzare l’archivio dei conti e dei depositi, a immagazzinare conoscenze e utilizzare i dati relativi ai trasferimenti di proprietà e ai movimenti degli esercizi commerciali secondo quello che era previsto dalle norme Mancino del 1993, a organizzare la segnalazione delle operazioni sospette secondo le norme del 1991 modificate dal decreto legislativo n. 153 del 1997 e le conseguenti innovazioni nel sistema della vigilanza e delle sanzioni.
        Il ripensamento critico del sistema interno nazionale antiriciclaggio dovrebbe guardare ben oltre il problema della muraglia cinese, ovvero del rapporto esistente tra i due tavoli, il tavolo penale e il tavolo finanziario, il tavolo delle polizie e della magistratura e il tavolo dell’Ufficio italiano dei Cambi, della vigilanza Bankitalia, della Consob, del Ministero del tesoro, e di quelli delle finanze, dell’industria e del commercio estero. Il nostro sistema, infatti, è solo apparentemente binario. È assai più complesso e articolato, ma con articolazioni che appaiono prive di un centro o di un coordinamento, e con il conseguente pericolo che la pluralità dei soggetti porti non ad una moltiplicazione dei risultati e a maggiori livelli di efficienza, ma ad una degenerazione in un blocco e in una pluralità di contraddizioni antagonistiche e di conflitti, svelando così non solo la mancanza, ma, addirittura, una impossibilità strutturale di governo.
        Questo sistema che può rischiare di essere costoso e poco produttivo non ha collassato e non collassa solo grazie alla assai virtuosa supplenza della Banca d’Italia e dell’Ufficio italiano dei Cambi e del suo servizio antiriciclaggio che è internazionalmente apprezzato come una sorta di Financial Intelligence Unit e che costituisce una interfaccia tra l’intervento dello Stato e gli intermediari.
        L’analisi critica e il disegno di una nuova organizzazione non possono restare prigionieri del gioco interno di questa pluralità di articolazioni e di soggetti, ma devono guardare fuori, al mondo, che è cambiato, degli intermediari, ai grandi esclusi dal sistema vigente, concepiti e trattati esclusivamente come destinatari di norme di comportamento e oggetto di controlli, come sudditi — diciamo la parola vera — della macchina (peraltro farraginosa e pletorica) dello Stato-apparato (i rapporti e le consultazioni con l’ABI e con organizzazioni di categoria sono solo occasionali e di fatto ininfluenti). Se è vero come è vero che il riciclaggio è anche rischio di impresa, e non solo un grande rischio sociale, e uno dei rischi più grandi, se un sistema come quello vigente esclude e tratta solo come sudditi gli intermediari, si ha il risultato di deresponsabilizzare l’impresa a combattere la produzione e la riproduzione allargata del denaro sporco, lasciando aperto il varco alla ricerca di un compromesso con il capitale criminale fino a rendere non patologica, ma fisiologica, quella fuoriuscita dalla legalità che è l’omissione su larga scala della segnalazione delle operazioni sospette prescritte dalla legge. Ciò determina quindi un più grande guasto democratico.
        Per una riforma e una riorganizzazione efficace del sistema nulla ci devono insegnare fatti come quello di cui si è avuta recentemente notizia in questi giorni, qual è l’iniziativa appoggiata dal Transparency International? Si tratta di un’alleanza tra undici grandi banche mondiali finalizzata ad una cooperazione tra loro e con gli inquirenti nella informazione su clienti e movimenti in denaro e su operazioni sospette di finanziamenti illeciti, di corruzione, di riciclaggi, di fondi neri (c’è la Deutsche Bank, l’Ubs, il Credit Suisse, etc; non faccio l’elenco di tutti). Se questa è un’iniziativa "privata" ci si deve chiedere: e lo Stato? E gli Stati? E l’Unione Europea? Ecco allora la fuoriuscita dallo statalismo, ecco allora sul piano interno la necessità di guardare agli intermediari, a questi grandi esclusi, l’opportunità di definirne, e con la loro partecipazione, i ruoli, la convenienza di trasformarli da destinatari a corresponsabili e coprotagonisti della difesa comune dal denaro sporco e della comune lotta all’accumulazione e ai movimenti del capitale criminale: questa è secondo noi la strada da imboccare per riorganizzare il sistema, e per una riorganizzazione che potrebbe essere indirizzata verso lo sbocco di una agenzia antiriciclaggio, di una agenzia nazionale antiriciclaggio capace di interloquire con le diverse Financial Intelligence Unit degli altri Paesi dell’Unione Europea e di tessere con loro la più efficace cooperazione.
        Ritengo sia possibile affermare che, nonostante i limiti che ho fin qui rilevato nella struttura binaria e plurale del sistema, l’Italia non parta affatto da zero se si considerano le potenzialità e la qualità dell’esperienza assai ricca della Banca d’Italia, dell’Ufficio italiano Cambi e del suo servizio antiriciclaggio e dei protocolli d’intesa bilaterale che esso ha stabilito con altre unità di intelligence finanziaria dell’Unione Europea. La prospettiva prima accennata di una agenzia antiriciclaggio non vale allora solo sul piano nazionale: se si è dato inizio, con la moneta unica, ad un sistema della banche centrali europee, perché mai non dovrebbe potersi pensare, e lavorare, ad un sistema di coordinamento e poi ad un sistema integrato delle agenzie nazionali antiriciclaggio dell’Unione? E, al tempo stesso, perché mai non dovrebbero potersi uniformare non più soltanto le norme giuridiche ma anche le norme di autoregolamentazione e i decaloghi di comportamento degli intermediari finanziari e primi tra tutti quelli delle banche?
        In questa prospettiva bisogna inserire la messa in funzione dell’archivio dei conti e dei depositi appena realizzato dal Governo italiano, compiendo una riconsiderazione critica di una circostanza rilevante: i certificati di deposito, che secondo il nostro osservatorio risultano poter essere tra i veicoli e le forme principali del riciclaggio, non possono, proprio per questo motivo, restarne fuori come formalmente è. Vogliamo perciò essere fiduciosi che il Governo, in particolare il Ministero del tesoro, la Banca d’Italia e l’Ufficio Italiano dei Cambi, sappiano chiarire per l’attuazione dell’archivio dei conti e dei depositi che la negoziazione di questi titoli deve ritenersi consentita solo attraverso un rapporto di conto corrente e comunque non attraverso allocazioni e conti transitori.
        A nostro avviso non è più opportuno stabilire un prima e un dopo e dividere in due tempi ciò che oggettivamente si presenta come intreccio, come interdipendenza, tra riforma e riorganizzazione interna del sistema nazionale da un lato e, dall’altro, costruzione di un sistema europeo di contrasto al riciclaggio, organizzazione sovranazionale degli strumenti. Penso, per esempio, alla proiezione europea del ruolo della Direzione Nazionale Antimafia, l’ufficio diretto dal Procuratore Vigna, alle esperienze utili per contrastare i rapporti tra la Calabria e gli insediamenti di ’ndrangheta in Germania, alle esperienze di squadre comuni di investigazioni, e, naturalmente, alla omogeneizzazione normativa, con particolare riferimento alla opportunità di incentivare con norme premiali la collaborazione antiriciclaggio e alla opportunità di avvalersi anche di agenti sotto copertura che nella lotta contro i narcotrafficanti hanno dato tanti e buoni risultati (su questa opportunità il Comitato riciclaggio, usura e racket della Commissione parlamentare Antimafia, che io ho l’onore di coordinare, facendo propria una riflessione sulla lotta migliore da fare contro l’usura, ha scoperto che questa lotta non può più farsi dipendere dalla denuncia dell’usura e ha pensato appunto alla infiltrazione e all’uso di agenti sotto copertura).
        Io ho concluso.
        Mi auguro che una specifica riflessione sulle innovazioni normative e organizzative del contrasto al riciclaggio, e sul rapporto tra le azioni nazionali e la più rapida costruzione di un sistema europeo di prevenzione e di repressione, possa essere condotto da tutti noi con un’azione che, attraverso la costituzione di un tavolo, come questo di ieri e di oggi, renda permanente il confronto e la consultazione tra i Parlamenti e gli organismi, come quello della Commissione Antimafia, che esistono o si vanno costituendo negli altri Paesi.

 

Euprepio Curto
Componente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari

