Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari

Luciano Violante
Presidente della Camera dei deputati

        La lotta alla criminalità organizzata è oggi una priorità politica tanto per gli Stati nazionali quanto per i grandi soggetti internazionali.
        La scelta di ospitare a Palermo il prossimo dicembre la Conferenza ONU per la firma della Convenzione contro il crimine organizzato si inserisce perfettamente dentro questo impegno internazionale.
        Essa costituisce, inoltre, un riconoscimento concreto nei confronti di una città che oggi è simbolo della lotta contro la mafia, ed anche dei successi che si possono ottenere in questo campo.
        I caratteri strutturali del crimine organizzato sono oggi costituiti dalla dimensione transnazionale, dalla progressiva integrazione tra le organizzazioni di origine mafiosa e le altre organizzazioni criminali di grandi dimensioni, dalla disponibilità di masse ingenti di danaro, dalla strategia dell’ingresso nella società legale utilizzandone tutti gli spazi e tutte le regole per difendere e accrescere le ricchezze acquisite.
        Il crimine organizzato possiede inoltre una grande capacità di muoversi attraverso tutti i Paesi del mondo perché ha approfittato dei vantaggi connessi ai processi di progressivo abbattimento delle barriere nazionali nella circolazione delle persone, delle merci e dei capitali.
        Sono tuttavia sbagliate le interpretazioni che vedono nella globalizzazione il responsabile della crescita della criminalità organizzata. Sarebbe come dire che bisogna abolire le automobili perché una delle principali cause di morte nel mondo sviluppato sono gli incidenti stradali.
        In realtà le grandi organizzazioni criminali hanno tratto profitto non dalla globalizzazione, ma dall’incompletezza del processo di globalizzazione, che non ha ancora riguardato le regole del mercato, i valori civili e gli strumenti per difenderli.
        La risposta vincente ad un crimine che si è globalizzato sta nella globalizzazione della legalità.
        La lotta alla criminalità organizzata transnazionale è oggi tutt’uno con la lotta alla corruzione e al riciclaggio.
        Tanto per la droga quanto per le armi, che sono i mercati criminali più floridi, il consumo o la utilizzazione avviene in luoghi diversi da quelli della produzione.
        Droga e armi devono attraversare molti Paesi. La corruzione di funzionari pubblici e di soggetti privati è purtroppo indispensabile per il superamento delle numerose frontiere nazionali.
        La massa enorme di denaro giornalmente ricavato sul mercato criminale richiede necessariamente l’utilizzazione di istituzioni legali — banche, società finanziarie, professionisti — per essere usata e reinvestita.
        Non solo. Mentre il trasporto delle merci particolari avviene per vie più tradizionalmente criminali, e quindi meno difficili da scoprire, il versante finanziario dell’operazione viene trattato avvalendosi pienamente dei sistemi legali, i quali sono raramente in grado di individuare all’interno di migliaia di operazioni quelle sospette.
        Il risultato è che questa enorme disponibilità di ricchezza mette il crimine organizzato in condizione di arrivare dovunque: nei Paesi ricchi — all’avanguardia nei settori finanziari — che costituiscono il polo di attrazione e di reimpiego della ricchezza criminale; nei Paesi di recente democrazia che non hanno ancora istituzioni sufficientemente salde per contrastare questi fenomeni; nei Paesi poveri che dispongono della materia prima utile alle moderne organizzazioni criminali: droga, aree per discariche di rifiuti tossici, poveri che chiedono di essere aiutati a raggiungere le terre promesse del Nord del mondo, donne e bambini da avviare ai mercati della prostituzione.
        La pedofilia occupa una parte odiosa, seppur ridotta, di questi mercati.
        Una gran parte di questo disumano affare è nelle mani della grande criminalità organizzata; ma va detto con nettezza e con forza che sono i maschi civili dei nostri civilissimi Paesi a fare uso di queste forme di schiavitù sessuale.
        A questo punto si delineano due grandi preoccupazioni.
        La prima riguarda le crescenti minacce all’esercizio dei diritti e delle libertà dei nostri cittadini. La seconda deriva dalla constatazione che una massa crescente di denaro sporco proveniente dai traffici criminali continua ad entrare nelle nostre economie, determinando profonde distorsioni delle regole del mercato.
        Il protrarsi nel tempo di questi fenomeni deve far interrogare i Parlamenti, che rappresentano i popoli nella loro interezza, sui rischi che corrono nel futuro le nostre democrazie se non saremo capaci di intervenire efficacemente: dove il crimine organizzato comincia a comandare, la democrazia rischia di diventare un guscio vuoto.
        L’Europa e l’Italia al suo interno sono all’avanguardia nell’impegno per la costruzione di una legalità organizzata transnazionale, da contrapporre al crimine organizzato transnazionale.
        Le Convenzioni Europol e Schengen hanno reso solide le basi della cooperazione tra i Paesi europei: gli scambi di informazioni sono frequenti ed esiste un vero e proprio sistema di relazioni tra le diverse forze di polizia nazionali per iniziative congiunte.
        Il Trattato di Amsterdam ha posto all’Unione l’obiettivo strategico della costruzione di uno spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia.
        Un anno fa il Consiglio europeo di Tampere aveva fissato come priorità politiche nella definizione di tale spazio una sempre più stretta cooperazione fra le autorità giudiziarie e fra quelle di polizia ed il ravvicinamento delle norme in materia penale degli Stati membri.
        Due settimane fa, il Consiglio dei ministri delle finanze, della giustizia e dell’interno dei quindici Paesi dell’Unione si è riunito per valutare i progressi compiuti nella lotta contro la criminalità organizzata ed in particolare contro il riciclaggio.
        Dalla riunione sono scaturiti importanti risultati politici. Si è raggiunto l’accordo sulla non opponibilità ai magistrati del segreto bancario e fiscale e sulla necessità di rafforzare tutte le misure volte ad impedire l’utilizzazione del sistema finanziario per attività di riciclaggio di capitali illeciti.
        Si è deciso, inoltre, di intraprendere negoziati con i Paesi "non cooperativi" e di predisporre contestualmente un complesso di misure sanzionatorie applicabili a tali Paesi.
        Il Consiglio ha infine deciso di potenziare gli strumenti diretti a contrastare l’uso criminale delle nuove tecnologie dell’informazione, in particolare di Internet e della moneta elettronica.
        Sino ad oggi i passi avanti compiuti, soprattutto sul piano della cooperazione internazionale, hanno visto protagonisti più i Governi che i Parlamenti nazionali.
        Io credo che anche i Parlamenti possano svolgere un ruolo utile, cominciando innanzitutto a dare l’esempio.
        La classe politica è potenzialmente la più esposta alle infiltrazioni da parte della criminalità organizzata ed alle varie forme di corruzione. Occorrono pertanto norme inequivoche per regolare il finanziamento della politica ed in particolare delle campagne elettorali, il conflitto di interessi e le dichiarazioni patrimoniali di tutti i parlamentari.
        I Parlamenti devono poter contare, inoltre, sulla diffusione e sulla completezza delle informazioni, perché solo questo consente loro di intervenire in modo efficace e ragionevole.
        Ad esempio, è necessario che i parlamentari conoscano le caratteristiche della narcoeconomia, da ciò che agevola l’espansione delle coltivazioni illecite ai centri off-shore.
        Voglio, infine, ricordare qui l’azione svolta dal Parlamento italiano per sviluppare — nel quadro delle relazioni interparlamentari — una efficace collaborazione con i Paesi dell’Europa centrale: la Carta di Trieste, approvata nel 1997, indica la lotta contro il crimine organizzato come una priorità per quest’area geopolitica.
        La costruzione della legalità in quest’area di democrazia giovane e particolarmente esposta al crimine è indispensabile per realizzare lo spazio comune europeo di libertà, sicurezza e giustizia. Essa è condizione, inoltre, per il successo del processo di allargamento dell’Unione e per la realizzazione in futuro di un’Europa nella quale i confini politici possano coincidere con quelli geografici.
        Mancano alcune settimane alla Conferenza di Palermo.
        Sarebbe utile che il nostro Parlamento dedicasse un dibattito al progetto della Convenzione contro il crimine organizzato transnazionale che verrà discusso nella città siciliana.
        Sarebbe un’occasione positiva per rimarcare l’importanza della scadenza palermitana nell’agenda internazionale.
        Essa servirebbe, inoltre, com’è sempre quando i Governi si presentano nelle sedi internazionali muniti del sostegno e dell’indirizzo delle proprie Assemblee elettive, a conferire forza ed autorevolezza all’azione che l’Italia sarà chiamata ad esprimere in sede ONU.

 

Nicola Mancino
Presidente del Senato della Repubblica

        Ringrazio la Commissione Antimafia e il suo Presidente per avere organizzato questo interessante momento di riflessione e per avermi invitato a porgere un indirizzo di saluto ad un Seminario che intende approfondire i temi del più efficace contrasto, anche a livello sovranazionale, ad uno dei fenomeni che maggiormente preoccupano l’opinione pubblica e il mondo politico — e non solo nel nostro Paese.
        Il radicamento in Italia di nuove mafie di origine straniera rappresenta infatti solo un aspetto della più generale espansione e trasformazione dell’attività del crimine organizzato a livello internazionale. Le organizzazioni malavitose transnazionali non sono ormai solo un pericolo, ma una solida realtà europea e mondiale, in grado di sfruttare a proprio favore la globalizzazione dei mercati, dei trasporti e delle comunicazioni.
        Nella seconda metà del secolo appena trascorso abbiamo, infatti, assistito ad un progressivo infittirsi dei collegamenti internazionali delle organizzazioni criminali non più operanti solo nelle singole realtà nazionali: dai legami fra la mafia siciliana e Cosa Nostra americana fino all’attuale interconnessione telematica mondiale per il riciclaggio del denaro sporco, la storia della criminalità organizzata coinvolge una sempre più ampia ed efficiente rete di complicità fra bande di varia provenienza. Al contrario delle istituzioni statali, infatti, le organizzazioni criminali non hanno bisogno di trattati internazionali, di ratifiche parlamentari o di organismi giudiziari sovranazionali per ignorare le frontiere, scambiarsi rapidamente uomini, mezzi e capitali o per sanzionare il mancato rispetto dei patti fra loro stipulati.
        Un recente ulteriore impulso all’ampliamento della rete criminale internazionale ha fatto seguito alla caduta dei regimi del Centro-Est europeo: c’è stato e tuttora c’è l’intensificarsi di forti organizzazioni criminali naturalmente proiettate ad operare sullo scenario internazionale, con l’ausilio di conoscenze e mezzi tecnologici impensabili fino a poco tempo fa. Oggi tutti gli Stati si trovano a dover affrontare una criminalità organizzata agguerrita, preparata e in gran parte sconosciuta anche perché questa sfugge ai tradizionali controlli di polizia, in quanto non opera più soltanto sul "territorio" tradizionalmente inteso. Si tratta di nuove mafie che trafficano in droga, armi ed esseri umani e che, anche con l’ausilio di banche e società finanziarie stimate e rispettate a livello internazionale, praticano massicciamente il riciclaggio e il reinvestimento di enormi quantità di denaro in attività finanziarie e imprenditoriali formalmente lecite.
        Di fronte a questa minaccia, progressivamente sempre più chiara e preoccupante, gli Stati hanno lentamente preso coscienza dell’insufficienza dei soli mezzi a disposizione a livello nazionale per combattere un fenomeno che trae la sua stessa essenza e ragion d’essere dal livello transnazionale. In particolare, nell’Unione Europea, al cambiamento di natura e al salto di qualità della criminalità organizzata transnazionale, ha cominciato a far seguito un adeguamento delle strutture deputate alla prevenzione e alla repressione dei reati in ciascun singolo Paese.
        Benchè vi siano ormai da molti anni forme di collaborazione giudiziaria e di polizia sia bilaterali che attraverso l’Interpol e l’utilizzo delle rogatorie internazionali, è dal 1975 che comincia ad affiorare la consapevolezza politica della necessità di affrontare la questione della criminalità organizzata con un approccio nuovo e globale, cioè non più solo a livello di polizie, ma a livello di governi dei Paesi della Comunità. È così che, dalle riunioni dei ministri dell’interno del Gruppo Trevi, a partire dal 1975, passando per l’accordo di Schengen del 1985 (in vigore in Italia dal 1997) e per l’Atto unico del 1986, fino ai trattati di Maastricht e di Amsterdam, si sono progressivamente poste le basi per una stretta cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni, che appare la sola premessa politica in grado di sviluppare un’adeguata azione preventiva e repressiva di fenomeni criminali quantitativamente e qualitativamente del tutto nuovi.
        Si tratta di una sfida assai ambiziosa e di un impegno di notevoli dimensioni politiche, ideali, organizzative ed economiche, tale da caratterizzare la stessa fisionomia della crescita dell’Unione Europea, tanto da far parlare giustamente di Terzo pilastro su cui fondare la costruzione di più stretti legami fra i Paesi del Vecchio Continente.
        D’altra parte una effettiva, efficace e pronta collaborazione fra le forze dell’ordine e gli organi giudiziari europei — al di là delle pur indispensabili norme giuridiche — deve basarsi su una profonda omogeneità culturale, sulla condivisione di comuni valori nonché su una reciproca fiducia e conoscenza. È un processo lungo e di vaste dimensioni quello che può condurre ad uno spazio operativo comune per forze di polizia giudiziaria integrate e dirette, o almeno coordinate, da una magistratura inquirente sovranazionale. L’allargamento dei compiti e delle dimensioni di Europol e l’istituzione di Eurojust, secondo la recente decisione del Consiglio, vanno appunto nella direzione di una crescente integrazione e cooperazione fra le autorità inquirenti e le forze di polizia dei Paesi dell’Unione, anche se vere e proprie indagini giudiziarie di tipo sovranazionale sembrano possibili solo a seguito di più radicali mutamenti dell’ordinamento giuridico europeo e di una omogeneizzazione del diritto penale e della procedura penale che possono sinora essere solo ipotizzati.
        Accanto però all’azione preventiva e repressiva del crimine organizzato, portata avanti dalla magistratura e dalle forze dell’ordine, anche a livello europeo, al pari di quanto accade a livello nazionale, deve concretizzarsi una vasta opera di prevenzione sociale del crimine, che spesso trova origine e sostentamento in una serie di concause sulle quali ben possono intervenire il Governo dell’Unione e i singoli governi nazionali fra loro coordinati.
        Si tratta anzitutto di progettare e perseguire una seria politica comune dell’immigrazione, che sanzioni l’immigrazione clandestina indiscriminata (certamente concausa dell’incremento della criminalità) e di programmare flussi migratori compatibili con le possibilità di accoglimento e di proficuo impiego nel sistema economico dei singoli Paesi. Non secondaria sembra inoltre la necessità di una efficace azione che favorisca la piena integrazione degli immigrati che, al di là della irrinunciabile libertà di culto, debbono comunque accettare senza riserve il rispetto della legalità e degli altri valori fondanti delle Costituzioni nazionali e della nascente Carta europea dei diritti.
        In generale, tutta l’attività economica e sociale dell’Unione Europea deve mirare a promuovere lo sviluppo economico, diminuire la disoccupazione, risolvere gli squilibri regionali, ampliare al massimo la fruizione dei diritti di libertà, in modo da ridurre il terreno sociale di coltura della criminalità e dell’emarginazione violenta.
        Sulla base di una precisa comune politica della giustizia e della sicurezza, ma anche dell’integrazione sociale e dell’immigrazione, l’Europa si potrà presentare alla prossima Conferenza di Palermo con una propria identità proprio per confrontarsi con gli altri Paesi impegnati nella lotta alla criminalità transnazionale: il fine è quello di costruire la più vasta rete possibile di interconnessioni e di rapporti fra Stati diversi, magari caratterizzati da diverse tradizioni giuridiche e diverse culture politiche, ma fortemente uniti dalla comune consapevolezza della necessità di un alto grado di collaborazione per tutelare i loro rispettivi valori di civiltà.
        Il Seminario organizzato dalla Commissione Antimafia appare, perciò, particolarmente attuale e tempestivo, toccando temi degni della massima attenzione e del massimo approfondimento: per questo sono lieto di rivolgere agli organizzatori e ai partecipanti tutti l’augurio di un proficuo lavoro in vista dell’importante appuntamento di Palermo.

