Resoconto stenografico dell'Assemblea
Seduta n. 346 del 24/7/2003
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(Esame dell'articolo unico - A.C. 4154)

PRESIDENTE. Passiamo all'esame dell'articolo unico del disegno di legge di conversione (vedi l'allegato A - A.C. 4154 sezione 3), nel testo delle Commissioni (vedi l'allegato A - A.C. 4154 sezione 4).
Avverto che le proposte emendative presentate sono riferite agli articoli del decreto-legge, nel testo delle Commissioni (vedi l'allegato A - A.C. 4154 sezione 5).
Avverto, altresì, che non sono state presentate proposte emendative riferite all'articolo unico del disegno di legge di conversione.
Avverto, inoltre, che la I Commissione (Affari costituzionali) ha espresso il prescritto parere, che è distribuito in fotocopia (vedi l'allegato A - A.C. 4154 sezione 1).
Avverto, infine, che la V Commissione (Bilancio) ha espresso il prescritto parere, che è distribuito in fotocopia (vedi l'allegato A - A.C. 4154 sezione 2).
Passiamo agli interventi sulle proposte emendative riferite agli articoli del decreto-legge.
Ha chiesto di parlare l'onorevole Fioroni. Ne ha facoltà.

GIUSEPPE FIORONI. Signor Presidente, questo decreto-legge sull'Iraq è, dal


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nostro punto di vista, irricevibile e inaccettabile. Esso si iscrive nella tradizione ormai consolidata di questo Governo: parlo di una forma di mistificazione della realtà o, meglio ancora, della costruzione di una realtà virtuale con suggestioni ed effetti speciali. Non si poteva mancare ulteriormente di rispetto al Parlamento e, soprattutto, al popolo italiano. Non era possibile pensare che avreste messo insieme le missioni di pace a sfondo umanitario con il nostro intervento in Iraq. Avete cercato di trasformare eventi, storie e motivazioni diverse in un'unica vicenda. Si sommavano insieme adesioni a missioni internazionali legittime, avallate e guidate da organismi internazionali, con la partecipazione ad una guerra unilaterale, ad una guerra decisa o, meglio, appresa dalla comunicazione di altri governi. Ricordiamolo tutti: abbiamo appreso di essere entrati nella coalizione dei cosiddetti volenterosi dalla comunicazione data dal Governo degli Stati Uniti e dal Dipartimento di Stato. Siamo diventati volenterosi, quindi, per indicazione degli altri e, soprattutto, per inerte e colpevole acquiescenza, che ha evitato all'Italia di concorrere alla costruzione di un ruolo forte ed autorevole dell'Unione europea. Avremmo potuto evitare la divisione dell'Unione europea, che abbiamo vissuto e sofferto e che non ci siamo potuti spiegare se non con quella singolare anomalia italiana - tutta italiana - che vede confondere la politica estera con le relazioni amicali e l'essere alleati con l'accondiscendenza. E pensare che, per aderire a questo gruppo di volenterosi, avete violato e calpestato l'articolo 11 della Costituzione, chiaro ed inequivoco, allo scopo di sostenere un'azione che - ricordiamolo tutti - è illegittima ed illegale, le cui motivazioni e il cui contesto appaiono, in queste ore, sempre più drammaticamente evidenti!
Mi chiedo perché vogliate perseguire questa opera di colpevole mistificazione che rende evidente il disagio e l'imbarazzo delle vostre coscienze, non certo rispetto al merito dell'atto grave compiuto, ma nel non poter gridare forte la vostra adesione e la vostra connivenza su scelte che solo la paura della violazione costituzionale vi ha bloccato da poterle dichiarare esplicitamente, seguendo la tecnica dell'adesione a distanza, avvicinandosi piano piano, più tirati dagli altri che cercando di difendere la vostra profonda convinzione.
Ricordiamo tutti l'escalation delle vostre bugie, dei tanti tentativi di truffa ai danni degli italiani e di questo Parlamento! Aspettiamo ancora le risposte sull'utilizzo delle basi e delle infrastrutture. Era possibile utilizzarle non violando gli accordi internazionali preesistenti? Era possibile utilizzarle non violando l'articolo 11 della Costituzione? Per questo è stata presentata anche una proposta di legge di istituzione di una Commissione d'inchiesta rispetto alla quale né il ministro Martino né il ministro Frattini hanno avuto la bontà di dare una sola risposta ufficiale. Era possibile utilizzare le nostre infrastrutture e le nostre strutture per far decollare aerei impegnati nella missione in Iraq? Tutti ricordiamo ancora con disagio la scarsa dignità ed il poco decoro che l'Italia ha avuto a livello internazionale in quel momento, quando da una parte vi erano le autorevoli dichiarazioni del Governo che ci facevano notare che da quelle nostre strutture non partivano altro che aerei e supporti logistici e dall'altra parte il responsabile delle Forze armate degli Stati Uniti ribadiva con grande chiarezza che dalle nostre basi potevano e dovevano partire uomini impegnati in azioni militari e che comunque non c'era possibilità alcuna per il Governo italiano di tornare indietro sulle proprie scelte. Anche su questo aspettiamo ancora una risposta che sia chiara e precisa.
Ma che dire, signor Presidente, di tutta la vicenda che avete posto alla base del vostro intervento in Iraq con la ricerca e la distruzione delle famose e famigerate armi di distruzione di massa? Queste armi non le avevano ritrovate gli ispettori dell'ONU che sono stati denigrati. Ricordiamo ancora le parole del nostro Governo che, prima, ha espresso un minimo di attenzione perché si prolungasse l'opera degli ispettori dell'ONU e successivamente ha dichiarato: occorre ormai un'azione immediata


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perché abbiamo le prove sufficienti che quelle armi esistono e potremmo essere a pochi attimi dalla loro utilizzazione. Ebbene, quelle armi di distruzione di massa gli inviati dell'ONU non le hanno trovate, perché non esistevano, perché non c'erano e perché non sarà possibile rintracciarle sul territorio iracheno, eppure, su questo costrutto avete autorizzato la nostra adesione al club dei volenterosi e la presenza delle nostre truppe oggi in Iraq.
Ma ciò che ancora preoccupa maggiormente è l'inerzia e l'assenza del Governo rispetto alle dichiarazioni che prevedono che per una sorta di effetto domino vi sia lo spostamento, il migrare continuo di queste armi di distruzione di massa - a poche ore dalla conquista dell'Iraq e dall'annunciata fine di una guerra mai terminata - in Siria; ed oggi apprendiamo che potrebbero essere anche in Iran.
Vogliamo perseguire anche noi questo effetto domino, questa specie di perverso gioco dell'oca per cui si inseguono le armi di distruzione di massa in giro per tutto il Medio Oriente? E le famose bombe atomiche, il famoso uranio che doveva consentire la realizzazione dell'atomica da parte del regime di Saddam Hussein?
Credo che siamo drammaticamente di fronte ad una situazione in cui potremmo veramente dire che il re - o l'imperatore - è nudo. Parlo di quel dossier fabbricato artificiosamente, costruito sulla sabbia, su prove inesistenti, in ordine al quale sui nostri ruoli, al di là delle spiegazioni del sottosegretario Letta, ci sono ancora luci sinistre per aver contribuito anche noi in maniera diretta o indiretta a fornire elementi di valutazione errata circa l'esistenza dell'atomica o della volontà di costruire l'atomica da parte del regime di Bagdad. Eppure, anche di questi dossier abbiamo oggi davanti ai nostri occhi la loro totale infondatezza, la loro totale inesistenza.
Quando le fondamenta, su cui si è costruita l'adesione alla nostra missione di guerra in Iraq, vengono meno e crollano, dovrebbero crollare anche le nostre certezze; dovremmo, inoltre, avere un momento di ripensamento. Non credo serva individuare i capri espiatori, mi riferisco a chi fatto sapere che le prove erano false o artificiosamente costruite, su cui addossare la responsabilità delle false dichiarazioni rese dal primo ministro Blair o dal presidente Bush.
Credo che dovremmo trarre altre conclusioni: se si ritiene che determinati presupposti, ritenuti in passato esistenti, non abbiano ragione di essere, forse l'adesione dell'Italia al club di volenterosi dovrebbe essere rivista e, soprattutto, dovremmo avere il coraggio di rivedere definitivamente i meccanismi con i quali stiamo ricostruendo l'Iraq.
Signor Presidente, credo sia difficile non pensare che oggi stiamo pagando quello strano invito a cena che il segretario di Stato americano Rumsfeld non ci ha rivolto (non riusciva a capire il motivo per cui all'Italia avrebbe dovuto essere rivolto tale invito). È strano chiamare invito a cena la ricostruzione di un popolo che riteniamo debba costruire liberamente il proprio sistema di democrazia e di libertà e pensare che si debba pagare un invito per partecipare a quella cena. Eppure, oggi stiamo costruendo ancora su questi presupposti: sulla base dei medesimi, tuttavia, non stiamo pagando e finanziando la ricostruzione dell'Iraq, ma contribuendo a pagare ciò che gli Stati Uniti ci hanno ricordato non essere stato fatto nel primo momento in cui abbiamo deciso di partecipare al club di volenterosi.
Credo sia ancora peggiore - lo potete leggere nel titolo di questo provvedimento - il fatto che stiamo discutendo degli aiuti umanitari al popolo iracheno. Ponetevi una domanda: credete veramente che tutti gli iracheni oggi, compresi quelli (in stragrande maggioranza) che non sopportavano il regime dittatoriale e sanguinario di Saddam Hussein, ritengano che la nostra presenza in Iraq sia marginale e subordinata alla presenza angloamericana in Iraq? Pensate che ci ritengano truppe occupanti o dei liberatori che stanno operando per aiutarli a costruire l'Iraq che vogliono? Non ho dubbi su quale sia la risposta del popolo iracheno.