        Per introdurre il mio intervento debbo dire che mai come in questa circostanza il tema della costruzione dello spazio giuridico europeo contro il crimine organizzato appare di attualità, visti i risultati non particolarmente significativi che sotto questo aspetto sono stati ottenuti nella lotta contro il crimine. C’è evidentemente una necessità di adeguamento degli strumenti giuridici, giacché la criminalità più o meno organizzata ha modificato la propria struttura, ha modificato la propria presenza sul territorio, ha modificato la propria capacità di incidere sul tessuto economico e sociale. E quindi sarebbe estremamente grave se i vari ordinamenti giuridici non si ponessero il problema di adeguare anche se stessi alla mutata situazione territoriale. Credo che ci sia bisogno però di un’analisi preliminare da parte di tutti gli Stati, volta alla individuazione delle parti irrinunciabili degli specifici ordinamenti. Io ho ascoltato con attenzione quello che è stato detto nelle relazioni precedenti e mi è parso di capire che nessuno Stato, nessun Paese intende rinunciare alla propria specificità, che è frutto di storia, di cultura, e anche di sentimenti coltivati nel tempo, nonché di esperienze personali e nazionali vissute in un sentire comune. Però se è vero che bisogna andare ad individuare quegli spazi irrinunciabili che costituiscono la specificità di alcuni ordinamenti, è anche vero che bisogna andare a individuare quelle altre parti degli ordinamenti che possono invece formare oggetto di riflessione e di sintesi comune.
        Nell’ambito della questione più specifica del contrabbando, va detto innanzitutto che questo è un tema sostanzialmente nuovo.
        Fino a un anno e mezzo, due anni fa, prima che soprattutto in Italia accadessero degli episodi particolarmente eclatanti sotto il profilo nazionale, cioè la morte di due sposini, l’uccisione di poveri pensionati o comunque di civili completamente estranei al mondo del crimine, il contrabbando era stato sostanzialmente sottovalutato. Esso era visto in una forma più o meno romantica, cioè come una maniera ai limiti della legalità, che consentiva di sopravvivere a chi non riusciva altrimenti a trovare un’occupazione. Quei fatti eclatanti hanno probabilmente risvegliato la sensibilità dell’opinione pubblica e anche della politica rispetto a un fenomeno che invece aveva creato e aveva raggiunto modelli organizzativi e di compenetrazione estremamente consistenti, al punto che oggi credo che siamo tutti d’accordo nel dire che sul fenomeno del contrabbando vanno ad innestarsi una serie abbastanza ampia di altre fattispecie criminose, che noi non possiamo assolutamente sottovalutare.
        C’è quindi la necessità di una stretta collaborazione in campo europeo, essendo tanti i campi ove bisogna rendere omogenei gli ordinamenti giuridici.
        Incominciamo con il fisco. Anche in questa sede è stata avanzata l’ipotesi che una diminuzione del carico fiscale sui tabacchi lavorati esteri possa consentire l’eliminazione del fenomeno del loro contrabbando. Io personalmente dubito che ciò accadere, anche perché il crimine è abituato a muoversi con una duttilità completamente diversa rispetto alla capacità di manovra che le istituzioni e la politica del Paese hanno. Probabilmente accadrebbe quanto è accaduto proprio sul contrabbando in Italia, in particolare in Puglia allorché fu decisa, la cosiddetta Operazione primavera. Le squadre contrabbandiere, avendo notato un’azione di pressione e di forte contrasto sulle coste pugliesi si spostarono verso le coste calabresi o addirittura andarono oltre, spostandosi in base a quelli che sono i dati in nostro possesso, addirittura in Grecia. E allora noi sappiamo che questo non può essere sufficiente. Occorre, infatti, una politica fiscale comune tra tutti gli Stati dell’Unione in tema di tassazione dei tabacchi lavorati esteri.
        Una seconda questione è proprio di natura penale. Ci sono ancora degli Stati in Europa nei quali il contrabbando non è previsto come reato. Bisogna qui intervenire con la massima urgenza, affinché anche questi Stati modifichino le loro leggi in materia, qualificando il contrabbando come reato. Solo così sarà possibile condurre un’efficace azione repressiva di questo fenomeno criminale in tutta l’Europa. Una posizione comune di un gran numero di Stati sul tema potrebbe probabilmente in breve tempo condurre a risultati positivi.
        Un altro tipo di questione che abbiamo affrontato in Commissione Antimafia e che affronteremo probabilmente nelle sedi parlamentari (è in questo momento all’esame della Camera il cosiddetto pacchetto giustizia) è quella legata alla natura del reato del contrabbando. Può essere considerato il contrabbando reato di natura mafiosa? Anche qui possono esserci certamente due scuole di pensiero: quella di chi ritiene che debba essere considerato, per la gravità delle proprie estrinsecazioni, un reato necessariamente di natura mafiosa, anche perché, come dicevo prima, al fenomeno del contrabbando sono legate altre fattispecie criminose estremamente gravi come quella del traffico degli esseri umani, il traffico delle armi, il traffico di stupefacenti e quant’altro ci possiamo aggiungere; e quella secondo la quale nello stesso momento in cui mettiamo tutto sotto l’ombrello della denominazione mafiosa probabilmente creiamo la condizioni per rendere meno chiara e meno efficace l’azione di contrasto nei confronti del fenomeno prettamente mafioso. Su tale questione questa sede può rappresentare un momento importante di riflessione e di analisi, anche se dovranno poi essere le Istituzioni compenteti a dover decidere, fatte le opportune valutazioni, quale di queste due soluzioni sia quella preferibile.
        C’è bisogno di un’integrazione anche sotto il profilo degli aspetti più propriamente civilistici. Sul controllo per esempio delle tante società di capitale che a mio personale avviso sono nate proprio utilizzando i proventi del contrabbando e che si muovono sullo scenario nazionale ed internazionale con una grande capacità tecnologica e finanziaria. Sono capitali difficilmente raggiungibili, difficilmente individuabili perché si muovono con una velocità spaventosamente alta e risulta molto difficile riuscire ad intercettarli. Probabilmente è nella fase precedente, e cioè nel momento della costituzione delle società, che bisognerebbe intervenire, introducendo dei limiti che comunque, pur non rappresentando una violazione dei principi sacri dell’economia, possano comunque essere un valido deterrente rispetto ad un fenomeno che si è evoluto ad velocità straordinaria.
        In relazione a tale questione, per esempio, io ho personalmente notizia, e l’ho rappresentato più volte nelle sedi competenti, anche attraverso atti ispettivi parlamentari, che i proventi del contrabbando — e qui questa materia va ad integrarsi anche con quella relativa al riciclaggio — transitano attraverso lo strumento delle banche di rappresentanza, sulle quali probabilmente anche qui una qualche riflessione in più andrebbe fatta, giacché sono scarsi i controlli e scarsa è la capacità di interpretarne il ruolo. Una cosa, però, è certamente vera: le banche di rappresentanza oggi godono del grossissimo privilegio di poter spostare capitali immensi in tutti i Paesi europei ed extraeuropei sottraendoli sostanzialmente ad ogni possibilità di controllo. Capisco perfettamente che un tipo di azione di questo genere probabilmente metterebbe in discussione un intero sistema, però è questa la differenza fondamentale che oggi esiste fra coloro che ritengono che in questa battaglia decisiva contro il crimine organizzato si debba andare fino in fondo e chi ritiene che ci si debba fermare a metà strada. Per quanto mi riguarda, per quanto ci riguarda, riteniamo che si debba andare avanti fino in fondo.
        Un’altra caratteristica e un altro momento di riflessione sul fenomeno del contrabbando: l’uso da parte delle forze di polizia di strumenti idonei a contrastare il fenomeno, anche attraverso l’uso delle armi. Qualche giorno fa una emittente televisiva pugliese, la più importante, mi riferisco a Tele Norba, ha riportato alcune immagini semplicemente sconcertanti: alcuni scafisti che trafficavano evidentemente in clandestini, ma sono poi gli stessi scafisti che in alcuni momenti operano nell’ambito del contrabbando, non solamente hanno messo a repentaglio la vita di giovani, donne e bambini buttandoli letteralmente in acqua, ma si sono fatti sostanzialmente beffa delle forze dell’ordine, che erano impotenti ad intervenire nei confronti di questi malviventi. Immagini di quel tipo non solo mettono in ginocchio il prestigio, la dignità di un Paese, il prestigio e l’autorevolezza delle forze dell’ordine, ma possono addirittura rappresentare un momento aggregativo rispetto ad un modello emulativo nei confronti di alcune fasce, soprattutto giovanili, che al fenomeno dei piccoli boss in erba guardano con grande attenzione. Ecco, questi fenomeni, questi modelli emulativi, costituiscono un passo molto preoccupante. Infatti il problema diventa assai serio, giacché la criminalità organizzata può svilupparsi anche perché c’è una manovalanza che gli dà la possibilità di potersi esprimere e compenetrare sul territorio. Io non conosco, debbo confessare, le normative in materia a livello europeo ed extraeuropeo. Tuttavia, sulla questione dell’uso delle armi, anche se fatto con moderazione, probabilmente ci sarebbe bisogno di una grande riflessione all’interno degli Stati, perché episodi come quelli rappresentati e denunciati dall’emittente televisiva Tele Norba non abbiano più assolutamente a ripetersi.
        Un altro tema rispetto al quale io credo che il fenomeno del contrabbando debba comunque essere necessariamente menzionato è quello del sequestro e della confisca dei beni. Noi abbiamo avuto l’opportunità, nei giorni scorsi, nel corso di da una missione compiuta da un apposito Comitato della Commissione Antimafia negli Stati Uniti d’America, di verificare come i tempi per procedere al sequestro e alla confisca in quel Paese siano enormemente inferiori rispetto a quelli esistenti nel nostro. Io so, come tutti sappiamo, che ci sono ordinamenti giuridici differenti. Soprattutto negli Stati Uniti, forti di quella non adesione al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, probabilmente alcuni passaggi vengono sostanzialmente accelerati. Tuttavia, il fatto di attaccare i patrimoni in maniera forte e soprattutto in maniera celere e ancor di più in modo definitivo, può costituire un momento importante nella lotta alla criminalità comune e organizzata. Nello stesso momento occorre, però, che l’approccio sia comune. Difatti, se lo facesse un solo Stato io credo che il risultato sarebbe certamente inferiore rispetto all’azione coordinata e complessiva di più Stati che guardano a questo momento come ad uno dei momenti più significativi nell’azione di contrasto.
        Mi avvio certamente alla fine volendo inserire nell’ambito della discussione sul tema del contrabbando un piccolo accenno al problema dell’immigrazione. Proprio in queste ore gli organi di informazione hanno dato notizia della decisione di un magistrato secondo il quale i centri per immigrati, i centri di permanenza temporanea ed accoglienza sarebbero sostanzialmente ai limiti della legge, perché contrasterebbero con il principio generale secondo il quale nessun cittadino, nessun individuo, nessuna persona può essere privata della propria libertà personale ove non si possano contestare nei suoi confronti dei reati o dei fatti certi. Io personalmente ho sempre criticato quella legge perché mi è sembrata sempre abbastanza evasiva e poco capace di andare ad affrontare i problemi reali del fenomeno dell’immigrazione, anche perché abbiamo riscontrato problemi pratici, come, ad esempio, la grande difficoltà nel procedere al riconoscimento degli immigrati e nell’individuare il Paese di provenienza, stante anche la difficoltà di trovare interpreti che non siano — ed è stato evidenziato in Commissione Antimafia proprio qualche giorno fa — sostanzialmente intimoriti dalle organizzazioni criminali. È certo, comunque, che sul fenomeno dell’immigrazione appare estremamente opportuna una rivisitazione generale di tutta la problematica, affinché si arrivi ad un coordinamento delle politiche dei diversi Paesi.
        Chiudo con una riflessione. A me pare che sotto questo profilo la nostra attenzione sia stata indirizzata soprattutto sul versante repressivo. Credo, invece, che parallelamente alla analisi delle azioni di natura repressiva che si potranno attivare nei confronti del fenomeno del contrabbando e della criminalità organizzata, un’altra riflessione dovrà essere fatta sul piano preventivo, perché probabilmente anche sotto questo profilo molti Paesi sono in ritardo.

 

Elena Ornella Paciotti
Componente della Commissione Giustizia e affari interni del Parlamento europeo

