Desidero rivolgere il mio saluto al Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, che onora con la sua presenza la cerimonia odierna.
Saluto l’onorevole Massimo D’Alema, che ricorderà la figura e l’opera di Enrico Berlinguer, le autorità presenti e tutti gli intervenuti.
Un saluto ed un ringraziamento particolare voglio rivolgere ai familiari di Enrico Berlinguer, la cui presenza costituisce per tutti noi motivo di grande onore: la signora Letizia; i figli Bianca, Maria Laura e Marco; il fratello Giovanni e Luigi Berlinguer, cugino di Enrico.
Il tempo trascorso dalla morte di Berlinguer rende non semplice il compito di ricordarne la figura. Vent’anni sono forse troppi per una discussione tutta incentrata sul peso del suo pensiero e della sua attività nell’attuale contesto politico e istituzionale. Sono sicuramente troppo pochi per una prospettiva esclusivamente storica, che guardi a Berlinguer soltanto come ad una prestigiosa figura del nostro passato.
Ricordarlo oggi esige l’onere di non schivare questa difficoltà, ma di affrontarla direttamente. Esige, come in tutte le commemorazioni che la Camera dei deputati dedica alle figure che hanno segnato la vita della Repubblica, la capacità e la volontà di non ridurre il ricordo ad un mero affresco celebrativo, ma al contrario di farne un momento vivo, utile a riflettere sul nostro passato e sul nostro futuro.
Per questa ragione, desidero lasciare il dovuto spazio all’intervento dell’onorevole Massimo D’Alema, che illustrerà la figura di Enrico Berlinguer in tutta la sua ampiezza e complessità, e mi soffermerò su alcune sue scelte e su alcuni aspetti della sua persona che hanno impresso segni profondi non solo nella memoria degli italiani che quelle scelte hanno condiviso, ma anche nel dibattito sulle potenzialità, sui limiti, sulle prospettive dell’Italia.
Berlinguer sentiva fortemente la necessità di ricondurre la riflessione e l’azione del PCI nell’alveo delle grandi questioni nazionali. I temi della politica economica, dei modelli di sviluppo della società, del rafforzamento della democrazia erano sempre letti e analizzati da un punto di vista che potremmo definire “nazionale”.
Nonostante la forte vocazione internazionalista del suo partito, Berlinguer richiamava costantemente il ruolo che il PCI ebbe, assieme alle altre forze antifasciste, nella Resistenza, nella lotta di liberazione e nel processo costituente, per sottolineare il radicamento del comunismo italiano nei fatti fondativi della Repubblica. Questo tratto non venne mai meno. Spesso richiamato nei suoi discorsi e nelle sue interviste, fu messo alla prova dei fatti, talvolta drammaticamente.
I fatti sono quelli noti dell’accettazione della collocazione atlantica dell’Italia e della piena adesione alla costruzione europea, ma soprattutto quelli della linea della fermezza nei confronti del terrorismo. La scelta di non trattare con le Brigate rosse durante il rapimento di Aldo Moro, condivisa dalla maggior parte delle altre forze politiche, fu difficile e dolorosa, ma fu presa nella acuta consapevolezza che vi era in gioco la tenuta delle Istituzioni repubblicane e la lealtà verso lo Stato.
Intransigenza significava per Berlinguer ferma applicazione delle leggi dello Stato nel quadro delle norme costituzionali. Lottare contro il terrorismo e contro ogni forma di eversione e di violenza politica, tesa a minare la democrazia, voleva dire per lui difendere le masse popolari che per la conquista della democrazia avevano lottato.
Anche la formula del compromesso storico - ancora oggi oggetto di analisi critica - aveva senz’altro, nella prospettazione che Berlinguer ne fece, una forte impronta di tenuta complessiva del Paese di fronte ad una crisi profonda.
Al di là della fortuna che quella formula ebbe, sia nel suo impianto teorico sia nelle esperienze delle maggioranze di governo della settima legislatura, essa costituiva per Berlinguer l’aspirazione ad una rinnovata consapevolezza comune tra componenti diverse della storia italiana, della società, della cultura, al fine di rafforzare le basi democratiche dello Stato nel quadro della Costituzione repubblicana.
L’attenzione agli interessi nazionali è presente anche nell’europeismo di Berlinguer. Egli aveva fiducia nella costruzione di un soggetto più ampio degli Stati nazionali europei che, senza annullare gli interessi peculiari di questi, consentisse di realizzare azioni politiche in grado di incidere sugli equilibri mondiali.
Nel suo ultimo intervento al Parlamento europeo, il 13 settembre 1983, parlando sulla riforma della Comunità, egli affermava la necessità di porre in modo nuovo la questione del rapporto tra sovranazionalità e difesa degli interessi nazionali. In particolare, Berlinguer disse che “diversamente da quanto si poteva concepire all’inizio della Comunità, oggi, su alcuni terreni, proprio la definizione di politiche comuni sovranazionali può rappresentare la migliore tutela degli interessi dei singoli popoli e paesi”.