 

Giuseppe Lumia
Presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari

        Il tema dello spazio giuridico europeo non è nuovo.
        In questi anni si è arricchito di significati sempre più ampi.
        Soprattutto è divenuto oggetto di consapevolezza politica ed istituzionale, tanto da costituire oggi uno dei motivi di fondo dell’europeismo contemporaneo.
        Questo concetto apparteneva originariamente all’elaborazione della dottrina giuridica, che già alla fine degli anni ’70 — e contemporaneamente in più Stati del continente —, delineava la necessità di una disciplina sopranazionale commisurata alle crescenti esigenze di tutela soprattutto degli interessi delle comunità economiche europee.
        L’idea di uno spazio giuridico europeo sorge e si sviluppa nella coscienza dei cittadini soprattutto come naturale conseguenza dell’esistenza di spazi economici europei, bisognosi di diritto comune e di comuni forme di regolamentazione e di controllo.
        Attraverso anche l’elaborazione di tanti giuristi europei — cito fra gli stranieri Mireille Delmas-Marty e Klaus Tiendeman — si è giunti — direi si è naturalmente giunti — ad una definizione di spazio giuridico europeo in relazione al problema della protezione degli interessi finanziari della comunità economica.
        E questo nella crescente consapevolezza dei pericoli derivanti da condotte fraudolente ed illecite finalizzate alla captazione e allo sviamento di importanti risorse finanziarie comunitarie.
        Ma le forme di criminalità che costituiscono un attentato agli interessi comunitari coinvolgono ambiti ben più vasti di quello delle frodi.
        Il crimine organizzato esprime aggregazioni assimilabili a veri e propri ordinamenti, che insidiano i processi della democrazia europea e delle sue istituzioni economiche.
        La riconversione dei proventi derivanti dal traffico degli stupefacenti, dalla tratta degli esseri umani, dal contrabbando doganale e da tanti altri gravi reati ha determinato una presenza sempre più massiccia nei Paesi dell’Unione di gruppi criminali forti, di sofisticate organizzazioni ed impressionanti ramificazioni.
        La dimensione sovranazionale assunta da molte realtà criminali è sotto gli occhi di tutti.
        Non vi è oggi una grande indagine giudiziaria che non comporti il coinvolgimento della polizia e della magistratura di più Paesi.
        Questo vale in particolare per il nostro continente i cui mercati esercitano una forte attrazione anche su organizzazioni criminali extraeuropee (soprattutto sudamericane e dell’Est europeo).
        Naturalmente le risposte non sono mancate.
        Attorno al Terzo pilastro si sono andate strutturando importanti realtà.
        Penso alla già citata costituzione dell’Europol e
ai compiti di razionalizzazione dell’informazione di polizia ad essa assegnati.
        Ma penso anche — e con grande interesse — alla costituzione della rete europea di collegamento tra le autorità giudiziarie che ha visto nascere una nuova importante figura quale è sempre più quella del magistrato di collegamento.
        L’Italia è stata tra i primi Paesi dell’Unione ad intraprendere questa nuova esperienza. Ed è di nuovo in prima fila nel progetto di dare vita ad un organismo di pubblico ministero europeo, muovendo dalla proficua esperienza della nostra Direzione Nazionale Antimafia.
        È giunto ora il momento che i Parlamenti giochino fino in fondo il loro ruolo di legislatori in questa materia, avviando un progetto di riassetto normativo che — nel rispetto delle specificità ordinamentali nazionali — sappia cogliere e sviluppare tutte le occasioni di unificazione e di armonizzazione nel delicato settore del contrasto alla criminalità organizzata, alla criminalità degli affari e alla corruzione, che ne è un effetto naturale.
        Per far fronte a questa complessa realtà penso debba nascere una nuova ingegneria della legislazione dell’Unione Europea.
        Una ingegneria capace di progettare un diritto comune per la previsione e la repressione dei fenomeni della grande criminalità organizzata e del riciclaggio; che sappia, inoltre, definire una moderna disciplina di contrasto all’accumulazione economica e finanziaria criminale.
        Sono questi i campi propri sia della repressione (sequestri e confisca dei beni), sia della prevenzione (regole di trasparenza dei mercati).
        Un altro e non meno significativo ambito di definizione di linee legislative uniformi appare quello della disciplina dei fenomeni del cosiddetto pentitismo e della disciplina della tutela dei testimoni.
        Questi ed altri temi saranno al centro della riflessione di questi giorni.
        Penso che un confronto aperto e senza pregiudizi di pensieri e tradizioni sarà fecondo e produttivo. Ritengo, infine, che questo nostro appuntamento sia anche un’occasione preziosa per preparare l’appuntamento dell’ONU che si svolgerà in Italia a Palermo il prossimo dicembre, dove si affronteranno per la prima volta in una sede internazionale di tale rilevanza i temi più scottanti della lotta alla criminalità organizzata globalizzata. Lo spazio giuridico antimafia europeo rappresenta, quindi, un primo passo concreto per procedere verso la realizzazione di un’antimafia altrettanto globalizzata e qualificata.

 

Michele Pinto
Presidente della Commissione Giustizia del Senato della Repubblica

        La cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni costituisce, come è stato peraltro giàricordato negli autorevoli interventi che abbiamo finora ascoltato, uno dei tre pilastri su cui si basa il Trattato dell’Unione Europea che, nel corso degli anni ’90, anche a seguito del Trattato di Amsterdam, ha visto accresciuta la propria importanza e il proprio rilievo, nonché la sua capacità di incidere sugli ordinamenti degli Stati membri.
        Questi ultimi si misurano, infatti, tutti con la medesima realtà: la criminalità organizzata, il traffico di stupefacenti, la produzione ed il traffico illecito di armi, le frodi, i problemi connessi con l’immigrazione e l’asilo, la tratta e lo sfruttamento di minori e di donne. Questi ultimi sono anzi divenuti il mercato criminale a più rapida espansione, che ha addirittura superato quello imponente della droga. Un recente dato riferito dal Ministro dell’interno nei giorni scorsi parla di centoquaranta milioni di persone nel mondo ridotte in schiavitù.
        Le questioni di sicurezza interna si inseriscono ormai in un contesto internazionale. Tutte queste forme di criminalità non conoscono, infatti, frontiere e trovano anzi la loro linfa vitale proprio nella dimensione transnazionale. Opportunamente, dunque, il titolo del presente Seminario, voluto con intelligente sensibilità dal Presidente Lumia e dalla Commissione che egli con tanto impegno e prestigio presiede, deve condurre ad un accostamento della costruzione dello spazio giuridico europeo, che è ormai una realtà concreta ed operante, con la Conferenza di Palermo, dove, in un ambito internazionale più vasto, dovrà essere proclamato un importante strumento convenzionale di contrasto al crimine organizzato.
        L’obiettivo principale perseguito in questo campo dal diritto comunitario è quello, esplicitato dall’articolo 29 del Trattato sull’Unione Europea, di fornire ai cittadini un livello elevato di sicurezza in uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, come ci ricordava poc’anzi il Presidente Violante. In tale contesto si collocano l’azione comune nel settore della cooperazione delle forze di polizia — che ormai l’Unione persegue tenacemente da alcuni anni, sia pure tra numerose difficoltà, attraverso l’Ufficio europeo di polizia Europol —, ma soprattutto l’azione comune nel settore della cooperazione giudiziaria in materia penale.
        Com’è noto, le finalità che il diritto dell’Unione intende attuare attraverso gli strumenti della cooperazione giudiziaria in materia penale si sostanziano, stando all’articolo 31 del Trattato dell’Unione Europea, nella facilitazione e accelerazione delle procedure di cooperazione tra i ministeri e le autorità giudiziarie degli Stati membri in relazione sia ai procedimenti, sia all’esecuzione delle decisioni. A questi fini viene garantita la compatibilità delle normative applicabili e sono prevenuti i conflitti di giurisdizione. Le norme comunitarie perseguono altresì gli obiettivi della facilitazione delle procedure di estradizione tra gli Stati membri, della progressiva adozione di misure per la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati ed alle sanzioni, con specifico riguardo ai settori della criminalità organizzata, del terrorismo e del traffico illecito di stupefacenti.
        Si tratta di una indicazione di obiettivi ampia ed ambiziosa a causa delle diversità dei sistemi e degli ordinamenti interessati, che sovente derivano da tradizioni di cultura giudiziaria non perfettamente omologabili. Vorrei fare un solo esempio, ricollegandomi a quanto affermato dal Presidente Lumia: la figura del pubblico ministero. Il prossimo 22 novembre si svolgerà a Bruxelles una riflessione che toccherà anche questo punto: l’istituzione di un pubblico ministero europeo, sia pure nel limitato settore della lotta alle frodi ai danni dell’Unione. Diversi, come è noto — ma su questo punto non mi soffermo —, sono la definizione e soprattutto i compiti e le funzioni che nei vari ordinamenti d’Europa vengono assegnati a questa figura di magistrato.
        Credo, proprio per questo, che il Trattato sull’Unione Europea abbia dotato il pilastro della cooperazione giudiziaria in materia penale di strumenti normativi non direttamente vincolanti, ma prevalentemente intesi al ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari dei singoli Stati membri. Né sfugge la regola che tali atti — posizioni comuni, decisioni quadro, convenzioni — debbono essere adottati dal Consiglio all’unanimità, sia pure dietro parere non vincolante del Parlamento europeo. In sostanza, le regole dettate dai Trattati di Maastricht e di Amsterdam, se da un lato hanno permesso il passaggio all’ambito dell’ordinamento comunitario della materia della cooperazione giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri, sottraendola al sistema tradizionale del metodo intergovernativo (che utilizza strumenti propri del diritto internazionale, quali le convenzioni, le risoluzioni, le raccomandazioni), dall’altro, per le ragioni che ho ricordato, non hanno previsto l’estensione a tale settore dei medesimi strumenti normativi previsti per la cooperazione giudiziaria in materia civile e la politica dell’immigrazione.
        Non si può, infatti, negare che in questi ultimi settori — ormai, come si suol dire, comunitarizzati —, l’opera uniformatrice del diritto comunitario abbia modo di esplicarsi in maniera più immediata, attraverso l’adozione di regolamenti aventi efficacia diretta negli ordinamenti degli Stati membri. Penso, soltanto per fare alcuni esempi recenti, ai regolamenti sulla notificazione negli Stati membri di atti giudiziari in materia civile e commerciale, nonché al regolamento relativo alla competenza, al riconoscimento ed all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e di potestà dei genitori.
        Tutto ciò non conduce certamente alla negazione dei proficui risultati finora raggiunti nella costruzione di uno spazio giuridico penale. Mi riferisco, in particolare, non soltanto alla Convenzione istitutiva di Europol, che ho già menzionato, ma anche alla Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, alla cui ratifica il Parlamento ha atteso con grande dedizione negli ultimi mesi. E mi riferisco, altresì, alle Convenzioni in materia di estradizione e di mutua assistenza nel settore doganale, e all’elaborazione del corpus iuris contenente disposizioni penali per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione Europea che delinea, sia pure a livello di un preliminare approfondimento scientifico, le basi di un futuro possibile diritto penale comune europeo.
        Il mio pensiero va tuttavia, in modo particolare, alla Convenzione sulla mutua assistenza in materia penale, che il Consiglio europeo dei Ministri della giustizia e degli affari interni ha adottato nello scorso mese di maggio, anche grazie, questo va ricordato, al forte impulso dato dal Governo italiano. La Convenzione, che mi auguro possa essere rapidamente ratificata dai Parlamenti italiano e degli altri Stati firmatari, reca la previsione di diversi e interessanti strumenti operativi. Mi limito a segnalarne alcuni soltanto, tra quelli che mi sembrano i più significativi e rilevanti, anche in rapporto alla riflessione attualmente condotta dal Parlamento italiano.
        L’articolo 4 della Convenzione, il quale prevede che, nei casi in cui è concessa l’assistenza giudiziaria, lo Stato membro richiesto osservi le finalità e le procedure espressamente indicate dallo Stato membro richiedente. Ciò consentirà, tra l’altro, che le rogatorie eseguite all’estero possano svolgersi con il rispetto di fondamentali garanzie previste dall’ordinamento italiano e, in particolare, con la presenza del difensore, anche quando la persona da sentire sia imputata in un procedimento connesso. Permetterà, inoltre, anche in base alle indicazioni molto precise e puntuali pervenute dalla Corte costituzionale, un più agevole inserimento dei verbali delle rogatorie nel fascicolo processuale, senza che vadano dispersi il valore ed il significato dell’attività investigativa compiuta.
        Una disposizione del tutto innovativa è anche quella contenuta nell’articolo 7, che consente alle autorità competenti degli Stati membri di procedere a uno scambio di informazioni relative a reati senza che sia presentata una richiesta a tal fine, sia pure con la possibile imposizione di condizioni relative all’uso delle informazioni. Si tratta di una previsione che favorisce l’affermazione di una prassi di cooperazione spontanea in cui la rapidità nello scambio di informazioni è spesso fattore decisivo nell’attività di contrasto alle organizzazioni criminali.
        L’articolo 13 prevede la costruzione di squadre investigative comuni sul cui rilievo, credo, non vada spesa alcuna parola. Ultimi nella lista, ma non tali nel significato e nell’importanza, la Convenzione mette in campo altri rilevanti strumenti a contrasto della criminalità quali, ad esempio, le audizioni in videoconferenza, lo scambio temporaneo di detenuti, le consegne sorvegliate, le intercettazioni satellitari.
        Il contrasto alla pervasività delle attività illecite su scala internazionale si giova grandemente — anche se non si esaurisce in esso — del coordinamento in sede di Unione Europea. Alcune attività criminose — penso ad esempio al traffico di armi e di droga, alla tratta di esseri umani e al riciclaggio del denaro sporco — trovano linfa nei Paesi più esposti dal punto di vista economico-sociale e possono essere contrastate soltanto con opportune azioni coordinate su scala mondiale.
        Mi sembra allora che la Convenzione contro la criminalità organizzata transnazionale, che la Conferenza di Palermo si appresta a varare, rappresenti un importate passo in tale direzione. La più recente versione del testo a me nota contiene, infatti, interessanti disposizioni sul riciclaggio del denaro sporco, sulla corruzione internazionale, la confisca, l’estradizione, l’attività di coordinamento investigativo, oltre che tre protocolli supplementari, volti a contrastare rispettivamente il traffico illecito di migranti, la tratta di esseri umani, la produzione ed il traffico illecito di armi.
        Altrettanto significativa mi pare la circostanza che il Governo italiano abbia offerto di ospitare la fase finale del negoziato a Palermo, città simbolo del riscatto della società civile nei confronti dell’aggressione ai valori di libertà e democrazia.
        Mi piace, concludendo, rilevare come la Convenzione sul crimine transnazionale, che sarà sottoscritta a Palermo, si colleghi idealmente, ma anche sinergicamente e nei fatti, con lo Statuto istitutivo della Corte penale internazionale, adottato a Roma due anni or sono e ratificato dall’Italia nel luglio 1999. Si tratta, infatti, di strumenti che risultano ispirati, a mio avviso, alle medesime motivazioni ideali e che in un certo senso sono complementari.
        Il disegno di legge di ratifica dello Statuto della Corte penale internazionale prevedeva anche norme di attuazione. Il Senato, esaminandolo, decise di accogliere una proposta di stralcio delle stesse per non ritardare la ratifica. Ma proprio il Senato, e in particolare la Commissione che ho l’onore di presiedere, ne ha ripreso l’esame dall’aprile del corrente anno, anche se le tappe sono state non del tutto conseguenti in termini di rapidità, per l’enorme mole di lavoro che la Commissione è chiamata in questo periodo a svolgere. Insieme agli autorevoli colleghi della maggioranza e dell’opposizione, che confermeranno questo auspicio e che al pari di me assumeranno questo impegno, speriamo, tuttavia, di poter portare a compimento in tempi brevi anche questo aspetto ancora insoluto del problema, attesa la priorità che esso riveste nel nostro ordinamento, anche in vista dell’entrata in vigore dello Statuto.

 

Piero Luigi Vigna
Procuratore nazionale antimafia

        Dopo quanto è stato così profondamente detto, le mie osservazioni saranno sintetiche.
        La prima riflessione: le caratteristiche, le tipicità della criminalità organizzata moderna. Vi ha già fatto cenno il Presidente Violante, le sintetizzerei in questi punti. Primo, l’ampliamento dei mercati illeciti, ma non solo l’ampliamento, anche la diversa qualità dei beni trattati. Le nostre mafie nel dopoguerra agivano su beni immobili: le campagne, l’edilizia. Oggi i beni oggetto dei mercati illeciti sono prevalentemente mobili: stupefacenti, denaro, rifiuti tossici o nocivi, perfino le persone umane. Si tratta dunque di beni, di cose che debbono essere spostate da uno Stato produttore ad uno Stato consumatore passando attraverso altri Stati.
        Secondo punto: le innovazioni tecnologiche che riguardano non solo i mezzi più celeri di trasferimento di questi beni, ma anche la movimentazione sempre più opaca del denaro. Il trading on line consente di acquistare azioni e titoli dalla propria abitazione o dal proprio studio ponendo uno schermo tra il privato e l’operatore. Non si sa chi opera, per cui il nostro concetto sul quale si fondava la segnalazione delle operazioni sospette da parte del sistema finanziario "tu conosci il tuo cliente dunque sei in grado di dirmi quando agisce in modo anomalo" cade. Questo non funziona più. Da questi due principi deriva una diversa strutturazione, ormai in atto da tempo, delle organizzazioni criminali. Queste, è stato più volte detto, assumono una forma di rete transnazionale nel senso che gruppi criminali di diverse etnie, di diverse nazioni, collaborano tra di loro, aumentando le loro specifiche potenzialità attraverso questa sinergia, per movimentare i beni da un Paese produttore, attraverso Paesi di passaggio, fino allo Stato consumatore.
        Se questa è la realtà delle cose, e mi sembra difficile contestarla, ne discende la seconda riflessione: la struttura transnazionale della moderna criminalità organizzata richiede una forte e fattiva cooperazione internazionale. Ma quest’ultima ha alcune precondizioni. La prima è che vi siano norme incriminatrici comuni o quanto meno norme incriminatrici molto simili, molto analoghe l’una all’altra nei vari Stati: altrimenti creeremo delle zone franche e non si potrà avere una reale cooperazione se le fattispecie penali non sono previste in un altro Stato o sono previste in modo sensibilmente difforme.
        L’idea dello spazio giuridico europeo risale al Presidente Giscard d’Estaing, nel 1977; ebbe lui l’idea di creare lo spazio giuridico europeo e naturalmente anche in questo settore vi sono tra i professori di diritto e procedura penale stranieri i cosiddetti euro-penalscettici. Certo tutti sappiamo come pesano le tradizioni, le culture nella formazione del diritto penale, ma penso che ciascuno Stato di fronte alla minaccia che la criminalità organizzata moderna porta al cuore stesso della democrazia debba essere capace di rinunciare a piccoli spazi di propria sovranità e di rivedere i propri ordinamenti, almeno su un certo numero di fattispecie. Nel nostro settore il punto di svolta per la creazione di un diritto penale comune è il Piano d’Azione contro la criminalità organizzata adottato dal Consiglio europeo il 28 aprile del 1997. C’era la raccomandazione n. 17, che traducendo operativamente l’orientamento politico n. 1 del Piano, prevedeva l’adozione di un’Azione comune sulla incriminazione della partecipazione ad un’associazione criminale. E infatti il Consiglio il 21 dicembre del 1998 adottò un’Azione comune con la quale si disponeva che entro un anno ciascuno Stato membro dovesse presentare proposte adeguate per l’attuazione della medesima, affinché le autorità competenti prendessero in considerazione la perseguibilità dell’appartenenza ad una organizzazione criminale.
        Ma noi abbiamo altre indicazioni di fattispecie sulle quali non dovrebbe essere difficile trovare un comune sentire nei vari Paesi d’Europa. Per esempio, nel Consiglio europeo di Tampere dell’ottobre 1999 c’è una precisa indicazione di queste fattispecie comuni che si dovrebbero adottare e lì si è affermato che esse debbono essere la criminalità finanziaria, quindi riciclaggio, corruzione, falsificazione dell’Euro, il traffico di droga, la tratta di esseri umani, in particolare sfruttamento delle donne e sfruttamento sessuale dei minori, la criminalità ambientale. Queste sono alcune delle fattispecie, che per l’appunto, costituiscono i mercati illeciti delle moderne organizzazioni criminali transnazionali. Troviamo, inoltre, una singolare corrispondenza tra l’indicazione di queste fattispecie da parte del Consiglio di Tampere e la Convenzione ONU contro la criminalità transnazionale, la quale impegna gli Stati a penalizzare la partecipazione a un gruppo criminale organizzato — ecco il richiamo al Piano d’Azione —, il riciclaggio dei proventi di reato, la corruzione. Ma troviamo anche, nel Protocollo allegato, l’impegno che gli Stati debbono assumere a criminalizzare la tratta di esseri umani. Dunque sembra veramente nascere, da tutti questi strumenti, un piano di reati sui quali realizzare una uniformità di legislazione.
        Ma il problema della cooperazione è anche un problema di strutture. L’ufficio che io dirigo è punto centrale di contatto in Italia per lo scambio di informazioni sul crimine organizzato; Eurojust, secondo l’impostazione del Governo italiano, dovrebbe modellarsi sulle funzioni di coordinamento e di impulso che sono proprie della Direzione nazionale antimafia rispetto alle ventisei procure distrettuali della Repubblica italiana. Un’osservazione da formulare — e qui mi rivolgo in particolare ai nostri parlamentari — è poi che, quando si deve collaborare con un altro Stato, una precondizione è che le indagini all’interno del nostro Stato siano coordinate, altrimenti le richieste di informazione di rogatoria agli altri Stati saranno molteplici, scoordinate, manchevoli, spesso contraddittorie. Questo coordinamento si ottiene solo se i delitti associativi relativi ai gruppi transnazionali che praticano certi mercati vengono affidati alle indagini delle Direzioni distrettuali antimafia. Ciò è già avvenuto per l’associazione per trafficare stupefacenti. Nel disegno di legge sul contrabbando dei tabacchi lavorati esteri la medesima soluzione è già prevista per il delitto di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando; inoltre, è stato approvato un testo base in materia di tratta degli esseri umani che prevede anche lì un delitto associativo. Io sono dell’opinione che la legittimazione alle indagini per il delitto associativo, proprio perché è un delitto transnazionale, debba essere affidata alle procure distrettuali antimafia anziché essere frammentata fra le centosessantaquattro e più procure della Repubblica che abbiamo in Italia.
        Il Comitato parlamentare di controllo sul trattato di Schengen ha affermato che nella collaborazione internazionale la rogatoria è uno strumento superato; e infatti assistiamo all’emergere di nuove forme di rapporto, con lo scambio di informazioni anche non sollecitato che il mio ufficio sta facendo da un certo tempo con altre autorità, principio che è ripreso anche nella Convenzione contro la criminalità organizzata transnazionale. Io penso anche a pool di pubblici ministeri nei diversi Stati, quando il pubblico ministero abbia un ordinamento compatibile in tali Stati, che possano indagare direttamente nel territorio di un altro Stato su un delitto avvenuto nel proprio, con la presenza dell’altro magistrato, perché in questo modo si romperebbe il diaframma che sempre la rogatoria pone fra l’investigatore e il fatto da investigare.
        Il crimine, ovviamente, non si ferma all’Unione Europea ed è per questo che, come il Presidente della Commissione e i membri sanno, con l’aiuto del Consiglio d’Europa di Strasburgo e della Seconda Università di Napoli il mio ufficio ha organizzato, ai primi di settembre, una riunione a Caserta, durata tre giorni, fra i pubblici ministeri dei quarantuno Paesi che fanno parte del Consiglio d’Europa e che trattano la materia della criminalità organizzata. In quella sede è stata adottata una decisione finale che prevede lo scambio sempre più snello e rapido di informazioni e la creazione di banche dati giudiziarie comuni.