        Ringrazio vivamente la Commissione parlamentare Antimafia e il suo Presidente perché mi pare che questo Seminario, che vede la partecipazione di parlamentari di diversi Stati membri dell’Unione Europea e di parlamentari europei, sia un eccellente esempio di quella consultazione e di quel lavoro comune che dovremmo riuscire a fare per affrontare le difficili sfide che provengono dallo straordinario incremento della criminalità organizzata transnazionale a fronte di una ancora debole costruzione sovranazionale della legalità.
        I problemi, le difficoltà, le esigenze, gli obiettivi da raggiungere sono stati adeguatamente messi in luce, per quanto ho potuto intendere, nella discussione di ieri.
        Vorrei ora rendere evidenti anche i notevoli passi avanti che si sono fatti a livello dell’Unione Europea e in tempi relativamente brevi, soprattutto se visti da un’ottica italiana, che ha scarsa esperienza di interventi legislativi e istituzionali concordi, rapidi, efficaci, in materia di riforme e in particolare di riforme del settore penale.
        Innanzitutto, condivido l’impostazione dell’onorevole Seco Gordillo circa il fatto che la costruzione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia è una costruzione irreversibile nell’Unione Europea senza frontiere interne.
        Il Trattato di Amsterdam, che istituisce lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia oggetto delle nostre riflessioni, è entrato in vigore solo un anno e mezzo fa, nel maggio del 1999. L’innovazione introdotta dal Trattato di Amsterdam prevede come obiettivo proprio dell’Unione la prevenzione e la repressione della criminalità organizzata o di altro tipo — in particolare il terrorismo, la tratta degli esseri umani, i reati contro i minori, il traffico illecito di droga e di armi, la corruzione e la frode — mediante:
– una più stretta cooperazione di polizia sia diretta sia tramite Europol;
– una più stretta cooperazione giudiziaria;
– il riavvicinamento delle normative in materia penale.
        Tale innovazione ha cambiato il quadro delle competenze dell’Unione. Ora, oggetto dell’esercizio della sovranità condivisa fra i quindici Stati della medesima sono anche materie che toccano i fondamentali diritti di libertà e di sicurezza dei cittadini, sinora protetti dalle norme costituzionali dei singoli Stati membri. Di qui la necessità di un quadro di diritti fondamentali dell’Unione Europea che presieda all’esercizio della sovranità condivisa in questa materia.
        Ebbene, già nel giugno del 1999 il Consiglio di Colonia ha deciso che fosse redatta una carta dei diritti fondamentali ad opera di un organismo rappresentativo dei governi degli Stati membri, della Commissione, del Parlamento europeo e anche dei parlamenti nazionali; un organismo la cui composizione è stata poi definita dal Consiglio europeo di Tampere di un anno fa. L’opera, che doveva essere compiuta entro l’anno in corso, è stata conclusa anticipatamente dopo soli nove mesi di lavoro. Il progetto redatto è stato accettato dalla Commissione europea e dal Consiglio di Biarritz e prossimamente sarà approvato dal Parlamento europeo, per essere poi ufficialmente adottato a Nizza.
        Oso dire che quanti hanno a cuore il rispetto dei diritti delle persone, pur nell’esigenza di una efficace repressione penale della criminalità, dovrebbero operare affinché sia assicurata alla Carta una efficacia giuridica vincolante nel più breve tempo possibile.
        È bene ricordare qui che all’articolo 5 della Carta dei diritti non solo viene ribadito il divieto di tenere chiunque in condizioni di schiavitù o servitù o di obbligarlo a compiere un lavoro forzato, ma è stata aggiunta la proibizione della tratta degli esseri umani, questo rinnovato atroce fenomeno criminale la cui definizione si ritrova già nell’allegato alla Convenzione Europol e, in parte, anche nel Capitolo VI della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen.
        Ancora, nel Trattato di Amsterdam, all’articolo 37, è scritto che nelle organizzazioni internazionali e in occasione delle conferenze internazionali cui partecipano, gli Stati membri esprimono le posizioni comuni adottate a norma del Trattato. Ebbene, in occasione dei negoziati per la redazione della Convenzione delle Nazioni Unite in materia di criminalità organizzata, promossa dall’Assemblea generale dell’ONU del 9 dicembre 1998 e che sarà firmata il prossimo dicembre a Palermo, corredata dei tre protocolli relativi al trasporto illegale e al traffico degli emigranti; alla fabbricazione e al traffico illegale di armi e alla tratta di esseri umani e in particolare di donne e bambini. Su di essi l’Unione Europea ha adottato due posizioni comuni, una relativa alla proposta di Convenzione in generale e l’altra relativa al Protocollo sulla fabbricazione e il traffico di armi da fuoco.
        Nel corso dei lavori è stata inoltre inserita nella Convenzione la possibilità di adesione da parte di organizzazioni regionali fra le quali rientrano, secondo il lessico delle Nazioni Unite, sia l’Unione Europea, sia la Comunità europea. In questo quadro la Commissione della Comunità europea ha richiesto e ottenuto (sia pure con qualche fatica) dal Consiglio, quattro mandati per negoziare a nome della Comunità le disposizioni in materia di riciclaggio (l’articolo 6 e 7 del progetto di Convenzione) e i tre protocolli aggiuntivi.
        Mi pare che questa sia la prima volta in cui una Convenzione internazionale troverà l’adesione non solo degli Stati membri, ma anche, per la parte di sua competenza, della Comunità europea.
        Presso la Commissione del Parlamento europeo per le libertà e i diritti dei cittadini, la giustizia e gli Affari interni, di cui faccio parte, il prossimo
5 dicembre ci sarà la presentazione ufficiale della Convenzione dell’ONU e dei suoi protocolli e se ne valuterà l’impatto sull’attuale acquis dell’Unione in questi settori.
        Fin d’ora si può notare che nell’articolo 7 del progetto di Convenzione si dice che gli Stati non possono invocare il segreto bancario per opporsi agli ordini di esibizione o di sequestro da parte dei giudici che siano finalizzati alla confisca dei proventi di reato o alla lotta al riciclaggio. Ebbene, già nell’importante riunione del Consiglio nella composizione congiunta ECO-FIN e GAI, che ha avuto luogo il 17 ottobre scorso, fra i molti accordi politici conclusi in tema di lotta al riciclaggio di capitali, si è ribadito l’interesse dell’Unione alla inopponibilità del segreto bancario alle autorità giudiziarie. Anche in questo settore mi pare dunque che si possano registrare dei passi avanti in un tempo relativamente breve dal momento in cui si è convenuta ed è entrata in vigore l’idea dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
        Inoltre, un utile apporto della Convenzione ONU sarà quello di consentire una definizione univoca dei reati di criminalità organizzata, già sperimentata nelle diverse iniziative legislative dell’Unione in tema di riciclaggio del denaro sporco, che sarà assai utile per assicurare una efficace cooperazione giudiziaria e di polizia.
        Ancora, il Trattato di Amsterdam, nel prevedere le forme di cooperazione di polizia e giudiziarie, fissa anche il termine di cinque anni dall’entrata in vigore del Trattato per l’attuazione di queste misure e — è già stato rilevato — il Consiglio europeo di Tampere ha previsto una serie dettagliata di misure che debbono essere adottate. Ebbene, la Commissione, in particolare il Commissario competente Antonio Vitorino — competente non solo perché questo è il compito che gli è stato assegnato, ma perché particolarmente esperto della materia che tratta e persona di grande capacità — ha presentato tempestivamente uno score-board, uno scadenzario di tutti i provvedimenti previsti e dei tempi per la loro adozione, approvazione ed entrata in vigore.
        Dunque il processo di costruzione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia iniziato in questa legislatura del Parlamento europeo è in atto e sinora sembra rispettare le scadenze previste.
        Certamente occorre grande attenzione, collaborazione e sensibilità da parte di tutte le autorità o i soggetti coinvolti.
        Per questo faccio un esempio particolare. Nella Commissione per le libertà e i diritti dei cittadini del Parlamento europeo di cui faccio parte, in questa legislatura, a partire appunto dall’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, il lavoro è ovviamente aumentato a dismisura e qualche volta è reso inutilmente oneroso dal fatto che con il Trattato di Amsterdam l’adozione di posizioni comuni o di decisioni-quadro può aver luogo non solo per iniziativa della Commissione che, come ho detto, segue un ordinato scadenzario secondo una pianificazione prestabilita dei lavori, ma anche su iniziativa di ogni singolo Stato membro. Ora, poiché su tali iniziative il Parlamento deve esprimere il suo parere nel termine prefissato dal Consiglio, solitamente tre mesi, ci si trova spesso ad esaminare singole iniziative che si sovrappongono senza coordinarsi alle altre con un inutile e, in questa situazione, anche dannoso dispendio di energie. Perciò sarebbe auspicabile che i singoli governi si consultassero e tenessero conto della pianificazione dei lavori legislativi prima di proporre singole iniziative proprio per consentirne l’attuazione in tempi ragionevoli.
        Si è detto molto sulla cooperazione di polizia, su Europol, su Eurojust, sul progetto di un procuratore o pubblico ministero europeo. Io non ho da aggiungere molto di più. Mi preme sottolineare soltanto quanto è già stato detto, in particolare dall’onorevole Evangelisti, sull’esigenza di superare ritardi culturali e resistenze anche psicologiche derivanti da tradizioni superate e anche quanto è stato detto in particolare dal collega francese Colcombet, sull’esigenza di ravvicinare la formazione degli operatori.
        Su questo tema, che reputo cruciale, si sta andando un po’ troppo a rilento: i lavori per una comune accademia di polizia, che peraltro sarebbe allo stato limitata a delle élites, sono appena avviati. Quanto a Eurojust, che dovrebbe entrare in funzione nel 2002, sarà tra breve preceduta da una unità provvisoria, che servirà anche da sperimentazione e studio per la struttura definitiva. Ma è ancora troppo poco. Ritengo che gli Stati membri, e dico qui in primo luogo l’Italia, che da sempre è favorevole a queste forme di integrazione europea, dovrebbero avviare una massiccia campagna di formazione dei funzionari di polizia e di tutti i magistrati — coinvolgendo, nella deprecabile assenza di una scuola della magistratura, il Consiglio Superiore della Magistratura — sui temi della cooperazione sovranazionale. Questa deve diventare una cultura diffusa degli operatori. Solo così si supereranno le tentazioni di creare competenze accentrate, istituzioni gerarchizzate al di là del necessario, per garantire forme di cooperazione sovranazionale che, nell’Europa senza più frontiere interne, deve diventare una dimensione normale, ordinaria dell’azione giudiziaria e di polizia, come è la cooperazione tra analoghi organismi di città o regioni diverse all’interno dello stesso Stato.
        Infine, sarà bene, per ottenere via via concreti risultati senza incontrare eccessive resistenze o difficoltà, distinguere, nel progetto per la istituzione di un Procuratore europeo, diversi momenti e diverse esigenze. La prima, che a me pare prioritaria, è quella di avere un organo di impulso e di controllo giudiziario per le indagini e le iniziative di repressione dei reati che danneggiano direttamente i beni e gli interessi della Comunità europea e che pertanto è opportuno non restino sotto la responsabilità di un singolo Stato membro. Mi riferisco alle frodi comunitarie, alla contraffazione dell’Euro, alle materie di cui si occupa l’OLAF. Per questi aspetti l’istituzione di un Procuratore europeo mi pare un’esigenza matura ed evidente e il Parlamento europeo si è già pronunciato favorevolmente in proposito.
        Altra questione è quella della cooperazione giudiziaria in tema di indagini e iniziative di repressione di quelle forme di criminalità di interesse comune dell’Unione ai sensi del Trattato di Amsterdam: qui si tratta di rendere efficace il coordinamento e la cooperazione e dunque di individuare, nell’ambito di Eurojust, forme appropriate per attuare sia la cooperazione, sia, quando necessario, il coordinamento delle iniziative. Sotto questo profilo può essere anche preso in esame, con adeguati correttivi, il modello italiano della Direzione Nazionale Antimafia.
        In futuro può anche darsi che risulti opportuno e conveniente che il procuratore incaricato della repressione dei reati "europei" coordinato con OLAF e il sistema Eurojust coordinato con Europol si integrino in vario modo. Ma per intanto, anche allo scopo di evitare incomprensioni e ulteriori difficoltà non necessarie, è bene mantenere distinte le esigenze e distinte le soluzioni. In fondo la politica della costruzione dell’Unione Europea per passi successivi ha dato positivi risultati e non possiamo neppure dire che si tratti di piccoli passi; in un certo senso sono passi da gigante, perché ci hanno assicurato la pace dopo secoli di guerre sanguinose, ci hanno assicurato prosperità attraverso lo sviluppo del mercato e l’unificazione monetaria e si apprestano a garantirci una migliore difesa dei diritti e delle libertà minacciati dalla criminalità organizzata e dalle mafie, attraverso la costruzione dello spazio giuridico europeo presidiato da una Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, che spero si appresti a diventare una realtà.

 

Antonio Gagliardo
Direttore dell’Unità Nazionale Europol

        Signor Presidente, onorevoli parlamentari italiani e degli altri Paesi europei qui rappresentati. Sono onorato di essere stato invitato in questa sede parlamentare a fornire un contributo di esperienza alla Commissione parlamentare Antimafia su una tematica così ardua quanto impegnativa, qual è "La costruzione di uno spazio giuridico europeo contro il crimine organizzato", in vista della Conferenza dell’ONU che si terrà a Palermo nel prossimo mese di dicembre.
        Nel rispetto dei tempi a disposizione, cercherò di essere il più possibile conciso ed esauriente conciliando due requisiti (antitetici tra loro): la brevità dell’intervento con la completezza dell’esposizione, che ha per tema la criminalità organizzata transnazionale e l’azione di contrasto di polizia per fronteggiarla, nel quadro del coordinamento dell’Europol.
        Premetto brevemente che talune mie considerazioni che seguono, benché genericamente riassunte, scaturiscono non tanto dalla mia esperienza professionale dell’attuale incarico, quanto, e direi soprattutto, da esperienze pregresse maturate, in quasi 40 anni di vita istituzionale, in diversi incarichi — in Italia come all’estero —, in una diversificata attività di contrasto alla criminalità organizzata, nazionale ed internazionale.
        Articolerò il mio intervento su tre punti che sintetizzo:
a. la situazione;
b. l’azione di contrasto; Europol;
c. le prospettive future.

