Giornalista, dal 1997 al Corriere della Sera, nata a Catania nel 1962, è stata uccisa in un agguato lungo la strada Jalalabad-Kabul il 19 novembre 2001.
Subito dopo la laurea in filosofia inizia il suo lungo cammino per diventare giornalista collaborando prima con La Sicilia, poi come conduttrice del telegiornale di un’emittente televisiva regionale. A Milano dalla fine degli anni Ottanta sarà collaboratrice di Epoca dove inizia i suoi servizi dai fronti caldi delle guerre e degli scontri etnici e religiosi: dalla Bosnia al Congo, dalla Sierra Leone alla Liberia.
Tra le sue esperienze professionali anche una collaborazione con l'UNHCR, l'agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei profughi, che le aveva consentito di specializzarsi in politica estera e di arrivare al Corriere della Sera con una buona esperienza nel settore dell'assistenza umanitaria.
Per un anno interrompe la sua carriera per fare la volontaria in una missione ONU in Ruanda.
Divenuta giornalista professionista approderà infine al Corriere della Sera.
Era partita per il Pakistan subito dopo gli attacchi terroristici dell'11 settembre, ma già nei mesi precedenti era stata più volte in Afghanistan, terra che aveva imparato a conoscere bene e che aveva percorso per lunghi tratti anche a piedi. "Questo popolo prima o poi sarà salvato dalle donne, sono rimaste quelle di sempre. Ho imparato a conoscerle, sono forti, intelligenti con una gran voglia di esserci.
Se sono sopravvissute a tanti soprusi, vuol dire che prima o poi usciranno con dignità da tutto questo", aveva detto a una collega in occasione di una visita in un campo profughi di Peshawar.
Maria Grazia Cutuli ha affrontato il mestiere di giornalista anche come una battaglia di emancipazione: “le donne”, affermò, “non devono scrivere solo di moda, società e gossip. Io posso raccontare anche le guerre”. Una posizione inscindibilmente connessa ad una concezione rigorosa e intransigente della propria professione: “raccontare la verità” diceva “è l’unica arma rimasta a noi che facciamo questo mestiere”.
Per lei, tuttavia, fare la giornalista di guerra era un modo per poter scrivere, per “poter volgere lo sguardo dove nessuno ha mai voglia di guardare”.