 

Fabio Evangelisti
Presidente del Comitato parlamentare di controllo sull’attuazione e il funzionamento della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen e di vigilanza sull’attività dell’Unità Nazionale Europol

        Volevo prima di tutto ringraziare il Presidente Lumia e i colleghi della Commissione Antimafia per l’opportunità che ci offrono oggi di mettere a confronto le esperienze dei Parlamenti di alcuni Paesi europei — Francia, Regno Unito, Spagna, Italia — e del Parlamento europeo in vista della Conferenza Onu di Palermo. E voglio così subito sottolineare un punto importante: il ruolo dei Parlamenti nella costruzione dello spazio giuridico europeo. Un ruolo un po’ particolare, un po’ faticoso, rispetto al quale, debbo dire, nonostante l’importanza del Protocollo (se non ricordo male il numero 13 allegato al Trattato di Amsterdam) non sempre si riesce appunto a definire una procedura; ma su questo vorrei provare ad intervenire con un riferimento all’esperienza specifica del Comitato che presiedo. Perché faccio questo riferimento al ruolo dei Parlamenti nazionali? Perché questo passo ulteriore, questo traguardo che ci poniamo, quello della costruzione di uno spazio giuridico quanto più omogeneo ed armonico per combattere con efficacia la criminalità organizzata, richiede il contributo di tutti, dei diversi livelli istituzionali e non può essere lasciato al solo appannaggio dei Governi.
        Il dottor Vigna ha fatto un riferimento importante quando ha ricordato come, già più di vent’anni fa, il Presidente Giscard D’Estaing lanciò, con grande preveggenza, l’idea di uno spazio giuridico europeo. Da allora si sono fatti molti passi in avanti, ci sono state realizzazioni molteplici ma, francamente, i risultati concreti non appaiono ancora sufficienti rispetto a quelli che sarebbero i bisogni di un’azione di forte contrasto alla criminalità organizzata.
        Vorrei ancora una volta citare il dottor Vigna perché ci ha ricordato come la criminalità, la sua organizzazione, i suoi tempi, siano di gran lunga più veloci di qualsiasi rogatoria e quindi come si debbano organizzare con maggiore tempestività le azioni di contrasto. Il riferimento è naturalmente al quadro europeo, ma non è soltanto quello. La sensazione è che si sia frenati nella costruzione di questo spazio da una concezione della sovranità che però alla fine diventa un ostacolo, un problema, a fronte della internazionalizzazione del crimine che ha saputo giovarsi della globalizzazione e dell’abolizione delle frontiere interne.
        Eppure, se guardiamo ai fatti, da quel 1977 di strada in avanti se ne è fatta parecchia. Il fatto che si siano affermate due velocità tra il progredire della cooperazione di polizia e quello della cooperazione giudiziaria in materia penale è senz’altro un problema, però ci sta ad indicare un processo che è in itinere. E in effetti queste due tematiche, la cooperazione di polizia e la cooperazione giudiziaria, fino al Trattato di Amsterdam hanno marciato su binari paralleli, con una certa prevalenza delle tematiche afferenti al Ministero dell’interno rispetto ai temi propri della giustizia. La stessa vicenda della cooperazione di polizia, che poi si è istituzionalizzata nel quadro dell’Ufficio europeo di Polizia Europol, è emblematica di questa discrasia e di questo gap tra cooperazione di polizia e cooperazione giudiziaria, che non è funzionale ad un efficace contrasto alla criminalità organizzata. Eppure, ad esempio in Europol, si sono individuate proprio le fattispecie criminali su cui si doveva andare ad incidere: la droga, la tratta degli esseri umani, il riciclaggio del denaro sporco, il commercio dei rifiuti, ma anche dei residui nucleari e l’ipotesi, infine, di allargare la competenza a fenomeni come il terrorismo. Insomma, davvero passi in avanti, senza ovviamente enfatizzare niente, perché, quando poi ci siamo ritrovati qualche mese fa in questa stessa sala a discutere dell’esperienza di Europol, ne abbiamo colto tutti i limiti. Abbiamo riassunto, come Comitato parlamentare, nell’espressione "asfissia informativa" il deficit, la difficoltà di Europol ad operare e abbiamo cercato anche di capirne i motivi. Può sembrare strano ma li abbiamo addirittura individuati in forme di psicologia dell’inquirente, in forme di vera e propria gelosia degli inquirenti che fanno fatica a cedere, anche parzialmente, le loro informazioni a questa struttura che potrebbe, in un lavoro di intelligence, riuscire ad rielaborarle.
        Però un risultato siamo riusciti ad ottenerlo. Eravamo partiti da un’immagine, dall’idea che aveva Helmut Kohl di questo organismo che la immaginava come una sorta di FBI europea, abbiamo capito che non potrà essere quello, almeno non nei tempi che ci stanno davanti, perché presupporrebbe poteri operativi che ad Europol in questo momento e per lungo tempo ancora non potranno essere affidati. Si è cominciato però ad immaginarla come una potenziale CIA europea, intesa, appunto, come lavoro di intelligence, fatto però su dati che se non arrivano, chiaramente, rimangono fini a se stessi.
        Ma soprattutto questo nostro lavoro di approfondimento delle tematiche legate ad Europol ha messo in evidenza che uno strumento come questo, per affermarsi, necessita di un adeguato pendant giudiziario, altrimenti ci si trova di fronte ad una battuta di arresto. E allora anche da questo punto di vista dobbiamo averne la piena consapevolezza; si tratta di superare ritardi di ordine culturale, prima ancora che politico-istituzionale, perché l’armonizzazione delle legislazioni penali in Europa è cosa quanto mai difficile se si parte dal diritto romano e si arriva al common law inglese.
        Comunque, con il Trattato di Amsterdam si è segnato un traguardo importante e un mutamento fondamentale di prospettiva in quanto, con una lettura più moderna del principio di legalità, si è coniugata l’interrelazione tra cooperazione di polizia e cooperazione giudiziaria. Quindi i due piani della cooperazione risultano oggi inestricabilmente correlati, atteso che, in uno Stato di diritto, l’autorità di polizia non può che riferirsi sempre all’autorità giudiziaria.
        Ad Amsterdam, dicevo, quell’intuizione giscardiana ha preso corpo. Vent’anni dopo lo spazio giuridico europeo è divenuto, o sarebbe meglio dire sta divenendo, lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Ma attenzione: perché tale possa essere, i tre elementi vanno tenuti sempre insieme. Non può esserci libertà se non vi è sicurezza, non vi può essere sicurezza se non vi è giustizia. E quindi vanno assicurate, insieme alla libera circolazione delle persone, anche misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne. E noi, Paese di frontiera, oggi, con questo pontile che si allunga nel Mediteranneo, siamo continuamente sottoposti all’onere della prova rispetto ai partner europei, per la nostra azione di far filtro a quelle che sono le frontiere comuni europee.
        Però anche qui si tratta di intenderci e di non far confusione. Troppo spesso si fa confusione. Ad esempio, quando arriva un curdo, dico uno per dire una nave carica di curdi in Calabria, siamo in presenza di un fenomeno di immigrazione clandestina o siamo in presenza di un fenomeno di rifugiati politici, rispetto ai quali si chiama in causa il diritto d’asilo? E quando parliamo ad esempio della tratta degli esseri umani? A questo tavolo sicuramente siamo tutti in grado di cogliere le differenze e le sfumature che vi sono tra un fenomeno di immigrazione regolare, e anche quella clandestina, e il fenomeno proprio della tratta degli esseri umani, che si configura come una forma di schiavitù. Però non sempre si riesce ad avere questo.
        Insomma, alla costruzione di questo spazio giuridico europeo Amsterdam ha dato un grosso contribuito; lo ha dato anche procedendo alla cosiddetta comunitarizzazione dell’acquis di Schengen, l’antesignano intergovernativo delle future cooperazioni rafforzate comunitarie. E qui, al di là di ogni logica di parte, io vorrei che il Paese intero, le istituzioni, fossero consapevoli dei grossi contributi che abbiamo dato in questi anni, dei grossi passi in avanti che abbiamo fatto come Paese verso un processo di integrazione europea. Maastricht e Schengen hanno rappresentato insieme le tappe di questo processo di integrazione, al fine di definire un’Unione Europea che non fosse soltanto l’unione delle monete e delle banche, ma anche un’Europa, che, attraverso Schengen, non fosse soltanto una fortezza assediata, ma uno spazio di libera circolazione.
        Questo, a mio avviso, era il quadro di riferimento in cui spendere qualche parola. Chiudo sul ruolo dei Parlamenti nazionali e sul contributo che essi possono e devono dare anche alla costruzione dello spazio giuridico europeo.
        Dicevo, devo fare un riferimento all’esperienza di questo Comitato Schengen-Europol di questi anni, che ha avuto una opportunità unica nel quadro istituzionale italiano: la possibilità di esprimere un parere vincolante al Governo, in virtù della legge di ratifica degli accordi di Schengen, su tutti i progetti di decisione relativi alla cooperazione, che in ambito Schengen era appunto una cooperazione di polizia e giudiziaria. Un parere che voleva essere in qualche modo di supporto allo sforzo di supplire al deficit democratico che è proprio della cooperazione intergovernativa. Se è vero che esistono resistenze e difficoltà a cessioni di sovranità da parte degli Stati membri, soprattutto nelle materie che toccano aspetti di giurisdizione interna, l’esperienza del nostro lavoro ha dimostrato l’importanza del ruolo dei Parlamenti nazionali che, intervenendo nella fase ascendente del processo decisionale dell’Unione Europea hanno contribuito, contribuiscono e contribuiranno sempre di più ad alimentare il dibattito politico anche con il coinvolgimento della società civile. Certo, ad andare su questa strada poi si rischia di rompere qualche equilibrio, si rischia di rompere una prassi consolidata e in qualche modo di arrivare a dare fastidio. Ne abbiamo avuto una riprova: non è sempre stato agevole questo nostro rapporto e questo nostro ruolo nei confronti del Governo che non sempre ha sopportato l’incisività, e la pervasività di un parere vincolante.
        Infatti, il superamento dei limiti posti dalla sovranità nazionale non è soltanto un fatto ordinamentale, ma esige anche un’apertura culturale e una accettazione del processo di unificazione europeo.
In questa strada deve collocarsi la possibilità dei Parlamenti nazionali di intervenire nella fase ascendente dell’assunzione delle decisioni, in quella che noi abbiamo chiamato la diffusione della partecipazione, appunto il ruolo dei Parlamenti nazionali in questa direzione.
        Con il Trattato di Amsterdam è stato del resto innescato anche un processo di approfondimento della collaborazione fra gli Stati membri attraverso le istituzioni comunitarie e nel quadro dell’organo d’impulso dell’Unione, cioè il Consiglio europeo. I temi dello spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia dell’Unione sono entrati, con forza, fra le azioni prioritarie delle istituzioni, proprio in quanto strettamente correlate alla piena realizzazione del mercato interno insieme all’ottica di rendere effettiva la cittadinanza dell’Unione.
        Chiudo saltando ogni ulteriore riferimento a Tampere, ad Europol, ad Eurojust, perché sono assolutamente concorde con i riferimenti che prima di me sono stati fatti. Voglio soltanto fare un riferimento al lavoro che abbiamo in corso.
        Stiamo sviluppando un’indagine conoscitiva sulla tratta degli esseri umani, nel quadro appunto della cooperazione Schengen ed Europol. È una tematica di scottante attualità quella riferita appunto a una moderna forma di schiavitù, nel contrasto della quale gli Stati europei e la stessa comunità internazionale stanno cercando di apprestare misure per una efficace repressione del fenomeno. Al riguardo occorrono senz’altro misure giuste. E allora mi sia consentito di dire che, con tutto il rispetto per il lavoro svolto, per il progetto di Convenzione che sarà sottoposta alla firma a Palermo e che comprende anche uno specifico Protocollo su questo tema, la convinzione è che non si possa attendere il tempo delle ratifiche di questa Convenzione. È invece indispensabile che almeno gli Stati membri dell’Unione, anche sulla scia dell’articolo 5 della Carta dei diritti fondamentali che andremo a proclamare nel prossimo Vertice di Nizza, si dotino, sul piano interno, di norme analoghe a quelle presenti nell’ordinamento italiano, affinché si possa facilitare sul piano internazionale la cooperazione giudiziaria.
        Lo dico anche se poi mi rendo conto che le norme di per sé non sono sufficienti. Recentemente, la scorsa settimana, in occasione del Convegno organizzato dal Ministero dell’interno proprio sul tema della tratta degli esseri umani, mi è capitato di riferire un episodio raccolto in questi mesi. A volte le nostre norme così avanzate poi finiscono con il cozzare con altre norme altrettanto avanzate che noi abbiamo proposto. Il riferimento qual è? Ad un fenomeno che esiste a fianco della tratta e qualche volta vi si interseca. Parlo della pedopornografia, di cui si è molto discusso proprio in questi giorni. Abbiamo norme avanzatissime, riusciamo attraverso quelle norme a fare azioni brillanti di indagine, a individuare coloro che si connettono ai siti Internet dedicati, possiamo appunto, attraverso le loro carte di credito, arrivare ai protagonisti, a coloro che si mettono davanti al video. Poi, però, ci scontriamo con il segreto bancario, con le norme relative alla tutela della privacy e non riusciamo a risalire a chi produce quel materiale. Insomma, e chiudo, quello che intendevo dire è che all’alba del terzo millennio punire in modo omogeneo il delitto di traffico di persone sarebbe la migliore risposta al crimine organizzato e allo stesso tempo concretizzerebbe quell’idea giscardiana di uno spazio giuridico europeo.