La situazione
        L’attività delinquenziale, negli ultimi trent’anni, ha subito una stravolgente trasformazione: da un carattere — oserei dire — spontaneo degli impulsi delinquenziali, quasi una scelta imposta dall’evoluzione di nuove esigenze di vita in un’Italia che, sulla scia della ricostruzione post-bellica, proiettava verso nuovi orizzonti i propri assetti politici, economici e sociali, ad un carattere sempre più diffuso e più professionale del delinquere.
        È questa la criminalità che io definisco della prima generazione.
        È proprio in questo contesto storico che — a mio modesto parere — la criminalità organizzata sa cogliere le prime occasioni per adattare e conformare lucrose attività. Quest’aspetto è presente nei delitti contro il patrimonio, come contro ogni altro target delle diverse aree della vita sociale, civile e pubblica. Negli anni a seguire, un’escalation ha scosso profondamente l’opinione pubblica nazionale creando tensione ed allarme sociale, nonché squilibri nello sviluppo economico, specie nel meridione d’Italia dove tale sviluppo era ed è, tuttora, maggiormente necessario. E questo, appunto, è il carattere della prima generazione.
        Il vincolo associativo internazionale e una crescente lucrosità delle attività illecite costituiscono un decisivo passo avanti verso una criminalità di seconda generazione, che, soprattutto, con l’avvento della droga rivela maggiore efferatezza e professionalità, chiamando in causa, spesso, i poteri dello Stato a reagire anche con legislazione e provvedimenti d’emergenza. Questa nuova criminalità organizzata, col passare degli anni e con l’utilizzo del sistema di collegamenti celeri, di mezzi tecnici e procedure innovative, stabilisce, con crescente intensità di frequentazione e di interessi, sempre più forti legami con gruppi delinquenziali di diversa nazionalità.
        Anche la materia trattata assume un carattere mutevole, in linea con le nuove esigenze di consumo dei mercati d’abuso e con il continuo divenire dei traffici illeciti, la maggior parte dei quali trae origine da diverse e lontane aree geografiche. È la delinquenza di Cosa nostra, la delinquenza di tipo mafioso, nelle sue varie denominazioni regionali, che prima si scontra e poi si accorda con gruppi criminali di diversa estrazione territoriale: dalla mafia turca ai cartelli colombiani, dalla triade cinese alla criminalità organizzata russa, albanese e così via.
        A fronte di questa situazione, l’azione di contrasto dei pubblici poteri degli Stati rivela molte difficoltà di contenimento. La normativa, anche quella d’emergenza, si mostra, spesso, inefficace o di modesta entità; anche un rafforzato interesse alla collaborazione internazionale è inadeguato a contenere il dilagare della criminalità internazionale, che assume sempre più rilevanza transnazionale.
        L’evoluzione dei fenomeni criminali, soprattutto dopo l’abbattimento del muro di Berlino e lo sgretolamento dell’Unione Sovietica, con il fenomeno migratorio di immani masse di diverse etnie, che ne accompagna il susseguirsi degli eventi socio-politici, evidenzia un aspetto di inarrestabile pericolosità, che non può essere contrastato dal singolo Stato, neanche attraverso una collaborazione fondata su occasionali accordi bilaterali tra gli Stati interessati.
        Occorre una più ampia e solida politica internazionale con il concorso di tutti gli Stati, accomunati da un unico intento strategico e medesimo desiderio di creare uno spazio giuridico e giudiziario capace di contenere il diffondersi senza limite del crimine organizzato transnazionale, in un quadro di sicurezza, di libertà e di disciplinato progresso. Al contrario, questa criminalità ultranazionale, che ha gettato le sue basi già nel volgere del millennio appena trascorso, è, e sarà, una delle più pericolose minacce che affliggeranno sempre più la società non solo del mondo occidentale, ad economia avanzata, quanto — e direi soprattutto — quella del mondo povero, la società senza speranza. È questa la criminalità che io definisco di seconda generazione.
        Non c’è dubbio che la globalizzazione dei fenomeni economici, con i suoi meccanismi e sinergie di un sistema integrato produttivo e di mercato, offre le stesse possibilità di globalizzazione anche al crimine organizzato, che, oltretutto, riesce a cogliere meglio gli effetti del liberismo e del garantismo delle innovazioni legislative e a percepire gli spazi vuoti lasciati dagli accordi (o talvolta dal disaccordo) tra gli Stati, sfruttandone lo scoordinamento con lucrose attività.
        Come ieri ha affermato il Presidente della Camera, l’onorevole Violante, la globalizzazione di per sé non è una diretta causa, ma è certamente un’occasione che viene offerta alla criminalità organizzata, quella criminalità organizzata che ha come unico fine l’arricchimento illecito.
        Il lucro delle attività della criminalità organizzata è sempre riconducibile a due fonti: quella delle attività illecite propriamente dette (droga, estorsioni, gioco clandestino, frodi, falso monetario e via dicendo) e quella delle attività lecite della riconversione. Il denaro circola negli ambienti dei due settori, illecito e lecito, con benefici sia nelle attività criminali, quelle dei finanziamenti, sia in quelle dell’investimento, riducendo i rischi al minimo, in termini di protezione dall’individuazione e confisca dei proventi illegali, ed in termini di assicurazione dei profitti reali. Il massimo di queste realizzazioni si ha, ovviamente, attraverso gli investimenti nei cosiddetti paradisi fiscali (aree off-shore).
        L’eliminazione del controllo doganale nell’Unione Europea, di per sé utile agli scambi economici e alla circolazione di persone e beni, ha costituito anche un’opportunità per gli illeciti traffici; così come la situazione politica nell’area balcanica è sfruttata molto bene dal crimine organizzato.
        Negli anni che hanno visto il progredire del crimine organizzato, qui riassunto in una disanima non certamente organica e completa, ma solo indicativa, molte ragioni hanno fatto gridare alla rabbia e allo sgomento, per politiche sbagliate nell’azione di contrasto alle attività criminali. Ma, quando si considera che fenomeni come quello della droga, piaga sociale insanabile nonostante una lotta di oltre trent’anni, così come quello, di più recente apparizione, dell’inarrestabile immigrazione clandestina con il traffico degli esseri umani che l’accompagna, umiliante moderna forma di riduzione in schiavitù, e si considera il dramma della pornopedofilia e della prostituzione reclutata attraverso l’inganno e imposta con bestiale violenza, ci si deve chiedere, con amarezza e costernazione, qual è, e quanto è profondo, il gap lasciato dall’azione di contrasto dei singoli Stati.
        È da chiedersi, ancora, di fronte a questa spregiudicata, inarrestabile ed efferata criminalità, che non conosce limiti in termini di mezzi, di territorio e di fantasia operativa, quale azione di contrasto possa essere messa in campo, se non quella che vede il coinvolgimento coordinato ed unanime di tutti gli Stati. Pertanto, è ineluttabile che le Nazioni Unite, l’Unione Europea e tutti gli Stati si facciano carico di questa minaccia; perché, tra tutte le altre, come quella del degrado ambientale e della povertà nel mondo, quella della criminalità organizzata transnazionale è una minaccia immane che grava sull’umanità intera e ne viola i diritti più elementari.
        L’azione di contrasto; Europol.
        È proprio dalla consapevolezza di una siffatta escalation criminale che il Consiglio dell’Unione Europea, con il Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, articolo K3, getta le basi per istituire un ufficio europeo di Polizia, "allo scopo di migliorare, nel quadro della cooperazione tra gli Stati membri, l’efficacia dei servizi competenti degli Stati stessi al fine di prevenire e combattere le gravi forme di criminalità organizzata internazionale".
        La Convenzione Europol, della quale mi accingo a fornire un quadro d’insieme, è stata adottata il 26 luglio 1995 ed è entrata in piena attività solo il 1° luglio 1999. L’attuale sistema vuole essere la risposta dell’Unione Europea al crimine organizzato e, per quanto non possa qualificarsi come una Polizia operativa del tipo di quella federale degli Stati Uniti d’America (FBI) — come a molti piacerebbe fosse — è certamente la pietra miliare su cui si fondano convergenti sforzi per una cooperazione d’intelligence in un’Europa senza frontiere. Dunque, una Polizia di interscambio di informazioni, di analisi dei fenomeni criminali e di supporto tecnico-operativo alle polizie nazionali degli Stati membri, con possibilità di creare squadre operative congiunte per far fronte a particolari esigenze d’indagine.
        Con l’istituzione dell’Europol si realizza un nuovo concetto di cooperazione che vuole superare quello degli accordi bilaterali e occasionali tra le diverse forze di polizia e della stessa cooperazione in ambito Interpol.
        L’area di competenza del mandato Europol, all’inizio limitata alla sola droga (EDU-Europol), comprende ora il traffico illecito delle sostanze stupefacenti, il traffico delle materie nucleari e radioattive, l’immigrazione clandestina, la tratta degli esseri umani, il traffico delle autovetture rubate, il terrorismo internazionale, il riciclaggio di denaro collegato a tali forme di criminalità e i reati connessi, la contraffazione monetaria.
        Questa competenza, che nel criterio di attivazione della collaborazione tra gli Stati membri prevede un concreto indizio di coinvolgimento della criminalità organizzata e l’interesse di due o più Stati membri a perseguirla, è suscettibile di ulteriore estensione ad altre tipologie delinquenziali, come prevede la Convenzione stessa. A questo proposito, posso anticipare che ci sono già iniziative per estendere la competenza alla cibercriminalità, al riciclaggio allargato a tutti i reati ed ai reati contro la vita, l’incolumità fisica, la libertà delle persone e i beni.