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Membri del Governo, ritenete veramente che ci rechiamo in Iraq per dare qualcosa agli iracheni, per aiutarli a costruire un regime democratico e libero?
Non stiamo anche noi, forse, partecipando in maniera marginale alla divisione di qualche briciola (in momenti diversi, prima a Saddam, oggi ad altri, ci accingiamo a vendere loro le armi)? Vogliamo anche noi compartecipare a qualcosa che riguarda il petrolio (non ce lo faranno nemmeno vedere né sentire)? Quale ruolo stiamo svolgendo, signor Presidente? Stiamo veramente garantendo la sicurezza? Strano modo per farlo, se ancora oggi in Iraq non siamo riusciti a garantire le condizioni minime di vivibilità: mi riferisco all'acqua, alla luce e alla difesa dei cittadini dalla diffusione delle epidemie che, ormai, ogni giorno di più, sembrano essere alle porte (pericolosi focolai si sono già evidenziati). Inoltre, non siamo stati in grado di garantire minimamente la difesa del patrimonio artistico. Abbiamo, invece, avuto la grande capacità di difendere i giacimenti petroliferi ed il Ministero del petrolio. Anche per quanto riguarda la nostra operatività sul territorio iracheno, non era forse più consono alle nostre capacità contribuire a realizzare operazioni di sicurezza e di tranquillità sul territorio? Eppure, questo non lo stiamo facendo; non abbiamo ancora capito chi guidi i nostri soldati, in quale operazione concordata, concertata e definita non si sa con chi, mentre i termini di sicurezza pubblica e di difesa dei diritti sul territorio non appaiono nel vostro decreto e nemmeno nelle operazioni che i nostri militari stanno compiendo.
Allora, credo che molto probabilmente dovremmo definire, anche sulla base degli impegni assunti dai ministri Frattini e Martino, le unità operative che dovevano andare a difesa dei nostri sforzi umanitari. Tuttavia, questi impegni umanitari ancora non ci sono e, soprattutto, non sappiamo nemmeno in quale contesto, in quale logica i nostri soldati operino. Sono soldati che per inerzia, per incapacità, per insufficienza di comando, di coordinamento, di disegno strategico, nella difesa degli impegni umanitari assunti, rimangono ogni secondo che passa sempre più soli e abbandonati.
Ma non pensate che probabilmente proprio in questo contesto rischiamo di farci percepire come partecipanti ad una missione in cui le nostre forze armate rischiano di essere truppe occupanti di serie B, al di là dell'indiscusso valore dei nostri uomini che potrebbero invece svolgere, come hanno fatto in Kosovo ed in Afghanistan, azioni molto più efficaci, invece di essere mandati come occupanti? Abbiamo appreso ieri, ed anche di questo non c'è traccia nel decreto-legge, che Wolfovitz ci comunica che gli italiani occorrono nei territori dove operano i soldati della Gran Bretagna. Cosa significa tutto questo? Che con questo decreto-legge autorizziamo un ulteriore invio di uomini in Iraq. Abbiate la bontà di comunicarcelo e di non farcelo leggere dalle agenzie e dai comunicati del vice ministro Wolfovitz. Ancora di più: siamo in Iraq per costruire l'Iraq che vogliono gli iracheni, compartecipiamo cioè ad un progetto come operatori di pace per realizzare un Iraq libero, che quel popolo liberamente sta costruendo, oppure diventiamo operai di un progetto che l'azionista di maggioranza ha definito senza neanche chiederci di discuterlo insieme?
Credo tuttavia che dopo le vicende dei dossier falsi che hanno riguardato gli Stati Uniti, il Presidente Bush, la Gran Bretagna e il Primo ministro Blair si apre per quei governi una stagione nera che rischia di travolgerli sul piano della credibilità e dell'affidabilità. Purtroppo, credo che nelle democrazie serie dire bugie e trarre in inganno il popolo e i parlamenti sia una delle peggiori cose che possano accadere. Questo purtroppo non è ancora avvenuto nel nostro paese.
Allora, prima di rivedere la capacità di ricostruire l'Iraq e di cambiare la fisionomia della missione da quella di truppe occupanti in un impegno serio dell'Onu, che abbiamo ferito mortalmente a seguito anche delle nostre scelte, possiamo avere l'opportunità di rilanciare una ricostruzione in Iraq svolta dallo popolo iracheno


