Giacomo Matteotti fu figura poliedrica – e davvero si potrebbe dire “dalle molte vite” – che tutte consumò in un gran fuoco di passione e di abnegazione nello studio, nella ricerca giuridica, sociale e politica, nel lavoro diurno e notturno, nella propaganda, nell’organizzazione, nell’amministrazione, nell’impegno nei consigli comunali e provinciali e nel Parlamento nazionale. Sempre consapevole delle proprie scelte e delle rinunce che esse comportavano, sempre pronto anche al sacrificio, sino a quello supremo, e tuttavia animato, quasi sino alla fine, della speranza di potere un giorno trovare la possibilità di conciliare i propri interessi culturali con la strenua difesa degli interessi del proletariato e la non meno strenua difesa della libertà. Matteotti fu studioso di diritto, di diritto penale prima e di pubblica finanza poi; fu organizzatore di leghe bracciantili per il collocamento della mano d’opera in un zona d’Italia devastata dalla miseria, dalle malattie, dall’emigrazione, dalla prepotenza degli agrari; fu amministratore delle pubbliche cose nei comuni e nella provincia del suo Polesine, fu uomo di partito combattivo e coraggioso, fu deputato per ben tre legislature, la terza delle quali fu ahimè ben breve perché la vita gli fu subito tolta. A questo aspetto del Matteotti parlamentare ha prevalentemente indirizzato il nobile suo intervento, in questa Camera dove altre volte Giacomo Matteotti fu degnamente commemorato, il presidente Pierferdinando Casini: perché qui furono dati da Matteotti alcuni dei suoi contributi più impegnati e più significativi, perché qui egli ebbe negli ultimi anni di vita una delle sue sedi preferite, forse la preferita tra tutte, perché qui intese portare parole di protesta, di monito, di preveggenza che fossero intese in tutta la nazione e non solo nel suo collegio elettorale, perché da qui partì il suo esempio in una dimensione che doveva divenire mondiale, perché qui, dal contegno coraggiosamente tenuto contro la dittatura, ebbe origine la sua drammatica fine. Di questa dimensione di Matteotti le parole del presidente Casini hanno dato alta testimonianza, sì che la nostra commemorazione, nell’80° anniversario di quella morte, potrebbe finire qui. Tuttavia, incaricato di qualche contributo più specifico sulle attività di Giacomo Matteotti, cercherò di assolvere il compito, reso ad un tempo più facile e più difficile per la molteplicità e la ricchezza delle biografie su di lui esistenti e degli altri studi che alla sua figura sono stati negli scorsi decenni e fino ad oggi dedicati. Dunque, anzitutto, Matteotti penalista, perché fu negli studi del diritto e della procedura penale che ebbe inizio la sua giovinezza operosa e fu alla loro diligente e informata coltivazione che sembrarono, in un primo momento, unicamente indirizzarsi la sua vita e la sua carriera. Del contenuto di detti studi ho avuto modo di occuparmi, presentando or è poco più di un anno i due volumi di Scritti giuridici, curati con sapienza e con amore dal professore Stefano Caretti, dalle cui pluriennali indagini su ogni aspetto della vita di Matteotti fatalmente trarrò molti riferimenti: in particolare, anche dalle sue raccolte delle commoventi Lettere a Giacomo e delle tenerissime Lettere a Velia, la moglie fidata ed amata che dopo pochi anni di gioia familiare con Giacomo e i tre bambini fu costretta a vivere in una permanente e trepidante lettera causata dalle assenze del marito travolto dagli impegni politici, e non di rado in grave ansietà per la stessa sorte di lui. Gli scritti penalistici di Matteotti vertono sia sul diritto sostanziale che sul diritto processuale (le due materie furono sino al 1938 oggetto di insegnamento congiunto) e non è questa la sede per soffermarvisi. Vorrei invece ricordare brevemente il contesto in cui quegli studi si svolsero. Matteotti apparteneva a famiglia che traeva umili origini da un paesino del Trentino, nella Val di Pejo, donde s’era spostata con il nonno di Giacomo, Matteo, a Fratta Polesine in quel di Rovigo. Il padre di Giacomo, Girolamo, sposatosi ad Isabella Garzarolo, donna di forti capacità e di grandi virtù, con il solerte lavoro di calderaio (lavoratore del rame e venditore diretto dei risultati del proprio lavoro) e con una vita tutta di risparmio ed estremamente oculata, era riuscito a diventare proprietario di vari terreni e fabbricati sparsi nel Polesine, conseguendo così quella media agiatezza che gli consentì di avviare i figli maggiori agli studi superiori, per i quali si dimostravano particolarmente dotati. Girolamo venne a morte assai giovane, nel 1902, quando Giacomo non aveva che diciassette anni. Nell’azienda paterna, accanto alla madre, subentrò per qualche tempo il giovanissimo Silvio, mentre gli altri due figli, Matteo e Giacomo, proseguivano con grande alacrità nei loro studi. Matteo, il maggiore, divenne cultore di economia politica, studiando prima a Venezia e poi a Torino, e pubblicando importanti scritti in materia di lavoro e previdenza sociale, alcuni nella “Riforma sociale” di Luigi Einaudi ed altro in un importante volume, del 1900, dedicato all’assicurazione contro la disoccupazione con particolare riguardo alla Germania e alla Svizzera. Giacomo si volse invece alla criminologia, ai sistemi penitenziari e al diritto penale. Scriverà Luigi Einaudi nel 1925, commemorando Giacomo e ricordando il suo amico Matteo, venuto a morte per etisia sin dal gennaio 1909, che “l’abito scientifico doveva essere in quella famiglia quasi una seconda natura”. Nel gennaio 1919 Giacomo perdette, sempre a causa di etisia, anche l’altro fratello, il minore, Silvio. Addolorato e avvilito da queste premature morti familiari, si allontanò per vari mesi dall’Italia per proseguire i suoi studi in Inghilterra. La sua prima produzione scientifica si svolge appunto in quel biennio che abbraccia il 1910 e il 1911, quando si recò anche in Inghilterra, in Belgio, in Olanda, in Francia , in Austria e ripetutamente in Germania, sempre a fini di apprendimento delle lingue e di studio; ed il suo libro sulla “Recidiva”, (approfondimento della tesi di laurea svolta con Alessandro Stoppato nel novembre 1907 presso