9 maggio 1998


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Discorso del Presidente della Repubblica.

OSCAR LUIGI SCÀLFARO, Presidente della Repubblica (Si leva in piedi). Un saluto a tutti loro, con una particolare densità - mi sia consentito - ai rappresentanti delle assemblee elettive ad ogni livello, a coloro che lo sono oggi ed anche a coloro, qui presenti, che lo furono ieri. Ed un rinnovato sentimento di profonda partecipazione per i familiari di Aldo Moro e per i familiari delle vittime, che soffrirono e caddero con lui, prima di lui, in certo senso per lui.
Dopo le relazioni, gli studi, le interpretazioni e gli approfondimenti relativi alla vita politica di Moro, alle diverse responsabilità, al pensiero che quella vita ha animato e guidato, in questa conclusione vorrei fermarmi con voi a meditare sull'uomo Moro, sulla sua persona.

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Può sembrare presunzione, forse lo è, ma lo faccio con amore: vorrei cercare di comprendere quanto vi è di più difficilmente comprensibile, che è il «di dentro», il patrimonio più riservato, più difeso, proprio perché il più intimo, eppure il più vivo, il più ricco di ciascuna persona. Lo faccio muovendo da una piacevole dimestichezza con lui nel complesso lavoro nel direttivo del gruppo parlamentare della democrazia cristiana alla Camera, essendo, durante la sua presidenza, suo vicepresidente, e nell'impegno arduo al Ministero di grazia e giustizia, quando sono stato suo sottosegretario (ero l'unico, allora, né ancora vi era il Consiglio superiore della magistratura).
I primi incontri erano avvenuti all'Assemblea costituente ed al «gruppo del porcellino», alla «Chiesa nuova», dove fui invitato alle prime riunioni. Abbiamo entrambi avuto la grande fortuna di vivere l'eroica stagione della rinnovata libertà, alla guida chiara e lungimirante del Presidente De Gasperi.
Con il tempo nacque con Moro un rapporto personale, intenso, anche profondo, confidenziale. Non dimentico, a questo proposito, talune valutazioni politiche delicate, riservate, anche riguardo importanti personaggi di allora - italiani ed esteri -, segno evidente di particolare fiducia e di indiscussa certezza di riserbo.
Né dimentico, ma custodisco come tesoro prezioso, i colloqui più consolanti, ciascuno parlando della propria vita familiare, di preoccupazioni, di speranze, di progetti per i figli: era una confidenza libera da ogni riflesso politico; si fermava al lato umano, per me sempre il più prezioso, il più interessante, il più coinvolgente. Questo rapporto non si sciupò mai, mai entrò in crisi: si mantenne libero e forte, malgrado il mio non raro dissenso dalla sua linea politica e dalle sue scelte: dissenso espresso affettuosamente, in dialoghi aperti, sereni e tanto chiarificatori. Sottolineo questo dissenso, perché è bene che ciascuno di noi non dimentichi, serenamente, il proprio passato.
Ebbene, ho sempre apprezzato e gustato questa umana amicizia, questo scambio di stima, di fiducia, questo colloquiare così profondamente umano, che a volte - distanziato nel tempo - riprendeva vivo e fresco, come fosse stato interrotto il giorno prima.
Moro era uomo mite, uomo di pace; eppure aveva, in un discorso che è stato più volte citato in quest'aula, quasi gridato: «Non ci lasceremo processare dalla piazza».
Noi lo avevamo applaudito con entusiasmo, misto a meraviglia, per una sortita in lui così nuova e diversa. Sì, era mite; lo stesso timbro di voce era normalmente armonioso e accattivante. La sua mitezza non aveva alcuna parentela con la remissività.
Moro non decideva d'impeto, ci pensava anche a lungo, ma quando si era convinto di una tesi, di una via da perseguire, era quasi impossibile pensare che vi rinunziasse, tanto la sua scelta era argomentata e motivata. Eppure era sempre disponibile all'ascolto, anche se era evidente che in lui la decisione si era concretata, e le osservazioni in contrario finivano per diventare controprova della sua decisione e della sua scelta.
Ma il modo di far prevalere la sua tesi era pacato, argomentato, paziente; desiderava che gli altri si convincessero: era certamente uomo meditativo. I suoi pensieri sentivano del suo profondo e assai di frequente del suo tormento, delle incertezze, dei dubbi; uscivano da un esame scrupoloso della realtà, studiata nei particolari; erano quindi sottoposti ad esame, a prove, a confronti serrati, ad ipotesi future. Quando li esprimeva si sentiva il tormento; no, meglio, l'elaborazione vissuta, ed anche la permanenza di interrogativi superati, ma non vinti. Per questo si scherzava sul suo esprimersi, che costringeva a momenti di faticosa interpretazione, se addirittura non presentavano ombre di mistero o segni di contraddizione.