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sotto l'egida delle Nazioni Unite. Facciamolo allora e troviamo la forza di chiederlo noi prima che quell'ONU, che abbiamo ferito e delegittimato, sia costretta ad occuparsene sotto il peso degli scandali che stanno travolgendo i governi degli Stati uniti e della Gran Bretagna.
Chiediamolo noi: facciamolo chiedere alla Comunità europea; siamo nel semestre in cui guidiamo l'Unione europea e credo che il Presidente Berlusconi avrebbe l'obbligo di pretendere che l'Unione europea questa volta, invece che contribuire a dividerla e a romperla, scegliendo la strada della sudditanza agli Stati Uniti d'America, in qualche modo un'accondiscendenza rispetto a disegni di tipo neocolonialistico, avvii una stagione di ricostruzione in Iraq in cui l'Unione europea stessa e l'ONU, sotto l'egida di organismi internazionali, possano dare vita realmente alla costruzione di un Iraq fatto dagli iracheni e non dagli interessi di altri.
In questo modo faremmo una cosa fondamentale: ieri avete detto in modo demagogico che non si voleva approvare questo provvedimento e che non si volevano pagare gli stipendi ai ragazzi impegnati in Iraq. Due sole brevi considerazioni: i nostri ragazzi sarebbero molto più sicuri se fossero compartecipi di un progetto e di un disegno posto sotto l'egida dell'ONU, di un'azione che sia legittima e legale, che tolga loro di dosso il marchio di truppe occupanti non gradite dal popolo soggetto a occupazione, ma che possa trasformarli in operatori di pace sotto l'egida di organismi internazionali che sono lì a difendere i diritti internazionali e in modo particolare quelli del popolo iracheno. Così sarebbero sicuramente più utili e più sicuri, non rischiando la vita senza saperne le ragioni e senza ricevere ringraziamenti per il sacrificio che stanno facendo, cosa che non fa né questo Governo né questo Presidente del Consiglio. Ancora di più: mi impressiona il fatto che non siano stati previsti nel documento di programmazione economico-finanziaria, né nelle precedenti leggi finanziarie, meccanismi di copertura per risarcire il forte impegno dei nostri militari nelle missioni di pace e che ve lo siate ricordato in maniera frettolosa e all'ultimo istante.
Credo sia indecoroso ed ignobile che il ministro Tremonti abbia potuto ipotizzare prima di pagare queste missioni, nonostante le enunciazioni e le tante bugie dette ai vertici del G8 e a Johannesburg, eliminando quei quattro soldi che erano rimasti per l'Italia da impegnare nell'aiuto pubblico allo sviluppo.
Su questo avete cambiato idea e, successivamente, avete riprodotto le calamità naturali. È uno strano modo di voler ripagare i nostri soldati del sacrificio e dello sforzo che stanno compiendo, soldati che nell'animo si sentono costruttori di pace, ma che non hanno l'opportunità di conoscere in quali azioni e in quale progetto sono impegnati! Mi domando se il nostro Governo sappia in quale progetto di ricostruzione siamo impegnati e per portare avanti quale disegno siamo diventati operatori ed operai di costruzione. Non avete trovato altro modo per pagarli che sottrarre risorse destinate ai bisognosi, magari a coloro che sono stati colpiti da calamità naturali durante quest'anno o che lo saranno nei prossimi anni. Credo che con questo abbiate veramente toccato il fondo: reperire un finanziamento per aiutare chi sta tanto soffrendo togliendolo ad altri che soffrono ancora di più!
Cari colleghi, il drammatico silenzio di questo decreto-legge, frutto delle vostre coscienze, è pari solo ai rumori di guerra che, tetri, già aleggiano sulla Siria e sull'Iran. Non siamo ulteriormente, colpevolmente, inerti e conniventi: non ci dovranno servire in futuro altri decreti di aiuti umanitari, magari alle popolazioni della Siria e dell'Iran.
Cari colleghi, questo decreto-legge non è accettabile, non è sostenibile né tantomeno minimamente votabile. Il nostro non potrà che essere un voto contrario, giacché con questo provvedimento è in gioco la nostra credibilità internazionale e la sicurezza dei nostri giovani militari. Non possiamo accettarlo e non ci si venga a dire che dovremmo sentirci, noi e i nostri militari, gratificati dal fatto che magari il Presidente Berlusconi riceverà un'ulteriore


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pacca sulla spalla da parte di Bush e un sorriso da Blair (Applausi dei deputati del gruppo della Margherita, DL-l'Ulivo).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Tocci. Ne ha facoltà.

WALTER TOCCI. Grazie, signor Presidente. Signori del Governo, arrivate a discutere questo decreto-legge in un clima mesto. Avete scelto un profilo basso, come se si trattasse di un mero adempimento amministrativo. Vengono alla memoria lo slancio, l'enfasi, la retorica di tre mesi fa, quando cercaste di saltare sul carro dei vincitori facendo approvare al Parlamento la spedizione militare. Eravate sicuri della vittoria e vi aggregaste alla festa con la smodatezza di un parvenu. Oggi, il bilancio della guerra è molto più problematico. La grande potenza militare americana mostra grande affanno nel controllo del territorio. Le ragioni storiche di quella guerra si sono rivelate menzogne mondiali. I trionfatori di quella guerra sono costretti a giustificarsi nelle commissioni d'inchiesta dei rispettivi Parlamenti. Le truppe che dovevano portare pace e progresso hanno perso la calma diverse volte e hanno sparato su popolazioni civili inermi. L'unilateralismo americano da prova di forza militare si trasforma in debolezza strategica e la parte più avveduta di quel civile paese comincia a rendersene conto.
In questo quadro negativo, poniamo di nuovo la domanda: quali sono le vere funzioni del contingente militare italiano? È curioso che il Parlamento sia qui ad esaminare il decreto-legge, ma non sia messo in grado di riconoscere il trasferimento di autorità e le regole di ingaggio; eppure questi atti sono stati già firmati dalle autorità militari! Vogliamo sapere come stanno davvero le cose.
Signori del Governo, è finito il tempo della retorica ed è ormai il tempo della verità. «Verità» è una bella parola: la veritas dei latini, la αλήνεια dei greci, la Wahrheit dei tedeschi, la truth degli inglesi. La pronuncio in lingue diverse perché «verità» è una parola ostica per il Governo Berlusconi. Eppure, proprio la verità è il tema all'ordine del giorno di questo Parlamento.
Le nostre proposte emendative sono volte a chiarire lo status militare e politico del nostro contingente. Il primo argomento in discussione consiste nel verificare se risulta vero quanto avete dichiarato nella seduta del 15 aprile con la quale si è autorizzata la partenza dei nostri soldati. In quella discussione, come opposizioni, per senso di responsabilità, decidemmo una sospensione di giudizio. Per non essere pregiudiziali evitammo di esprimere un voto negativo, ponemmo, però, due domande, rinviando ad oggi la prova dei fatti. Prima domanda: si tratta davvero di una spedizione umanitaria o è una mera partecipazione all'occupazione militare dell'Iraq? Seconda domanda: è stato fatto di tutto e che cosa si può fare ancora per riportare il dopo guerra nel quadro degli accordi internazionali?
Sul primo punto, le parole, non solo del ministro Frattini, ma soprattutto del ministro Giovanardi, quel 15 aprile, furono molto precise ed impegnative. Posso rileggerle, ministro Giovanardi, le sue parole in quella seduta? Lei disse: gli ambiti e i limiti dell'intervento di cui il Governo chiede l'autorizzazione al Parlamento sono quelli di una grande operazione umanitaria. E poi aggiunse: si tratta di ruoli di controllo, di garanzia strettamente strumentali - lo ripeto - strettamente strumentali alla salvaguardia della sicurezza e dell'incolumità di coloro che andranno ad operare come operatori di pace.
Ministro Giovanardi, come fanno ad essere strettamente strumentali all'intervento umanitario se l'ospedale si trova a Baghdad e i militari a Bassora? Ormai, le forze militari sono dislocate in campo e la realtà è evidente a tutti.
Siamo impegnati in un compito di stabilizzazione, compito che, nella tecnica militare - vale la pena ricordarlo - costituisce un corpo offensivo. Oggi, ammettete, quindi, ciò che negaste solo tre mesi fa. Nessun osservatore serio può sostenere che stiamo facendo un'operazione umanitaria.