l’Università di Bologna riportando il massimo dei voti e la lode) attesta quanto frutto egli avesse tratto dalla disamina degli ordinamenti e degli scritti d’altri paesi d’Europa. Sennonché la politica, nell’ambito del partito socialista e nell’interesse degli amati conterranei dello sfortunato Polesine, la cui passione gli era stata trasmessa dal fratello Matteo, lo attraeva in misura crescente; e quando, sempre nel 1910, candidato suo malgrado al Consiglio provinciale di Rovigo fino a poco tempo prima rappresentato dal fratello Matteo, per il collegio di Occhiobello, riesce eletto, prima declina l’incarico con una lettera da Oxford e poi, respinte che furono unanimemente le sue dimissioni, riprende il cammino verso l’Italia e diventa anche consigliere in una decina di comuni (possibilità allora consentita ma contro la quale egli prenderà posizione qualche anno dopo alla Camera dei Deputati, appena elettovi, con una proposta di legge), nonché sindaco di Villamarzana (come era stato il fratello Matteo) e di Boara. A questa attività, attesi la competenza e l’impegno in essa dimostrati, si accompagna incessante la consulenza – e prima ancora l’organizzazione – di leghe, circoli e cooperative in una zona dove, per le condizioni particolarmente disagiate dei lavoratori agricoli e per le malattie ivi tradizionalmente imperanti è a tutti noto quanto ve ne fosse bisogno. In breve tempo Matteotti si distinse come sostenitore delle giuste rivendicazioni operaie e contadine, e in genere nel campo della giustizia fiscale,attirandosi le profonde antipatie del ceto possidente locale, al quale egli stesso ormai apparteneva. Cercava anche, nel frattempo, di frequentare lo studio legale di Stoppato, che lo esortava alla libera docenza e alla carriera universitaria (è noto che Stoppato apparteneva in politica ai clericali moderati e che fu anche deputato in varie legislature e poi senatore dal 1920) e cercava altresì di continuare i propri studi penalistici e penitenziari con la collaborazione a riviste; ma la vita amministrativa e politica ogni giorno più ne lo distoglieva, essendo impossibile- specialmente con quel tipo di attività che l’arretratezza e la miseria del Polesine richiedevano – conciliare aspirazioni ed esigenze tanto diverse. Il lavoro in campo penale fu da Matteotti ripreso in forza della sorte toccatagli negli anni di guerra (una specie di confino militare dovuto alla sua attività pacifista ed antimilitarista), oltre che nell’immediato dopoguerra prima d’essere eletto deputato. Fu il biennio 1917-1919, dopo del quale la sua partecipazione agli studi penalistici, nonostante gli incoraggiamenti che riceveva anche da altri rinomati maestri, come Eugenio Florian e Luigi Lucchini dovette completamente cessare. E’ l’epoca in cui scrive una lettera alla moglie lamentando di non avere “dieci vite”. Tuttavia la forzata cessazione non avvenne per gli studi in generale, poiché si dette a quelli più legati alla sua attività politica, e cioè a quelli di economia politica e di scienza delle finanze. Comunque i suoi scritti di diritto e procedura penale attestano le sue doti di giurista e lasciano pensare che se avesse continuato egli avrebbe potuto diventare professore universitario nella materia che più lo aveva appassionato nei suoi più giovani anni. Né Matteotti tornerà più indietro in questa rinuncia, nonostante avesse dedicato anni di studio per preparare un autentico trattato sulla Cassazione penale di cui era arrivato a gettar giù i primi capitoli l’indomani delle elezioni del 1924 gli scrive una cortese lettera (a cui l’autore farà cenno in uno scritto commemorativo del 1924 sulla Rivista penale da lui diretta) l’alto magistrato esenatore del Regno, professore Luigi Lucchini, in politica liberale ed anzi conservatore, per sollecitarlo a riprendere l’impegno scientifico ,in vista anche della libera docenza. E Matteotti, il 10 maggio, un mese prima della terribile morte, così gli rispondeva: “Illustre Professore, trovo qui la Sua lettera gentile e non so come ringraziarla delle espressioni a mio riguardo. Purtroppo non vedo prossimo il tempo nel quale ritornerò tranquillo agli studi abbandonati. Non solo la convinzione, ma il dovere oggi mi comanda di restare al posto più pericoloso, per rivendicare quelli che sono secondo me i presupposti di qualsiasi civiltà e nazione moderna. Ma quando io potrò dedicare ancora qualche tempo agli studi prediletti, ricorderò sempre la profferta e l’atto cortese che dal maestro mi sono venuti nei momenti più difficili. Con profonda osservanza, dev.mo Giacomo Matteotti” La data – mi scuso di ripeterlo – è il 10 maggio 1924. Su Matteotti promotore ed organizzatore di leghe di lavoratori non è qui possibile soffermarsi. Occorrerebbe attingere con il dovuto approfondimento alle opere sulle lotte agrarie nella valle padana nei primi decenni del secolo scorso. Basterà ricordare che fu una lotta intensa, coraggiosa, pericolosa, ma non priva di successi. I braccianti del delta padano ottennero, per l’intervento di Matteotti, il riconoscimento delle loro leghe come rappresentanti sindacali del bracciantato per il collocamento dei lavoratori e per l’impossibilità della mano d’opera. La lotta continuò tuttavia asperrima e l’impegno di Giacomo Matteotti si rinnovò più volte fino alla sua tragica fine.