        La capacità d’intelligence di Europol, la rende duttile soprattutto nel condurre studi sui fenomeni criminali in Europa. Essa è alimentata dagli elementi informativi attinti dal bagaglio di conoscenza dei servizi nazionali — dati cosiddetti freddi — e dalle attività di polizia giudiziaria — dati caldi quelli che sono oggetto di indagini ancora in corso. Questi ultimi, in verità, non trovano un consenso di facile rifornimento da parte degli Stati membri, sia in termini qualitativi e quantitativi sia in termini di una risposta effettiva di adesione alle varie attività d’analisi; il che determina, come ha sostenuto ieri il Presidente del Comitato di controllo Schengen-Europol, l’onorevole Evangelisti, una certa asfissia informativa che limita la portata del lavoro di analisi e, spesso, ne vanifica o riduce l’efficacia. Le ragioni di ciò dipendono da vari fattori: normativi, culturali, psicologici e organizzativi. Tale ritrosia è tanto più forte quanto più forte e condizionante è la dipendenza delle forze di polizia degli Stati membri dal loro potere giudiziario, marcatamente nell’autorizzazione a fornire il dato caldo, per evitare violazioni del segreto istruttorio. Il superamento è necessario, come ha detto poc’anzi l’onorevole Paciotti, e potrà avvenire attraverso una più diffusa conoscenza delle potenzialità di Europol e dei sistemi di attivazione. In questo quadro in ambito Unità Nazionale Europol, in particolare, ed anche in ambito Europol abbiamo preso delle iniziative tese a prevedere una serie di conferenze in ambito regionale o interregionale, coinvolgendo tutti gli operatori, sia quelli di polizia e anche le procure interessante, in modo da far conoscere Europol ed attivarla in modo corretto.
        A tal proposito, una soluzione efficace, che troverebbe conforto nella più ampia funzione di un coordinamento investigativo, oltre a rimuovere gli ostacoli del segreto istruttorio, potrà essere raggiunta quando sarà concretizzato il più volte dibattuto problema del pendant giudiziario (mi riferisco ad Eurojust), soprattutto se all’attività d’intelligence di Europol si affiancasse una funzione più marcatamente operativa, come prefigurato dal Trattato di Amsterdam del 1997 e ribadito dalle conclusioni del Consiglio straordinario di Tampere, dello scorso anno.
        Uno spazio di arricchimento funzionale di grande importanza è costituito dalla centralizzazione dei dati costituenti il sistema informatico per l’elaborazione delle informazioni (TECS), che avrà una sua prima fase d’utilizzo entro dicembre 2001. Un appuntamento assolutamente da rispettare, in quanto Europol è chiamata a monitorare l’entrata in vigore della moneta unica, gennaio 2002, nella sua più critica fase d’avvio. E si temono moltissime attività di contraffazione dell’Euro.
        A parte queste attività d’analisi, Europol già fornisce un contributo alle indagini internazionali nell’interscambio informativo e nel supporto tecnico-operativo di consegne controllate e inseguimento oltre i limiti nazionali degli Stati membri.
        Sono in corso di sviluppo altre attività a supporto dei servizi nazionali nel settore delle specializzazioni degli ufficiali delle varie polizie europee, nella sede di Europol a L’Aja come negli Stati membri. Si parla, persino, di un’Accademia di Polizia europea. L’Italia si è già candidata a fornirne la sede.
        Europol, inoltre, sarà capace di interagire nel settore della ricerca scientifica: laboratori d’analisi chimico-fisiche e biologiche, nonché in altri campi della collaborazione, pareri legali, pareri tecnici, scientifici applicati alle indagini di polizia giudiziaria, sia a livello strategico che operativo.
        Non mi dilungo sull’articolazione della struttura, dirò solo che Europol è un organismo di circa 300 elementi con sede a L’Aja. Essa è articolata su 5 dipartimenti e vari uffici sottordinati.
        L’articolazione — per così dire — periferica è costituita dall’Unità Nazionale Europol, dislocata in ciascuno degli Stati membri, come prevede la Convenzione stessa.
        Quella italiana, di cui mi onoro essere il direttore, è strutturata sulla base della compartecipazione interforze, Carabinieri, Polizia di Stato e Guardia di Finanza. Il suo organico, tuttora in fase di ripianamento, comprende una segreteria, un’unità informatica e tre Sezioni operative (ciascuna diretta da un funzionario/ufficiale appartenente alle tre componenti istituzionali), per la trattazione delle materie di competenza del mandato Europol con gli organi di polizia sul territorio, i così detti "referenti", che svolgono le indagini.
        L’Unità Nazionale Europol italiana è stata istituita con Decreto Interministeriale del 21 febbraio 1996. Sul piano ordinativo è inserita nella Direzione Centrale della Polizia Criminale. È diretta, con il principio della rotazione ed alternanza triennale, da un Primo dirigente della Polizia di Stato, un Colonnello dei Carabinieri o della Guardia di Finanza.
        Essa è l’unico organo competente ad assicurare il collegamento tra Europol ed i servizi italiani di polizia per la gestione dei flussi informativi. È responsabile della validazione dei dati forniti e, come tale, è assoggettata a vari controlli: dal Garante per la tutela dei dati personali all’Autorità per la tutela del segreto di Stato, al Comitato parlamentare di controllo Schengen-Europol, oltre che a quelli gerarchici e funzionali.
        Dall’U.N.E. dipendono gli ufficiali di collegamento distaccati presso la direzione di Europol a L’Aja, che costituiscono il desk italiano e dialogano con i desk degli altri Stati membri, e con la direzione stessa di Europol. Anch’essi sono a composizione interforze.
        Un recente decreto interministeriale prevede l’istituzione di un Servizio di Coordinamento Internazionale nell’ambito della Direzione Centrale della Polizia Criminale, che comprenderà, Interpol, Europol e Si.Re.Ne, ferme restanti le proprie autonomie funzionali.
        Le prospettive future.
        L’Europol — nell’attuazione del suo progetto, già in avanzato stato — dovrà divenire un centro motore di attività di intelligence nell’ambito del contrasto al crimine transnazionale, mediante lo scambio, la raccolta, la valutazione, l’analisi, lo sviluppo e la divulgazione di informazioni ed intelligence.
      Il modello organizzativo (Intelligence Model), su cui si sta lavorando da molto tempo per implementarlo e portalo a pieno regime entro il 2003, è la base su cui viene strutturata l’intera organizzazione di Europol, per il raggiungimento degli obiettivi previsti dalla Convenzione e nello spirito della politica europeistica per la creazione di uno spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia. Esso si basa sulla struttura del Sistema informatizzato (Computer System), per la cui architettura un apposito gruppo di lavoro (Project Board), costituito da rappresentanti di tutti i Paesi dell’Unione Europea, è al lavoro da diverso tempo. La rete è stata progettata su più sottosistemi, tra loro in qualche misura interconnessi e, precisamente, sul Sistema di Collegamento Informatico (Info-Exchange System), che viene utilizzato per i collegamenti tra le Unità Nazionali Europol e la direzione dell’Europol, tramite i suoi ufficiali di collegamento all’Aja, per lo sviluppo dello scambio informativo. È un Intranet già in funzione; poi il Sistema di Informazione (Information System), che andrà a costituire una sorta di CED europeo, che è separato, per convenzione, da quello nazionale ed interconnesso con questo a cura dell’Unità Nazionale Europol, che se ne assume ogni responsabilità di validazione dei dati interscambiati, nel rispetto dei principi e delle regole della Costituzione Europol e delle leggi nazionali. Vi è, poi, un Archivio operativo ai fini di analisi (AWF), che viene utilizzato per l’attività di scambio info-operativo, di supporto e coordinamento tra le varie aree del crimine organizzato. Si tratta di studi fatti su tipologie criminogene o su gruppi criminali; attualmente sono in corso 11 di questi AWF. Infine, vi è il Sistema Indice (Index System), che contiene i riferimenti ai dati menzionati negli AWF e la raccolta di tutti i dati residuali che possono essere tenuti in via permanente presso l’archivio.
        Se questo è il quadro d’insieme di Europol, le sue potenzialità e le sue prospettive di sviluppo, molto ancora bisogna fare per contrastare con efficacia la recrudescenza delinquenziale del crimine organizzato transnazionale. Occorre, innanzitutto, vincere ancora incrostazioni culturali e psicologiche, quali quelle che legano ogni desiderio innovativo alla conservazione di autonome posizioni. Mi riferisco non tanto a quelle fra gli Stati, ma anche a quelle nell’ambito degli Stati stessi, che evidenziano lentezze nella condivisione delle idee altrui, anche quando esse sembrano essere riconosciute nei propositi, ma non attese nei fatti. Occorre, poi, dare alla cooperazione un carattere meno burocratico e più operativo, snello ed agile nelle procedure e solido nel framework normativo. Occorre, infine, come ho sentito parlare più volte in questo Seminario, passare all’armonizzazione delle diverse legislazioni penali, sostanziali e processuali, e alla creazione di uno strumento di coordinamento anche sul piano giudiziario. L’idea di Eurojust è certamente una buona idea che dovrà prendere corpo per un’attività di raccordo e coordinamento delle indagini sulla criminalità transnazionale; e non sarebbe sbagliato se tale idea si concretizzasse sul modello del nostro sistema della DNA.