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Onorevole Giovanardi, se la sentirebbe di ripetere quelle parole, senza imbarazzo?
Avete detto una bugia in Parlamento. Non sarebbe una novità per l'attuale Governo ma usare l'argomento umanitario per dire il falso è grave. Strumentalizzare le sofferenze, la fame, la morte di donne, bambini e anziani per dire il falso è una prova di cinismo. Cambiate, quindi, almeno la motivazione di quella spedizione, non copritevi dietro l'argomento umanitario che è offensivo per il popolo iracheno e per la stessa opinione pubblica italiana. Dite almeno la verità a questo Parlamento.
La seconda questione riguarda la copertura internazionale dell'operazione militare. Il ministro Frattini aveva detto solennemente che la comunità internazionale e anzitutto l'Italia desiderano che l'ONU abbia un ruolo importante in Iraq, e non solo l'ONU ma anche la NATO e l'Europa, come già successo in altri teatri di peacekeeping. Ebbene, questo era l'impegno preso in Parlamento. Possiamo chiedere: che cosa avete fatto in questi tre mesi per adempiere a quell'impegno? Quali azioni diplomatiche, quali iniziative politiche avete assunto, cosa state facendo in queste ore e cosa intendete fare nel semestre europeo?
Sarebbe il momento opportuno per assumere iniziative politiche nuove. Tutti i paesi dovrebbero mostrare la capacità di superare le posizioni assunte prima della guerra e dovrebbero, oggi, fare coraggiosi passi in avanti al fine di raggiungere l'obiettivo di riportare, in una logica multilaterale, la questione irachena.
La Francia, sì, quella che avete chiamato perfida Francia, ha avanzato una proposta nuova. Ha dato la disponibilità ad una seconda risoluzione dell'ONU per farsi carico, a livello internazionale, dei problemi del dopoguerra. Come valuta il nostro Governo la proposta francese? La sostenete e come? Cosa state facendo per far evolvere positivamente la situazione e per ritrovare un'iniziativa dell'Europa unita? Date risposte in questo dibattito a tali quesiti.
Sarebbe interessante sapere quali parole abbia usato il Presidente del Consiglio per spiegare a Bush la posizione del Parlamento italiano sul coinvolgimento dell'ONU e della NATO. Berlusconi, di solito, è molto loquace, anche troppo. Ma per rappresentare la posizione italiana, questa volta, ha scelto di fare scena muta alla conferenza stampa con il Presidente americano.
Eppure, l'onorevole Adornato ci ha spiegato, in un editoriale intitolato «Il ranch del futuro», che il viaggio americano di Berlusconi è un evento storico che trova paragone solo nel viaggio di De Gasperi.
Peccato che del carattere storico di quell'evento non si sia accorto nessun giornale al mondo, tranne quello edito da Piersilvio! Il fatto epocale non starebbe nelle cose che si sono detti Berlusconi e Bush, ma nella circostanza fattuale che, per la prima volta, un Presidente italiano è stato invitato da Bush in tutte e tre le residenze presidenziali: la Casa Bianca, Camp David ed il più familiare ranch di Crawford. Se questi sono i parametri di valutazione di un incontro diplomatico, si potrebbe arricchire il Guinness dei primati! Gli analisti hanno esaminato anche il menù della cena in quel ranch e pare che Berlusconi sia l'unico uomo di Stato al quale sia stata offerta una frittata, alla quale si è aggiunta una caprese: in quel ranch si fa la storia, ma si mangia molto male!
Il mio amico Adornato era più sobrio da giovane, ma invecchiando è diventato più retorico e chiude il suo articolo dicendo che l'incontro al ranch consolida una nuova immagine dell'Italia, disegna il futuro di una nuova Italia non più comparsa, ma protagonista degli eventi del mondo. È questa la nuova Italia? Nel saltare in modo furbesco sul carro del vincitore c'è poco di nuovo e l'unica novità è che il vincitore, dopo tre mesi, è già in affanno. No, questa non è l'Italia nuova, ma è l'Italia vecchia! Purtroppo, nella storia nazionale, vi sono altre pagine in cui il nostro paese è saltato, all'ultimo momento, sul carro del vincitore: sono le


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pagine meno nobili della storia italiana e ci ricordano un'Italietta bugiarda e servile che speravamo di aver messo alle nostre spalle!
I Governi dell'Ulivo hanno contribuito a fare dell'Italia un paese affidabile, rispettato e credibile. Noi continuiamo a lavorare per fare un paese normale nell'Europa unita. E toccherà di nuovo a noi, fra tre anni, ricostruire l'immagine internazionale dell'Italia (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, della Margherita, DL-l'Ulivo e Misto-Comunisti italiani)!

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Pinotti. Ne ha facoltà.

ROBERTA PINOTTI. Signor Presidente, nel parlare sul complesso degli emendamenti, desidero comunque sottolineare, all'inizio del mio intervento, che ritengo importante che si possa votare in modo differente sulla missione in Iraq e sulle altre missioni. Avrebbe comportato una gravissima confusione mettere tutto insieme. È stato saggio, è stato importante, quindi, fare questa scelta, anche perché, per quanto riguarda l'invio, già avvenuto, dei nostri militari in Iraq, ci siamo trovati di fronte ad un netto cambiamento tra quanto annunciato e votato, il 15 aprile, in questo Parlamento, e quanto contenuto nel decreto-legge.
Voglio ricordare, anche se è stato fatto più volte in Commissione, le parole del ministro Frattini: la missione che avremo in Iraq non è l'ISAF dell'Afghanistan e neppure quelle dei Balcani, missioni queste destinate alla stabilizzazione politica e sociale oltre che alla sicurezza. Quella dell'Iraq di oggi è, invece, una missione italiana che ha scopo emergenziale ed umanitario per salvaguardare le condizioni della popolazione civile. No, nel testo del decreto-legge si parla, invece, di missione di stabilizzazione e di ricostruzione: è altro rispetto a quanto ci era stato detto.
Quindi, mentre avevamo assunto una posizione di astensione dal voto immaginando una missione emergenziale ed umanitaria, oggi dobbiamo essere liberi di votare contro questa missione, non perché siamo contro l'intervento umanitario - tutt'altro, e lo abbiamo dimostrato in precedenza - ma perché si sta configurando un'altra cosa, si sta configurando qualcosa di completamente diverso.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE PUBLIO FIORI (ore 13,13)

ROBERTA PINOTTI. Ora, il problema - e ce lo dobbiamo porre nei rapporti tra Governo e Parlamento - è che, da quando è cominciata la guerra in Iraq, ci siamo trovati di fronte a notizie che ci sono venute prima da fonti di stampa oppure da fonti americane anziché dai rappresentanti del nostro Governo.
È avvenuto quando abbiamo appreso che saremmo stati tra i paesi «volenterosi», sostenitori della missione; quando, da fonti americane, abbiamo saputo che soldati americani sarebbero partiti dalla base di Vicenza; quando, da fonte americana, il 3 di maggio, ci è stato comunicato che avremmo fatto parte della forza di stabilizzazione; quando il ministro Martino ha promesso a Rumsfeld l'intervento di soldati italiana per giugno.
E tutto ciò senza un previo confronto tra Parlamento e Governo su tali situazioni; tutte le volte, peraltro, nei rapporti tra Parlamento e Governo, si sono esaminati testi che, anziché essere chiari e definire esattamente le decisioni e i motivi, hanno alzato cortine fumogene, usando aggettivi quali «umanitario» per coprire altri scopi o ricorrendo, comunque, a formulazioni non chiare. Come mai? Perché, per la questione Iraq, il Governo italiano, non ha esplicitato, sempre e chiaramente, le proprie intenzioni circa la guerra iniziata da Bush e dalla coalizione anglo-americana?
Per due motivi: il primo, legato alla circostanza che, anche per convenienze politiche, dinanzi ad una opinione pubblica fortemente contraria, valeva la pena non rivelare in modo troppo evidente le proprie carte; il secondo: di fatto, fortunatamente, la nostra Costituzione prevede