Arduo è anche il parlare in modo appena adeguato di Matteotti amministratore provinciale e comunale, tanto ricca, penetrante ed assidua, tanto ricca, penetrante ed assidua fu per circa dieci anni questa sua attività. Di tutto si occupava e tutto vedeva e – quel che più conta – con competenza autentica. Aiutava gli amministratori socialisti dei comuni nella corretta redazione dei bilanci, sino a incontrare le critiche dei “rivoluzionari”, che lo attaccavano dicendo che così operando si aiutava lo Stato borghese. Nei tre volumi dei suoi “Discorsi parlamentari” che nell’anno 1970 la camera dei Deputati, presieduta allora da Sandro Pertini, volle pubblicare, nel volume terzo, accanto ai discorsi e agli altri interventi dei cinque anni in cui Matteotti fu deputato, furono inclusi – fatto non consueto per quella collana di pubblicazioni – una serie di discorsi da lui tenuti quale consigliere provinciale di Rovigo tra il 1910 e il 1916, anno in cui fu chiamato sotto le armi come soldato. Quella della Camera fu una iniziativa sana, integrata del resto con altri importanti documenti, perché collegata con i numerosi discorsi tenuti alla Camera stessa nelle materie concernenti gli enti locali e anche per dare un’idea della reale dimensione dell’uomo e del suo impegno. Ed inoltre gli argomenti dei discorsi di Rovigo si intersecano in più punti con quelli di Roma, e viceversa; così nella materia delle elezioni locali, della finanza locale, della situazione scolastica, della sanità, dell’agricoltura, dei trasporti, della viabilità. Dominarono in tutti - a parte quelli sulle elezioni – le preoccupazioni per la spesa pubblica e una costante vigilanza per impedire spese giudicate inutili o che potrebbero essere meglio avviate verso direzioni diverse di quelle proposte dalla Deputazione. L’oratore si occupa dei minuti bisogni quotidiani delle popolazioni e dimostra di conoscerli a fondo. Una delle preoccupazioni ricorrenti è quella delle comunicazioni tranviarie. Diligentissimo fu poi sempre da parte sua l’esame dei conti consuntivi e dei bilanci di previsione della provincia. Matteotti, nella maggioranza o all’opposizione, è sempre indipendente, ma la pertinenza e puntualità dei suoi interventi preoccupano il prefetto di Rovigo, che sin dal 1913 teme una troppo forte avanzata elettorale dei socialisti, quale poi nel 1914 si verificherà. Con l’avvicinarsi dell’entrata dell’Italia in guerra la polemica si acuisce anche sugli aspetti dell’assistenza, della disoccupazione, della miseria del Polesine, Fino a che nel 1916, il 5 giugno, Matteotti pronuncia, traendo spunto da una delibera in favore dell’assistenza ai profughi vicentini dopo la Strafexpedition austriaca, un duro discorso contro la guerra. Pur aderendo alla progettata assistenza, egli sottolinea che ciò non significa adesione ad una guerra infausta e pronuncia espressioni in relazione alle quali viene imputato per il reato di grida e manifestazioni sediziose e condannato dal Pretore di Rovigo nel luglio successivo. La sentenza del Pretore verrà confermata dal Tribunale nel 1917 e tuttavia prontamente annullata senza rinvio dalla Cassazione in nome dell’insindacabilità dei discorsi dei consiglieri provinciali, Ma nel frattempo, subito dopo la sentenza del Pretore, l’autorità militare aveva provveduto alla chiamata alle armi del consigliere provinciale dottor Matteotti e al suo trasferimento in zone lontane da quelle di guerra per la sua figura di “pervicace violento agitatore, capace di nuocere in ogni occasione agli interessi nazionali” e assolutamente pericoloso. La sede definitiva fu Messina (a Campo Inglese poco a nord della città e poi in altri forti della zona); e a questo periodo della sua vita, da lui giorno per giorno descritto nelle lettere alla moglie, ho già accennato a proposito dei suoi studi penalistici, che in quei singolari frangenti potettero essere compiuti. Il periodo messinese fu interrotto per due mesi nel 1917 per frequentare il corso allievi ufficiali a Torino, dal quale Matteotti fu pure allontanato, con conseguente ritorno, fino alla fine della guerra, in Sicilia. Quando tornerà in Polesine si impegnerà ancora nel lavoro delle leghe e dei comuni, e (già deputato dall’anno precedente) sarà rieletto consigliere provinciale in nelle elezioni del 1920, quando su 40 seggi di quel consiglio i socialisti ne ebbero 38, e il Polesine fu dichiarato la provincia più rossa d’Italia. Traggo queste brevi note su Matteotti amministratore provinciale da una lettura dei menzionati volumi della Camera dei Deputati del 1970. Difetta il tempo per parlare della prodigiosa attività di Matteotti nei consigli comunali, improntata alla difesa degli stessi principi e alla tutela degli stessi interessi. Le tre importanti mostre recentemente inaugurate a Firenze, a Milano e a Roma contengono vari segni e ricordi di detta attività. E’ solo da notare che Matteotti rivendicò (antesignano in questo di abitudini largamente invalse più tardi) il diritto dei consiglieri di parlare – sia pure in connessione con le questioni locali e attuali – anche di questioni generali, come quelle attinenti ai diritti. Sin dall’ottobre 1912 lamentò violazioni del diritto di riunione e, nell’occasione di un capitolato relativo all’esecuzione di lavori di impianto, sostenne la netta separazione tra forza maggiore e diritto di sciopero come causa di esenzione delle imprese da gravi responsabilità. Ancora, sempre in polemica con il prefetto, rivendicò ed esercitò il diritto di parlare su conflitti tra capitale e lavoro che avevano portato alla morte e al ferimento di lavoratori. Non mi è davvero possibile soffermarmi oltre su quei sei anni (1910-1916) di attività amministrativa che fu anche sommamente politica, fatta di scontri anche all’interno del partito e di polemiche aspre ed importanti. Basti pensare che si trattò degli anni dell’impresa di Libia e dell’espulsione dei “riformisti” Bissolati, Bonomi, Badaloni, Podrecca, Cabrini ed altri e dei contrasti tra i cosiddetti transigenti e gli intransigenti. Ci sarebbe anche molto da dire sul congresso del partito socialista di Ancona del 1914, che trattò della compatibilità con la appartenenza massonica e vide Mussolini, allora direttore dell’’Avanti, trionfare con la sua intransigenza, mentre Matteotti era su una posizione più sfumata, anche se non tra i sostenitori della compatibilità, che andarono in netta minoranza; nonché sul congresso di Roma del settembre 1918 e su quello di Bologna dell’ottobre 1919 (alla vigilia delle elezioni politiche), nei quali Matteotti si mostrò, in più di un passaggio, a mezza strada tra le opposte tendenze che travagliavano il partito. Ma tutto questo è qui impossibile. Tra i vari testi in materia mi sembra che tra gli scritti più diligenti e più penetranti siano da annoverarsi l’appassionata biografia dovuta ad Alessandro Schiavii, gli studi di varie epoche di Gaetano Arfè e il libro di Antonio Casanova “Matteotti. Una vita per il socialismo”, del 1974.