 

Anna Finocchiaro Fidelbo
Presidente della Commissione Giustizia della Camera dei deputati

        Prendo spunto dalle notazioni fatte dal Procuratore Vigna per riconnettermi a un’esperienza istituzionale che sta maturando proprio in questi giorni e che lui stesso ricordava: l’elaborazione di una disciplina penale sostanziale in materia di traffico degli esseri umani. Il Procuratore Vigna, e poi anche il Presidente Evangelisti, sottolineavano, acutamente, la necessità, non più rinviabile, di norme incriminatrici che, avendo ad oggetto un bene la cui tutela è riconosciuta dai Paesi contraenti, consenta da un lato l’effettivo perseguimento di quel reato e dall’altro consenta di radicare i giudizi penali in tutti gli Stati che appunto quel reato assumono essere reato grave e che la materialità del suo svolgersi consacra, diciamo così, come delitto della criminalità organizzata che agisce in via transnazionale.
        Il lavoro parlamentare fin qui compiuto, che ha già consentito la redazione di un testo unificato, è stato mosso da due esigenze fondamentali: da un lato colmare la lacuna dell’ordinamento italiano, che costringe ad applicare norme risalenti al 1930 a una realtà modernissima, seppure primitiva e tragicamente primitiva, come il traffico dei corpi di giovani donne e di giovani uomini; dall’altro, la necessità di costruire una norma che tenesse conto, e fortemente, di quella elaborazione internazionale che si è svolta in molte sedi, non solo europee, e ha condotto all’individuazione del traffico di esseri umani come uno dei reati che possono essere contrastati solo attraverso una efficace cooperazione tra gli Stati.
        Una delle difficoltà di una operazione di questo genere, che peraltro riscontrammo anche all’Aja al momento della firma della Convenzione europea contro la tratta, è data dal fatto che il traffico di esseri umani è finalizzato soprattutto, anche se non esclusivamente, allo sfruttamento della prostituzione, e cioè ad un ambito che è disciplinato in maniera diversa nelle differenti legislazioni nazionali. C’è stata quindi la necessità di trovare una formula che potesse lasciare intatta la sovranità di ciascuno Stato rispetto al trattamento da riservare al fenomeno della prostituzione e nello stesso tempo consentisse di cogliere la specificità di un reato che tutti i Paesi contraenti riconoscevano essere un reato gravissimo verso il quale sviluppare una piena cooperazione.
        Il lavoro che la Commissione Giustizia della Camera sta facendo è però — lo voglio sottolineare — un lavoro in qualche misura occasionale e per molti versi anche un lavoro sperimentale. Mi spiego. La soluzione delle molte questioni che un tema così delicato solleva è affidato, da un lato, alle singole sensibilità personali, in molti casi fortunatamente assai sviluppate, dei componenti della Commissione e dall’altro al fatto che, casualmente, la relatrice del provvedimento è stata Ministro delle pari opportunità, e in questa veste ha seguito nelle sedi internazionali ogni passo che si riferisse a questo tema, e quindi ha già una certa dimestichezza con le questioni che il dibattito internazionale ci pone di fronte nelle varie sedi e nelle varie occasioni.
        Dico questo, evidentemente, non per attribuirmi meriti, ma per sottolineare l’esigenza che i Parlamenti nazionali si approprino di un ruolo che la Convenzione attribuisce loro, anche in maniera assolutamente esplicita. In questa partita i Parlamenti nazionali potranno giocare un ruolo strategico nella misura in cui saranno capaci di collaborare fra di loro, sia nell’elaborazione delle norme sostanziali, sia nella predisposizione di strumenti che consentano una efficace cooperazione investigativa, sotto il profilo delle forze di polizia, come sotto il profilo degli organi inquirenti e giurisdizionali. In questo senso io credo che dobbiamo fare un sforzo per uscire da una serie di cautele che, per vari motivi, accompagnano tradizionalmente il lavoro legislativo. Credo insomma che sia venuto davvero il tempo che i parlamenti nazionali, ogni qualvolta si trovino a dover ottemperare ad obblighi di natura internazionale intervenendo in materia penale con la costruzione di nuove fattispecie, sviluppino al massimo forme di cooperazione, affinino tecniche legislative che siano tali da consentire non soltanto che le singole norme dei vari Paesi contemplino e tutelino lo stesso bene giuridico, ma che consentano anche una riconoscibilità, un’affinità, una piena coerenza delle varie norme incriminatrici nazionali. So che non è uno sforzo facile, non soltanto per ragioni che possono anche essere occasionali, come nel caso del traffico di persone, in cui le norme internazionali devono poi coesistere con norme nazionali, ma anche perché, per farlo, è necessario un cambiamento prima di tutto culturale, nella cultura della legislazione ma anche nella cultura dell’esercizio delle funzioni parlamentari. È una strada difficile, certo, ma credo anche che sia l’unica possibile.
        Arrivo alle questioni sollevate dal Procuratore Vigna, alla costruzione del delitto come delitto associativo e alla sua speranza che per questo delitto sia riconosciuta la competenza delle procure distrettuali antimafia. Su questo secondo punto vorrei dire subito che le sue osservazioni sono già state oggetto di dibattito all’interno della Commissione e che la Commissione è fortemente orientata nel senso di riconoscere questa competenza, per le ragioni, validissime, di cui il Procuratore Vigna si è fatto qui interprete. Resta però da dire, e credo che questa sia una valutazione che comunque debba accompagnare quella scelta, che il sapere investigativo di cui possiamo disporre, su questi temi, è un sapere maturato negli uffici giudiziari che si occupano degli affari correnti, quindi non presso le procure distrettuali antimafia. Questo da una parte è fortemente significativo perché testimonia della sensibilità e anche della grande capacità di utilizzare uno strumento legislativo in questo momento abbastanza obsoleto e inefficace, ma dall’altra parte testimonia anche di un patrimonio di esperienza di cui il nostro Paese in questo senso dispone. Io credo che sarebbe sbagliato non riconoscere questo lavoro e disperdere questo patrimonio. Si tratta quindi di trovare gli strumenti, normativi e organizzativi, per evitare che ciò accada.
        Sulla scelta del reato associativo mi trovo a dover dire che risulta in qualche modo una scelta obbligata, nel nostro sistema, e lo dico con una punta di amarezza, giacché la configurazione del reato associativo è diventata nel nostro sistema in qualche misura uno strumento per gerarchizzare i beni protetti dalla norma penale. Nel momento in cui noi esaminammo per la prima volta il disegno di legge del Governo non era prevista alcun norma relativa ad un delitto associativo, e non lo era per una scelta precisa che era stata fatta nella redazione del testo. La prima discussione del testo fu contemporanea alla discussione di altri progetti, come quello sul contrabbando, e ad alcuni componenti della Commissione venne spontaneo sollevare la questione. Se il traffico di esseri umani è un reato assai più grave di quello che viene commesso con il contrabbando dei tabacchi lavorati esteri — si diceva —, allora è giusto fare ricorso alla fattispecie associativa, come se il ricorso alla fattispecie associativa non valesse più a descrivere una fenomenologia, ma valesse al contrario a gerarchizzare i valori oggetto di tutela da parte del sistema penale. Capisco che è un problema tutto interno al sistema penale italiano e, se volete, ad una sua certa "ipertrofia simbolica", ma è una questione sulla quale, io credo, anche nel confronto con la legislazione degli altri Paesi europei, dobbiamo fare i conti. È questione che credo occorrerà affrontare, cogliendo l’occasione, proprio su un tema delicato come questo, per dare un piccolo contributo alla laicizzazione del nostro sistema penale, sottraendolo alla tentazione di usare il diritto penale in chiave simbolica e invece più fortemente ancorandolo alla qualità dei beni che devono essere tutelati.

 

Enrico Ferri
Vicepresidente della Commissione Giustizia e affari interni del Parlamento europeo

        Desidero ringraziare il Presidente Lumia per l’invito e anche per l’iniziativa che è molto interessante e realizza concretamente quel circuito (strategico, ma anche operativo) a livello nazionale ed europeo che tutti auspichiamo spesso soltanto a parole.
        A questo proposito, l’abbiamo già sentito anche oggi, il nodo fondamentale è dare un contenuto credibile e logico alla sovranità dell’Europa comunitaria in relazione alle sovranità nazionali, per le quali, in particolare, si configura una sorta di vizio di origine (di cui nessuno ha colpa, ovviamente), riconducibile al fatto che le sovranità nazionali, a carattere originario (nate dalle guerre di liberazione, dal costume, ecc.), si collocano su un piano nettamente distinto e oserei dire, impari e, quindi, sotto diversi aspetti, superiore rispetto alla sovranità a carattere derivato (da trattato) di cui sono espressione le istituzioni comunitarie. È necessario, quindi, trovare la strada per un coordinamento che valorizzi le sovranità nazionali, anche se più limitate rispetto a ieri, e la stessa sovranità comunitaria che deve acquisire una sua forza autonoma per poter procedere su un terreno non facile. È l’esigenza avvertita, innanzitutto, da noi europeisti convinti; tuttavia anche gli euroscettici non possono più pensare di tirarsi indietro rispetto ai temi della criminalità organizzata globalizzata. Nell’ambito, quindi, di un raccordo più stretto fra i diversi Parlamenti nazionali, e, a loro volta, con il Parlamento europeo, iniziative come questa, proprio su un tema così delicato, fanno crescere quella sensibilità e quella coscienza che servono ad aprire una strada concreta: perché di strategie in materia di criminalità organizzata ce ne sono tante, diciamo la verità; c’è anche uno slogan comunitario "un reato a semestre", un programma di impegno che dovrebbe concentrare tutte le forze di polizia e le forze giudiziarie con l’obiettivo di arrivare a individuare i reati che determinano il maggior allarme sociale nell’ambito del territorio dell’Unione. Ciò che oggi è più preoccupante, e che ci fa più paura e che in effetti rischia di minare la credibilità e la struttura stessa dell’Unione Europea, sono senz’altro certi tipi di reato come il traffico di droga, la tratta di esseri umani, la pedofilia e il traffico di organi —reati questi sui quali c’è più tensione morale —, e anche altri come il riciclaggio e le frodi fiscali che minano alla base il bilancio comunitario. Segnalo, su tali temi, una iniziativa piuttosto interessante della Francia in vista dell’adozione della decisione-quadro del Consiglio che concerne appunto il riciclaggio di denaro, nonché il "congelamento", il sequestro e la confisca degli strumenti e dei proventi di reato, e una proposta di Convenzione in discussione presso la Commissione Giustizia del Parlamento europeo.
        D’altra parte, proprio sul tema principale dal quale siamo partiti e, precisamente, quello del contemperamento delle sovranità (che è poi il nocciolo duro della questione politica), non è da sottovalutare la considerazione che vede la criminalità organizzata minare proprio la sovranità nazionale che è quasi sempre, se sola, impotente ad affrontarla e a combatterla.
        Vorrei ora aprire una parentesi. Molte convenzioni, anche in materia di criminalità organizzata su cui si levano tanti consensi (lo dico perché è una realtà obiettiva), purtroppo non risultano poi sottoscritte dagli Stati membri. Credo sia giunto il momento di fare veramente un indice delle inadempienze; devo ricordare, a tal proposito, la creazione di un gruppo pluridisciplinare, nel quale svolgo la funzione di relatore, che sta facendo il check-up agli Stati membri in tema proprio di inadempienze agli impegni assunti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di cooperazione giudiziaria. Sino ad oggi non sono previste sanzioni reali e anche questo è un deficit democratico perché in realtà tutti i buoni propositi vanno a scontrarsi con questo tipo di buchi neri
del sistema. Pertanto, ho proposto per lo meno sanzioni indirette, che siano, però, particolarmente "avvertite" dagli Stati, quali, ad esempio, quelle che impediscano loro di partecipare e di usufruire delle provvidenze comunitarie. I primi Paesi esaminati sono stati la Grecia, il Lussemburgo, la Danimarca e, mi sembra, i Paesi Bassi e l’Irlanda. È pronto anche un rapporto sull’Italia che non ne esce molto bene. Da un esame analitico sono emersi alcuni nodi problematici che mi appresto ad enunciare:

    a) innanzitutto un primo problema, non tanto per l’Italia, ma per esempio nei vari Paesi dell’Unione Europea, è che c’è sempre una valutazione eccessiva dell’esecutivo sulle richieste, sulle rogatorie, e che introduce un elemento di mediazione politica e quindi di incertezza e di rallentamento che non risponde alla logica della funzionalità dell’indagine; il rimedio risiede, in questo caso, in quell’azione diretta di cui parlavano anche Vigna e Finocchiaro;
    b) altro dato che è stato rilevato, in tema di perquisizioni disposte dal PM, è la necessità di una preventiva autorizzazione del tribunale: soltanto in pochissimi casi alcuni Paesi consentono che la perquisizione venga operata d’urgenza, mentre per la maggioranza vi è il filtro del tribunale, che non è un filtro politico, ma è pur sempre un ostacolo sulla strada della semplificazione e della concretezza. Abbiamo quindi già visto un elenco piuttosto lungo di diaframmi che impediscono di arrivare al dunque e fra i quali inserirei la mancata sottoscrizione della Convenzione che rende il ritiro della patente di guida (spesso sanzione accessoria fra i reati gravi) efficace nei vari Paesi. Può sembrare una sciocchezza il ritiro della patente di guida, ma dietro a questa sanzione a volte si nascondono una catena di fatti e persone che possono condurre lontano. Si tratta, senz’altro, di piccoli passi rispetto al problema della grande criminalità organizzata: sappiamo, tuttavia, che bisogna avere sempre una visione di insieme dei fenomeni, anche di quelli apparentemente lontani dalla materia in discussione. La criminalità organizzata oggi è molto più sofisticata, si serve delle tecnologie più avanzate, dell’informatica ecc. Sempre su questa china, in tema, ad esempio, di criminalità finanziaria organizzata ci sono altre discrasie, lacci e lacciuoli: per esempio l’OLAF, che è una sorta di polizia tributaria, è sempre costretta ad aspettare l’imbeccata dello Stato membro, che poi spesso segnala l’irregolarità senza prendersi la responsabilità di definire la frode come vera e propria irregolarità. Anche una volta che l’OLAF si è messa in azione interviene sempre la valutazione del giudice dello Stato membro, che deve definire i termini giuridici della questione. Ci troviamo di fronte, insomma, a una giustizia, a un’azione istituzionale monca e inceppata che a volte scoraggia ad affrontare i grandi temi della cooperazione giudiziaria. Questo tema si pone, di sicuro, tra i primi all’ordine del giorno dell’agenda parlamentare europea e su questa strada un passo importante è la previsione del riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie. Questo è un punto molto significativo e naturalmente non è privo di problematiche: già si discute molto, ad esempio, sulle decisioni da considerare come definitive, se quelle passate in giudicato ovvero quelle semplicemente efficaci, in quanto non soggette a sospensione per la proposizione delle impugnazioni.
        Altro problema che andrebbe affrontato, anche da parte degli Stati membri, è quello della doppia incriminabilità e doppia punibilità nell’ambito del diritto penale sostanziale di ciascun Paese, che consenta perseguibilità e punibilità dei fatti svoltisi in diversi territori dell’Unione e, quindi, sotto differenti legislazioni. Anche questo naturalmente è un problema, perché poi si tratterà anche di vedere se la fattispecie oggetto del reato possa rientrare in una ipotesi normativa comune, consentendo indubbiamente di raggiungere l’obiettivo di sveltire moltissimo la burocrazia giudiziaria, pur nel rispetto dei diritti fondamentali della persona (diritto di difesa, ne bis in idem, ecc). Ad esempio, il Lussemburgo si rifiuta di collaborare in ordine a reati che per la sua legislazione sono prescritti mentre per altri Paesi no. Tutte le nostre affermazioni del tipo "potenziare Europol" (lo dice anche il Consiglio, lo dice la Commissione, lo dice il Parlamento), devono comunque tener presente che c’è anche chi fa allarmismo, affermando che così si va ad armare l’Europa ed evoca scenari che non sono nell’intenzione di nessuno. È chiaro, peraltro, che questo aspetto è estremamente delicato e non va sottovalutato. Mentre vedo anche molto concreta e importante, ed è stata già accennata, l’ipotesi del procuratore europeo. Ci sono già, in merito, alcune ipotesi operative anche in ordine all’affiancamento di gruppi operativi nazionali. Questo aspetto potrebbe essere assai interessante, sia pur anche qui con molte problematiche da affrontare, anche in sede nazionale, perché poi ovviamente l’esercizio dell’azione penale del procuratore si riflette nei vari Stati membri. Pertanto, il coordinamento con le autorità giudiziarie dei singoli Stati certamente sarà essenziale, ma presupporrà che questi nodi di fondo siano stati indubbiamente risolti.
        Un altro spunto, mi permetto di sottolineare, sempre in tema di funzionalità di questi grandi principi che andiamo affermando, è l’esigenza di avere anche un centro elettronico di dati che sia completo delle decisioni penali almeno di quelle definitive nel contesto comunitario. Sappiamo benissimo che oggi non abbiamo a disposizione un grande registro elettronico internazionale o comunitario in cui ci siano le sentenze che sarebbero essenziali per valutare con immediatezza aspetti importanti quali quello, ad esempio, della recidiva. Basterebbe rendere operativi gli uffici giudiziari attraverso l’obbligo dell’invio per ogni decisione definitiva, della famosa "scheda" che noi a livello nazionale già conosciamo tramite il prestigioso e funzionale CED presso la Corte di cassazione. L’Italia in questo campo è all’avanguardia e quindi potrebbe farsi promotrice di un registro elettronico per lo meno europeo. Dal punto di vista procedurale mi sembra che ci siano alcuni aspetti che dovremmo necessariamente affrontare insieme in un’ottica comunitaria. Se li affronterà il nostro Stato, naturalmente in collaborazione con gli altri Stati, potrebbe essere molto importante non solo come credibilità, ma anche come impegno civile. La lotta alla criminalità organizzata si fa, infatti, anche attraverso un’azione comunitaria di partenariato e di azione collegata con la società civile. È chiaro che l’Europa non può da una parte combattere la criminalità organizzata e dall’altra ignorare una graduatoria di corresponsione di fondi e di finanziamento di progetti che è nel mirino della malavita. Sappiamo che la criminalità organizzata ha radici più forti laddove c’è denaro e nello stesso tempo vi sono trascuratezze, cecità in tema proprio di azione civile. Il grande esborso di denaro che l’Europa oggi compie e che è rimasto per noi e per molti Stati membri forse l’unica fonte reale di finanziamento comporta un’attenzione particolare. Occorre, dunque, un’azione che tenga conto della società civile e della distribuzione del denaro soprattutto in alcuni settori che sono estremamente delicati. Sappiamo benissimo che oggi le nuove normative sugli appalti passano attraverso, almeno per le grandi opere pubbliche, l’Unione Europea. Sarebbe, quindi, importante porre termine alla disattenzione che spesso c’è stata da parte degli Stati membri e anche da parte del nostro Stato nel seguire la formazione di queste nuove regole. La criminalità è organizzata anche nel far introdurre maliziosamente delle regole apparentemente innocue, ma utilizzabili per altri fini. Ricordo, quando ero al Ministero dei lavori pubblici, di essermi interessato alle prime direttive comunitarie sugli appalti, rendendomi conto che, fino a quel momento, nessuno da parte dello Stato seguiva questo settore, affidato ad un solo, e per fortuna bravo, funzionario che si lamentava di non avere in materia alcuna indicazione. Un altro grido di allarme (e poi chiudo, ce ne sarebbero tanti per la verità) che penso risponda ad una strategia generale è quello dell’evasione dell’IVA. C’è proprio un settore della criminalità organizzata che ha puntato sull’evasione IVA. A questo riguardo sappiamo benissimo che si sta cercando di perequare il sistema fiscale per evitare che poi l’Euro e il mercato unico finiscano, non dico per fallire, ma per trovare degli ostacoli attraverso una sperequazione fiscale che possa rimettere in concorrenza valori e prodotti che, anziché puntare sulla qualità, puntino sul prezzo. Questo la criminalità organizzata evidentemente l’ha colto come un obiettivo. Tuttavia, anche il Comitato economico sociale ha chiesto che ci sia un osservatorio sull’evasione IVA che sta assumendo proporzioni enormi e che sta provocando un deficit fortissimo. Difatti, tale fenomeno ha una influenza negativa sull’ammontare delle imposte dirette riscosse nei singoli Stati e quindi a cascata sui bilanci degli Stati membri e sul bilancio comunitario. Tutto ciò provoca una forte pressione che credo debba far nascere negli Stati membri la proposta e la volontà per un’azione che possa accelerare i tempi per costruire veramente questa "casa comune". Su tali aspetti il Parlamento europeo è pronto per l’elaborazione di un progetto comune. Credo che alcune scadenze, che troverete nelle due iniziative della Repubblica francese e che verranno discusse al più presto, siano un po’ strette, nel senso che si pensava che alla fine del dicembre 2001 si potessero mettere in moto alcuni meccanismi; probabilmente molti di noi proporranno di arrivare almeno al marzo 2002, o alla fine del 2002. Possono sembrare tempi troppo lunghi, però in realtà dobbiamo anche tener conto che su questioni così rilevanti ci vogliono anche momenti di riflessione, pur senza operare rinvii eccessivi. Un’altra osservazione che mi permetterei di fare per pervenire al ravvicinamento delle norme all’interno di ogni Stato, che poi è l’unica strada che oggi possiamo percorrere per evitare che si creino delle sacche di impunità, è quella di prevedere un riscontro comparato tra reati e pene (minime e massime) per fattispecie simili. Si può così preparare una strada comune per fronteggiare davvero la criminalità organizzata che certamente ostacola non solo lo sviluppo nazionale ma anche quello europeo.