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il ripudio della guerra come strumento di intervento nelle controversie internazionali. Ebbene, coerentemente con la nostra Carta, non appena iniziata la guerra in Iraq, il Consiglio supremo di difesa, convocato dal Presidente della Repubblica, aveva stabilito, con chiarezza, i paletti entro i quali si sarebbe potuto operare. Si dichiarò, in quella sede, che la posizione italiana non poteva essere belligerante. Ma ricordo al riguardo che le forze attualmente presenti in Iraq sono definite, anche sulla base della risoluzione n. 1483 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, un esercito di occupazione. Ebbene, risulta difficile immaginare che, contribuire a riempire le file di questo esercito di occupazione, inviando tremila soldati - e sostenendo un costo di oltre 200 milioni di euro per garantire aiuti umanitari per un ammontare di 20: dico 20 milioni di euro! -, sia solo una missione umanitaria. Nonostante le dichiarazioni e gli infingimenti, l'operazione appare per quello che è: l'adesione e la partecipazione all'operazione con la quale queste forze stanno occupando l'Iraq.
Anche noi pensiamo si debba stabilizzare l'Iraq; non crediamo che una nazione possa continuare a vivere senza acqua, con la delinquenza diffusa, senza una polizia e senza energia elettrica. Abbiamo presente la situazione drammatica che sta vivendo il popolo iracheno; situazione ancora più drammatica di quella, già difficile, dell'anteguerra. Certamente, a nostro avviso, è un bene che il paese non sia più retto da Saddam Hussein; ma davvero, a nostro avviso, non doveva essere questo il modo di operare e, comunque, la prospettata soluzione dei problemi ci pare, oggi, veramente distante da venire.
Da quando è stata dichiarata la fine della guerra, da quando abbiamo visto il Presidente Bush affermare mediaticamente sulla portaerei che la vicenda era finita e che l'Iraq era libero, vi è stato, rispetto alla fase precedente, un numero maggiore di soldati statunitensi morti. Ciò non ci rincuora ma rafforza le nostre perplessità rispetto ad una avventura da subito criticata. Infatti, vi erano le armi di distruzione di massa? Cominciano a sorgere dubbi ovunque sul fatto che tali armi esistessero; ma non mi addentro sugli scandali recenti. Si voleva portare la democrazia? Ma è molto difficile immaginare che si possa portare la democrazia con l'uso dell'esercito, con la guerra e con le armi. Non si è preparato per nulla il terreno del «dopo». È quanto stiamo verificando e, di fatto, si rischia una transizione lunghissima; manca un piano. Questo è lo stato delle cose.
Allora, si è deciso di fare la guerra, la si è fatta in fretta, con tantissimo dispendio di mezzi e di uomini; ma non si è lavorato seriamente su un progetto per il dopo. E noi dovremmo avallare tale situazione? Avallare un'idea che riguarda non tanto l'Iraq quanto un problema di sistema, consistente nell'organizzare il futuro ordine mondiale. Dietro la scelta fatta in primis dagli Stati Uniti, poi appoggiati dagli inglesi, vi una idea molto precisa; l'idea che adesso «siano finiti» gli organismi multilaterali e che non debba essere più l'ONU, la NATO, l'Unione europea a dover intervenire. Organismi lenti, che hanno esaurito la loro funzione.
Oggi, l'ordine mondiale va posto e giocato diversamente. Esiste una sola visione: il bisogno di sicurezza e di tranquillità, come espresso dal Presidente Bush nel corso del suo discorso. E, rispetto a questo, via via, si formeranno delle coalizioni; però tutto comincia da una decisione degli Stati Uniti e, successivamente, ci si può collegare con chi è d'accordo con tale decisione. Ecco le coalizioni dei volenterosi a geometria variabile, proprio perché non ci deve essere un luogo dove si pensi e si decida tutti insieme su come intervenire laddove ci sono delle situazioni drammatiche. Questo può condurre non ad una guerra lampo ma, come ha detto qualcuno, ad una guerra lampo infinita: prima l'Afghanistan, poi l'Iraq, poi forse l'Iran e il Sudan. Noi pensiamo, quindi, che si possa andare verso un mondo permanentemente in guerra. Pertanto, inviare i soldati non è soltanto un problema legato alla situazione attuale dell'Iraq ed alla scelta che è stata fatta, sulla quale noi


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siamo contrari, ma vuol dire anche avallare questo tipo di ottiche e di gestione dell'ordine mondiale; noi, comunque, non intendiamo avallarle.
Quello che mi preoccupa è che, mentre le truppe sono state inviate, dopo una preparazione lunga mesi, per gli aiuti umanitari la cifra di 21 milioni di cui si parla è la stessa di cui si parlava all'inizio: 5 milioni all'UNICEF, 10 milioni per l'ospedale da campo, 5 milioni per interventi sui beni archeologici. Però, nonostante le emergenze umanitarie siano aumentate nel corso di questi mesi non sono stati pianificati nuovi progetti che consistessero in interventi significativi dal punto di vista umanitario. È questo quello che ci interessa?
Avrei immaginato che nel corso dei tre mesi in cui si è parlato di queste cose si potesse predisporre un piano veramente dettagliato, e non, invece, riproporre in modo burocratico interventi sul piano sanitario, sui beni archeologici e su quant'altro. Questo lo abbiamo capito ma, arrivati a questo punto, mi sarei aspettata un piano programmatico serio il quale, però, non c'è; così come non si è pensato seriamente a cosa sarebbe servito all'Iraq: penso, ad esempio, alla decisione di mandare l'ospedale da campo della Croce rossa, in sé senz'altro utile, ma non si è tenuto conto che a Bagdad vi erano già 40 ospedali funzionanti; inoltre, come sa chiunque si occupi di cooperazione, quando si va a cooperare si sceglie soprattutto di fare qualcosa che poi rimane stabilmente in quel dato paese: queste sono le cose che effettivamente servono. Da qui tutta una serie di contraddizioni.
Ho cercato di esporre un problema che si pone come problema generale, e che rappresenta una contrarietà rispetto ad una scelta politica che noi riteniamo preoccupante per le sorti del mondo. Noi vogliamo riaffermare il ruolo degli organismi internazionali, sebbene però rivisti con regole nuove affinché possano davvero funzionare. Tuttavia, secondo noi, è quella la sede in cui si deve decidere come intervenire, e non invece in questo modo unilaterale come finora è stato fatto: questa è quindi una fase che deve essere chiusa, anche perché l'ONU non può essere chiamata in causa soltanto quando le difficoltà sono tali da non riuscire a comprendere come gestire la situazione e, conseguentemente, ad esso ci si richiama richiedendo l'adozione di nuove risoluzioni. No, l'ONU deve essere chiamata in causa prima, ed essere posto in condizione di funzionare preventivamente e non invece quando lo decida qualcuno che poi ne richiede l'avallo. Questo è assolutamente un fatto negativo.
Insieme a questa contrarietà di politica internazionale - estera, della difesa e della sicurezza generale -, esiste anche una contrarietà particolare che deriva dal fatto che noi avremmo voluto vedere che dall'Italia partisse qualcosa che potesse servire a migliorare la drammatica situazione dell'Iraq. Noi però non stiamo vedendo alcun progetto di questo tipo; anzi, al contrario, stiamo assistendo all'idea di mandare tremila soldati a sostituire e a coadiuvare delle truppe, giustamente stanche, ma si tratta pur sempre di un esercito di occupazione (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Mussi. Ne ha facoltà.

FABIO MUSSI. Signor Presidente, ritengo innanzitutto importante che, dopo l'azione politica condotta dall'opposizione da questi banchi, si possa votare in piena coscienza e conoscenza sulla vera, nuova decisione politica che dobbiamo assumere: l'invio di un contingente italiano in Iraq.
Naturalmente, qui non sono in discussione la solidarietà e la riconoscenza verso i nostri militari - al riguardo, vorrei invitare tutti i colleghi che intervengono a non usare le parole «i nostri ragazzi», perché suonano un po' paternalistiche e poco rispettose di un esercito di soldati che stanno mostrando, ovunque siano impiegati, competenza, abnegazione, intelligenza e coraggio - e non sono in alcun modo in discussione la solidarietà e la vicinanza del paese al rischio che essi corrono e alla loro missione, ovunque essi siano.