Venne dunque il 1919 e verso la fine di quell’anno ebbe inizio la XXV^ legislatura, Matteotti fu eletto deputato al parlamento nel collegio elettorale di Ferrara-Rovigo sito per metà nella sua provincia veneta e per l’altra metà in Emilia. Quella legislatura vide il numero dei socialisti salire a 156 rispetto ai 53 del 1913. Nella provincia di Rovigo Matteotti risultò addirittura il primo. Cominciò così per lui il periodo più intenso della sua vita, tutto dedicato alla politica e al Parlamento, pur nel perdurante legame con le amministrazioni localI. Un periodo destinato a finire tragicamente all’inizio della XXVII^ legislatura. Il quinquennio 1919-1924 fu il periodo della più intensa ed importante attività politica di Giacomo Matteotti, e potremmo dire quello del suo fulgore. Esso coincise in gran parte con la somma di due periodi che alcuni storici non a torto chiamano del biennio rosso (1919-1920) e del biennio nero (1921-1922); nel complesso un’epoca tra le più dolorose della storia d’Italia. Ma essa fu anche una delle più tristi della storia del socialismo italiano. All’indomani della prima guerra mondiale esso aveva vinto sul piano elettorale, sul piano parlamentare e – se così può dirsi – anche sul piano sindacale, almeno parzialmente. Veniva invece progressivamente perdendo terreno sul piano politico, su quello dell’organizzazione e soprattutto su quello della chiarezza delle idee e dei programmi. Alla la fine del “biennio rosso”, nel gennaio 1921, aveva subito la scissione di Livorno e l’uscita di una delle sue costole più cospicue, che dette vita al partito comunista d’Italia. Ma questa uscita, lungi dal funzionare come una chiarificazione (col linguaggio d’oggi si direbbe “come una liberazione”), non fece, sotto la suggestione di idee primigenie e la contemplazione della rivoluzione sovietica e della sua indubbia forza di attrazione, che peggiorare le cose. Era rimasta nel partito socialista una forte ala abbacinata dall’idea di entrare nella Terza internazionale e tutta, o quasi, presa dai relativi problemi. Gli stessi supremi esponenti del partito, pur insigni per la loro integrità morale e per i sentimenti di attaccamento al partito, si chiamavano Costantino Lazzari e Giacinto Menotti Serrati: nomi che oggi dicono qualcosa soltanto agli specialisti di certi settori della storiografia. Erano quelli che venivano chiamati massimalisti, in contrapposizione ai cosiddetti riformisti: denominazione corrente, anche quest’ultima, anche se suscettibile di qualche riserva e comunque di precisazioni e puntualizzazioni. Intanto la base socialista veniva fatta oggetto di crescenti prepotenze, di attentati, di bastonature, di incendi, di omicidi; ed anche alcuni dei suoi dirigenti locali cominciavano a subire il peso e il ricatto della violenza fisica esercitata dalle squadre fasciste. Drammatico era il contrasto tra questa situazione e i contenuti delle polemiche e delle divisioni interne. I massimalisti erano all’attacco nell’interno del partito; e la scissione dell’ottobre 1922, avvenuta poche settimane prima che i fascisti assumessero il potere, fu cagionata dai massimalisti, avendo rappresentato una specie di cacciata dal partito di coloro che non volevano aderire alla Terza internazionale: una adesione – sia detto tra parentesi – che ad onore della storia del partito socialista non avvenne mai. Da questa scissione nacque, il 4 ottobre 1922, il partito socialista unitario e Giacomo Matteotti, che pur era stato dolorosamente colpito ed amareggiato per quanto era avvenuto, assunse di questo nuovo e piccolo partito la segreteria, come il più giovane ed il più attivo dei deputati socialisti, Ma simbolico, tristemente simbolico, rimane il fatto che la scissione e la nascita del nuovo partito avvennero in quel momento e che la divisione non fu tanto sull’atteggiamento da tenere nei confronti del fascismo che si apprestava ai propri successi e con ciò alla distruzione della democrazia italiana quanto sul problema della confluenza o meno nella terza internazionale. I comunisti già avevano cominciato ad abbacinare gran parte dei socialisti, in una vicenda politica che, come è noto, durò nei decenni successivi. In una situazione come quella v’era, sì, bisogno di un autonomo partito socialista, ma v’era soprattutto bisogno di uomini nuovi. Nel partito massimalista l’uomo nuovo fu Pietro Nenni, in quello unitario fu Giacomo Matteotti. Ma a Nenni, che pur fu direttore dell’Avanti! fino al dicembre 1925 ma che era contrario alla fusione tra massimalisti e comunisti, i vecchi socialisti non resero la vita facile. Egli preferì passare – sia pure per un periodo che i drammatici eventi politici verificatisi giorno per giorno resero breve – alla direzione di “Quarto Stato”, fondata da Carlo Rosselli. E questo già dice molto. Come già detto, l’uomo nuovo del partito socialista unitario fu invece Giacomo Matteotti. Ma il momento aveva anche bisogno di un eroe: e questi fu lo stesso Matteotti, il giovane alfiere del socialismo italiano, il seguace – tuttavia qualche volta fortemente critico - di Filippo Turati, che per lunghi anni aveva combattuto il massimalismo nel vecchio partito e che ora, a poco a poco, declinava. Matteotti, sul finire del 1922, era invece giovane, non aveva che trentasette anni, era preparatissimo sui problemi economici e finanziari, pieno di vigore intellettuale e morale, aveva compreso che la suprema esigenza dell’Italia d’allora – anche nell’interesse del proletariato – era combattere il fascismo e difendere la democrazia, ed aveva coraggio, tanto coraggio, fisico e morale, oltre che la necessaria fermezza di carattere, non sempre facile ma sempre estremamente leale. Il partito di Turati, di Claudio Treves e di Matteotti (al quale aderirono uomini come Bruno Buozzi, Modigliani e Gonzales, pur essendo sorto da una scissione, si chiamò unitario (fenomeno d’altra parte non unico nella storia del partito socialista) e non riformista. Non già perché non fosse o non si sentisse del tutto tale, ma probabilmente perché non si voleva rinnovare neppure nel nome l’esperienza, ormai tramontata, del partito che così si era chiamato dopo la scissione del 1912, quello di Leonida Bissolati e di Ivanoe Bonomi, e