Contribuire alla costruzione europea significava dunque per Berlinguer andare incontro nel modo appropriato alle attese di tanti paesi di ogni continente, che attendono che l’Europa svolga un ruolo attivo e determinante sugli equilibri internazionali e sulla costruzione di un nuovo e più giusto ordine economico internazionale.
Una forte preoccupazione rispetto alle fragilità nazionali era sottesa anche alla cosiddetta “questione morale”, posta da Berlinguer, e alla crisi dei partiti, da lui denunciata con lucida anticipazione. Egli ebbe il merito di porre entrambi i temi all’attenzione dell’opinione pubblica e del dibattito politico, anche se a questa consapevolezza non fece sempre seguito la capacità di coinvolgere le altre forze politiche su proposte specifiche.
La questione morale fu spesso posta con una certa introversione, più per asserire la diversità del PCI rispetto agli altri partiti che per chiamare la politica e le forze dell’economia a interrogarsi sulle ragioni, sempre attuali, che pongono l’etica pubblica come un imperativo morale, ma anche come una fondamentale condizione per garantire un funzionamento efficiente e corretto del mercato e per preservare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni.
Anche rispetto al ruolo dei partiti, Berlinguer denunciò più volte i rischi di una forte involuzione. I partiti, a suo giudizio, andavano perdendo capacità di attrazione, di aggregazione delle persone intorno a ideali, rischiando di divenire “macchine di potere e di clientela”. Potrebbe apparire come una visione antipartitica. In realtà, vi è al contrario tutta la fiducia in un sistema dei partiti intesi come soggetti fondamentali della vita democratica.
Semmai, la sua denuncia sul ruolo invasivo dei partiti nei confronti delle istituzioni non riuscì a tradursi compiutamente nell’affermazione della necessità di avviare un processo vasto di riforme istituzionali. Berlinguer continuò a credere che fosse sufficiente recuperare dall’interno l’integrità e la forza dei partiti, mentre il problema era anche quello di costruire istituzioni in grado di garantire una maggiore stabilità agli esecutivi e un nuovo rapporto fra rappresentanza e capacità di governo.
Fu un atteggiamento che Berlinguer ebbe anche rispetto alla questione della modernizzazione del Paese, nel quale taluni potrebbero intravedere una sorta di ritrosia, e che si espresse emblematicamente nella sua idea di austerità, che - con gli occhi di oggi - può apparire come la via proposta allora per superare una difficilissima congiuntura economica.
In realtà, Berlinguer indicava l’austerità non come misura politica contingente, ma come un mezzo per ridiscutere in maniera radicale il modello di sviluppo e di società. Per lui austerità significava rigore, serietà, ma anche efficienza, buon uso delle risorse, lotta contro lo spreco, lo sperpero, l’individualismo sfrenato.
Nella sua visione non si trattava cioè di un modello statico, conservativo, privo di slancio verso la crescita e lo sviluppo. Egli proponeva, al contrario, un modello nel quale la creazione di ricchezza passasse attraverso il superamento degli squilibri, delle ingiustizie, delle contraddizioni e delle disuguaglianze.
L’Italia ha in realtà intrapreso fin dalla metà degli anni Ottanta la strada della modernizzazione, così come era necessario. Ma è innegabile che i frutti migliori di questo processo in termini di riforme del mercato, dei servizi pubblici e dell’amministrazione pubblica, dei sistemi di protezione sociale si siano avuti quando si è ricercato e trovato un equilibrio fra modernità e quadro di valori. Il mero richiamo ai valori in sé e per sé non fa progredire il Paese. Ma una modernizzazione senza valori rischia di essere fragile.
Questa concezione, che mira ad un modello di sviluppo in cui il benessere non si identifica solo con il possesso di beni ed in cui il concetto di ricchezza porta con sé elementi non materiali - fatti di solidarietà, di conoscenza, di capacità di uscire dalla ristrettezza dei confini individuali - è la stessa concezione che Berlinguer pone a base della sua visione del problema del governo dei processi di mondializzazione dell’economia e delle finanze.
Sin dalla fine degli anni Settanta, Berlinguer acquisisce una chiara consapevolezza che il futuro degli equilibri mondiali non si giocherà più solo sulla contrapposizione tra i due blocchi, ma anche e soprattutto sulla contrapposizione tra Nord e Sud del mondo. Nel suo intervento al Parlamento europeo il 16 gennaio 1980, in occasione dell’invasione dell’Afghanistan, Berlinguer, oltre ad esprimere la dura condanna dell’intervento sovietico, sottolinea come le ragioni della pace e dell’eliminazione dei conflitti siano strettamente legate alle ragioni dell’eguaglianza nelle condizioni dei popoli.