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Qui è in discussione, invece, la responsabilità che si assume il Parlamento di decidere una missione piuttosto che un'altra. Cerchiamo di tenere fuori temi che non devono essere oggetto di una contesa, come il rispetto e la solidarietà verso i militari impegnati: qui stiamo parlando della responsabilità politica del Parlamento e dei gruppi parlamentari che devono assumerla.
La verità, a proposito di questa parte del decreto-legge che resta e che siamo chiamati a discutere e successivamente a votare, cari colleghi, è che non ci troviamo di fronte una decisione «bagatellara» o di routine, vale a dire il semplice finanziamento di una scelta già compiuta, ma siamo davvero di fronte alla prima valutazione politica autentica perché, cari colleghi, non può essere ritenuta una decisione del Parlamento la risoluzione votata in questa Assemblea il 15 aprile del corrente anno dopo le comunicazioni del ministro Frattini.
Quello era un atto di indirizzo, non una legge; nessun cittadino potrebbe pretenderne l'esigibilità, come per le norme di legge, di fronte ad uno strumento generale e generico, quale quello che fu oggetto della votazione del 15 aprile. Bisogna anche aggiungere che la risoluzione che fu votata venne approvata sulla base di una informativa del ministro degli affari esteri che solo eufemisticamente si può definire, osservata a poche settimane di distanza, come inappropriata. E non può essere valutata solamente inappropriata, se si giudicano gli eventi successivi: allora si parlò di una missione umanitaria, e ciò non toccava minimamente il carattere illegale della guerra all'Iraq, mossa in assenza di un'autorizzazione delle Nazioni Unite o del consenso di qualsiasi altro organismo politico internazionale.
Noi, a distanza di pochissime settimane, ne sappiamo molto di più: sappiamo che furono costruite dai Governi che volevano fortissimamente entrare in guerra false prove, un castello di false prove, e lo scandalo sta travolgendo quei Governi e sta impegnando tutti i Parlamenti dei paesi che si sono trovati nella lista dei willing.
Lo scandalo è oggetto di un vivo allarme nell'opinione pubblica americana: basta leggere ogni giorno le rassegne della stampa americana; lo scandalo ha investito il Governo inglese; il Parlamento spagnolo ha istituito una Commissione d'inchiesta; una Commissione di inchiesta è stata istituita anche dalla Knesset per stabilire se questi Governi abbiano deliberatamente fornito false informazioni.
Voglio ricordare non solo che qui il Presidente del Consiglio, nelle sedute di gennaio e di febbraio, ripeté, senza vaglio critico, quelle false informazioni che venivano da più alti alleati, che sono diventati anche gentili ospiti del ranch nel Texas, ma che è successo qualcosa di nuovo. Mi riferisco all'esplosione di un altro scandalo: quello della falsa notizia sull'acquisizione di materiale radioattivo, di uranio (la cosiddetta torta gialla), in Niger da parte del Governo del dittatore Saddam Hussein.
Dobbiamo saperne di più, perché è evidente che quella fosse una delle prove più terrificanti. L'ipotesi che l'Iraq di Saddam Hussein potesse possedere bombe atomiche e che fosse in grado, come ebbe a dichiarare il Primo ministro Blair al Parlamento inglese, di lanciarle in 45 minuti era una forte issue a favore dell'intervento immediato per scongiurare questo drammatico rischio per le popolazioni ed i paesi di quella regione e per l'umanità intera. Ed oggi siamo qui ad interrogarci sul ruolo che l'Italia o soggetti presenti sul nostro paese hanno avuto nel formare quella specifica falsa prova. È per questo motivo che un nutrito gruppo di parlamentari, che spero possa aumentare, ha presentato la proposta dell'istituzione di una Commissione d'inchiesta perché sia fatta chiarezza, una chiarezza dovuta al Parlamento e dovuta a quell'opinione pubblica che ha riempito le facciate dei palazzi di bandiere della pace nel momento in cui scoppiò la guerra. E ancora quelle bandiere della pace, a migliaia, a migliaia ed a migliaia


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continuano a sventolare, perché l'interrogativo sulla guerra in Iraq non solo non si è sciolto e non si è risolto, ma resta tuttora a gravare come un macigno sulle relazioni politiche internazionali.
Non è vero quanto venne dichiarato sulla tolda di una portaerei, dopo la sceneggiata di uno spettacolare atterraggio sul ponte, che la guerra è finita. La guerra, purtroppo, in Iraq continua e un dittatore, abbattuto ma non trovato, è stato sostituito da una situazione di caos e di sofferenza per una popolazione che oggi non ha cibo, non ha acqua e, in molti casi, non ha energia elettrica e non ha i servizi essenziali, in assenza dei quali non solo non vi sono democrazia e libertà, ma non vi è nemmeno una vita civile.
Il ministro Frattini venne a dirci che questo intervento italiano, in sostanza, doveva essere rubricato come una missione di tipo umanitario di scorta essenzialmente ad un ospedale da campo. Il ministro Frattini (certo questa è una piccola bugia nel mare, forse, di più grandi e drammatiche bugie) non disse la verità e la verità ci è venuta, piuttosto che dal Governo italiano, dai documenti della difesa americana e del Governo americano, quando a smentire immediatamente le affermazioni del Governo italiano è venuta l'indicazione sulla missione dei soldati italiani: security and stability, sicurezza e stabilità; anzi, come ieri ha detto un autorevolissimo esponente dell'Amministrazione americana, Paul Wolfowitz, missione di polizia.
Ora, cari colleghi della maggioranza non potete dire che allora, quando si discusse, i massimi leader dell'opposizione non avessero messo in guardia.
Infatti, il segretario Fassino dichiarò qui in aula che ci saremmo riservati, quando fosse stato presentato in Parlamento il decreto-legge riguardante gli ulteriori strumenti - ed ecco che ci siamo -, a valutare quel provvedimento nella sua configurazione specifica e ad assumere le nostre responsabilità in relazione a quella configurazione.
Anche Francesco Rutelli insisté, con Fassino, sul fatto che la posizione dei gruppi che rappresentavano conteneva una sospensione di giudizio che sarebbe stata verificata non appena fosse stato portato in Parlamento il provvedimento legislativo riguardante il finanziamento: ci siamo. Disse anche: come potrebbe l'Italia far partire propri uomini e mezzi militari verso l'Iraq senza un'intesa con il Consiglio europeo nell'immediata vigilia del nostro semestre di Presidenza dell'Unione? Tra l'altro, tale semestre è già cominciato, non siamo più alla vigilia.
Rutelli aggiunse ancora, e voglio ricordare quel passaggio perché fu un momento molto significativo della vita parlamentare: vi sono domande che aspettano la verifica dei fatti. In primo luogo, quale sarà lo status delle forze militari italiane in Iraq rispetto ai poteri che si insedieranno nel paese? Già, qual è tale status, in particolare rispetto al Consiglio governativo di cui non conosciamo attualmente la forza e l'autorità?
In secondo luogo, quali saranno i rapporti operativi e quale la catena di comando riferita a quelle che il ministro Frattini ha definito le forze già presenti nell'area e la successiva risoluzione 1483 dell'ONU ha definito «forze occupanti»?
In terzo luogo, in cosa consiste l'ambito collettivo futuro di cui il ministro Frattini ha detto che l'Italia aspira a far parte? Un ambito collettivo è anche la coalizione militare che ha condotto la guerra in Iraq, ma l'Italia non ne ha fatto parte perché, altrimenti, come cobelligerante avrebbe violato l'articolo 11 della Costituzione. Il decreto-legge in esame fornisce una risposta, scioglie tali quesiti e li scioglie, colleghi cari, esattamente tutti nella direzione sbagliata.
Se ciò non bastasse, voglio ricordare quanto il Segretario generale dell'ONU ha detto due giorni fa al Consiglio di Sicurezza. Egli ha posto le condizioni entro le quali un eventuale contributo internazionale in termini di uomini e mezzi alla forza di stabilizzazione in Iraq potrebbe essere considerato dall'ONU legittimo. Ecco le cinque condizioni: rispetto per l'integrità territoriale e per l'indipendenza dell'Iraq; restaurazione il prima possibile


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della piena sovranità; rispetto del diritto degli iracheni di decidere del loro futuro politico; rispetto del diritto iracheno alla sovranità sulle risorse naturali del suo territorio; riproposizione dell'Iraq come un partner a pieno titolo della comunità internazionale. Kofi Annan l'ha detto perché attualmente non è presente nessuna di queste cinque condizioni politiche.
È per questo che, nonostante le pacche sulle spalle nel ranch tra il Presidente Bush, che ancora una volta è stato elusivo sulla questione dell'ONU, ed il nostro Presidente del Consiglio, si tratta di un'avventura. L'invio dei nostri soldati è un'avventura politica. Non parlo del rischio, perché quando una decisione è giusta bisogna anche avere la forza di affrontare il rischio che essa comporta. Quando è stato al Governo, e poi quando è stato all'opposizione, il centrosinistra non si è mai tirato indietro dalla responsabilità di indicare e sostenere quelle missioni che, nell'ambito della legittimazione degli organismi internazionali, venivano ritenute utili ed importanti per conquistare o per mantenere la pace in tante parti del mondo.
Questa è un'avventura politica! Non c'è la NATO, non c'è l'Unione europea, non c'è l'ONU, ma vi è semplicemente l'allineamento ad una guerra, che hanno voluto essenzialmente due paesi, con il consenso di un'altra serie di paesi, ma non con quello della comunità internazionale organizzata.
Per questo motivo, ci siamo battuti affinché potessimo esprimere valutazioni separate su questa parte relativa alla missione in Iraq ed è sempre per questo motivo che non credo che il Governo possa avere, in alcun modo, il consenso dell'opposizione per l'invio di questi nostri soldati (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, della Margherita, DL-l'Ulivo, di Rifondazione comunista e Misto-Comunisti italiani).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Giovanni Bianchi. Ne ha facoltà.