soprattutto perché il nuovo partito voleva essere unitario non solo nel nome ma nella realtà, riattraendo a sé quelli che erano rimasti nel vecchio partito. Può valere, comunque, la pena, per comprenderne propositi e sentimenti, riferire testualmente frasi dei discorsi e delle relazioni di Giacomo Matteotti in quel difficile momento. In una relazione dei primi di aprile del 1923, intitolata “Direttive del partito socialista unitario”, pubblicata e diffusa come opinione nella “Biblioteca di propaganda” del giornale “La giustizia”, Matteotti, proponendosi di “riassumere in piano linguaggio i principi e i metodi del nuovo partito”, premette che “rivedere la propria dottrina, saggiarla e aggiornarla al confronto della esperienza è cosa degna di un partito d’avvenire che vuole essere al tempo stesso un partito di realtà”. Non esito a dire che questo documento, veramente piano e facile, in cui nulla v’è di fumoso o di reticente, alieno fino alla scrupolo da ogni parola inutile è, a mio modestissimo avviso, uno dei più smaglianti documenti della storia del socialismo e al tempo stesso uno splendido manifesto della libertà contro la dittatura. Mi sia perciò consentito di leggerne qualche brevissimo passo, nella speranza di non tediare il coltissimo uditorio ma nella convinzione di rendere il pensiero autentico del suo autore, così come è dovere proprio di una commemorazione. Matteotti ricorda anzitutto quella che era la condizione della plebe italiana trenta o quarant’anni prima e la feconda opera di redenzione svolta dal Partito socialista, con magnifici risultati nei campi dell’associazione, della cooperazione e della civiltà del lavoro. Ma prosegue osservando che “la guerra prima, poi le illusioni estremiste di ieri, la reazione e la violenza fascista di oggi hanno interrotto e distrutto molta parte del nostro lavoro”. “Ebbene – egli esclama – lo rifaremo. Il socialismo è un’idea che non muore. Come la libertà! Anche nell’ora dell’avversità rivendichiamo la nostra fede, affermiamo i nostri principi, correggiamo i nostri errori, riportiamo tra i lavoratori la luce e la speranza della redenzione, prepariamo le nuove coscienze più salde e più pure,per il trionfo del lavoro, nella grande solidarietà umana”. Dopo questo esordio Matteotti ricorda testualmente il programma socialista di Genova del 1892, momento del distacco dalla pura e semplice democrazia da un lato e dall’anarchismo dall’altro, e lamenta che questo programma originario, sempre con le necessarie revisioni e integrazioni che trent’anni di vita e di vicende insegnarono, sia stato modificato in senso massimalistico e rivoluzionario, fino ad accogliere il concetto di “dittatura di classe” nel Congresso di Bologna dell’ottobre 1919. “Noi rimanemmo tuttavia nel partito, per non dividere la classe lavoratrice, per prospettare e propagandare tutti i nostri principi fra il proletariato momentaneamente acceso,di tutte le passioni e miraggi diffusi dalla guerra e dall’esempio di Ungheria e di Russia e con la certezza che ben presto esso si sarebbe ricreduto. Infatti, mentre a Reggio Emilia, nel 1920 in una mozione riaffermammo tutti i nostri principi, a Livorno nel gennaio 1921 uscirono dal Partito gli estremi seguaci del verbo di Mosca. Rimaneva però il massimalismo, con tutte le sue incertezze tra le parole e la pratica, tra adesioni ai metodi di Mosca e l’aperto ripudio; fino al Congresso di Roma, ottobre 1922, quando (con voti 32mila contro 29mila unitari, oltre 3mila astenuti e 8mila non votanti) furono espulsi i socialisti colpevoli di avere tenuto fede alle nostre origini e di non aver voluto cedere alle illusioni della violenza e della dittatura. Formammo allora il partito socialista unitario, che si chiamò con questo nome anche per significare che vi avevano diritto di cittadinanza non solamente i socialisti di destra, ma tutti i socialisti che avevano votato contro la scissione del partito e che non avevano voluto sottoporsi alla dittatura della cosiddetta internazionale di Mosca; mentre rimasero dall’altra parte i fautori della divisione, che volevano deviare il socialismo italiano nelle nuove illusioni del comunismo. Così non vi può essere più alcuna confusione: tutti i socialisti possono essere con noi nel nostro Partito; fuori di esso sono tutti i comunisti, siano essi comunisti di fatto e di nome, oppure continuino nell’equivoco di prima”. Sembra qui di sentire riecheggiare il famoso motto di Claudio Treves: “I socialisti con i socialisti, i comunisti con i comunisti”. La relazione di Matteotti passa poi ad illustrare il metodo democratico, fatto proprio dal partito socialista unitario, e a cui “repugna il metodo della dittatura e della violenza”. “I socialisti egli scrive – credono condizione necessaria per lo sviluppo e l’emancipazione della classe lavoratrice il metodo democratico di libertà politica”. “Ciò non vuol dire, come alcuni temono, che noi vogliamo resuscitare gruppi e situazioni parlamentari di una certa democrazia che diede tanta prova della sua incapacità e mancanza di dignità. Ma riteniamo che lo stesso interesse che hanno gli operai, i contadini, i professionisti e i lavoratori intellettuali a un regime politicamente libero e civile, abbiano tutti i ceti medi, e possano averlo anche l’industria, il commercio, l’agricoltura, intesi come produzione e non come parassitismo”. Con linguaggio da vero educatore Matteotti prosegue nell’illustrare i vantaggi dell’aperto e libero contrasto dei partiti che permette alle masse di formarsi una coscienza più sicura dei propri diritti e doveri.”Non sempre – conclude – le maggioranze hanno ragione, e non sempre i liberi regimi rappresentativi sono stati i migliori; ma, in confronto delle oligarchie e delle dittature, hanno almeno il vantaggio della libera critica e quindi della capacità di correggere i propri errori, attraverso una consapevole rivalutazione della realtà”. La relazione prosegue trattando della lotta di classe in contrapposizione alla guerra di classe: la lotta di classe non è per “ mantenere l’odio del pezzente contro chi è ben vestito, ma per suscitare in ognuno la dignità d’uomo e l’aspirazione e la capacità d’elevarsi, non contro i