Le situazioni di forte squilibrio nello sviluppo dell’economia, della società, dei livelli di istruzione e di ricerca sono il terreno di coltura più fertile nel quale si sviluppano le fratture fra aree diverse del mondo, fra zone più sviluppate e zone meno sviluppate: “Bisogna dare la prova di comprendere - cito le sue stesse parole - che la causa della pace e della giustizia nel mondo non tollera più quei privilegi e quegli sprechi, quei modelli di vita e di consumo propri delle società industrializzate, i quali offendono, feriscono e suscitano la legittima reazione di grandi masse umane, di interi continenti”.
E’ questo un tema centrale oggi nelle relazioni internazionali e nella stessa lotta al terrorismo, perché il terrorismo internazionale cerca di sfruttare il risentimento delle masse di popolazione che stanno ai margini dei processi di produzione e di circolazione della ricchezza a livello mondiale, aggregando intorno a posizioni fondamentaliste uomini e donne disposti anche al sacrificio personale non solo per fanatismo e indottrinamento, ma anche per l’assoluta mancanza di prospettiva e di fiducia nella possibilità di accedere a condizioni di vita più dignitose.
Di Berlinguer ci rimane un grande patrimonio di intuizioni e di scelte coraggiose. Il punto non è oggi quello di stabilire quante di quelle intuizioni e di quelle scelte fossero allora condivisibili o meno. Il punto fondamentale è che esse furono sempre il frutto di una concezione alta della politica e di un impegno totale.
E’ stato un uomo di un rigore straordinario. Ma non fu mai un politico rigido. Amava ripetere che le idee politiche, per tradursi in realtà, devono stare “sotto la pelle della storia”. La politica, nella sua concezione, deve tendere continuamente a realizzare una sintesi tra spontaneità e riflessione, tra immediatezza e prospettiva, tra intuizione e ragionamento.
Gli piacevano i “pensieri lunghi”, aveva fiducia nelle idee, nel pensiero strategico, ma anche nell’atteggiamento critico, come costante capacità aurocorrettiva che la politica deve avere.
Anche in questo sta probabilmente la forza carismatica di Enrico Berlinguer. Un carisma fatto di parsimonia nell’uso delle parole e di poche immagini. Fatto di competenza, di compostezza, di riservatezza. Tutte doti che insieme componevano il suo carisma, inteso come “dono”, come capacità di suscitare la fiducia e l’affetto di tante persone che condividevano le sue idee, ma anche la considerazione e il rispetto da parte di chi quelle idee non condivideva.
Ce ne offre una testimonianza emblematica il giudizio che di Berlinguer ebbe a formulare Cesare Romiti, amministratore delegato della FIAT in anni difficili, in cui il conflitto sociale assumeva spesso i toni aspri dello scontro: “Io non sono comunista, né lo sarò mai - sono le parole di Romiti (…);
Berlinguer è un leader che ho sempre molto contestato; però non posso dimenticare la battaglia di Berlinguer sull’onestà pubblica e non posso non apprezzarne il coraggio morale, l’integrità”.
Berlinguer aveva anche la capacità di guardare al futuro. Al futuro dell’Italia, dell’Europa, del mondo. Al futuro delle giovani generazioni, che egli chiama a impegnarsi, a non ridurre la propria esistenza in angusti confini individuali.
In una intervista sui giovani, rilasciata nel 1981, disse: “Il riscatto e la liberazione dei giovani – degli uomini – presuppone un impegno individuale, della singola persona, il rispetto delle sue propensioni e vocazioni, delle sue specifiche preferenze e aspirazioni personali nei vari campi: ma si realizza pienamente e duraturamente solo attraverso uno sforzo collettivo, un’opera corale, una lotta comune. Insomma ci si salva e si va avanti se si agisce insieme e non solo uno per uno”.
In questa esortazione c’è una visione alta e nobile dell’impegno politico. Essa costituisce la testimonianza più preziosa che Berlinguer ha lasciato non solo ai suoi compagni di partito ed a chi ne ha condiviso le battaglie nella sinistra italiana ed europea, ma anche a chi come me, avendo militato su opposte sponde politiche, ne ricorda l’impegno serio e rigoroso nella vita delle Istituzioni.
Proprio questo rigore morale, questa dedizione e intransigenza civile è per tutti coloro che lo hanno conosciuto, indipendentemente dalle loro idee di oggi e di ieri, l’eredità più vera di questo leader politico, che ha dedicato la sua vita alla ricerca di una via italiana per la sinistra che salvaguardasse le nostre peculiarità nazionali. |