 

François Colcombet
Componente dell’Assemblea Nazionale della Repubblica Francese

        Presidente, la ringrazio di avermi concesso la parola e di averci invitati a questa riunione molto utile. I parlamentari, lei lo sa, nel quotidiano sono occupati da mille piccole preoccupazioni e talvolta dimenticano di avere una visione europea. Ciò nonostante, facendo il consuntivo di quello che l’Europa ha dato in un ventennio, constatiamo che l’Europa ci ha protetto da uno dei peggiori flagelli, peggiore di qualsiasi criminalità, ci ha protetto dalla guerra e questo va sempre ricordato. È un grande successo e siccome vogliamo vivere in pace in un mondo che si sviluppi armoniosamente e in cui le libertà siano rispettate, siamo pronti a continuare assieme a riavvicinarci, ad abbandonare una parte delle nostre prerogative nazionali. Poc’anzi qualcuno ha richiamato la proposta di Giscard d’Estaing sullo spazio giudiziario, qualcosa ormai non più tanto recente. Anche all’epoca, però, c’erano degli euroscettici. Le proposte non passarono tanto facilmente, almeno in Francia, per un semplice motivo che oggi si può citare. Quelle proposte venivano presentate in un momento in cui vi erano problemi di terrorismo su scala europea: la RAF in Germania, da voi le Brigate rosse, altri problemi in Francia.I singoli Paesi volevano evitare di importare, attraverso una cooperazione giudiziaria, i problemi altrui. Non è tanto audace, però era una concezione della difesa di ciascun Paese. I tempi sono cambiati e constato due cose. Intanto che la Francia ha chiesto il ritiro del terrorismo dalla Convenzione ONU e ci rallegriamo che il crimine organizzato non sia assimilato al terrorismo. Che le cose siano dette con chiarezza perché con Paesi come la Giamaica, la Birmania, l’Iraq, l’Iran è difficile parlare di cose del genere. Invece possiamo adesso parlare di cooperazione in materia di terrorismo tra europei, proprio perché da vent’anni le cose sono cambiate e noi abbiamo imparato ad avvicinarci e a lavorare assieme.
        Sono state avanzate varie proposte sulle quali siamo perfettamente d’accordo. Il riavvicinamento tra le legislazioni: ci dobbiamo lavorare fortemente. Tutti i Paesi hanno cercato di avere legislazioni sul riciclaggio del denaro derivante dalla droga oppure nel campo della corruzione; c’è già una certa competenza legislativa e giuridica che è stata acquisita e che può servire da base e credo che adesso sia venuta l’ora di accomunare quel che sappiamo fare per giovarci dell’esperienza degli uni e degli altri. È bene cercare di essere ancora più concreti e tra le proposte qui avanzate, sulle quali convengo, ce ne sono due che vorrei sottolineare. C’è probabilmente l’esigenza di riavvicinare la formazione dei vari soggetti impegnati in tali ambiti; occorre che la formazione dei magistrati, su scala europea, sia un qualcosa di noto a tutti o addirittura di comune. Occorre anche avvicinare la formazione del personale della Polizia se non a livello di formazione iniziale almeno a livello di formazione permanente. Lì sarebbe bello avere, per ogni magistrato europeo, almeno uno stage di formazione ai problemi penali internazionali e lo stesso a livello di forze di polizia.
        Chiudo sulle considerazioni francesi. Ora parlo un po’ più da parlamentare della maggioranza all’Assemblea nazionale in un periodo di coabitazione in Francia. Sapete che abbiamo un sistema un po’ speciale ed il Parlamento in questo quadro è la cassa di risonanza delle angosce collettive, dei problemi che sorgono e anche su questo vorrei dire che noi dobbiamo svolgere un ruolo di avvicinamento dell’Europa rispetto al cittadino. C’è un’inquietudine infatti che torna continuamente a galla: possiamo sopportare riduzioni di libertà in nome di una maggiore efficacia nell’azione di contrasto al crimine associativo internazionale? È difficile far ammettere ai francesi o anche, penso, agli italiani, o ai tedeschi, o agli spagnoli, restrizioni delle libertà individuali in nome di questo aumento della criminalità. Per essere chiari, non si tratta di chiedere a chiunque prenda l’aereo per andare in Sud America, o che ne torni, di andare in dogana per farsi passare alle radiografie lo stomaco per vedere se ha degli ovuli dentro, oppure agire allo stesso modo nei confronti delle frodi sull’IVA, poiché non vogliamo fare dell’Europa uno spazio repressivo, vogliamo farne uno spazio di libertà e dobbiamo trovare dei modi che rispettino appunto le libertà.
        Vorrei ora trattare un altro aspetto più proprio al Parlamento francese: lo sviluppo attuale delle commissioni d’inchiesta, che hanno rivelato alcune delle grandi inquietudini del nostro Paese. Ci sono commissioni che lavorano su temi vicini a quelli nostri odierni, la Commissione sulle sette (il fenomeno delle sette a livello europeo va studiato con la massima attenzione); so che su questo ci sono varie impostazioni da un Paese all’altro, ma non ci possiamo esimere da una riflessione comune. La Francia recentemente ha poi creato una Commissione d’inchiesta sui paradisi fiscali che non sono tutti in capo al mondo, non sono soltanto in isole remote, sono anche in isolette all’interno della grande Europa. La Francia ora ha un grosso conflitto con Monaco, ce l’ha avuto con il Liechtenstein ma ne avrà altri con i suoi vicini europei, perché il problema dei paradisi fiscali va anch’esso affrontato di concerto e in modo coraggioso. Si parlava poi di tratta degli esseri umani. Anche questo problema va affrontato con franchezza senza trascurare due dimensioni. Intanto la tratta degli esseri umani a fini sessuali, di cui si è detto prima e sulla quale siamo perfettamente d’accordo.Ma vi è anche la tratta degli schiavi, il fatto cioè che delle persone siano usate in condizioni indegne del rispetto della persona. Questo fenomeno sta prendendo piede in Europa. È uno degli aspetti più tristi dell’immigrazione. E poi c’è ancora un altro ambito di attività criminale, a cui si interessano le mafie dell’Europa centrale: il traffico di organi umani, che comincia a svilupparsi ora. Essa si sta affermando rapidamente in Paesi dove si trova un rene da trapiantare nell’arco di una mezza giornata. È chiaro che su temi come questi l’Europa deve rapidamente varare una legislazione, così da non trovarsi poi davanti a problemi incontrollabili. Il problema della droga rimane anch’esso centrale, molto vicino al problema del traffico degli esseri umani.
        Ma vorrei richiamare un aspetto che potrà sembrare meno importante, ma che sul piano morale lo è altrettanto e rischia di svilupparsi in modo incontrollabile: lo sviluppo del doping nei nostri Paesi. Come mai il doping è un tema importante? Intanto, bisogna dirlo, le mafie vi si interessano, si interessano a questi traffici tra gli sportivi e si interessano al traffico dei prodotti dopanti; poi, e questo è il secondo punto che vorrei trattare e che mi sembra ancor più importante, mi sembra impossibile cercare di prevenire la droga a livello di gioventù, se lo sport appare come il luogo dove si ha diritto di impasticcarsi, doparsi e così via. E qui l’Europa, presto, dovrà giungere a posizioni comuni e coraggiose e occorrerà anche una repressione penale forte.
        Un altro grande tema che irrompe a livello di opinione pubblica francese, ma che è già oggeto di dibattito nel Regno Unito, è quello della sicurezza alimentare che ha a che fare anche con traffici internazionali di carne adulterata, ormoni tra Belgio e Francia, carne tra Irlanda e Francia. Anche su questo tema l’Europa ha interesse a dotarsi presto di mezzi per essere credibile. La Francia ha proposto di creare un’agenzia della sicurezza alimentare, ma è chiaro che questa agenzia, che avrebbe come scopo di constatare le infrazioni, o di prevenirle, dovrà essere spalleggiata da un’azione penale che si faccia rispettare. La Francia vuole essere un Paese attivo per la ratifica della Convenzione ONU. Pensiamo che il fatto che i Paesi europei si uniscano per avere di questa Convenzione una visione comune sia un fatto estremamente positivo. Io mi occupo di problemi di droga da una ventina d’anni e constato i progressi registrati in Europa proprio perché l’Europa è riuscita ad essere originale. Chiudo su un’osservazione molto semplice. Prima qualcuno si chiedeva se si dovesse avere una FBI europea o una CIA europea. Io mi limito a dire questo: quando si vede il successo della FBI o della CIA in materia di repressione delle droghe possiamo essere certi di una cosa: noi dobbiamo inventare necessariamente qualcosa di diverso.

 

Paul Masson
Componente del Senato della Repubblica Francese

        Come il mio collega Colcombet mi rallegro di partecipare a questa riunione e saluto questa iniziativa particolarmente efficace e particolarmente nuova, che ci permette di apprezzare la qualità del partenariato italiano e il livello tecnico e la capacità generale di valutazione di un fenomeno internazionale particolarmente complesso, capacità di cui gli interventi che sono stati fatti sinora testimoniano. Certo la Francia, e il Parlamento francese nell’insieme, approverà con forza il progetto di Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, di cui noi pensiamo che questa disposizione internazionale di base sarà negli anni a venire il punto forte, il punto di riferimento di una procedura omogenea e di un’armonizzazione per quanto riguarda l’incriminazione di questi reati. Io non penso che in questa materia vi possano essere gli euroscettici per così dire; io penso che alcuni partecipano di una nuova cultura, che è l’apprezzamento maggiore che non in passato delle difficoltà della lotta contro la criminalità organizzata transnazionale, che dispone degli strumenti del progresso tecnico particolarmente efficaci. Noi da qualche anno viviamo questa situazione, e dunque quello che bisogna chiedersi è se combattiamo ad armi pari. Difatti, al momento attuale, bastano venti minuti perché un pagamento elettronico faccia il giro del pianeta e constatiamo anche che ci vuole un anno circa, nelle migliori condizioni di procedura e a condizione di trovare interlocutori di buona volontà, perché un giudice ottenga una documentazione relativa ad un’operazione finanziaria. Venti minuti quindi per un pagamento che fa il giro del pianeta attraverso le frontiere e un anno per un documento.
        Ora io deploro e chiunque può farlo, ovviamente, che la sola iniziativa che si è riusciti ad organizzare con la cooperazione tra le polizie a livello europeo, e che ha permesso la libera circolazione di tutti i cittadini europei, sia la Convenzione di Schengen. Questa iniziativa ha impiegato circa una decina d’anni per arrivare a buon fine, giacché se i primi contatti furono stabiliti nel 1985, il Trattato è stato invece ratificato dieci anni dopo. Non per tutti, perché, come sappiamo, alcuni Stati non hanno ancora integrato questa procedura e coloro che la integrano non hanno ancora introdotto nel loro diritto interno la specialità di un dispositivo di Schengen. Dunque si tratta di una procedura che è andata in porto e che ha permesso alle polizie di cooperare in maniera concreta, quotidiana, efficace. Il sistema di informazione Schengen, che è lo schedario elettronico più completo in questo campo, comprende circa dieci milioni di dati ed è costantemente aggiornato, costantemente rinnovato e viene utilizzato, credo con grande soddisfazione, dalla maggior parte delle polizie europee. Ora bisognerà aspettare altri dieci anni per arrivare a qualche cosa di più completo in materia di lotta contro la criminalità organizzata. Io credo che effettivamente noi non possiamo permetterci questa lentezza se non vogliamo rischiare di perdere la nostra credibilità politica. Di fatto siamo costretti a constatare che l’opinione pubblica europea, quanto meno da noi, è molto attiva e molto critica; quindi l’opinione pubblica europea è particolarmente sensibile a questi scandali che sono rivelati dalla stampa, che i media favoriscono nell’espressione la più banale e più profana. Ciascuno porta dentro di sé un senso di malessere, di disagio e ci si chiede se veramente oggi il mondo politico sia più compromesso di quanto fosse ieri, ci si chiede se con la loro passività i politici non siano complici di questa sorta di pasticcio internazionale dove si ha il senso di un’impotenza che è veramente di pregiudizio alla credibilità della nostra rappresentanza politica democratica. Dobbiamo fare molta attenzione, perché la popolazione, nella sua più semplice espressione, non crede più nella rappresentanza politica e mette istintivamente in discussione, senza neppure rendersene conto, il sistema rappresentativo democratico nel quale il popolo governa attraverso i suoi rappresentanti. Se il popolo non ha più questa fiducia nei suoi rappresentanti cercherà soluzioni certamente più illusorie, più pericolose. Noi che abbiamo una storia, che abbiamo la cultura di questa storia parlamentare recente, sappiamo quanto rischiamo nel momento in cui la popolazione non crede più nella rappresentatività e nell’onestà dei suoi delegati. Credo, dunque, che vi sia l’urgenza di evitare politicamente, e qui siamo nel pieno del nostro ruolo, nell’espressione dei nostri timori, il discredito che ci minaccia tutti mentre non siamo colpevoli. Ora mi chiedo se a volte non abbiamo peccato di omissione, di carenza, di insufficienza rifugiandoci sotto una retorica generalizzatrice. È sempre ovviamente bello esprimere buoni sentimenti, è sempre facile trovarsi d’accordo su procedure abbastanza generiche, per evitare magari di entrare nei dettagli, giacché come dice l’adagio "il diavolo si nasconde nei dettagli". Ciò rende, però, le cose difficili, perché il parlamentare a volte tesse la legge in maniera abbastanza lenta. Il diavolo può, così, insinuarsi negli interstizi e può ritrovare l’impunità proprio nel dettaglio.
        C’è un settore che noi affrontiamo sempre con molta cautela, con molta discrezione. Il collega Colcombet ha esposto poco fa le difficoltà che ha trovato la Francia a livello internazionale nel momento in cui ha parlato di certe facilitazioni bancarie che possono esistere in certi paradisi fiscali e che non sono necessariamente oltre Atlantico. Ora io credo che noi dobbiamo esporre in maniera forse meno timida questo problema bancario in senso generale perché questa è la grande incognita. Noi sappiamo benissimo che la maggior parte delle banche opera con onestà, adempie con adeguata vigilanza il proprio dovere, osserva i propri doveri civici internazionali; ma noi sappiamo anche che esistono punti deboli in questa rete e i mafiosi, o i candidati al riciclaggio, conoscono molto bene questi punti deboli. Putin è stato a Parigi tre giorni fa, noi lo abbiamo ricevuto al Senato, e con nostra grande sorpresa Putin ha detto semplicemente, così come ve lo dico io ora, che la rete bancaria russa è assolutamente insoddisfacente ed è tutta da riformare. Sono da seicento fino a ottocento le banche che hanno la capacità di emettere e di ricevere denaro e che hanno la reputazione di poter servire da rifugio per persone che non hanno mai pensato di investire in Russia, ma che si servono di questo passaggio, di questo telaio, per riciclare denaro illegale in denaro rassicurante e di apparenza del tutto legale. Credo che questo problema bancario sia una buona parte del problema e la Francia ha preso le dimensioni interne riguardo alle banche che hanno l’obbligo di segnalare alla giustizia ogni trasferimento, ogni investimento dubbio. Ma ovviamente il diritto, la legge non può fare tutto. Occorre, quindi, una cooperazione internazionale che deve essere costruita sul versante delle banche in maniera tale che vi sia una regola professionale o interprofessionale che impegni questi istituti in maniera tale che anche in questo settore si possa fare pulizia in casa propria e definire regole di buona condotta internazionale privata. Ciò vincolerebbe più fortemente i casi dubbiosi a rientrare nella norma e a chiarire la propria situazione. Questo per dirvi, cari colleghi, che il ruolo dei Parlamenti nazionali è cruciale; non si tratta, come lei ha ben compreso, signor Ferri, di discutere al Parlamento europeo la sua responsabilità, ma si tratta di combattere ingiustizie e pericoli internazionali e di lottare per una stessa causa. Si tratta di casi in cui, in definitiva, il giudizio dell’opinione pubblica è sempre provocato da un incidente, da un reato che è locale. Il collega parlava prima del doping. Certo è una causa appassionante. Non è una questione di dimensioni europee ma nazionali e un Parlamento nazionale può impadronirsi di questa situazione per farne effettivamente una traduzione giuridica. Credo che in queste materie nelle quali l’Europa delle passioni è ogni giorno impegnata e ove la mediatizzazione nazionale si esprime attraverso trasmissioni di massa che sono ogni giorno più incisive, è indispensabile che il Parlamento nazionale entri in campo, ciascuno in funzione della propria materia, della propria famiglia, della propria maggioranza e si impegni in maniera meno teorica e senz’altro più incisiva, più vicina al territorio, alla realtà per poter convincere gli Stati, e dietro gli Stati i funzionari degli Stati, della nostra volontà di risolvere questo problema. Mi scuso se sono stato confuso ma credo che un problema del genere non può essere regolato, se mi permettete questa espressione, "dall’alto", è necessario che lo sia anche "dal basso". Dobbiamo avere dei quadri giuridici europei e internazionali. Tutte le disposizioni che noi prendiamo attraverso i trattati, attraverso le convenzioni andranno bene. Ma si può anche procedere dal basso: e qui mi riferisco all’avvicinamento dei funzionari, o all’incontro dei funzionari, che seguono le stesse tecniche giudiziarie, di polizia, tecnologiche e poi i ricercatori, gli studiosi e i biologi. Tutte queste persone devono poter collaborare insieme e non rinchiudersi nelle loro corporazioni o nelle loro frontiere. Credo che avvicinare queste pratiche nel quotidiano, i contatti quindi fra queste pratiche, potrebbero portare un’accelerazione. Schengen è un esempio, è una procedura inter-Stati suggerita sia alla Commissione che al Parlamento di Bruxelles; questa procedura inter-Stati viene considerata sospetta, come una procedura addirittura nazionale o nazionalista contrapposta alla procedura europea internazionale. Tutto questo ora è superato, tanto meglio, ma credo che la procedura è potuta arrivare in porto soltanto perché le polizie, le dogane, si sono riunite, si sono incontrate, certo per volontà dei governi, per trovare una volontà di cooperazione. Certo, noi non dobbiamo trascurare questa cooperazione tra Stati e vi è anche una collaborazione bilaterale; credo, ad esempio, che la cooperazione tra Francia e Italia sia da tutti i punti di vista qualcosa che può portare maggiore efficacia e quindi anche soluzioni. Noi sappiamo molto bene in quali difficoltà si trova l’Italia, con la permeabilità delle sue frontiere. Penso che la Francia possa portare una cooperazione in questo senso che credo sarà la benvenuta e che questa possa essere instaurata anche negli organismi internazionali e allo stesso modo con la Germania e con i vicini Paesi del Nord. Credo, infatti, che la cooperazione bilaterale concreta sia un fattore complementare che non si può eludere e senza il quale noi resteremmo troppo nella teoria, nell’astrazione e con il retroterra che io temevo all’inizio del mio intervento, del pericolo di discredito della democrazia.