propri simili, ma nella coordinata armonia di tutti per la comune ascensione”. E a proposito dei rapporti tra capitale e lavoro, ricorda che la lotta in ogni caso deve colpire il parassitismo, ma mai la produzione; altrimenti, tra l’altro, i colpi rimbalzerebbero sul lavoro medesimo e sui consumatori. Né esclude una collaborazione – anche se saltuaria – del partito del proletariato con partiti borghesi, quando taluno di questi favorisce ad esempio l’istruzione popolare o asseconda la libertà dell’organizzazione operaia, la libertà del voto, la pace internazionale. Altre pagine di profondo chiarimento sono quelle dedicate ai rapporti tra partito socialista e Nazione. Vorrei qui una breve parentesi per ricordare che in una delle lettere a Velia, del novembre 1918. Matteotti scrive dell’amor di patria, che dve servire per farlo diventare migliore, non per esaltarlo anche nel male o per dimenticare o sottoporre le altre”. Tornando al manifesto contenente le direttive per il PSU, Matteotti scrive: ”La nazione è una realtà geografica e vivente, entro cui tutti viviamo e cresciamo”. Fingere di ignorarla o di essere indifferenti alle sue sorti, sarebbe come dire che ci è indifferente che il proletariato viva in un paese a sviluppo capitalistico o nel centro dell’Africa; abbia cioè o non abbia le condizioni prime del suo domani socialista ...Anche in una guerra, in una crisi conseguente ad una politica di cui non è nostra la responsabilità, noi siamo legati alle sorti della Nazione. Nè vale il dire che poiché d’altri è la colpa, altri pensi a risolvere la crisi: la colpa è di altri, ma le conseguenze sono di tutti, sono anche nostre, e ricadono più spesso sulle spalle del proletariato”. A questo punto la relazione di Matteotti tratta anche della necessità di non cadere nella doppia schiavitù del capitalismo nazionale e del capitalismo dello Stato invasore. Il riferimento è esplicito alla occupazione franco-belga del distretto della Ruhr (iniziatasi proprio nel gennaio 1923), tema sul quale Matteotti ripetutamente intervenne con una serie di articoli nel quotidiano “La Giustizia” e con un apposito studio di taglio scientifico intorno al problema delle riparazioni di guerra. Non è possibile che io mi soffermi sugli altri capitoli della relazione, dedicati all’internazionalismo socialista, e alla sua correlazione perfetta con l’amore dei socialisti italiani per il proprio paese, alla posizione dei socialisti unitari nei confronti dello Stato e della legge, nei confronti dei Comuni, dell’organizzazione operaia e della sua libertà, dell’interesse alla produzione, della cultura popolare. Non posso però fare a meno di ricordare che in quell’aureo manifesto progressista si postula testualmente l’avvento degli Stati Uniti d’Europa “che si sostituiscano alla frammentazione nazionalista in infiniti piccoli Stati turbolenti e rivali”. Questi fu Matteotti segretario di partito, apostolo di verità e di ragione; che tuttavia non agiva solo attraverso relazioni o manifesti, ma era sempre presente nelle sezioni, accanto ai suoi compagni anche quando non era possibile tenere comizi o assemblee, esempio tenace di coraggio e di fede. Le mostre commemorative che si sono svolte in questa primavera a Firenze, a Roma, a Milano e altrove hanno potuto raccogliere documenti e fotografie molto significativi di questi momenti, sottratti alle distruzioni ordinate ed eseguite per ogni dove dai fascisti, che avevano ben presto individuato in lui il più pericoloso, il più intelligente, il più coerente dei loro avversari.
Resta da dire del Matteotti parlamentare, subito segnalatosi per cultura per impegno sin dall’inizio della XXVma legislatura del regno. Ritorno così ai volumi dei suoi discorsi, organizzati e pubblicati dalla Camera dei Deputati nel 1970 e a quanto ha con tanta pertinenza ricordato il presidente della Camera. Sin dall’inizio l’attività di Matteotti alla Camera fu incessante. Ricorda Schiavi nella biografia più sopra citata che egli, “analizzatore e documentatore”, passava ore ed ore nella biblioteca della Camera a sfogliare libri, relazioni, statistiche, da cui attingeva i dati che gli occorrevano per lottare, con la parola e con la penna, badando a restare sempre fondato sulle cose”. La sua competenza, la sua prontezza, la sua preparazione, la sua versatilità, l’efficacia del suo eloquio fecero subito riconoscere in lui un parlamentare di spicco, sì che spesso, pure appartenendo egli alla minoranza del partito (siamo prima della scissione di Livorno) veniva incaricato di parlare a nome del gruppo parlamentare socialista. Come sottolineava Mauro Ferri in un suo studio su “Matteotti in parlamento”, a neanche un mese dall’inizio della XXV^ legislatura, il 21 dicembre 1919 , in sede di legge di proroga dell’esercizio provvisorio, egli prende la parola per denunciare l’incapacità del governo Nitti a riparare “alla falla creata nel bilancio italiano dalle spese di guerra, nonché ad attuare una politica tributaria che colpisca il capitale e gli arricchimenti di guerra”. “I vostri provvedimenti finanziari – egli dirà – rispecchiano ancora la politica di classe della borghesia”. Alcune Sue frasi suscitano subito l’intolleranza di altri settori, a cominciare da quelli del partito popolare. Ma egli riprenderà i discorsi contro il governo Nitti nel marzo 1920, insistendo contro provvedimenti finanziari che “tendono a scaricare sui lavoratori i pesi della guerra” e a salvaguardare i sovraprofitti della guerra stessa. Anche qui si hanno varie interruzioni nei confronti dell’oratore. da parte di Schanzer, di Giolitti e dello stesso Nitti. Matteotti accusa il governo di voler lasciare che si restauri la situazione dei lavoratori d’anteguerra quando le loro condizioni erano assolutamente insufficienti anche ai minimi bisogni della vita. Correda il suo discorso di dati e di ragionamenti di economia e di finanza, materie nelle quali, anche come componente della Giunta generale sul bilancio e della Commissione finanze e tesoro, gli divengono ogni giorno più familiari. Un altro campo prediletto dei suoi interventi è quello delle materie elettorali: congegno della proporzionale nei comuni, abolizione