GIOVANNI BIANCHI. In questo mio intervento coesistono, e non per paradosso, la contrarietà al provvedimento in esame - dal momento che non esiste una missione, a prescindere dalle regole di ingaggio e, più ancora, a prescindere dall'impatto che queste hanno sul territorio con il quale vengono in contatto - e, al tempo stesso, un sentimento di vicinanza ai nostri militari, in Iraq per senso del dovere, per l'italianità e per una professionalità, che è la loro migliore difesa in una condizione che definire difficile risuona leggero e perfino eufemistico.
Detto ciò come premessa, vorrei svolgere alcune pacate osservazioni, al fine di porre alcuni problemi. In genere, chi si oppone a qualcosa è tentato di alzare la voce; ebbene, resisterò alla tentazione, volendo anzitutto argomentare. L'avversità al provvedimento deriva dal fatto, come già notava il collega Mussi, che alcune ambivalenze, o forse ambiguità, che stavano nell'intervento del ministro Frattini sono venute scogliendosi in senso evidentemente negativo.
Francesco Rutelli, intervenendo in quest'aula lo scorso 15 aprile, motivava l'astensione dal voto del gruppo della Margherita in questi termini: l'astensione che noi esprimeremo sulla risoluzione che approva le comunicazioni del ministro degli affari esteri contiene una sospensione di giudizio che verificheremo non appena voi porterete in Parlamento il provvedimento legislativo (appunto quello ora al nostro esame), che stabilisce il finanziamento e le modalità della presenza dei militari italiani in Iraq, perché vi sono almeno tre questioni chiave sulle quali il nostro giudizio attende la verifica dei fatti: in primo luogo, quale sarà lo status delle forze militari italiane in Iraq rispetto ai poteri che si insedieranno nel paese; in secondo luogo, quali saranno i rapporti operativi e quale la catena di comando, riferita a quella che il ministro Frattini ha definito le forze già presenti nell'area; infine, terza e fondamentale questione, in cosa consiste l'ambito collettivo futuro, di cui il ministro Frattini ha detto che l'Italia aspira a far parte; un ambito collettivo, che è anche la


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coalizione militare che ha condotto la guerra in Iraq, ma l'Italia non ne ha fatto parte, perché altrimenti, come cobelligerante, avrebbe violato l'articolo 11 della Costituzione.
Mi pare che così il problema sia stato allora posto con chiarezza, anche nei termini costituzionali, e che ora il provvedimento al nostro esame sia giunto in un momento nel quale alcune ambiguità si sono, a nostro giudizio, negativamente sciolte.
Anzitutto, vi è un problema di sproporzione, in particolare balza all'occhio un'evidente disimmetria.
L'articolo 6 del decreto-legge in esame autorizza, fino al 31 dicembre 2003, la spesa di 232.451.241 euro per l'invio di un contingente di personale militare in Iraq, al fine - si dice - di garantire le necessarie condizioni di sicurezza. All'articolo 1 - e qui il confronto si fa illuminante -, il decreto autorizza la spesa di 21.554.000 euro per la realizzazione della missione umanitaria. Dunque, un rapporto di dieci a uno: dieci per il militare e uno per l'umanitario.
Si tratta di una sproporzione fin troppo evidente e, soprattutto, stridente rispetto al pentagramma, anche coinvolgente, che aveva visto svolgere l'intervento del ministro Frattini. Non era questa la logica che avevo colto allora, anche se - con abituale obiettività e franchezza - devo riconoscere che, nell'ambito delle spese per il militare finiscono anche quelle per il trasporto aereo e quelle per lo sminamento che, evidentemente, avvicinano il tenore umanitario dell'intervento. Tuttavia, la sproporzione mi sembra davvero eccessiva: la sicurezza, nella sua determinazione e nel suo tallone militare, è assolutamente preponderante rispetto all'intervento umanitario.
Inoltre, con riferimento alle due nature dell'intervento, vi è una mescolanza eccessiva. Non è buona logica continuare a mescolare il posizionamento militare con l'intervento umanitario.
Non si tratta di una valutazione svolta esclusivamente sulla base dei documenti, ma anche sulla base di incontri che io ed altri colleghi abbiamo avuto con i rappresentanti delle organizzazioni non governative - secondo le diverse stime sono da 50 a 80 quelle che operano in quella regione - e nessuna di esse collabora con la Coalition Provisional Authority. Ciò evidenzia anche una difficoltà che la guerra irachena ha posto in rilievo e che è destinata ad accompagnarci nella valutazione delle possibili combinazioni tra intervento umanitario e intervento militare che si verificano su quel territorio.
Ricordo, anche per esperienza personale, che le organizzazioni non governative normalmente non hanno difficoltà - con le dovute differenziazioni - a collaborare con i militari in missioni di mantenimento o rafforzamento della pace, su mandato internazionale riconosciuto. Talvolta, hanno perfino utilizzato le strutture e i servizi che l'apparato può mettere a disposizione (trasporti aerei, trasporti terrestri, la logistica, uso dei mezzi meccanici).
Ebbene, la difficoltà è accresciuta anche dal fatto che erano diffuse le speranze che i militari americani fossero accolti dalla popolazione irachena come dei liberatori. In effetti, hanno finalmente messo fine ad una dittatura non soltanto efferata, ma davvero sanguinaria; dunque, ci si poteva attendere che questo fosse l'elemento preponderante nella coscienza degli iracheni.
Non è stato così: le truppe americane sono spesso viste come truppe di occupazione, il rischio che corre il paese è quello di una sorta di libanizzazione o di vietnamizzazione del conflitto, e ciò evidentemente complica i rapporti tra militare ed operatore umanitario, tra le persone in divisa e quanti fanno parte delle organizzazioni non governative. La posizione di queste ultime, infatti, quando la presenza militare ha compiti offensivi, si fa diversa: quando le truppe sono di occupazione e, in un certo senso, di imposizione guerreggiata della pace, fosse anche sotto comando internazionale, non vi può essere collaborazione tra il personale umanitario e quello militare.
È infatti necessaria, per realizzare bene una mission umanitaria, una netta e


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chiara distinzione tra le due finalità, che non possono e quindi non devono entrare in rapporto, anche solo nell'immaginario delle popolazioni per le quali si sta lavorando, che devono distinguere chiaramente tra operatori militari ed umanitari, senza ambiguità e confusioni di ruoli.
Si badi bene: la netta distinzione è necessaria anche per ragioni di sicurezza, le quali richiedono che l'operatore umanitario non venga confuso con il militare. Si tratta di un punto cruciale che, mi rendo conto, presenta una difficoltà evidente, ma che è di grande importanza e anche di grande attualità. Infatti, la nuova strategia militare considera anche l'azione umanitaria direttamente gestita come facente parte, per così dire, del mestiere, al fine di rendersi amiche le popolazioni, contenerne il sentimento ostile, ottenerne più facilmente informazioni utili.
I colleghi della Commissione Affari esteri ricorderanno la nostra sorpresa quando durante una visita a Bogotà, ricevuti nel quartier generale militare, un colonnello in divisa da campagna non ci parlò né di strategia né di tattica, né di bazooka né di kalashnikov, ma ci fece una splendida e documentatissima lezione sui diritti umani.
Questo sta diventando sempre di più un elemento di commistione e di confusione che presenta effetti destabilizzanti e di rischio per le organizzazioni non governative. È sempre stata presente fra le truppe una modalità di rapporto con le popolazioni civili: ricordiamo positivamente la differenza tra la presenza italiana in Libano e quella di francesi ed americani (il piccolo Mustafà, tutto quell'immaginario e tutta quella pubblicità che, giustamente, si fece intorno al tratto di «italianità» delle nostre truppe in Libano).
Ma ciò rende, per altro verso, più problematica la posizione delle organizzazioni non governative, nel senso che il ruolo assunto su questo terreno dai militari è sempre più ampio ed esplicito, talvolta dichiaratamente concorrenziale con le organizzazioni umanitarie.
Direi, anzi lo dice una riflessione delle organizzazioni non governative italiane, che è in gioco per alcuni versi la stessa sopravvivenza dell'azione umanitaria quale dovere umanitario imparziale, strumento solo dell'imperativo umanitario e non di prese di posizione o tattiche politiche o militari. Si tratta di una difficoltà, rispetto alla quale confesso con l'abituale franchezza di non avere soluzioni, ma che riguarda la sicurezza degli operatori umanitari, proprio perché questi ultimi non debbono essere assimilati ai militari.
Quindi, credo che anche la nostra posizione veda da una parte un intervento militare e, dall'altra, quella che potrei chiamare una missione politico-diplomatica, che va bene, che può funzionare ma che ha, in questo senso, altro profilo e altra proporzione rispetto all'intervento umanitario.
Come è stato ricordato dalla collega Pinotti, non ha avuto molto senso trasportare un ospedale da campo in una situazione come quella di Bagdad, dove abbondano gli ospedali. Semmai, mancano di macchinari e di garze. Questo non è colpa della guerra ma dell'embargo che dura da un decennio. Allora, da questo punto di vista, meglio sarebbe intervenire - come dire - più da pronto soccorso o, comunque, per la fornitura di materiali che non in altri modi.