 

Joaquim Geraldes Pinto
Capo Unità "Risorse proprie" dell’Ufficio europeo per la lotta Antifrode (OLAF)

        In primo luogo é per me un grande onore rappresentare l’Ufficio Europeo per la Lotta Antifrode (OLAF) in questo Seminario sulla costruzione di uno spazio europeo contro la criminalità organizzata.
        La costruzione di uno spazio giuridico europeo é un traguardo considerato di importanza essenziale in questa fase della costruzione europea. Come gli oratori di ieri hanno già osservato, non è un progetto nuovo, anzi, dagli anni ’60 parecchie iniziative hanno cercato di varare uno spazio giudiziario europeo vero e proprio. In questo lento processo è emersa l’idea, sempre più condivisa, dell’esigenza di una protezione penale efficace degli interessi finanziari comunitari. Tale settore, pertanto, è divenuto una delle punte di lancia della costruzione penale europea. Infatti le frodi comportano enormi perdite per i bilanci nazionali e comunitario. Per il solo anno ’98, per il bilancio comunitario, si è calcolato un ammontare di almeno un miliardo di euro.
        La protezione degli interessi finanziari comunitari e come suo corollario logico la lotta antifrode, sono divenuti una priorità politica sempre più importante, specie in virtù dell’articolo 280 del Trattato dell’Unione Europea. La creazione dell’OLAF il 1° giugno del 1999 dà corpo a questa volontà politica e costituisce, secondo le conclusioni del Consiglio europeo di Helsinki del dicembre 1999, un nuovo passo importante nella lotta contro la frode. Questa iniziativa mira ad assicurare la sinergia fra l’attività concretamente svolta sul campo e il miglioramento della legislazione e delle politiche comunitarie attuali e future.
         Tra le altre conseguenze nefaste, le frodi a danno del bilancio comunitario sviano le politiche comunitarie dai loro veri obiettivi e per giunta causano effetti particolarmente negativi sui mercati internazionali. Chiaramente occorre tenere presente che le connessioni esistenti con la corruzione a livello nazionale e comunitario mettono a repentaglio da una parte la credibilità degli Stati membri e dall’altra quella della costruzione europea stessa. Come è già stato sottolineato, le connessioni esistenti fra questi tipi di criminalità non riguardano soltanto la corruzione, ma altri tipi di reato quali il riciclaggio dei capitali ed il terrorismo. Non è infatti la prima volta che abbiamo identificato situazioni in cui soggetti coinvolti in frodi al bilancio comunitario, nel caso delle sigarette, erano anche coinvolte nel terrorismo internazionale. Purtroppo però la situazione più corrente è il collegamento con il traffico di droga: ci sono molte situazioni in cui organizzazioni che contrabbandano sigarette lavorano in comune con i trafficanti di droga. Le stesse persone, usando gli stessi mezzi di trasporto, servono a entrambi gli scopi. Le indagini condotte dall’OLAF più volte hanno evidenziato il ruolo della criminalità transnazionale organizzata in questo tipo di frodi, tenuto conto degli enormi profitti che questa attività criminale può generare. Se ne è già parlato e saprete che l’importo equivalente ad un container o un camion di sigarette, circa dieci tonnellate, corrisponde, in media, a una perdita fiscale di un milione di euro. Potete quindi avere un’idea degli enormi profitti che possono derivare da una tale attività fraudolenta.
        Sul piano penale, come avete già osservato, vi è un enorme divario tra le sanzioni comminate nei confronti, ad esempio, del traffico degli stupefacenti e quelle invece comminate al contrabbando di sigarette.
        L’unica risposta efficace a questa seria minaccia esige la concertazione, la cooperazione, ed il coordinamento di tutti i soggetti istituzionali, comunitari e nazionali. La collaborazione internazionale in queste varie forme è pertanto fondamentale per mettere in pratica le competenze che il legislatore europeo ha attribuito all’Ufficio che rappresento.
        Adesso qualche informazione sull’OLAF che ritengo sia opportuno per voi conoscere. Pur avendo uno statuto particolare di indipendenza per la funzione inquirente, l’OLAF fa pur sempre parte della Commissione Europea; é sotto la competenza della signora Schreyer, Commissario responsabile del bilancio ed è diretto dal signor Bruener ex procuratore tedesco che è dunque il Direttore generale dell’OLAF. Vorrei però richiamare la vostra attenzione sul fatto che allo scopo di garantire l’indipendenza dell’OLAF nella sua funzione inquirente, il legislatore ha fissato l’obbligo per il direttore generale dell’OLAF di non sollecitare, né accettare istruzioni da parte di nessun governo, né alcuna istituzione, compresa la Commissione Europea. Se il direttore generale dell’OLAF ritiene che la Commissione abbia assunto un provvedimento che mette in causa la sua indipendenza, dispone di un potere di ricorso contro la propria istituzione davanti alla Corte di Giustizia. Per corroborare l’indipendenza dell’Ufficio, è stato creato un Comitato di sorveglianza composto da cinque alte personalità di riconosciuta competenza a livello giuridico.
        L’Ufficio è composto da due direzioni: la direzione A, responsabile per la politica, la legislazione e gli affari giuridici, suddivisa in quattro unità, e la direzione B, Indagini e Operazioni, suddivisa in due pool di investigatori ed in una unità di supporto amministrativo. Altre unità come l’unità di Intelligence e quella di Comunicazione e pubbliche relazioni sono poste sotto la diretta autorità del direttore generale.
        Il personale dell’OLAF è di circa centosessanta persone; mentre verso la fine del 2001 è previsto un raddoppio di questi effettivi, arrivando così a circa trecento funzionari.
        Sul piano più generale l’Ufficio, nell’ambito della propria attività, assolve quattro compiti principali: raccolta analisi e trattamento dell’informazione operativa; indagini interne ed esterne nell’ambito di sua competenza. Indagini interne che possono riferirsi a tutte le istituzioni europee: Commissione, Parlamento, Consiglio, Corte dei conti specie per temi legati a sospetti di casi di corruzione e poi indagini esterne, tutela cioè degli interessi finanziari delle Comunità, sia sul piano del gettito, vale a dire le risorse proprie comunitarie, sia per quanto riguarda le spese, tutto ciò che riguarda la spesa agricola e le spesa per le azioni strutturali. L’OLAF quindi ha un potere di indagine diretto, riconosciuto dalla normativa comunitaria attraverso una serie di regolamenti. Vi è poi un compito molto importante: il coordinamento e l’assistenza alle azioni operative degli Stati membri, in quanto lavoriamo in stretta sintonia con i competenti servizi nazionali. L’OLAF infatti riceve informazioni sia dagli Stati membri sia da altre fonti.
        La cooperazione con gli Stati membri e con i Paesi terzi, come ho già sottolineato, è una delle chiavi del successo della lotta antifrode a livello comunitario.
        Il direttore generale dell’OLAF, signor Bruener, presentando il suo primo rapporto d’attività, ha stimato che il successo dell’OLAF dipenderà in gran parte dal rafforzamento della cooperazione fra tutte le autorità competenti. Il valore aggiunto dell’OLAF si deve tradurre in una sua capacità di assicurare un coordinamento dinamico con le autorità nazionali sul campo. Nell’ambito di questa cooperazione gli Stati membri debbono informare l’OLAF dei casi di frode e di irregolarità che siano stati oggetto di constatazione amministrativa e giudiziaria nell’ambito delle risorse proprie, delle azioni strutturali e della politica agricola comune.
        Per quanto riguarda la cooperazione amministrativa, il regolamento n. 515 del 1997 sulla mutua assistenza tra gli Stati membri e la collaborazione tra questi e la Commissione, rappresenta la base giuridica principale della lotta contro la frode doganale e agricola, specie attraverso lo scambio di informazioni e l’organizzazione di missioni negli Stati membri e nei Paesi terzi. In questo contesto i protocolli di mutua assistenza, negoziati dalla Commissione e firmati dal Consiglio con un certo numero di Paesi terzi, giocano anche un ruolo molto importante. Attualmente sono circa quaranta gli accordi di mutua assistenza che sono già stati firmati con vari Paesi terzi di tutti i continenti. Occorre sottolineare il fatto che i documenti, gli elementi di informazione e di prova ottenuti nell’ambito dell’applicazione del predetto regolamento n. 515 possono essere utilizzati direttamente per le indagini e le azioni giudiziarie nazionali avendo immediata valenza giuridica. Come esempio concreto di questo tipo di missioni, mi permetto di citarne una recente organizzata dall’OLAF/Task Group Cigarettes in Sud Africa, con la partecipazione di rappresentanti dei servizi doganali tedeschi, olandesi, britannici e della polizia di Belfast, nell’Irlanda del Nord. Tale missione, svolta in stretta collaborazione con le autorità doganali e di polizia del Sud Africa, ha consentito di raccogliere documenti e testimonianze decisivi per il successo di molteplici indagini coordinate dall’OLAF, tra le quali una in particolare riguardante il riciclaggio di ingentissime somme di denaro in sterline britanniche derivanti dal contrabbando internazionale di sigarette. Tale missione ha anche permesso di portare a termine un’altra indagine relativa ad una ramificatissima organizzazione contrabbandiera che aveva introdotto in modo fraudolento nell’Unione Europea almeno centocinquanta tonnellate di sigarette provenienti dal Sud Africa.
        Sempre a proposito di sigarette, abbiamo avuto modo di ascoltare il rappresentante del Parlamento britannico che ha citato, tra le questioni che adesso stanno attirando l’attenzione del suo Governo, il problema del traffico di sigarette. All’OLAF, come ho già detto, esiste un gruppo speciale d’indagine, il Task Group Cigarettes, creato nel 1995, per affrontare questo tipo di criminalità (contrabbando di sigarette e relativo riciclaggio degli elevatissimi profitti derivanti da questo reato). All’inizio, però, mi ricordo che la posizione, a livello europeo, era un po’ questa: il contrabbando di sigarette è un problema dei Paesi dell’Europa meridionale, è un problema italiano, spagnolo, portoghese, la Francia era un Paese di transito e basta; insomma i Paesi del Nord Europa non erano coinvolti. Come ora potete constatare, perfino un parlamentare britannico riconosce che il contrabbando di sigarette è un problema grave nel Regno Unito e tutti lo sanno perché ci sono sigarette fabbricate nel Regno Unito, esportate e che vengono fraudolentemente reintrodotte nell’Unione Europea. Questo purtroppo accade ad un ritmo sempre più accelerato e con perdite per il bilancio comunitario sempre maggiori in quanto queste sigarette esportate che rientrano illecitamente nella Comunità dovrebbero pagare i dazi doganali, l’IVA e le accise. In questo contesto vi è anche una decisione della Commissione europea, di cui avrete letto sui giornali, che prevede la possibilità di introdurre, di avviare, un’azione civile negli Stati Uniti contro i maggiori produttori di sigarette. Questa misura è ora allo studio e sarà presto lanciata.
        A livello di rapporti con il vostro Paese è con grande piacere che sottolineo l’ottima collaborazione con la Direzione Nazionale Antimafia rappresentata qui ieri dal Procuratore Vigna, a cui ho rivolto un particolare saluto e i miei vivi ringraziamenti a nome dell’OLAF. L’accordo di cooperazione firmato l’anno scorso tra la DNA e l’OLAF è stato di importanza cruciale nella lotta contro il contrabbando di sigarette. In questo contesto i contatti tra l’OLAF e le autorità giudiziarie svizzere hanno consentito di avviare una collaborazione proficua tra queste autorità svizzere e la DNA. Tale cooperazione ha portato a risultati clamorosi come l’arresto del presidente del Tribunale penale di Lugano, coinvolto, appunto, in un caso di contrabbando di sigarette.
        La decisione numero 352 del 28 aprile del 1999 della Commissione, sulla base della quale è stata creata l’OLAF, prevede che l’Ufficio fornirà il contributo della Commissione alla cooperazione con gli Stati membri nel campo della lotta antifrode e sarà l’interlocutore diretto delle autorità giudiziarie e di polizia. Specie per quanto riguarda la frode su prodotti sensibili come le sigarette, l’alcool e l’olio d’oliva, la presenza della criminalità organizzata ha reso necessari contatti regolari e quasi permanenti tra l’OLAF e l’autorità giudiziaria responsabile delle indagini. L’OLAF comunica alle autorità giudiziarie nazionali gli elementi di prova acquisiti durante le inchieste esterne ed interne ogniqualvolta si tratti di fatti che possano essere penalmente perseguibili a livello penale. Inoltre gli inquirenti dell’OLAF possono assistere le autorità giudiziarie nazionali per quanto riguarda la preparazione e l’esecuzione di rogatorie internazionali oltre che fornendo la loro esperienza tecnica e la loro testimonianza a richiesta delle autorità competenti.
        Nel contempo il nostro ufficio può contribuire ad agevolare l’estradizione delle persone implicate in casi di frode alle finanze comunitarie. In tale contesto, all’interno della direzione A dell’OLAF è stata creata l’Unità Magistrati e consulenti giudiziari. Tale unità sarà composta da almeno un magistrato per Stato membro e dovrà fornire assistenza giuridica agli inquirenti dell’Ufficio e sostegno alle autorità giudiziarie nazionali, specie nel caso della delinquenza transfrontaliera. Attualmente è in corso una selezione dei magistrati. A questo proposito sottolineo che quei magistrati saranno assegnati all’Ufficio sulla base esclusiva della loro esperienza e capacità professionale. Mi permetto qui di sottolineare l’importanza dell’indipendenza della loro funzione. Sino ad oggi in gran parte dei casi metodi e meccanismi di cooperazione in vigore non si sono dimostrati soddisfacenti ai fini del superamento delle difficoltà incontrate dalle autorità giudiziarie e di polizia nella loro lotta contro la frode. I metodi classici di cooperazione giudiziaria spesso sono lenti e l’esperienza dimostra che a volte è difficile portare le indagini amministrative fino a livello penale. Infatti a livello nazionale capita spesso che i vari servizi amministrativi e di polizia, nonché giudiziari agiscano troppo a compartimenti stagni. Parimenti il modello di cooperazione giudiziaria tradizionale non si confà più alla criminalità del XXI secolo. Ci occorre quindi un nuovo sistema più reattivo e preventivo nei confronti della criminalità attuale. Oltre a ciò la Convenzione sulla protezione degli interessi finanziari comunitari del 26 luglio 1995 e i due protocolli aggiuntivi non sono ancora entrati in vigore. Anche se così fosse non basterebbe per sormontare le barriere create dall’esistenza di quindici ordinamenti giudiziari che applicano regole di sostanza e di procedura diverse, specie in campo penale.
        In questo spirito la Commissione ha presentato, il 29 settembre di quest’anno, il suo contributo complementare destinato alla Conferenza Intergovernativa e che verte sull’istituzione di un Procuratore europeo indipendente a tutela degli interessi finanziari delle Comunità. Tali iniziative sono il seguito logico delle preoccupazioni già espresse dalla Commissione e dal Parlamento europeo.
        L’istituzione del Procuratore europeo avrebbe luogo mediante un nuovo articolo il 280-bis del Trattato dell’Unione. Compito di quest’organo giudiziario indipendente sarebbe l’esercizio dell’azione penale presso le giurisdizioni competenti degli Stati membri e il controllo penale continuo sull’attività inquirente al fine di far rispettare il diritto e di tutelare le finanze comunitarie. Ciò non significa una comunitarizzazione dell’azione penale, che ovviamente continuerebbe a far capo alla competenza nazionale. Va notato che tale proposta della Commissione si basa su un lavoro preparatorio approfondito: infatti un gruppo di esperti in materia penale da dieci anni sta lavorando sul tema della tutela penale degli interessi finanziari della Comunità. I risultati dei loro lavori sono ormai noti sotto il nome di corpus iuris.
        Come seguito dell’attività operativa dell’OLAF si pone sempre più acutamente la questione della procedura giudiziaria. Come già sottolineato, e, tenuto conto dell’esistenza di quindici diritti penali diversi, è difficile, per non dire impossibile, far rispettare il principio della tutela efficace e appropriata degli interessi finanziari comunitari. Come sapete le attività illecite non sempre sono identificate dal punto di vista penale allo stesso modo da Stato a Stato membro.
        Concludendo desidero sottolineare il fatto che l’OLAF si sta organizzando per fornire alle autorità responsabili dell’azione penale il contributo necessario per rafforzare l’efficacia delle indagini a livello nazionale e per migliorare la cooperazione ed il coordinamento, tra le autorità giudiziarie degli Stati membri. Tale azione si svolge in conformità con gli obblighi derivanti dall’articolo 280 del Trattato dell’Unione e dalle disposizioni del secondo protocollo della Convenzione per la protezione degli interessi finanziari. L’OLAF auspica e sostiene la creazione di un Procuratore europeo in grado di assicurare una tutela penale più efficace e armonizzata delle finanze comunitarie.

 

Luigi Maria Lombardi Satriani
Componente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari

        Se, a conclusione di questo denso Seminario, sottolineassi l’opportunità e l’urgenza della costruzione dello spazio giuridico europeo contro il crimine organizzato europeo direi qualcosa sulla quale conveniamo tutti, però potrei gareggiare con Monsieur De Lapalisse, cioè non supererei il rischio mortale dell’ovvietà. Noi siamo totalmente d’accordo che occorra costruire questo spazio giuridico, ma proprio per questo dobbiamo non solo indicare gli obiettivi, ma porci il problema di come raggiungerli e dobbiamo anche domandarci se non vi siano degli ostacoli a questo raggiungimento, in modo che possano essere rimossi.
        A mio avviso, è indispensabile avere una visione complessiva del fenomeno del crimine organizzato, ma anche una conoscenza articolata dei contesti specifici nei quali questo si realizza. Non mi sembra che dia un grosso contributo in questa direzione una visione esclusivamente economicistica, come quella che sembra essere presente nel progetto di Convenzione delle Nazioni Unite; ed è sempre bene che quando si utilizzano dei termini chiariamo in che senso questi vengono usati. Mi riferisco in particolare all’articolo 2, a proposito del gruppo criminale organizzato "gruppo strutturato di tre o più persone che esiste per un periodo di tempo, che agisce di concerto al fine di commettere uno o più reati gravi stabiliti conformemente alla presente convenzione al fine di ottenere direttamente o indirettamente un vantaggio finanziario o un altro vantaggio materiale".
        È indubbio che l’economia sia una delle molle fondamentali, ma dovremmo avere una visione un po’ più ampia, perché la riduzione della realtà e dei fini dell’azione umana esclusivamente al conseguimento di un obiettivo economico fa perdere di vista, ad esempio, come il potere, il prestigio, possano essere molle adeguate, che poi hanno anche una ricaduta sul piano economico, pur conservando un’accentuazione specifica e hanno una loro dignità di finalità. Ancora, potrebbe essere opportuno, a mio sommesso avviso, domandarci se, usando gli stessi termini, ci riferiamo agli stessi contenuti. L’ipotesi che vorrei sottoporre alla vostra attenzione è che a volte agli stessi termini corrispondono ambiti semantici del tutto diversi, e passo subito a una esemplificazione, altrimenti quanto ho appena detto può apparire una mera affermazione di principio.
        Tra i settori più rilevanti dell’attività criminale organizzata e che ha caratteristiche di relativa novità, c’è, lo sappiamo, il traffico degli esseri umani, sia come tratta delle donne, che come tratta finalizzata all’espianto degli organi e al loro commercio. Siamo sicuri che questo viene avvertito alla stessa maniera nei diversi contesti, nelle diverse culture? Ad esempio, in una cultura in cui il valore dell’essere umano non è percepito con la stessa centralità o radicalità della nostra cultura, la sensibilità sociale rispetto a questa tematica è possibile presupporla analoga a quella del nostro contesto? Non commetteremmo, così, un errore di etnocentrismo, più specificamente di eurocentrismo? Ancora, una cultura che non riconosca alle donne o ai bambini la titolarità di diritti ineludibili, e invece li ritenga esseri in qualche maniera di esclusiva proprietà o pertinenza del capofamiglia ha, nei confronti dei settori che ricordavo esemplificativamente, la stessa capacità di urto, di reazione, di coinvolgimento? Lo stesso concetto di crimine non si modula diversamente nei diversi contesti. Non vi è forse una soglia superata la quale una società avverte quell’azione come criminosa, ma quella stessa azione potrebbe non essere percepita come tale agli occhi indigeni? Una cosa, un’azione, una problematica hanno sempre e dovunque stessa modulazione? Una stessa azione viene percepita e suscita livelli di reazione uguali o analoghi vista dall’interno e dall’esterno di una società? Il problema è, forse, individuare anche i tratti culturali specifici delle varie società per porci il problema delle strategie adeguate al raggiungimento degli stessi obiettivi. Ho appena ascoltato una opportuna relazione sulla necessità delle indagini, dello scambio di informazioni, e così via; eppure varrebbe la pena porsi il problema, lo dico integrativamente non in maniera alternativa, se la difficoltà di avere notizie dall’interno di determinati gruppi di criminalità organizzata non rinvii anche a modalità culturali specifiche. Anche qui a titolo esemplificativo, si può notare come rispetto ad alcune organizzazioni abbiamo avuto una notevole presenza di collaboratori di giustizia (il problema dell’utilizzo di tali collaboratori, della necessità in Italia di riorganizzare, da un punto di vista legislativo, questo istituto è tutt’altro discorso). Ma in altre aree, per altri gruppi criminali, noi abbiamo avuto una scarsa presenza di collaboratori. Perché? È affidato al caso, al destino cinico e baro, o vi sono delle resistenze culturali? Ancora ad esempio, un gruppo quale la ’ndrangheta — mi riferisco alla criminalità organizzata in Calabria — che aggrega i partecipanti e i consensi, su base quasi esclusivamente familistica sviluppa per ciò stesso una coesione, una resistenza a comunicare all’esterno perché cementa il senso di appartenenza, potenzia ulteriormente i vincoli familistici mutuandoli dalla cultura più generale nella quale opera. Questo problema va assunto in tutta la sua complessità, proprio per vedere come si possa combattere meglio i gruppi criminali, che non possono essere contrastati con il ricorso ad alcuni istituti validi per altro o validi di più per altri.
        Ancora a titolo esemplificativo, un problema grave è quello del consenso all’azione criminale. Molte volte, sbrigativamente e, debbo dire, moralisticamente e ideologicamente, questa realtà è stata riassunta nel termine omertà, sul quale veniva fatto discendere il nostro etnocentrico giudizio di disprezzo e di rifiuto. Ma il consenso all’azione criminale da parte di un contesto sociale non criminale sottolinea in effetti la questione che i valori intesi come mete culturali obbligatorie del gruppo criminale costituiscono qualcosa di analogo ai valori del contesto più ampio nel quale quel determinato gruppo opera. Tutto questo ancora una volta richiede conoscenza; stimola anche al rifiuto di quella sorta di sindrome dell’azione che molte volte pregiudica, per eccesso di buone intenzioni, la nostra azione di contrasto.
        Si dice spesso non parole ma fatti; io sostengo, anche come provocazione intellettuale, anzitutto più parole, più parole critiche, più indagini conoscitive, per avere meno fatti criminosi. Si attuerebbe così quella concezione, a mio avviso, estremamente discutibile, secondo la quale abbiamo normativa giuridica solo in presenza di uno Stato sovrano che la emette, saltando, a piè pari, tutta la problematica dell’esistenza di una pluralità di ordinamenti giuridici non legittimati dall’autorità statale, ma fortemente vincolanti e cioè prefiguranti azioni che vengono poste in essere con la convinzione che siano giuridicamente obbligatorie. Si forma così un contrasto, a volte radicale, tra normative imposte da ordinamenti giuridici coesistenti nello stesso spazio, nello stesso tempo e rivolgentesi agli stessi destinatari.
        Si tratta di problemi molto complessi che ho cercato di sottolineare in maniera rapida, rapsodica e solo con alcuni riferimenti esemplificativi, per poter giungere a questa conclusione: noi per avere l’omogeneità dei fini dobbiamo porci il problema della relativa disomogeneità delle diversità culturali che impediscono o ostacolano o ritardano il raggiungimento di tali fini. Dobbiamo giungere, data l’omogenità di fini, l’omogeneità dei contesti, delle azioni e così via. Ma un’omogeneità siffatta è tutta da costruire, certo a partire dagli obiettivi condivisi; da realizzare secondo una prospettiva che assuma l’enorme problematica delle diverse forme culturali e delle diverse sensibilità all’azione criminosa, a evitare una sorta di politica declamatoria, senza che ci si impegni a verificare se a tutti gli esseri umani, nei diversi contesti, venga riconosciuta la piena titolarità dei diritti.
        Bisogna evitare che le diversità di fatto persistano, coperte da un’apparente omogeneità di fini che occulta quelle difficoltà specifiche che condurrà l’azione a un clamoroso fallimento. Tutto ciò può apparire meramente teorico, ma vorrebbe essere, invece, un invito all’elaborazione di una metodologia specifica per ottenere risultati concreti, senza eludere il momento conoscitivo, il momento dell’approccio teorico e metodologico, indispensabili in effetti per attività così fortemente persistenti quali quelle poste in essere dalla criminalità organizzata nei diversi Paesi e, nell’ambito di ogni Paese, nei diversi ambiti geografici e culturali.

 

Carmelo Carrara
Componente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari

        Come prima notazione sottolineo la necessità già avvertita ieri di addivenire ad una nozione comune di associazione per delinquere di tipo criminale.

        Già è stato detto nel corso dell’ultimo intervento come non sempre l’associazione è caratterizzata dal fine di lucro. Talvolta l’associazione è strutturata per raggiungere il potere per il potere, e questo vale anche quando un’associazione nasce ed è dedita, per esempio, alla commissione di reati fini, come ad esempio il traffico internazionale di stupefacenti. Se noi ricordiamo l’esperienza dei talebani, ma anche di associazioni per delinquere sorte nel Libano, o anche in India da parte dei tamil nadu, notiamo che i componenti non trafficavano per arricchimenti personali, ma per raggiungere il potere e il controllo del territorio e per finanziare la guerriglia che c’è nel loro Paese. Del resto, l’organizzazione mafiosa Cosa nostra considera l’affiliazione come il momento di ingresso in un sistema paraistituzionale la cui costruzione non si dissocia sicuramente dalle teorie che sono state raccontate in magnifici manoscritti dal nostro Santi Romano, né si discosta dalle stesse nozioni fondamentali mutuate dal diritto romano. Basti pensare a istituti come il territorio, la famiglia, i mandamenti, i capodecina, gli ambasciatori: sono tutte figure traslate dal diritto romanistico e purtroppo travasate nell’esperienza delle organizzazioni delinquenziali del tipo Cosa nostra. E, peraltro, lo ha detto poco fa il senatore Lombardi Satriani, la stessa derivazione sociologica, ma con un’appartenenza più imperniata sulla famiglia, può essere rinvenuta nella ’ndrangheta.
        La seconda notazione riguarda Europol e lo spazio giuridico europeo. Verso l’Europol alcuni Stati hanno ancora una forte ritrosia. Io ritengo che, tenuto conto, da un lato quello che dovrebbe essere Europol (non una super FBI ma un modello di analisi e di intelligence) e avuto riguardo, dall’altro, alla necessità di attuazione di Eurojust, il momento del coordinamento delle indagini non può che essere affidato ad una struttura giudiziaria che sia effettivamente indipendente, sovranazionale e che potrà coerentemente avviare l’azione penale di fronte all’autorità giudiziaria degli Stati membri per l’offesa e la messa in pericolo di interessi comunitari che non sono solo quelli finanziari annoverati all’interno del corpus iuris. Noi dobbiamo passare alla costruzione della vera Europa; non l’Europa degli interessi finanziari, ma l’Europa delle genti e l’Europa dei diritti. A questo riguardo, non c’è dubbio che qualsiasi previsione di snellimento a livello di procedure e di armonizzazione delle stesse non può passare soltanto dai governi, ma deve avere uno scambio più attivo più celere, più biunivoco tra strutture giudiziarie dei Paesi membri dell’Unione Europea. È inutile, così come recita l’articolo 31 del Trattato sull’Unione Europea — ex articolo K3 —, pensare ad una cooperazione giudiziaria facilitando semplicemente la cooperazione tra i ministeri competenti. Il controllo dei governi deve scomparire perché appesantisce sempre più quello che è lo scambio di esperienze e anche gli scambi nel campo delle estradizioni. Non è più accettabile oggi la lentezza nelle procedure di assistenza giudiziaria, sia sotto il profilo del riconoscimento delle decisioni, che per quanto riguarda la cooperazione giudiziaria internazionale; non ha senso che l’estradizione, debba, nel nostro Paese, ma anche in altri Stati, ricevere il doppio vaglio del Ministero della giustizia e del Ministero degli esteri. Non c’è dubbio che gli scambi, così come avviene in alcuni Paesi d’Europa, debbono essere diretti, debbono essere bilaterali e io dico addirittura dovrebbero essere multilaterali in un’Europa che senta veramente l’Unione, ma l’unione
dei diritti, l’unione delle genti e non i soli interessi economici.