del diritto elettorale per censo e diritto ad un solo voto, eliminazione di cause di ineleggibilità e incompatibilità, riforma generale della legge elettorale amministrativa. Vivacissimo lo scontro nel giugno 1920 al momento della presentazione del quinto ministero presieduto dall’on. Giolitti, al quale Matteotti nega l’esercizio provvisorio, ironizzando anche sulle qualità miracolistiche attribuite al vecchio uomo di Stato. Dichiara che il partito socialista non teme nuove elezioni politiche, forte come è diventato e come vuol rimanere. Ricca di martellanti interventi sui temi più vari è l’estate 1920, nella quale anche per l’impulso di Giolitti, la Camera lavora a ritmi serrati. Agli interventi sui temi in discussione si alterneranno interrogazioni su temi relativi alla politica estera, alle tasse, allo stato (definito vergognoso) dell’istruzione pubblica elementare. In occasione dell’approvazione del Trattato di St. Germain, Matteotti è il portavoce della posizione del Gruppo socialista in favore dell’autonomia della provincia di Bolzano. Nel dicembre 1920 e nei primi mesi del ’21 v’è la intensa discussione, in molte sedute, sul prezzo politico del pane e la sua copertura con una imposta straordinaria sul patrimonio: gli interventi di Matteotti primeggiano. Ma intanto v’è l’avanzata delle violenze fasciste (già a metà del 1920) e questo comincia a diventare, negli appassionati discorsi di Matteotti, deputato di Rovigo e dell’Emilia, il tema dolorosamente dominante. Sul futuro le previsioni del deputato socialista sono allarmate ed esprimono l’esasperazione dei lavoratori, mentre Giolitti continua ad assicurare l’imparziale applicazione della legge. La Camera viene sciolta anticipatamente il 7 aprile e durante le nuove elezioni Matteotti è sempre più impegnato a difendere Ferrara ed il Polesine dalle violenze armate dei fascisti. Per la XXVI^ legislatura il collegio di Matteotti era Padova-Rovigo, tutto nel Veneto, e così sarà per la XXVII^. I deputati socialisti erano scesi da 156 a 123 (esclusi ovviamente dal conteggio i 15 deputati comunisti),mentre il cosiddetto blocco nazionale aumentava di 15 seggi. La novità saliente era data dai 35 deputati fascisti, con a capo Mussolini. Ma il fatto è che la situazione italiana in generale diventa sempre più drammatica. Matteotti attacca ripetutamente il Governo Bonomi per la sua politica fiscale e la sua tolleranza verso la violenza squadrista, industriali,agrari e borghesia per le loro connivenze con il fascismo e denuncia la vita ormai divenuta insostenibile nella provincia di Rovigo a causa di omicidi letteralmente mostruosi e del connesso stato di terrore. La seduta del 12 dicembre 1921 sulle mozioni socialiste seguite al fallito tentativo del “patto di pacificazione” e sulle spedizioni punitive è tesissima. E la stessa cosa deve dirsi per il discorso del 20 maggio e per quello del 13 giugno 1922, tenuti da Matteotti con il consueto vigore. Tuttavia per tutta la seconda metà del 1921 e per tutto il 1922 continuerà, anche da parte di Matteotti, l’attività parlamentare per dir così ordinaria. Il 16 dicembre 1921 Matteotti interviene una nuova volta sul disegno di legge per la proroga dell’esercizio provvisorio degli stati di previsione dell’entrata e della spese chiesta dal Ministero del Tesoro, onorevole De Nava, ed è questa un’altra occasione per una completa quanto polemica disamina della politica economica e finanziaria. Certamente anche a questo intervento, oltre che alle relazioni ed agli interventi sul bilancio dello Stato (e segnatamente alla relazione sullo stato di previsione dell’entrataper l’esercizio finanziario 1922-1923 presentata da Matteotti 1l 10 agosto 1922), definita documento di “sapienza legislativa”) si riferiva l’insigne economista Achille Loria quando scriveva che pochi altri nel Parlamento avevano la competenza e il possesso di quelle materie propri di Matteotti che molti altri Parlamenti stranieri ce lo avrebbero potuto invidiare. Nel marzo 1922 Matteotti intervenne sul bilancio del Ministero dell’Interno, soffermandosi con grande competenza sulla situazione carceraria (era in corso il passaggio di competenze dall’Interno alla Giustizia), sulle spese per la sicurezza pubblica, sulle spese di beneficenza, sulle imposte degli enti locali e la loro ripartizione, sulle quote di sovrimposta (in relazione alle quali rifece i calcoli di amministratori e di professori, dimostrando che erano errati), sulla insufficienza delle spese per l’istruzione e su altro ancora. Seguiranno, nei mesi successivi, altri interventi sulle amministrazioni locali, sulle indennità a ufficiali e sottufficiali, sui dazi sul grano, sulle procedure di riscossione delle imposte dirette, sul bilancio del ministero della pubblica istruzione, sulle modifiche al regolamento della Camera, sul consorzio zolfifero siciliano, sugli stipendi e mercedi degli impiegati e salariati dello Stato. E così sarà nel corso del 1923, nonostante la tensione con il partito fascista ormai al Governo e il continuo aggravarsi delle violenze, con relative denunce. Tuttavia l’attività parlamentare in genere fu ben più ridotta che nel recente passato perché Matteotti era ormai molto impegnato come segretario del partito, nel quale doveva provvedere a tutto o quasi tutto, lavorando come segretario in un bugigattolo di piazza di Spagna, dove la direzione del partito aveva dovuto rifugiarsi avendole i padroni di altre case chiuso le porte per timore di una invasione delle camice nere; un locale sprovveduto di riscaldamento dove Matteotti con il soprabito sulle spalle per il freddo, scriveva tuttavia messaggi, direttive, missive con i partiti socialisti europei, articoli per il quotidiano “La giustizia”. Egli percorreva inoltre la penisola, tutti spronando a maggiore attività e maggiore coraggio, e in ogni caso per contenere le tendenze sindacalcollaborazioniste o accomodanti. E’ del novembre 1923 il suo opuscolo (di cento pagine) “Un anno di dominazione fascista”, che malgrado il sequestro del quale era stato colpito egli cercò di diffondere in tutta Italia. Si arrivò così alle elezioni dell’aprile 1924, che segnarono una ulteriore avanzata fascista (Mussolini era ormai al potere da un anno e mezzo) e una débacle socialista: i deputati del partito socialista unitario risultarono in tutto 24 e meno ancora (22) furono quelli del partito socialista massimalista. Matteotti (che era stato eletto sia nel Veneto che nel Lazio) aveva raccolto dalle sezioni del partito notizie varie, concernenti molte parti d’Italia, sul clima di sopraffazione, di minacce, di violenze nel quale le elezioni politiche si erano volte; e teneva detto materiale su di sé. Il 30 maggio, alla Camera, il presidente neoeletto, Alfredo Rocco (Antonio Casanova nelle varie edizioni del suo bellissimo libro ha scritto “un po’ per inesperienza un po’ per mettere in atto un sistema sbrigativo voluto da Mussolini presente al banco del Governo”) ricevuta dalla Giunta delle elezioni la relazione di convalida in blocco di tutti gli eletti della maggioranza, ne mise ai voti l’accoglimento dopo aver letto velocemente i nomi del convalidandi. Le opposizioni furono colte alla sprovvista perché nessuno si attendeva che quel giorno si dovesse decidere sulla convalida e in quel modo. L’onorevole Enrico Presutti, del gruppo di Giovanni Amendola, si alzò e cercò di dimostrare, tra urla e interruzioni, l’assurdità della procedura e propose la sospensione ed il rinvio ad altra seduta. Farinacci replicò per respingere la richiesta e Modigliani parlò efficacemente per appoggiarla e perché si chiedesse alla Giunta una relazione scritta. Perduta ovviamente la battaglia procedurale, si poteva aprire la discussione su eventuali contestazioni, ma nessuno era pronto. Matteotti si alzò e domandò di parlare. Chiarì subito, con argomenti d’ordine procedurale e parlamentare assai validi, quello che chiedeva, e cioè la contestazione in blocco della validità della elezione della maggioranza ed il rinvio delle elezioni inficiate dalla violenza alla Giunta delle elezioni. Tra intemperanze e urla di ogni specie prese a trattare degli episodi di violenza,che non permettevano di parlare d’elezioni valide. “Vi è – disse – una milizia armata, composta di cittadini d’un solo partito, la quale ha il compito di dichiarare di sostenere un determinato Governo con la forza, anche se ad esso il consenso mancasse”. A causa delle incessanti interruzioni ed ingiurie l’intervento di Matteotti durò un’ora e mezza. Rocco, che aveva capito l’aria che spirava, invitò a un certo punto Matteotti a parlare prudentemente. Matteotti replicò testualmente che chiedeva di parlare non prudentemente né imprudentemente, ma parlamentarmente. E continuò a narrare dei contadini e degli altri cittadini minacciati, di coloro che non avevano potuto accettare la candidatura perché “sapevano che accettarla significava non aver più lavoro l’indomani o dover abbandonare il proprio paese per emigrare all’estero”, dei candidati bastonati anche se parlamentari (ricordiamo che egli stesso era stato vittima di ripetute selvagge aggressioni sin dal 1921), dell’impossibilità che si era verificata di avere rappresentanti di lista al seggio tranne che se appartenenti al partito fascista, e ciò nel 90% dei seggi. Terminato che ebbe di parlare – narra Alessandro Schiavi nel suo volume - l’onorevole Giovanni Cosattini del partito unitario avvicinò l’oratore per congratularsi del suo coraggio e stringendogli la mano. E Matteotti rispose prontamente al collega: “Però voi adesso preparatevi a fare la mia commemorazione funebre”. (La mai età mi consente di dirvi che ho avuto l’onore di conoscere, nella sua età matura, l’onorevole Giovanni Cosattini, deputato alla Costituente e senatore della prima legislatura repubblicana: e suo figlio Luigi, mio collega universitario, professore di diritto civile, ufficiale di complemento, fucilato dai nazisti. Mi sembra di rivederli entrambi...) Naturalmente la proposta di rinvio degli atti alla Giunta delle elezioni presentata formalmente con le firme di Labriola, Matteotti e Presutti e messa ai voti per appello nominale, fu respinta. 258 “no”, 57 “sì” e 42 astenuti su 384 presenti e votanti. Dopo il 30 maggio Matteotti si recò altre volte a Monte Citorio, dove del resto stava andando alle 16,30 del 10 giugno, uscendo dalla sua abitazione di Via Pisanelli 40, a pochi passi dal Lungotevere Arnaldo da Brescia, quando fu aggredito, sequestrato e rapito. In particolare partecipò anche ad una seduta del 4 giugno, avendo ivi uno scambio di dure parole con Mussolini, che dal banco del Governo aveva protestato anche per i troppo frequenti accenni che si solevan fare sui suoi trascorsi socialisti e antimilitaristi di dieci anni prima. Ma la condanna a morte di Matteotti era già stata decretata dopo l’intervento del 30 maggio. Signor Presidente della Camera, il mio intervento, già troppo lungo, termina qui. Non parlerò ne delle coltellate mortali inferte in auto al deputato rapito che si dibatteva per sfuggire ai sicari, ne della fuga degli assassini per le campagne a nord di Roma, né del rinvenimento dei miseri resti del Martire soltanto nell’agosto successivo, nella macchia della Quartarella presso Riano Flaminio; né delle ipotesi sui mandanti né dei processi (dall’istruttoria di Roma al giudizio d’assise svoltosi in Chieti e al nuovo giudizio del dopoguerra) né della commemorazione tenuta da Filippo Turati il 27 giugno 1924 in una sala di questo palazzo – e non nell’Aula dove ormai i deputati che avevano deciso l’Aventino più non rientravano; né del viaggio della salma verso Fratta Polesine e della dignitosissima lettera scritta prima di tale trasporto al ministro dell’Interno Federzoni da Velia Matteotti (una donna straordinaria, il cui dolore ebbe termine con la prematura morte, a 48 anni di età, nel 1938); né delle silenziose esequie in Fratta il 21 agosto 1924 né degli oltraggi postumi né del mito creatosi in ogni parte d’Italia e del mondo intorno alla figura del martire, assurto per ogni dove a simbolo di libertà. Nostro compito, in questa sede, era solo quello di ricordare un deputato esemplare, per diligenza, per competenza, per impegno, per combattività, per fede indomita nella libertà e nella giustizia. Un deputato che ha onorato di fronte al mondo l’istituzione parlamentare e l’Italia. | |