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Dentro di lui era tutto chiaro, ma l'esposizione risentiva del travaglio vissuto, forse ancora soltanto assopito.
Penso che tante volte il suo parlare, marcatamente prudente, esprimeva la sua volontà di saggiare quanto il suo pensiero poteva essere compreso, poteva essere accolto. Basterebbe pensare alle «convergenze parallele», per sintetizzare il dover muoversi insieme senza perdere la propria identità, o ricordare, al momento del grande passo verso il partito comunista, quella maggioranza programmatico-parlamentare che non poteva, non doveva diventare maggioranza politica. Lui certamente intravedeva un cammino con fasi diverse e forse sapientemente distanziate.
Proprio a proposito di queste espressioni singolari veniva in superficie un'altra sua caratteristica peculiare, quella di trovare quasi ad ogni costo un denominatore comune con altre forze, con altri schieramenti; era alla ricerca di cosa c'è di buono in ogni concezione e impostazione politica, perché quel tanto o quel poco di positivo non si disperdesse in facili, quanto aride contrapposizioni.
Perché non fare un tratto di strada insieme, se un punto, una questione, anche una sola, ma utile alla nostra gente, ci trova concordi? Perché? In sostanza, era l'interrogativo che aveva trovato nel magistero di Papa Giovanni XXIII una direttiva valida non solo per il mondo cattolico. Anche quando doveva scegliere una via di netta distinzione, anzi di contrapposizione, si sentiva la fatica, e soprattutto trasparivano le forti riserve che nel suo intimo non si erano spente.
La vocazione al dialogo era nel suo animo, direi nella sua natura; proprio per questo era per natura e per convinta volontà uomo di pace. Nasceva questa vocazione da quella intima mitezza che gli era propria.
Questa sua natura si manifestò nei tremendi giorni della infame prigionia: l'infame prigionia.
Chi studiò, preparò, diresse quel crimine politico sapeva di colpire l'unica voce che di fatto, in quel frangente storico, poteva avere ascolto ben oltre la sua parte politica. Per questo, quella voce doveva essere spenta? Più tardi, una successione di processi riuscì a raggiungere i responsabili dell'orrendo crimine. Ma le intelligenze criminose che scelsero, mirarono e centrarono il bersaglio in quel momento politico essenziale, sono comprese in quei processi? E, se no, a quale giudice risponderanno? Eppure, ne risponderanno!
Le sue lettere invitavano a cercare contatti, ad aprire dialogo con i suoi carcerieri. Ne nacque una discussione delicata, difficile, che fu responsabilmente risolta con il «no» ad una qualsiasi trattativa, che avrebbe portato fatalmente al riconoscimento delle brigate rosse, lo Stato non potendo in alcun modo venire a patti con l'antistato.
Ma il pensiero di Moro era, a mio avviso, diverso e distinto; non vedeva nel dialogo il fatale conseguente riconoscimento delle brigate rosse, ma fermava la sua attenzione sul non rifiutare il parlare, il dialogare.
In quei giorni, di mia iniziativa, andai una volta alla sede della democrazia cristiana a piazza del Gesù. Mi pare fossero arrivate la prima e la seconda lettera di Moro. Nella stanza di Zaccagnini, segretario, tante persone, componenti degli organi ufficiali della democrazia cristiana, e un angoscioso vociare, con ipotesi, proposte, timori e sgomento. Non facendo parte di quelle responsabilità, mi trattenni pochi minuti. Dissi a Zaccagnini: «Perché tanta meraviglia nell'ipotesi fatta da Moro di cercare un incontro? Io ti pongo una sola domanda: se fossi stato sequestrato tu, e fossimo qui a discutere con Moro, lui proporrebbe di non trattare?». Come risposta fu il silenzio.
Ma nell'ipotesi fatta da Moro e nelle sue intenzioni certamente prevaleva il principio, per lui quasi assoluto, del non negare un incontro, per cercare di capire, di riuscire a comunicare, a colloquiare per tentare di vincere con il ragionamento le armi, la violenza.