Conclusioni

Giuseppe Lumia
Presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari

        Sento il dovere di ringraziare tutti voi, non in maniera formale ma in modo realmente sostanziale, visto anche l’alto, elevato, livello dei contributi offerti alla riuscita dei lavori di questo nostro Seminario, che abbiamo voluto ristretto proprio per saggiare la disponibilità per ulteriori iniziative che possono invece avere un alto livello di formalità e di coinvolgimento degli Stati membri.
        I risultati della nostra comune riflessione, che è mia intenzione rendere pubblici, costituiranno un materiale importante per l’ulteriore approfondimento dei tanti temi trattati in questi due giorni.
        E, come è avvenuto per il Seminario su "Economia e criminalità" del 1993, tenuto, sempre dalla Commissione parlamentare Antimafia, sotto la presidenza di Luciano Violante, questo materiale di studio e di ricerca sarà uno strumento per un confronto più ampio tra politica e scienza anche al di fuori delle Aule parlamentari.
        Si tratterà di un lavoro approfondito che metteremo a disposizione dei nostri colleghi europei, perché siamo certi della grande utilità di questo strumento e delle sue potenzialità anche a livello dei Paesi dell’Unione.
        Il dibattito che si è sviluppato in questi due giorni mi consente di avviare queste brevi riflessioni conclusive partendo dalla considerazione che le manifestazioni della criminalità organizzata transnazionale diventano sempre più pericolose e preoccupanti.
        Tutti gli interventi degli illustri relatori hanno consentito a questo Seminario di definire le caratteristiche attuali di tali fenomeni criminali. Abbiamo appreso dalle esperienze dei colleghi parlamentari e degli altri operatori di giustizia intervenuti con grande competenza e ricchezza di indicazioni come i fenomeni di criminalità che maggiormente mettono in pericolo la sicurezza dei cittadini abbiano strutturalmente carattere transnazionale. Già il vertice di Tampere aveva concretizzato tali fenomeni criminali nelle seguenti fattispecie delittuose:
– criminalità finanziaria (dal riciclaggio alla corruzione);
— traffico della droga;
— tratta degli esseri umani con particolare riferimento alle donne e allo sfruttamento sessuale dei bambini;
— criminalità ambientale.
        Il dato che viene confermato dai vostri interventi, è quello di una criminalità che travalica i confini dei singoli Stati e che presuppone quindi strumenti di contrasto adeguati ed efficaci nel tempo e nello spazio, per realizzare l’obiettivo di una globalizzazione della legalità ovvero, per dirla con il collega spagnolo Gordillo, di una libera circolazione dello Stato di diritto.
        La sfida attuale delle moderne organizzazioni criminali attraverso l’uso delle tecnologie ci impone
di superare l’approccio tradizionale della lotta alla criminalità.
        Ma quali sono le strade che vanno percorse per realizzare questo obiettivo della globalizzazione della legalità?
        La comunità internazionale e l’Europa hanno piena consapevolezza dei rischi che naturalmente discendono dal progresso tecnologico e dalla globalizzazione senza qualità e, così come hanno saputo realizzare importanti obiettivi sul piano politico ed economico — dalla realizzazione del principio della libera circolazione delle persone e dei beni alla moneta unica — certamente sapranno trovare gli strumenti per colpire le nuove forme di criminalità organizzata.
        In questa prospettiva, la Conferenza ONU di Palermo del prossimo dicembre rappresenta il momento più alto della consapevolezza che la comunità internazionale ha dei profili di pericolosità dei nuovi fenomeni criminali e dell’opportunità che la stessa globalizzazione può fornire per contrastarli.
        L’obiettivo di questo Seminario, che mi pare raggiunto, è stato quello di promuovere la riflessione e l’iniziativa dei Parlamenti nazionali europei per individuare le migliori risorse che i processi di integrazione tra gli Stati e la globalizzazione della stessa economia forniscono per sconfiggere le manifestazioni attuali della criminalità.
        L’occasione della Conferenza ONU di Palermo rappresenta un punto di arrivo di un processo al quale l’Unione Europea ha contribuito in maniera fondamentale.
        Ricordo, infatti, che fin dal giugno 1997 il Consiglio europeo di Amsterdam ha approvato un Piano d’azione per la lotta contro la criminalità organizzata che esprimeva orientamenti politici e raccomandazioni volte a realizzare in Europa uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
        Quel Piano ha trovato molti momenti di attuazione con le risoluzioni e le azioni che in questi anni gli organi dell’Unione Europea hanno adottato. Ricordo in particolare quella ultima del maggio 2000 contro la tratta di donne e contro la pornografia infantile su Internet e, ancora prima, le iniziative in materia di lotta al riciclaggio dei proventi di attività illecite e alle frodi e falsificazioni.
        Il Consiglio europeo di Tampere, dell’ottobre 1999, segna poi un altro importante passo in avanti nella realizzazione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
        In questa direzione, l’impegno della Unione Europea si è risolto, in particolare, nella definizione di strumenti tesi a migliorare la cooperazione di polizia, amministrativa e doganale nonché la rete giudiziaria tra i singoli Stati.
        A questo proposito, ricordo il progetto Eurojust e la creazione della rete che agevola la cooperazione giudiziaria tra gli Stati membri anche in campo civile e commerciale, aspetto sottolineato dai diversi interventi che qui si sono succeduti.
        Tuttavia, c’è un aspetto nuovo che, a mio parere, emerge da questo Seminario, essendo stato sottolineato con forza da tutti, e che si esprime nella necessità di andare oltre la fase pur positiva della cooperazione.
        Per realizzare un effettivo spazio giuridico di sicurezza e di libertà contro la criminalità organizzata occorre, pertanto, passare dalla cooperazione alla integrazione, superando gli steccati e le visioni nazionali che impediscono di fare questo salto di qualità.
        Certo, nell’immediato occorrerà insistere affinchè tutti gli Stati ratifichino le importanti convenzioni che sono state approvate nel corso di questi ultimi anni per realizzare lo spazio europeo di libertà, ma è indispensabile che, accanto a rogatorie internazionali efficienti e rapide si sviluppi un sistema integrato che veda le polizie e le autorità giudiziarie degli Stati membri dell’Unione agire di concerto nel territorio dell’uno o dell’altro Stato, laddove ci si trovi di fronte ad organizzazioni che perseguono interessi illeciti in uno o più Paesi dell’Unione Europea.
        In questa prospettiva, prende corpo in maniera significativa la proposta, ribadita nel corso del Seminario e ripresa da molti interventi, di istituire la figura del Pubblico ministero europeo che abbia, nelle materie dei crimini transnazionali, quei poteri di coordinamento e di impulso che l’ordinamento italiano riconosce alla nostra Direzione Nazionale Antimafia, secondo la traccia suggerita dall’intervento del dottor Vigna.
        Il Pubblico ministero europeo utilizzerebbe le strutture, adeguatamente potenziate, di Europol e Olaf, che rappresentano già un importante strumento di cooperazione tra le forze di polizia dei diversi Paesi.
        Consentitemi di sottolineare lo speciale interesse che riveste il tema della costituzione di un Ufficio europeo del Pubblico ministero.
        Quando si parla di un ufficio europeo del Pubblico ministero non si deve certamente ipotizzare una verticalizzazione degli apparati nazionali. Ciò sarebbe in contrasto stridente con gli ordinamenti vigenti e, per molti aspetti, non adeguato alla soluzione dei problemi che abbiamo di fronte.
        Al contrario, deve cogliersi l’elemento qualificante di questo organismo nei compiti di coordinamento e di impulso all’azione delle giurisdizioni nazionali nelle materie che ne costituiranno l’ambito di competenza, materie individuate e definite in modo condiviso.
        Il più delle volte, il potenziale di successo delle inchieste penali sovranazionali dipende esclusivamente dalla capacità e dalla tempestività di coordinamento dell’attività degli uffici del pubblico ministero nazionale. Esattamente la stessa questione si poneva in Italia quando si mise mano alla istituzione della Direzione Nazionale Antimafia, affidandole in via primaria il compito di coordinare l’operato tra le procure distrettuali, assicurando soprattutto lo scambio di informazioni e di esperienze sui fatti criminali riconducibili da noi alla questione delle mafie.
        Un’altra questione degna di riflessione mi sembra quella della semplificazione delle indagini di polizia e giudiziarie nell’ambito delle materie finanziarie e bancarie all’interno dei Paesi dell’Unione, che i diversi interventi hanno ripreso e ricordo per tutti l’intervento del senatore Figurelli. Io sono convinto che, anche semplificando al massimo la cooperazione di polizia e la cooperazione giudiziaria, il grado di elevata complessità di questo tipo di procedura di investigazione comporterà sempre ritardi nell’attività di contrasto a livello europeo e di conseguenza tempi lunghi nell’attività di prevenzione e di repressione.
        Mi pare allora importante sottolineare il grande passo in avanti che l’Italia sta compiendo con l’istituzione di un archivio centrale dei conti e dei depositi. A questo archivio, con adeguate garanzie di tutela della privacy, potranno accedere i soggetti che effettuano indagini che richiedono accertamenti di natura bancaria. L’archivio sarà in grado di fornire agli inquirenti le coordinate dei rapporti facenti capo ai soggetti indagati svolgendo una funzione centrale nel dispositivo antiriciclaggio. Su questo importante ruolo dell’archivio dei conti e dei depositi la Commissione parlamentare Antimafia ha effettuato un notevole approfondimento della materia e delle problematiche ad essa connesse.
        Il tema del riciclaggio dei proventi illeciti delle organizzazioni criminali è stato al centro di numerosi e stimolanti interventi. Anche a seguito degli aspetti evidenziati nel nostro Seminario abbiamo netta la consapevolezza che quasi sempre il "lavaggio" e il reinserimento nei circuiti legali del denaro sporco avvengono in una dimensione transnazionale, come hanno spesso sottolineato gli interventi dei rappresentanti del Parlamento francese. Questa situazione mi ha fatto riflettere su due questioni, entrambe relative alla circolazione del denaro sporco. In primo luogo, vediamo che sta tornando di moda il trasporto fisico di grandi quantitativi di banconote, solitamente verso piazze finanziarie compiacenti, disposte cioè a favorirne la trasformazione in moneta scritturale senza porsi troppi problemi. Questo metodo, che si rifà ai canali e ai collegamenti tradizionali del contrabbando, suggerisce un’azione comune dei Paesi dell’Unione per la definizione di un regime di trasparenza nei trasporti di valuta, sia attraverso le frontiere interne, sia — e soprattutto — attraverso le frontiere esterne dell’Unione Europea.
        Un secondo profilo, di grande interesse ma anche di evidente complessità, è quello della circolazione di garanzie al posto del denaro liquido. Si è parlato in proposito di un modello statico del riciclaggio, in cui il denaro sporco resta fermo nelle piazze off shore, mentre al suo posto circolano documenti che ne rappresentano l’allocazione. Non è dubitabile che le garanzie — impiegate ad esempio per la concessione dei prestiti — fanno raggiungere ai riciclatori il risultato sperato: la disponibilità di denaro all’apparenza pulito.
        Anche in questa direzione a livello dei Paesi dell’Unione mi pare possibile attendersi una evoluzione della legislazione in materia di trasparenza e segnalazione di operazioni sospette, che evidenzi pericoli connessi con queste nuove forme di riciclaggio, ancora più insidiose di quelle tradizionali.
        Altro aspetto fondamentale sul quale credo sia stato importante il contributo di questo Seminario è quello relativo al tema della armonizzazione della legislazione penale dei singoli Stati in tema di criminalità organizzata.
        In particolare sulla figura del reato associativo richiamo gli interventi autorevoli dell’onorevole Carrara che ha chiarito gli aspetti fondamentali della questione nei singoli ordinamenti.
        Ma occorre sottolineare come, su questo problema, l’elaborazione e l’impegno della Unione Europea, partano da lontano.
        L’importante Piano di azione contro la criminalità organizzata, adottato dal Consiglio dell’Unione Europea il 28 aprile del 1997, esplicitava l’orientamento relativo alla fondamentale definizione della partecipazione penalmente punibile ad una organizzazione criminale operante all’interno della Unione.
        Seguiva a quell’orientamento l’Azione Comune adottata il 21 dicembre del 1998, che costituisce il primo accordo internazionale su ciò che deve intendersi per "organizzazione criminale" e "partecipazione" alla stessa.
        Si comprende come tali risultati al più alto livello politico abbiano facilitato la cooperazione di polizia e giudiziaria nel campo della lotta al crimine organizzato.
        Questo patrimonio della Istituzione europea, che è da consolidare e sviluppare, anche alla luce delle riflessioni da ultimo che si facevano, costituisce una base importante dalla quale sono partiti gli stessi lavori degli esperti per la elaborazione e la stesura del progetto di Convenzione dell’ONU che sarà portato a Palermo l’11 dicembre.
        Promuovere la cooperazione e prevenire il crimine organizzato transnazionale sarà possibile proprio in quanto gli Stati disporranno di parametri di definizione dei delitti e del concetto stesso di organizzazione criminale, cui potranno adeguare le rispettive legislazioni onde favorire la collaborazione, le intese e la cooperazione giudiziaria e di polizia.
        Per quanto riguarda lo strumento dei collaboratori di giustizia in ambito comunitario, si potrebbe pensare ad una politica di adeguamento europeo del trattamento dei collaboratori e dei testimoni di giustizia, aprendo la prospettiva ad un sistema di protezione europeo da effettuarsi in regime di scambio.
        Ciò consentirebbe oltre che la diffusione dello strumento, anche lo sfruttamento delle collaborazioni da parte degli organismi giudiziari dei singoli Stati membri interessati dalle vicende della nuova criminalità transnazionale, con la possibilità di utilizzare i nuovi canali di collegamento previsti nell’istituenda struttura Eurojust.
        Anche sulle misure di prevenzione patrimoniali mi pare che il tema, che è proprio della cultura giuridica e dell’esperienza politica e sociale dell’Italia, meriti attenzione nella sede europea perché, si tratta di uno strumento che, laddove correttamente utilizzato, si rivela fondamentale per colpire le ricchezze e i patrimoni che sono l’essenza stessa delle organizzazioni criminali.
        Il punto di arrivo di queste mie brevi riflessioni conclusive è pertanto la consapevolezza comune che il sistema normativo di contrasto alla criminalità debba segnare un’ulteriore evoluzione a livello europeo, in conseguenza innanzitutto della globalizzazione dei fenomeni criminali. Globalizzazione che per noi europei rischia di trasformarsi in un veicolo per la penetrazione nelle istituzioni finanziarie ed economiche del Continente di organizzazioni criminali extra europee: da un lato, i grandi cartelli sudamericani della droga e, dall’altro le cosiddette nuove mafie provenienti dai Paesi dell’ex blocco sovietico, dall’area dei Balcani, dell’Asia, del Nord Africa. L’obiettivo convergente è dato dalle grandi possibilità di reinvestimento di proventi criminali sia a livello finanziario sia a livello industriale e commerciale nei Paesi dell’Unione.
        Si pone, in definitiva, una questione criminale europea in termini del tutto nuovi rispetto al passato che impone risposte comuni e coordinate. Ecco perché abbiamo voluto avviare, con questo Seminario, una riflessione; ecco perché vogliamo continuare, e da questo punto di vista proporremo all’ONU, dopo la Convenzione di Palermo, di rincontrarci a Vienna per fare in modo che in sede parlamentare europea ci si possa confrontare alla luce dei risultati che emergeranno da quella sede. Perché se la globalizzazione richiede uno spazio giuridico mondiale, l’Europa deve, da questo punto di vista, fare passi che possono essere esemplari, passi che possono dare una mano a fare in modo che tutta la realtà internazionale cammini verso la globalizzazione della legalità.
        Ringrazio i parlamentari provenienti dalla Spagna, dalla Francia, il parlamentare inglese, ringrazio tutti i componenti della Commissione parlamentare Antimafia, ringrazio i rappresentanti di Europol e dell’OLAF, ringrazio i nostri interpreti, i consulenti, molto qualificati, della Commissione antimafia, i funzionari, la segreteria della Commissione, i Presidenti della Camera e del Senato che hanno consentito questo Seminario, che è un primo passo per altri appuntamenti altrettanto qualificati e mi auguro efficaci per il cammino dei nostri Parlamenti.

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