 

Roberto Centaro
Componente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari

        Porgo il mio saluto agli ospiti di questo Seminario e in particolare ai rappresentanti delle istituzioni degli altri Paesi dell’Unione Europea. Io muoverò da due presupposti per dimostrare il fondamento di un teorema e di una verità ineludibile: la necessità della creazione dello spazio giuridico europeo. Le conseguenze che ne trarrò saranno ben ulteriori rispetto a quelle che ho sentito e addirittura andranno oltre le indicazioni già formulate dal Procuratore nazionale antimafia Vigna. Io muovo da un presupposto: a mio avviso una delle strade per pervenire ad una vera integrazione politica di Stati che si uniscono per tentare di operare insieme, non soltanto attraverso legami e vincoli economici ma anche unità di intenti e di culture, è l’ordinamento giudiziario. Ciò si risolve in una identica regolazione del diritto civile, cioè del diritto che regola l’economia, le contrattazioni; quindi la possibilità di ciascun cittadino di ogni Stato membro di riferirsi a regole identiche con le intuibili facilitazioni negli scambi tra i Paesi dell’Unione. Il diritto civile presiede alla fisiologia dei rapporti. Vi è necessità di una omogeneizzazione anche del diritto penale perché il diritto penale attiene alla patologia dei rapporti e, quindi, alla violazione di quelle norme che presiedono a determinati comportamenti ritenuti di particolare pericolosità sociale dagli Stati membri. Voler ritenere tutti insieme che alcuni reati sono di particolare gravità, pericolosità sociale, dà conto di una unitarietà di sentire, che poi si traduce in unità politica. Ma se anche non si voglia percorrere questa strada in omaggio ad un ideale, c’è un motivo molto più concreto. La criminalità organizzata oggi è sempre più, se non esclusivamente, transnazionale; si assiste ad una esportazione del crimine. I Paesi dell’Unione Europea, con il loro mercato avanzato e florido, sono di notevole interesse per le mafie dei Paesi dell’Est; vi sono insediamenti delle triadi cinesi e della Yakuza giapponese, quindi di criminalità organizzata di Paesi asiatici. Con la globalizzazione dei mercati tutto ciò viene ulteriormente agevolato. La mafia che acquisisce reddito in Italia può investire in Francia, in Belgio, creando una patologia nel circuito dell’economia sana di quel Paese, con i conseguenti problemi e con la possibilità di dar luogo a vere e proprie teste di ponte per l’invasione anche di quei territori. Allora, a questo punto, evidentemente i Paesi dell’Unione Europea non possono rimanere immobili. Cosa si è fatto fino ad oggi? Si sono attuate alcune direttive sancite da alcuni trattati dell’Unione Europea che ha facilitato la conoscenza attraverso la sua circolazione, cui consegue il coordinamento dell’attività delle varie forze di polizia e della magistratura; tutto ciò mediante la creazione delle cosiddette figure di contatto — tali sono oggi i componenti di Europol e domani di Eurojust —. Tali figure svolgono un ruolo di intermediazione tra agenti di polizia e magistratura, rispetto a sistemi diversi di indagine, sistemi giudiziari differenti, senza intaccarne la sovranità operativa. Anche a voler prescindere dalla teorica possibilità che Eurojust possa sovrapporsi ad Europol nel caso in cui non vi sia in uno dei Paesi dell’Unione Europea la figura del magistrato del pubblico ministero (il trattato prevede che in assenza di questa figura sia un rappresentante della polizia ad essere chiamato a far parte di Eurojust), si tratta soltanto di collegamenti, né più e né meno, tra strutture assolutamente diverse. Tutto ciò non basta, lo dobbiamo dire chiaramente. Si è sentita un’autoelogiazione di ciò che si è fatto, probabilmente in parte fondata. Probabilmente si è fatto molto; probabilmente si è fatto ancora troppo poco e in troppo tempo, perché il coordinamento non basta se non vi è un’armonizzazione del diritto sostanziale. Quando in alcuni Stati dell’Unione Europea il reato di associazione a delinquere non è previsto come categoria generale, perché le norme sanzionano soltanto associazioni finalizzate al compimento di reati determinati o solo il concorso nel reato, si puniscono profili assolutamente marginali o eccessivamente specifici senza considerare il fenomeno nel suo aspetto complessivo. Si crea, così, evidentemente, una distonia fra ordinamenti. Poi si discuterà se il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso sia una specificazione o un’aggravante della categoria generale, ma questo conta fino ad un certo punto se non ci si rende conto che, se non si riproduce in ogni ordinamento penale la categoria generale, si avrà una visione limitata e settoriale. Bisogna considerare oggi la criminalità organizzata come una grande holding che investe nei settori più disparati. Se non si entra in quest’ottica, si colpirà la criminalità in modo settoriale, ma non si riuscirà a cogliere il fenomeno in termini complessivi. Quindi, oltre alla necessità di una specificazione e di una previsione di alcune fattispecie di reato, attribuendo loro la stessa gravità, vi è la necessità della previsione di questa categoria generale. Oggi, chi delinque in uno Stato può riciclare nello Stato accanto attraverso un prestanome incensurato e teoricamente rispettabile; se nell’altro Stato non esistono previsioni analoghe a quelle sulla prevenzione patrimoniale, il riciclaggio corre il rischio di passare inosservato o di non essere colpito. Anche in questa materia urge l’introduzione della normativa sulle misure di prevenzione patrimoniale in tutti gli Stati dell’Unione Europea, sempre in collegamento al reato di associazione a delinquere di stampo mafioso o comunque all’associazione a delinquere di carattere generale. Vi è anche, in ultimo, la necessità dell’armonizzazione dei sistemi processuali. Io penso che questo sia, tutto sommato, il profilo più semplice. Dopo la modifica dell’articolo 111 della Costituzione, filiazione diretta dell’articolo 6 della Carta europea dei diritti dell’uomo, l’armonizzazione del sistema processuale può essere relativamente facile. Essa conduce ad un grande risultato: la possibilità che una sentenza emessa da uno Stato dell’Unione Europea possa avere validità ed esecuzione nell’altro Stato, poiché sono stati osservati quei criteri e quelle garanzie a tutela dell’indagato, esistenti ovunque. Su presenza di un’omogeneità di garanzie, si può riconoscere la pronuncia. Di conseguenza, la mafiosità attribuita ad un cittadino italiano e l’accertamento da parte dell’autorità giudiziaria dello Stato italiano, dell’investimento dei proventi del crimine in altri Paesi dell’Unione Europea, mediante collegamenti a holding o a banche, consente di colpire immediatamente in quegli Stati, ovviamente muovendo dalla precondizione della presenza in entrambi gli ordinamenti giudiziari delle identiche norme. Ci si rende conto, allora, come il coordinamento attuato finora non sia sufficiente; che bisogna correre, perché un lasso di tempo troppo lungo significherà una immissione nell’economia dell’Unione Europea di un capitale derivante da attività delittuose così rilevante da condizionare, se non da rovinare, l’economia sana. Bisogna, quindi, rinunciare ai nazionalismi e ad una parte della propria cultura giuridica più o meno radicata, bisognerà aprirsi al confronto, bisognerà aprire gli occhi su quella che purtroppo è la realtà; la possibilità concreta di una invasione, silenziosa e sotterranea ma che diventerà poi condizionante anche nei processi democratici in vista della corruttibilità o meno delle istituzioni, di denaro di provenienza illecita, che circola in maniera rapidissima e proviene sia dall’esterno che dall’interno dell’Unione Europea. Se Eurojust ed Europol si considerano come modelli di coordinamento — oggi, purtroppo, di sistemi disomogenei ma domani, e mi auguro presto, di un sistema omogeneo —, il coordinamento funziona, ha possibilità di essere incisivo e di dare soprattutto risultati. Se si percorre questa strada, domani potremo anche prevedere indagini abbinate tra autorità di Stati membri diversi, proprio perché disciplinate dallo stesso percorso procedurale e dalla stessa legge sostanziale. Si potrebbe anche pervenire ad un modello di polizia o di direzione anticrimine europea sulla falsa riga della Direzione nazionale antimafia; non con poteri di indagine autonomi che si sovrappongono, o sostituiscono i poteri dei pubblici ministeri dei singoli Stati, ma con quella funzione di raccolta di dati, di coordinamento e di possibilità di creare sinergie tra i vari uffici giudiziari in grado di cogliere nella sua ampiezza complessiva il fenomeno della grande criminalità organizzata. Se non si coglie questa occasione, se non si va avanti e non si compie questo grande salto qualitativo, questa grande svolta che i Paesi dell’Unione Europea sono chiamati a fare, non si avranno gli strumenti e le armi per combattere incisivamente la criminalità organizzata, la cui attività poi si estrinseca in tantissimi modi. Ad esempio, in Italia è richiesto il certificato antimafia per partecipare ad alcuni appalti. Nei Paesi dell’Unione Europea non è richiesto. Si può, quindi, impiantare un’impresa, ad esempio in Belgio o in Francia, e operare in Italia, ovviamente sugli appalti di importo notevole e cioè quelli per i quali è necessario il bando europeo e che sono più interessanti economicamente. Di qui la necessità di un controllo, di un’analisi dei flussi di denaro e dell’attività delle varie società nel mondo degli appalti attraverso norme che possano omogeneizzare il sistema, che a questo punto diventa comune a tutti gli Stati dell’Unione Europea e non più alle singole province, regioni o nazioni. Ci si trova, oggi, ad un punto di svolta; la criminalità non cammina ma corre. Se gli Stati vogliono rimanere al passo o prevenire e dare credibilità alla rappresentanza politica e alle istituzioni, bisogna veramente andare oltre e creare uno spazio giudiziario europeo, con requisiti di concretezza ed efficienza, che superi i nazionalismi in nome di un’unione il cui fine sia la lotta alla grande criminalità organizzata in tutte le sue estrinsecazioni.

 

Tana de Zulueta
Componente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari

        Ritengo che partire dal lavoro svolto dal nostro Comitato, il Comitato di lavoro sulla criminalità organizzata internazionale, partire cioè dalla nostra esperienza, vale a dire dal tentativo di mettere a fuoco il fenomeno del traffico di esseri umani in vista dell’appuntamento di Palermo, potrebbe essere doppiamente interessante. In primo luogo, perché il Comitato ha avuto modo di soffermarsi su quelle che la nostra polizia chiama le nuove mafie: la criminalità albanese, quella nigeriana, quella russa, o quella cinese. È proprio nel momento in cui noi abbiamo messo a fuoco, tentato di analizzare, un fenomeno come il traffico di esseri umani, che abbiamo potuto toccare con mano esattamente cosa vuol dire criminalità transnazionale. Criminalità organizzata transnazionale secondo i termini della Convenzione ONU che i nostri governi si accingono a firmare a Palermo, è una criminalità che opera in più Paesi e che esplicita il suo disegno criminale appunto in più Paesi. Ora il fenomeno interessante che noi stiamo vedendo è proprio la costituzione di organizzazioni criminali che non solo operano in più Paesi, e cioè operano in Italia, dove portano, trasportano immigranti clandestini o le persone trafficate, ma operano naturalmente nei Paesi di origine del traffico. Queste organizzazioni adesso sono costituite da persone di più nazionalità. La Procura antimafia di Trieste ha aperto un processo interessante contro un’organizzazione capeggiata da un uomo di nazionalità slovena-croata, sposato con una cittadina cinese la cui organizzazione ha componenti di questa nazionalità ma anche italiani e di altri Paesi. Questo è solo un esempio di un fenomeno nuovo che andrà contrastato con strumenti particolari. Dico anche, però, che potrebbe costituire un’opportunità di indagine, e questo è un aspetto positivo che forse i nostri ufficiali di polizia potrebbero cogliere tempestivamente. Le nuove mafie quando operano nei Paesi di insediamento hanno una forza: sono indecifrabili, parlano lingue e dialetti non conosciuti e anche le intercettazioni telefoniche non sono efficaci. Invece queste mafie transnazionali usano lingue franche e il signor Loncaric, di cui vi parlavo prima, per parlare con i suoi soci cinesi, parlava o in italiano o in inglese e anche lentamente. Cogliere questa opportunità potrebbe essere una sfida interessante per Europol.
        Vorrei, infatti, essere molto concreta quando vi parlo del nostro lavoro sul traffico di esseri umani. È un fenomeno, come sapete, che ha generato forti allarmi presso l’opinione pubblica; penso al fenomeno della prostituzione di strada, di donne trafficate e uccise (più di cento in Europa, negli ultimi cinque anni, quelle accertate) o per esempio dei cinquanta cinesi trovati morti dentro un camion nel porto di Dover.
        Il problema del traffico figura da almeno dieci anni nell’agenda dell’Unione Europea, partendo da una risoluzione del Parlamento europeo. Non a caso, fra gli impegni costitutivi dell’Europol c’è proprio la lotta al traffico di esseri umani. Questo percorso si rafforza attraverso il Trattato di Maastricht che pone le prime basi per una politica repressiva comune, poi rafforzate dal Trattato di Amsterdam e dal Piano di azione comune contro la criminalità organizzata del 1997. Infine, passando attraverso vari riunioni ministeriali, arriviamo all’importante riunione di Tampere di cui oggi si è già parlato con cui si è stabilita l’inclusione della lotta al traffico di esseri umani tra quelle azioni destinate a creare uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
        E questo per citare solo gli impegni presi in sede europea. Questi impegni, anche se sono quelli più cogenti, si sono succeduti in una cornice più larga: dal Consiglio d’Europa all’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, alle stesse Nazioni Unite.
        Occorre rilevare, però, che a tanti solenni impegni non sono ad oggi seguiti i risultati sperati. Questa non è solo la nostra constatazione, ma anche quella del Parlamento europeo, con una risoluzione votata a maggio di quest’anno. E la risoluzione indica uno dei motivi di questa difficoltà: la mancanza, ad oggi, di legislazioni nazionali, se non armonizzate, quantomeno compatibili in tema di traffico di esseri umani.
        I responsabili di Europol, in un loro recente rapporto, hanno indicato la mancanza di una definizione comune di traffico di esseri umani quale ostacolo importante ad una lotta coordinata a livello continentale. Europol ha addirittura denunciato la propria difficoltà, in mancanza di dati omogenei, a stendere un rapporto completo sulla situazione per quanto riguarda il traffico di esseri umani in Europa.
        Questo il quadro normativo entro il quale, per quanto riguarda la lotta al traffico di esseri umani in ambito europeo, ci avviciniamo all’appuntamento della Conferenza ONU di Palermo. Un quadro di forte impegno, segnato, però, anche a livello europeo, da perduranti difficoltà di coordinamento e di attuazione. Sta qui l’interesse per quell’appuntamento. Il motivo è semplice: a Palermo i governi dei Paesi membri apporranno la propria firma non solo alla Convenzione contro il crimine organizzato transnazionale, ma anche a due protocolli aggiuntivi.
        Il primo di questi protocolli (UN Protocol to Prevent, Suppress and Punish Trafficking in Persons, Especially Women and Children) si propone di combattere il traffico di esseri umani, definito come spostamento di persone attraverso una o più frontiere nazionali, soprattutto, ma non solo, donne e bambini, al fine di sfruttarli. La forma più eclatante di sfruttamento a cui vengono sottoposte le vittime del traffico è quello dello sfruttamento a scopo sessuale, in particolare per la prostituzione di strada. Ma i trafficanti di uomini e donne possono anche soggiogare le loro vittime al fine di sfruttare il loro lavoro. Stiamo parlando, lo si è già detto oggi, di forme di sfruttamento estremo: situazioni di moderna schiavitù (e in qualche caso così sono stati trattati dai nostri tribunali.)
        Il secondo protocollo riguarda la lotta a quello che in inglese viene definito migrant smuggling, ovvero lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina.
        L’adozione della Convenzione ONU e la sua auspicabile ratifica, a mio avviso, potrebbe costituire il superamento dell’annoso problema della mancanza di una definizione comune, anche a livello europeo — e qui dissento dal mio collega e Presidente del Comitato Schengen —, io credo che questa spinta che potrebbe darci l’appuntamento di Palermo potrebbe essere molto utile almeno per questo chiarimento.
        La Commissione Antimafia, e in particolare il Comitato di lavoro che coordino, hanno seguito con attenzione i lavori del negoziato dei due protocolli a Vienna e siamo dunque soddisfatti non solo del fatto che si è trovato un accordo, e non era scontato — lo si è trovato proprio all’ultima ora —, ma anche dei contenuti dei due protocolli. Ritengo che sia interessante per tutti noi studiarli a fondo perché l’accordo è, direi, avanzato, in particolare per quanto riguarda il protocollo sul traffico.
        Il documento detterà comportamenti stringenti ai governi dei Paesi membri, a partire dalla tutela dalle vittime. A loro, infatti, dovrebbe essere garantito, tra le altre cose, un permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale. Questo approccio è stato già sperimentato in Italia, in particolare nei confronti delle donne trafficate, con risultati incoraggianti, anche per quanto riguarda la lotta alla criminalità organizzata. Abbiamo un articolo della nostra legge sull’immigrazione che contempla questa possibilità. Attuato da poco, dalla primavera di quest’anno, sono ad oggi circa seicento le donne trafficate che godono, in varie forme, di programmi di protezione, coinvolgendo per questo le organizzazioni non governative. È un esperimento pilota che forse potrebbe essere interessante per i colleghi di altri parlamenti conoscere, proprio per valutare la bontà dell’approccio. Vi faccio notare che la stessa legge, che è una legge che fa questo tipo di proposta, è stata approvata dal Senato americano. Questo anche in seguito ad una stretta collaborazione bilaterale, ahimè fuori dall’Europa, ma sicuramente interessante ed efficace, a dimostrazione anche che sistemi legislativi e di legge molto diversi, quello anglosassone e americano, e quello italiano possono perfettamente essere modello reciproco. Noi abbiamo imparato molto dalla legislazione antiracket contro il crimine organizzato americano e a nostra volta abbiamo tentato di sviluppare un’esperienza comune su questa questione del traffico.
        La decisione di allegare due protocolli sullo sfruttamento dei migranti alla prima Convenzione contro la criminalità organizzata transnazionale sta a dimostrare la consapevolezza dei Paesi membri del ruolo crescente della criminalità organizzata in questi traffici. È un problema che coinvolge un po’ tutti, o come Paesi di destinazione (è il caso della maggior parte dei Paesi dell’Unione Europea), o come Paesi di transito, o come Paesi di origine.
        Per i Paesi di destinazione lo sfruttamento del traffico di esseri umani da parte di organizzazioni criminali straniere ha facilitato la loro infiltrazione e il loro radicamento sul territorio nazionale, e questa è l’esperienza in Italia. Abbiamo avuto modo di appurare che questo inserimento è stato proprio fondato sullo sfruttamento non solo del traffico, ma anche del business dell’ingresso clandestino. Dall’altra parte, nei Paesi di origine il potere crescente di organizzazioni criminali in questo settore, sia quello dell’immigrazione clandestina, sia quello del reclutamento di donne da avviare alla prostituzione, sta avendo effetti perniciosi, favorendo la corruzione dei pubblici ufficiali, dei responsabili delle dogane e della stessa classe politica con effetti devastanti per certe giovani democrazie.
        È evidente, dunque, che le risposte, per essere efficaci, dovranno essere globali. Lo stesso Parlamento europeo nel sottolineare che il traffico costituisce evidentemente un’intollerabile violazione dei diritti umani più fondamentali, aggiunge, però, che nessuna risposta europea può prescindere dallo stretto legame tra il traffico di migranti e le politiche di immigrazione e di asilo dei Paesi membri. Di qui l’urgenza, a mio parere, di un maggiore coordinamento tra le politiche dei Paesi membri anche in questo campo; un campo che costituisce una componente di vitale importanza nella costruzione di quello spazio di libertà, sicurezza e giustizia di cui oggi parliamo.
        Una risposta europea al problema del traffico vorrà dire dare priorità (non solo declamata) ad un’azione di contrasto finora trascurata, secondo gli stessi responsabili di Europol. Questi fanno notare che il business dell’ingresso clandestino è una attività redditizia e soprattutto a rischio ridotto, in quanto le condanne sono molto più basse di quelle comminate per altre forme di contrabbando o di traffico di droga o di armi, per citare due mercati criminali contigui, se non a volte complementari. Faccio notare per esempio che il business dell’ingresso clandestino e dell’immigrazione clandestina tra l’Albania e l’Italia ha consentito alle organizzazioni criminali di quel Paese di sviluppare, sfruttando delle economie di scala, anche il traffico di droga, facendo sì che probabilmente un terzo dell’eroina che arriva in Italia oggi arriva tramite quel Paese. E a questo proposito credo che sarebbe opportuno che le nostre polizie dessero una priorità più fattiva alla lotta a questo fenomeno sfuggente e difficile, perché tocca appunto le politiche di immigrazione, tocca problemi di diritti umani. Proprio per questo motivo richiede, però, risposte nuove per le quali i nostri parlamenti e, io mi auguro, la stessa Convenzione riusciranno a darci strumenti appropriati ed innovativi.
        Fin qui devo dire che ho parlato soprattutto di difficoltà nell’azione a livello europeo contro il traffico di esseri umani. Però io non voglio nulla togliere al significativo lavoro già compiuto nella costruzione di uno spazio giuridico europeo. Come Comitato che si occupa prioritariamente di criminalità internazionale abbiamo avuto modo di constatare, soprattutto negli ultimi dodici mesi, un’accelerazione nell’azione di cooperazione giudiziaria europea di notevole importanza. Non so se questo è dovuto all’impulso della presidenza francese per citare gli ultimi sei mesi, ma sicuramente il contributo è stato importante.
        Cito come esempi due importanti azioni recenti. La prima, che credo sia stata un po’ trascurata ma è molto importante, è la firma, in sede di Consiglio, a maggio di quest’anno, di una nuova Convenzione sulla mutua assistenza giudiziaria. Questa Convenzione apre scenari nuovi, proprio quegli scenari operativi che molti dei miei colleghi hanno richiamato; per esempio, riconosce nuove norme ad hoc per la creazione di squadre investigative comuni e per le operazioni sotto copertura, per esempio contro il traffico di droga. Se queste opportunità vengono colte appieno noi sapremo fare passi da gigante in poco tempo.
        Sembra anche che ci possiamo aspettare novità importanti alla Conferenza di Nizza, sia nel campo del reciproco riconoscimento delle rispettive decisioni giudiziarie — e in questo campo c’è stato un fruttuoso dialogo tra il nostro Governo e quello della Spagna, che potrebbe essere un precedente bilaterale molto importante —, sia nella forma di un’attivazione, finalmente, del progetto di Eurojust almeno come unità provvisoria di cooperazione.
        Io non trascurerei questi passi. Questi sono passi molto importanti che danno un’accelerazione significativa. In uno schema che potremmo definire a cerchi concentrici, passando dalla cooperazione giudiziaria dei quindici membri dell’Unione, ai quarantuno del Consiglio d’Europa, allo scenario globale delle Nazioni Unite, lo spazio giuridico europeo, e questo possiamo tenerlo presente in queste settimane che si avvicinano a Palermo, costituisce un nocciolo importante, a partire dai meccanismi, ormai ben avviati, di valutazione comune. Il Presidente Ferri ha parlato di questo sistema di valutazione comune e della pagella nostra italiana. Ebbene, questo meccanismo, ormai ben avviato, dà un’effettività alle azioni intraprese in sede europea che non ha paragoni. E questo probabilmente verrà anche adottato da certi Paesi del Consiglio d’Europa.
        Per cui il modello europeo, azzardo questa metafora, è potenzialmente espansivo. L’esempio della Convenzione che ho citato poc’anzi, quella sulla mutua assistenza e sull’estradizione, era in origine la Convenzione del Consiglio d’Europa che noi abbiamo anticipato in quanto, con quindici membri, l’Europa ha trovato un accordo prima dei quarantuno del Consiglio. A loro volta però le Convenzioni del Consiglio d’Europa sono aperte alle firme di altri Paesi come è stato per l’importante Convenzione contro il riciclaggio.
        È un processo di costruzione che, per parlare al mio Parlamento, ritengo potremo utilmente assecondare accelerando, come ha sottolineato sempre l’onorevole Ferri, o sollecitando, le rilevanti convenzioni. È assai lunga la lista di Convenzioni sociali nella costruzione non solo di uno spazio giudiziario europeo, ma anche, come è stato accennato dal professor Arlacchi, Vice Segretario Generale dell’ONU e responsabile dell’organizzazione dell’ONU contro la droga, uno spazio giuridico anche mondiale. Cito solo due esempi per il nostro Parlamento. La Convenzione del 1995 e del 1996 in materia di estradizione che stanno alla base di tutta la costruzione di uno spazio giuridico non sono state tuttora ratificate dal nostro Parlamento. Io mi auguro, come ha detto il Presidente Ferri, che qualcuno stenda l’elenco di quello che manca. Ci prendiamo, comunque l’impegno comune di sollecitare nei nostri rispettivi parlamenti quell’accelerazione sollecitata anche dai colleghi francesi.

 

Carmelo Carrara
Componente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari

        Anch’io sono dell’idea, espressa nel corso di altri interventi, che non bisogna perdere tempo e bisogna tener presente non solo l’esperienza positiva fin qui maturata, ma anche quella negativa di atrofia legislativa che è seguita alla conclusione dei trattati di Schengen e del Trattato di Amsterdam, ancora non attuato. La risposta al crimine organizzato non può attendere e dunque non si può aspettare la ratifica da parte degli Stati di quanto sarà convenuto nella prossima Convenzione delle Nazioni Unite che sarà sottoscritta a Palermo. Gli Stati si devono adeguare subito con norme interne ai principi che sono stati già condivisi nel Piano d’azione contro la criminalità organizzata, adottato nel 1997 a Vienna. Ritengo che non sia assolutamente più agevole avere un processo di omogeneizzazione che abbia come riferimento il parametro delle investigazioni ovvero quello della snellezza delle procedure; ritengo che prima bisogna incidere sul piano del diritto sostanziale attraverso un processo di omogeneizzazione rispetto a quella che è la fattispecie principe di cui stiamo parlando e cioè una fattispecie speciale di associazione per il crimine organizzato. È questo che naturalmente occuperà principalmente i lavori della Conferenza ONU di Palermo. Nel documento varato dalle Nazioni Unite, che sarà prospettato in quel contesto, si parte appunto da una definizione normativa del crimine organizzato qualificato come un gruppo di tre o più persone che esiste per un certo periodo di tempo e che agisce di concerto al fine di commettere uno o più reati gravi previsti dalla stessa Convenzione e diretti ad ottenere un vantaggio finanziario o comunque materiale. Questo è il punto cardinale su cui si svolgeranno i lavori di Palermo, ma è bene conoscere fin da ora qual è lo stato dell’arte tra i Paesi europei. Nella strategia di contrasto alla criminalità organizzata l’approccio agli aspetti comparatistici nell’esperienza europea o continentale soffre una notevole difficoltà di fondo, dovuta ai diversi modelli linguistici, ai diversi modelli concettuali e anche ai diversi modelli culturali, sicché la ricerca del minimo comun denominatore, diversamente da quanto avviene nella legislazione dei singoli Paesi, non può partire dagli stessi parametri, ma deve essere orientata verso parametri ermeneutici di tipo diverso. Uno di questi è quello che viene recuperato nello schema della Convenzione delle Nazioni Unite e che si riferisce alla gravità del reato, alla strutturazione dell’associazione, che deve essere stabile, nonché al carattere transnazionale per i soggetti che vi operano, per le condotte che vengono poste in essere, per i mercati legali o illegali in qualche modo permeati dai loro comportamenti e per il procacciamento e il reivestimento dei profitti nelle attività delittuose.
        In questo momento, alcuni Paesi europei, per esempio il Regno Unito, la Francia, la Germania, la Spagna, il Portogallo, l’Olanda e la Grecia, prevedono una incriminazione autonoma generale, cioè come una associazione criminosa, mentre altri Paesi tra i quali l’Italia, il Belgio e l’Austria, prevedono una incriminazione autonoma speciale nella forma già strutturata della organizzazione criminale. Altri Paesi ancora, è il caso, per esempio, della Finlandia, della Danimarca o della Svezia, sono assolutamente deficitari di una previsione di fattispecie base dell’associazione per delinquere e la partecipazione al reato associativo di un gruppo organizzato ha rilevanza all’interno delle regole sul concorso di persone nel reato e determina secondo i casi un aggravamento di pena rispetto a quello che è il reato affine. Tuttavia, indipendentemente da quello che verrà deciso il 12 dicembre 2000 a Palermo, già nel Piano di azione contro la criminalità organizzata del 1997 si raccomandava al Consiglio di adottare un’azione comune per la configurazione giuridica dell’associazione criminale. Ma è bene osservare che in Europa i reati associativi stentano ad avere una disciplina omologa perché vi ostano tre principi fondamentali del diritto penale moderno: il primo è il principio della tassatività, il secondo della materialità o dell’esteriorità ed il terzo è quello della personalità della responsabilità penale.
        Nel nostro ordinamento, scomparsa con beneficio di inventario la criminalizzazione delle associazioni non riconosciute e delle associazioni non autorizzate, siamo passati dall’archetipo dell’association des malfaiteurs di ispirazione francese all’associazione per delinquere di tipo innominato. Successivamente in Francia la tipizzazione si è fatta più accentuata e si è definita l’associazione come ogni gruppo formato e ogni intesa stabilita per la preparazione di un reato, caratterizzata da uno o più fatti materiali, da uno o più crimini o delitti.
        Ciò ha comportato la deroga al principio di non punibilità degli atti preparatori; quindi per punire l’associazione occorre un atto preparatorio di quello che è il cosiddetto reato-scopo. Invece la nostra legislazione parla di associazione, senza tuttavia definire — questo vale sia per l’associazione descritta all’articolo 416, sia per l’altra, cioè per l’associazione a delinquere di tipo mafioso di cui all’articolo 416-bis — in che cosa deve consistere l’associazione.La teoria del reato associativo sembra assolutamente non sganciarsi da quella sul concorso di persone nel reato. E invece, ben altra cosa è il concorso di persone nel reato che conosce anche la legislazione francese, l’istituto della reunion, e altro è la previsione del reato della banda organizzata che il nostro ordinamento conosce e che ha più volte recuperato soprattutto per i reati di tipo terroristico. Alcune legislazioni ancora in Europa considerano illecite le associazioni aventi per oggetto la commissione di fatti che urtino la coscienza civile, ma che di per sé non costituiscono reati (qualche cosa che fa pensare alla categoria giurisprudenziale creata in Italia del concorso esterno in associazione mafiosa). La mancanza di tassatività ha tuttavia, anche nella cosiddetta conspiracy di common law, fatto abbandonare questa impostazione e alcune legislazioni, come la spagnola e la portoghese, puniscono non solo gli associati, ma anche i sostenitori e i favoreggiatori dell’Associazione mafiosa (che poi sono i concorrenti eventuali nella fase associativa); è sicuramente questo un lodevole sforzo verso la tassatività e suggerisce anche a noi italiani che al concorso esterno nei reati associativi sono sicuramente da preferire le condotte d’autore tipiche, cioè le fattispecie specifiche di sostegno e di fiancheggiamento dell’attività criminosa da parte di chi non è partecipe dell’associazione.
        Tuttavia, la vera grande difficoltà che osteggia l’omologazione delle forme di fattispecie di reato associativo nella strategia di contrasto alla criminalità organizzata è data dal diverso approccio culturale e dal diverso modo di sentire l’allarme sociale da parte dei vari Stati rispetto al fenomeno delle associazioni mafiose, e ciò non solo per le caratteristiche di organizzazione istituzionale delle associazioni mafiose, ma anche per il diverso modo di operare in chiave transnazionale.
        Così, ad esempio, in Germania l’unica forma diversa dalle associazioni criminali è quella relativa ad associazioni terroristiche, e con i limiti che quell’ordinamento esige e cioè che l’associazione, o almeno una parte di essa, sia basata in Germania; limite questo escluso, a quanto pare, per l’associazione a delinquere dedita al traffico degli stupefacenti, ma che sarebbe preferibile estendere anche a tipologie di illeciti che già operano in realtà internazionale come la tratta di esseri umani, il riciclaggio o la gestione della immigrazione clandestina.
        L’Austria nel 1996 ha introdotto una disposizione in forza della quale l’organizzazione criminale ricorre quando i membri (più di dieci) pianificano la commissione di gravi reati diretti a ottenere arricchimenti illeciti di grande portata e a esercitare un rilevante riflesso sulla politica e sul mercato economico.
        È questo un Paese che, così come il nostro, ha fatto uno sforzo in più, uno sforzo anche più tipizzante rispetto alla generica previsione contenuta nella bozza delle Nazioni Unite sul crimine organizzato transnazionale, perché questa legislazione ha indubbiamente introdotto un istituto che è una derivazione sociologica della fenomenologia mafiosa, così come del resto è quella rappresentata nell’articolo 416-bis, anche se qui l’obiettivo è diverso, giacché è volto a reprimere il fenomeno della corruzione e ad evitare indebite influenze sul funzionamento dei pubblici uffici.
        Anche la federazione russa, nel 1996, ha introdotto all’articolo 210 l’organizzazione di una associazione criminale con pene edittali severissime; mentre né in Spagna, né in Portogallo, almeno per quanto mi risulta, sono previste tipiche forme associative, cioè speciali, rientranti nel crimine organizzato, tranne quelle specifiche concernenti associazioni di tipo terroristico. Tuttavia la Spagna, recentemente, con la legge organica del 1999 ha introdotto una disposizione che parifica ai fini investigativi il traffico illegale di droga ad alcune fattispecie associative in cui si ha come fine la commissione di reati come il sequestro di persona, il falso nummario, il traffico delle armi e del materiale radioattivo e il terrorismo.
        Altro profilo degno di nota sul versante della repressione, ma anche su quello della prevenzione, è quello dei patrimoni mafiosi. Nessun ordinamento conosce (sia perché non c’è tassatività di comportamenti antigiuridici, sia perché esiste un’inversione dell’onus probandi) un istituto simile a quello italiano delle misure di prevenzione, anche perché, se i patrimoni sono il frutto di accumulazione proveniente dalla consumazione di delitti, dovrebbero in via ordinaria procedere i giudici di merito con gli istituti del sequestro e della confisca.
        Bisogna tuttavia impedire che patrimoni di provenienza sospetta in mano a personaggi sospetti, e quindi siamo al di fuori dell’alveo tipico del processo penale, possano essere utilizzati per commettere nuovi reati. A questo riguardo potrebbero sopperire discipline normative come quelle consentite dal nostro ordinamento, ma anche da quello tedesco che prevede il blocco e la gestione temporanea da parte dello Stato dei patrimoni sospetti.
        Un altro settore sul quale è necessario vigilare è quello del tentativo, del recesso attivo e quindi dei collaboratori di giustizia che hanno fornito grande ausilio alle conoscenze dei fenomeni mafiosi e alla disarticolazione delle organizzazioni criminali. È indubbio che la risposta anche in questo settore non può che essere unica ed è altrettanto indubbio che non può farsi riferimento al pentito come categoria etica, sia per le difficoltà di verifica di un fatto che rimane interno all’individuo, sia perché di norma i requisiti per l’ammissione al beneficio esulano completamente, in tutti gli Stati, sia dalla serietà che dalla volontarietà del recesso.
        E quindi la scelta statuale varia in relazione allo spessore del contributo offerto e all’impedimento di futuri reati e si può concretizzare in modo che il giudice del fatto può rinunciare all’irrogazione della pena e può modificarla in ragione del grado e della genuinità, oltre che dello spessore, della collaborazione. In molti codici è prevista un’attenuante per la confessione, o per il ravvedimento operoso, o per l’individuazione di altri complici del reato, nonché per la ricerca dei proventi del medesimo; e tutto ciò è spesso previsto non in una legge separata come quella che in questo momento sta per esaminare il Parlamento italiano. Occorre, tuttavia, fare sicuramente di più.
        Ciò che in questa sede preme rilevare è anche la necessità di fornire una eguale protezione ai testimoni di giustizia, anche quando si tratti di reati transnazionali, offrendo una tutela che assicuri loro una tranquilla esistenza sociale e lavorativa oltre che una sicurezza di dimora sia durante, sia dopo l’espletamento della loro funzione.
        Anche, ma questo è un fatto successivo, gli strumenti di acquisizione della prova per la repressione della criminalità organizzata abbisognano di essere intensificati, così come per esempio ha fatto la Germania introducendo una gamma di nuove possibilità per quello che loro chiamano la possibilità di "origliare" soprattutto a due condizioni: la prima esige che si tratti di sospetti, direi di indizi gravi ed evidenti di commissione già avvenuta di reati di criminalità organizzata, e la seconda, purtroppo un’esigenza in Italia ancora inascoltata, è che a disporre le intercettazioni sia un giudice collegiale. In questi casi la tutela della privacy e del domicilio può essere violata, giacché viene accertato giurisdizionalmente e non tramite solo organi di polizia giudiziaria o di accusa, che è in corso un’attività criminosa per gravissimi reati che pongono in serio pericolo la collettività.
        Un altro caso poi è quello di estendere, così come è avvenuto in Germania, il potere di istruzione alla polizia giudiziaria, prima ancora che l’inchiesta giudiziaria sia formalmente avviata da parte degli organi dell’accusa. In Italia, Paese in cui la figura del PM, anche in omaggio al principio della obbligatorietà dell’azione penale, è o comunque dovrebbe sempre essere quella della prima sentinella della legalità, il PM, oltre a rivestire questa figura, riveste anche quella di capo della polizia giudiziaria. Per queste ragioni mi sembra oltremodo difficile che questa possibilità di estensione avvenga, stante che tali previsioni sono previste non soltanto dal codice di rito, ma anche da specifiche norme di rango costituzionale.
        In conclusione, tenuto conto che non possiamo sottrarci al processo evolutivo — è stato già sottolineato più volte — della globalizzazione del crimine organizzato, ritengo che l’introduzione di una definizione comune dell’associazione per il crimine organizzato sia indispensabile per frenare, ancora prima degli strumenti di ricerca e di acquisizione della prova, il dilagare dei reati di criminalità organizzata. In un’Europa in cui ancora ci sono i paradisi fiscali, le nicchie per i latitanti per gravissimi reati di criminalità organizzata, i meccanismi premiali del pentitismo vanno studiati anche in chiave transnazionale, al di fuori dell’area dell’immunità e dell’impunità. Una visione autenticamente liberal-democratica — non per esprimere una opzione politica ma per esprimere un’opzione che viene fuori da quelle che sono state le istanze liberali dal secolo scorso fino ad oggi — impone, invece, che per l’Unione Europea le fattispecie di reato siano sempre più tassative e non lascino adito a dubbi e interpretazioni giudiziarie come accade per i concorsi esterni in reati associativi che possono rischiare, per inadeguatezza degli interpreti o dei protagonisti del processo, ovvero, per incompiutezza dello stato di diritto, di tramutarsi in criminalizzazioni di condotte e di comportamenti, che di per sé non hanno nulla di penalmente rilevante e che è meglio lasciare nel campo dell’etica sociale e della politica sia nazionale che internazionale.