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Fu davvero uomo di dialogo. Certo, le formule per trovare intese che uscivano dalla sua mente potevano creare interrogativi, dubbi, persino meraviglia, ma l'intenzione era semplice e chiara.
E fu uomo di verità, non sempre esplicita, non sempre da tutti accessibile, ma nella sostanza fu uomo di verità.
I suoi giudizi erano sfumati, bisognava coglierli nelle parole che potevano sembrare incerte, forse contrastanti, ma in ciascuna esisteva una valutazione precisa, non equivoca. In diverse sue lettere espresse giudizi, tratteggiò con dura limpidezza persone di diversa pubblica responsabilità, anche collaboratori e suoi seguaci politici.
La inimmaginabile sofferenza della privazione della libertà, con la tragica previsione della sua conclusione, furono certo elementi terribilmente condizionanti per lui. Ma quella sofferenza, per così dire, liberava il suo pensiero dalla tradizionale riservatezza, dal consueto timore di creare fratture e divisioni, e i giudizi uscirono così, come erano maturati dalla sua esperienza, nel suo spirito. Quanto dolore!
Moro visse il senso del dovere e il senso dello Stato; non si sottrasse alle responsabilità, anche le più ardite, quando aveva conquistato la certezza morale che lì fosse il suo posto di testimonianza, lì il suo dovere.
E visse il dovere con scrupolosa coscienza, sentendo che il servizio al quale era chiamato doveva essere assolto totalmente, senza riserve, senza ritrarsi nell'ora della prova, senza sfuggirne mai.
Lo Stato era chiaramente per lui il luogo vivo dell'incontro, del comune lavoro, della condivisione. Il non servirlo sarebbe stato un tradire la gente, soprattutto chi più ha bisogno di solidarietà, di difesa: non recuso laborem.
Moro fu uomo di fede, di grande, convinta fede. La sua religiosità era protetta da discrezione, da pudore, dal non voler turbare gli altri: ma era viva, era vera. Soprattutto era vissuta: la messa del mattino, la comunione, il non breve silenzio in chiesa, senza alcuna manifestazione esterna, senza apparenze.
La sua giornata scorreva in quella luce, era animata da quella preghiera. Si sentiva che quel silenzio meditativo, tanto assonante alla sua anima contemplativa, durava in lui tutta la giornata fra gli impegni politici e le responsabilità di governo. Fu la forza che gli consentì di rimanere sereno nelle alterne vicende della vita politica, di superare incomprensioni e amarezze, di salire e scendere le scale del potere con compostezza e dignità.
La fede fu l'unica compagna del suo calvario. Solo, di fronte alla tragedia che si consumava in lui, con la terribile, fatale sensazione, o convinzione, di essere abbandonato: forse la prova più terribile che Dio non gli abbia voluto risparmiare. Solo, con l'amore infinito per la sua sposa, i suoi figlioli. Solo, senza poter almeno sentire il tormento, la sofferenza, la drammatica vicenda che in quegli stessi momenti vivevano i suoi amici, straziati fra la sua vita e i tremendi doveri dello Stato.
In quella solitudine, la fede non lo lasciò mai e lo guidò al martirio. Rimane, offerta inestinguibile per chi lo amò, l'invincibile mistero della sua passione, delle interminabili giornate intrise di dolore, di vane speranze, di sgomento, di preghiera. Coepit pavere et taedere.
Signori, ho solo cercato di intravedere qualcosa del suo «io» intimo profondo, mentre nell'intelletto e nel cuore, quasi antico salmo di preghiera e di lamento, ritorna la voce di Paolo VI, amico: «Io scrivo a voi, uomini delle brigate rosse. Restituite alla libertà, alla sua famiglia e alla vita civile l'onorevole Aldo Moro, uomo buono e onesto, che nessuno può incolpare di qualsiasi reato, o accusare di scarso senso sociale, di mancato servizio alla giustizia e alla pacifica convivenza civile». Era l'ultima speranza!
E ritorna ancora la voce di Paolo VI, pontefice che dialoga con il suo Dio: «Chi può ancora ascoltare il nostro lamento, se non ancora tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo uomo buono, mite, saggio, innocente e amico. Ma tu, o Signore, non

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hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla fede nel Cristo, che è la resurrezione e la vita. Per lui, per lui, Signore, ascoltaci!».
Ognuno può trarne grande ricchezza: e sarà il miglior ricordo di Aldo Moro. Grazie (Il Presidente della Camera dei deputati, il Presidente del Senato della Repubblica e tutti i presenti si levano in piedi - Seguono vivissimi, generali applausi).