 

Humfrey Malins
Componente della Camera dei Comuni del Regno Unito

        Signor Presidente, grazie per la sua ospitalità. Sono un deputato britannico membro della Commissione Affari interni. Le opinioni che esprimerò oggi sono le mie personali. Non rappresento il Governo britannico, giacché credo che esso non condividerebbe molte delle mie opinioni. Credo, tuttavia, di parlare a nome di molti dei miei colleghi parlamentari, anche dell’opposizione. La mia relazione si dividerà in due parti. Anzitutto parlerò della criminalità organizzata e di cosa le nazioni dell’Unione Europea possono e dovrebbero fare per combattere insieme questo male; in secondo luogo considererò brevemente la proposta di creazione di uno spazio giuridico europeo, indipendentemente dal significato di questa espressione, contro la criminalità organizzata. La criminalità costa a ciascuno dei nostri Paesi enormi quantità di denaro, le organizzazioni criminali hanno sempre più risorse e passano da un reato all’altro a seconda dei profitti e delle pene previste. Queste organizzazioni rappresentano un’enorme sfida per la nostra stabilità. Una delle principali attività della criminalità organizzata è il traffico di droga. In tribunale, come giudice, vedo le vittime dello spaccio e del consumo di eroina; tra queste vittime vi sono moltissimi giovani, che rubano non per il loro tornaconto personale, ma semplicemente per poter procurarsi il denaro con cui comprare l’eroina dalla quale dipendono. Sono persone tristi, degne di pietà, si tratta di giovani vite rovinate. Nel Regno Unito quasi il 50 per cento dei reati contro il patrimonio è legato alla droga; questa è la dimensione del problema. La nostra esperienza sarà sicuramente comune alla vostra. L’eroina, prodotta con l’oppio proveniente dai campi dell’Afghanistan viene raffinata nei laboratori clandestini presenti in Turchia; di lì, poi, secondo le tradizionali rotte dei Balcani, arriva, normalmente, nel Regno Unito passando attraverso l’Olanda e il Belgio. La cocaina proveniente soprattutto dalla Colombia, dal Perù e dalla Bolivia, arriva da noi quasi sempre attraverso la provincia della Galizia. I giornali, di recente, hanno riferito che i baroni della droga italiani sfruttano la posizione strategica dell’isola di Zanzibar di fronte alla costa orientale dell’Africa, come punto di smistamento dell’eroina, attraverso il Medio Oriente, e della cocaina proveniente all’America Latina. Quindi, che cosa possiamo fare e che cosa facciamo realmente? È necessario dunque dichiarare legali tutte le droghe? Vogliamo legalizzare l’uso della droga? Se lo facessimo i prezzi sicuramente crollerebbero e la criminalità, i reati legati alla droga scenderebbero di numero. Molte organizzazioni criminali sarebbero colpite duramente. Nel Regno Unito e in Europa molti pensano esattamente così. Se uno Stato europeo sovrano, attraverso il suo Parlamento, potesse assumere una posizione diversa, allora sarebbero fatti suoi. Di recente in Pakistan ho parlato con il responsabile dell’Ufficio antidroga e mi ha riferito che in quel Paese c’è un basso tasso di reati collegati alla droga. L’eroina, proveniente dall’Afghanistan, è disponibile a costi molto bassi ed esiste la pena di morte per i trafficanti. Nei primi otto mesi di quest’anno duecentosessanta persone sono state condannate a morte, sebbene ci siano alcuni ricorsi pendenti. Tuttavia, il capo dell’Ufficio antidroga ritiene che molti verranno giustiziati proprio perché ci sia un buon esempio per gli altri. I reati legati alla droga sono dunque poco numerosi in Pakistan.
        Se siamo contro questo terribile commercio, come è possibile collaborare, cosa possiamo fare tutti insieme? Anzitutto proporrei che l’Unione Europea in modo unitario dica ai Paesi che producono droga: o fermate la vostra produzione e le vostre esportazioni o l’Unione Europea e tutti gli Stati membri singolarmente e congiuntamente adotteranno sanzioni economiche e di altro genere contro di voi; inoltre, cercheremo di convincere anche le Nazioni Unite a fare lo stesso. Dobbiamo dire alla Turchia o a qualunque altro Paese che produca o faccia transitare al suo interno la droga, che le loro aspirazioni non porteranno a nulla, se ognuno di loro non farà la propria parte nel tentare di eliminare il problema. Forse potremmo cercare di accendere delle discussioni, dei dibattiti intergovernativi sul problema, soprattutto relativamente alla produzione di droghe sintetiche a livello europeo. Dovremmo condividere conoscenze tecnologiche in merito a particolari macchinari che possono servire ad individuare la droga. Molti Paesi hanno tecnologie più avanzate di altri, che invece non sanno quali sono le tecnologie disponibili. Le agenzie, le forze di polizia possono e dovrebbero collaborare molto di più contro i trafficanti.
        Ogni giorno, signor Presidente, mi piace bere un po’, uno o due bicchieri di alcool e poi fumare anche qualche sigaretta. La criminalità organizzata in Inghilterra adesso è passata al contrabbando di prodotti del tabacco e di alcolici. I profitti sono molto alti e le sentenze, le pene detentive sono molto meno severe rispetto a quelle previste per i reati di droga. Due anni fa le nostre dogane hanno sequestrato poco meno di due miliardi di sigarette di contrabbando. Una sigaretta su tre fumata nella parte meridionale dell’Inghilterra proviene dal contrabbando. Se un pacchetto costa 4,5 sterline nel Regno Unito, un terzo di questa cifra in Spagna e ancora meno al di fuori dell’Unione Europea, non ci si deve sorprendere che questo reato sia così diffuso. Le associazioni criminali si servono, infatti, di questo differente regime fiscale per allargare i loro traffici illegali. In Inghilterra stiamo cercando di risolvere il problema utilizzando scanner a raggi X, per cercare di individuare le sigarette contrabbandate. In questo campo abbiamo stanziato enormi quantità di denaro, riuscendo però ad individuare soltanto il 6 per cento dei veicoli impiegati per commettere reati di contrabbando. È impossibile individuare e controllare tutti i veicoli che passano all’interno dei porti. C’è quindi spazio per una politica comune a livello dell’Unione Europea? Non ne sono così sicuro. Alcuni Paesi hanno sigarette e alcool a prezzi molto inferiori rispetto ai nostri, giacché nel Regno Unito la tassazione è assai più elevata.
        E che cosa possiamo fare anche contro il traffico di esseri umani? All’inizio di quest’anno la nostra Commissione Affari interni ha studiato il problema. Ci siamo recati in Ungheria, siamo andati a Monaco, a Madrid e nel Sud della Spagna. Vorrei parlarvi di alcune delle cose che abbiamo visto lì durante le nostre visite a proposito del traffico di esseri umani. Prima di iniziare le nostre missioni, a luglio c’è stata la questione scottante dei cinquantotto immigrati clandestini cinesi trovati morti a Dover. Siamo quindi partiti di pessimo umore, eravamo molto tristi. Dopo la nostra inchiesta abbiamo concluso che la maggior parte di quelli che chiedono asilo nel Regno Unito e in Europa, ai sensi della Convenzione del ’51, sono in realtà persone che cercano una vita migliore e non sono sottoposte a persecuzioni vere nel loro Paese. In molti degli Stati visitati ci hanno detto cose che già sapevamo: la criminalità organizzata fa pagare molto denaro alla gente per trasportarla da una parte all’altra del mondo. Se occorrono novemila sterline a persona per passare dall’India al Regno Unito, ce ne vogliono mille in più per arrivare dalla Cina. Ci sono organizzazioni criminali che cercano di corrompere i funzionari della dogana per avere appoggi. Il 20 per cento degli immigrati clandestini in Germania, ad esempio, avevano già provato diverse volte ad entrare. La Francia non può controllare tutti quelli che passano attraverso i confini con gli altri Paesi europei, che fanno parte dell’Accordo di Schengen. È possibile controllare l’accesso nell’area di Schengen soltanto laddove ci sia il confine Paesi che non rientrano nel suddetto Accordo. Questo sembra accettabile in Francia, forse perché qui l’accesso ai servizi pubblici non dipende dal possesso di determinati documenti di identità. Le persone senza documenti sono tollerate e possono essere ricoverate negli ospedali, percepire sussidi e vivere in comunità pubbliche. Nel Regno Unito poi si può accedere ad ogni singolo servizio senza dover avere un documento di identità. In altri Paesi la situazione è diversa. In Danimarca, ad esempio, per l’accesso al servizio sanitario e alle scuole è necessario un numero di certificazione nazionale. Occorrerebbe quindi avere una normativa comune in merito ai documenti. È normale che in alcuni dei nostri Paesi alcuni dei servizi pubblici siano accessibili a persone che non possono provare la loro identità, mentre in altri la disciplina della stessa situazione è così diversa? Noi come Commissione abbiamo capito che i Paesi dell’Unione Europea hanno al riguardo diversi problemi, diversi approcci e diverse esigenze. Abbiamo visitato il confine tra la Germania e la Repubblica Ceca dove operano quattro diversi organi di polizia di frontiera, mentre in Spagna per questo compito vi è un solo corpo. L’allargamento dell’Unione Europea potrebbe, pertanto, portare ulteriori problemi. I confini esterni dell’area di Schengen verrebbero, infatti, controllati dalla polizia di nuovi Paesi, come ad esempio l’Ungheria, che confina con ben sette Paesi. I controlli ai confini ungheresi non sono sempre molto efficienti; in quella parte del mondo c’è uno spazio molto ampio per la corruzione dei pubblici ufficiali, anche perché le guardie di frontiera sono pagate molto meno rispetto a quelle degli altri Paesi europei. Molti degli immigrati illegali, clandestini, pagano enormi quantità di denaro agli scafisti. Si presentano, alla stazione di Waterloo Londra, provenienti da Parigi o da Bruxelles e cercano appunto asilo. In Francia sino a mille immigrati vengono alloggiati nella zona di Calais in attesa di essere sistemati da qualche parte. Le autorità francesi tollerano questa situazione. Ho incontrato un curdo che aveva pagato diecimila marchi ad una gang per poter essere trasportato attraverso tutti i Paesi dell’Europa per poi arrivare alla fine a Calais. Di solito la Spagna è la destinazione finale di quelli che arrivano dall’Africa del Nord. Ho parlato con il Ministro spagnolo competente il quale mi ha detto che la situazione in Spagna è completamente diversa. Due anni fa la Spagna ha adottato una nuova legge sull’immigrazione in forza della quale chiunque risieda in Spagna per almeno due anni può chiedere la cittadinanza e decidere di rimanere. In Germania la situazione è diversa. Se qualcuno, un somalo o un curdo, viene fermato dalle autorità di polizia e arriva da un Paese terzo ovvero dalla Repubblica Ceca, non può chiedere asilo. In Germania, in base ad accordi bilaterali, sottolineo bilaterali, i clandestini vengono rispediti nel loro Paese. In questa zona dell’Europa le organizzazioni criminali non hanno molto successo. Le autorità tedesche, in particolare quelle della Baviera, mi hanno detto che essi si trovano ad affrontare il problema del massiccio uso dei treni merci per introdurre dall’Italia immigrati clandestini. Attraverso la Romania è possibile avere dei documenti falsi. La Germania ritiene i suddetti accordi assai più efficaci di altri strumenti nella lotta alla immigrazione clandestina. È necessaria una chiara politica di immigrazione in tutti i Paesi coinvolti nel problema, giacché le misure contro l’immigrazione clandestina richiedono lo stesso tipo di approccio in uso nella lotta alla criminalità organizzata e al contrabbando. Anche la condivisione di conoscenze a livello tecnologico può contribuire moltissimo. Girando per l’Europa ho visto impiegati nella lotta all’immigrazione clandestina gli strumenti tecnologici più diversi: sensori per la rivelazione dell’anidride carbonica, sistemi di rilevazione automatica delle impronte digitali, scanner a raggi X, scanner ad ultrasuoni in Spagna per rilevare addirittura i battiti cardiaci nei veicoli, lettori automatici, strumenti per l’individuazione di droga, altri per la rilevazione veloce della validità dei passaporti, macchinari per il riconoscimento delle impronte digitali, strumenti a raggi ultravioletti avanzatissimi, apparecchiature termiche per l’individuazione di esseri umani. Quel che accade in un Paese, però, spesso non è noto in un altro. Noi vorremmo che alcuni di questi macchinari potessero essere condivisi. È in ciò che si deve attuare la cooperazione internazionale.
        Signor Presidente, ho parlato forse troppo ma originariamente erano previsti due interventi di componenti del nostro Parlamento, per cui mi sono permesso di utilizzare anche il tempo previsto per il mio collega.
        Alcuni singoli Paesi dell’Unione Europea hanno esigenze diverse, a seconda anche della diversa posizione geografica. Non ci può quindi essere un’unica soluzione comune: l’approccio più corretto sarebbe quello di avere accordi bilaterali con i Paesi limitrofi.
        Una politica comune contro il traffico illegale di esseri umani, un ordinamento giuridico comune non è né praticabile, né auspicabile; gli accordi bilaterali con i propri vicini rappresentano, invece, una forma di cooperazione molto più efficiente così come anche la condivisione di conoscenze: questo deve essere il nostro approccio per il futuro. La cooperazione non vuol dire uniformità.

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