PRESIDENTE. Onorevole Giovanni Bianchi...

GIOVANNI BIANCHI. Quindi, diamo alla politica diplomatica quel che è suo e all'intervento umanitario quel che gli spetta. Mi pare di aver posto un problema.
Se il Presidente me lo consente, vorrei concludere ponendo un altro problema. Anche in questo caso, si è posto un problema nuovo, che aggrava la situazione. È mia convinzione che, con la guerra irachena e, in particolare, con la presenza dei neoconservatori alla Casa Bianca, cosa che ci obbliga ad essere più filoamericani, vale a dire più vicini all'opinione pubblica americana, si sia operato un processo di sostituzione. Siamo oltre von Klausewitz.


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Von Klausewitz diceva: la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Qui la guerra è la sostituzione della politica. E l'impasse iracheno dice come, senza politica o con una politica ridotta ancillarmente agli interstizi, non sia possibile governare.
Ebbene, credo che introdurre, anche in questa direzione - Presidente, ho concluso -, un po' più di chiarezza sia non soltanto un omaggio a Cartesio ma anche un modo per aiutare il Parlamento a decidere e l'Iraq a vivere (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-l'Ulivo e dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Grandi. Ne ha facoltà.

ALFIERO GRANDI. Signor Presidente, questo decreto-legge è un atto grave per ragioni di merito, per come è fatto, per i contenuti che ha e per ragioni più generali. Dal punto di vista del merito, questo provvedimento è sostanzialmente un fatto compiuto. Prima, sono stati inviati i militari ed è stato deciso cosa dovesse significare la presenza italiana in Iraq, poi, è stato posto al Parlamento il problema di finanziare la missione e, addirittura, di coprire con una norma tutti gli atti che sono stati fin qui compiuti. Evidentemente, di questi atti poco si sa. Non vorrei che tra questi atti compiuti ci fosse ancora una parte di quelle azioni di intelligence, i cui frutti abbiamo visto attraverso l'«uraniogate».
Inoltre, in questo decreto-legge c'è qualcosa di grave nella mancanza di verità che è a monte. Quando il ministro Frattini è venuto in Parlamento, in relazione alla mozione proposta dalla maggioranza sulla questione dell'Iraq dopo la fine dell'intervento degli Stati Uniti e della Gran Bretagna - fine, naturalmente, tra parentesi, visto e considerato che sta continuando una condizione endemica molto grave -, ha detto che l'intervento italiano era rigorosamente nell'ambito umanitario. Quella premessa si è rivelata non vera, tanto è vero che c'è una distanza rilevante, una distanza importante tra quello che è stato detto allora dal ministro, quello che è stato fatto, effettivamente, dall'azione del Governo, la quantità sproporzionata di militari e di risorse impiegati per gli aspetti militari dell'intervento in Iraq e un intervento effettivamente umanitario. Tanto è vero che, a partire dal relatore fino agli esponenti della maggioranza e ai rappresentanti del Governo, c'è stato il tentativo di legare l'intervento giustificato per ragioni umanitarie tramite la congiunzione «e» - la «e», come è noto, è come il veleno nella coda, nasconde la parte peggiore - alla stabilizzazione, vale a dire all'intervento di natura militare. Questa è la parte non accettabile di questo intervento.
L'Italia in questo decreto-legge impegna il 90 per cento abbondante delle risorse finanziarie per la parte militare, si riferisce alla parte preponderante dei militari impiegati fuori dall'area dove si svolgono gli interventi di natura umanitaria - e qui comincia la parte di carattere generale -, si riferisce ai militari italiani incardinati in quella che è stata definita dall'ONU una occupazione, con l'individuazione di una precisa responsabilità riferibile ai regolamenti internazionali delle potenze occupanti. Oggi questi militari italiani sono incardinati sotto il controllo operativo della Gran Bretagna.
D'altra parte, la cosa è anche sensata nella logica in cui avviene. Infatti, è del tutto evidente che i militari italiani non possono, armati, inquadrati in gruppo, scorrazzare in territori che sono controllati da potenze occupanti, ma bisogna quantomeno che siano d'accordo le potenze occupanti, e i loro compiti non possono non rispondere ad una logica e ad un coordinamento di coloro che occupano.
Quindi, mandare truppe, mandare militari, inevitabilmente, pone dei problemi di raccordo, come dice correttamente il decreto-legge, pone dei problemi di comando, come dice correttamente il decreto-legge, pone evidentemente le truppe italiane oggi in una condizione molto pesante e molto grave. Questa condizione è quella che è già stata descritta da alcuni colleghi e che io voglio ribadire perché la


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considero particolarmente inaccettabile. Il limite entro il quale l'Italia doveva e dovrebbe svolgere i propri compiti è quello di non diventare potenza belligerante.
Certamente, noi non abbiamo fatto la guerra a fianco di quelli che sono stati pomposamente chiamati gli alleati - cercando di inverdire un'antica assonanza di termini -, a fianco degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Tuttavia, oggi, intervenendo alla fine - almeno presunta - della guerra degli Stati Uniti e della Gran Bretagna in Iraq, noi di fatto siamo se non cobelligeranti sicuramente co-occupanti. Anzi, si potrebbe dire che il Governo e la maggioranza hanno trovato il modo di estendere le politiche del mercato del lavoro agli aspetti militari: siamo di fronte ad un vero e proprio staff leasing di militari per gli Stati Uniti e per la Gran Bretagna. Mi sembra una cosa estremamente grave, che colloca l'Italia in una condizione di contrasto con l'articolo 11 della Costituzione. I soldati, i militari italiani, non possono muoversi dal territorio nazionale ponendosi in un condizione che, se non è in premessa una condizione di belligeranza aperta, è comunque di presenza in un territorio in cui è stata fatta una guerra ed in cui chi ha fatto la guerra e l'ha vinta oggi occupa quel paese. Questa mi pare la cosa inaccettabile e grave.
Non c'è soltanto questa condizione, ma c'è anche un risvolto politico più generale sul quale occorre riflettere. A mio parere, Governo e maggioranza stanno conducendo la cosa con qualche improvvidenza e ciò desta qualche grave preoccupazione. Non c'è soltanto quella storia, che va indagata e su cui giustamente alcuni colleghi hanno chiesto di fare chiarezza su quello che è effettivamente accaduto. Infatti, si scopre che l'Italia è stata stranamente il paese che ha comprato la patacca, cioè i documenti falsi sull'uranio-gate. Questi documenti sono poi ritornati esattamente nel paese da cui erano stati non dico prodotti, ma almeno da cui provenivano. Questo ha confermato una condizione poco chiara, torbida, di legami che hanno contribuito a creare le ragioni, le motivazioni, i pilastri giustificativi dell'intervento militare in Iraq, che oggi, non a caso, stanno creando problemi molto seri sia al Presidente americano sia al Primo ministro inglese, i quali su queste bugie hanno fondato le ragioni ultime del loro intervento militare senza attendere i risultati delle ispezioni dell'ONU.
Ciò che è più grave è che l'impegno del nostro paese, confermato nel predetto provvedimento del tutto inaccettabile e del tutto sbagliato, crea due ordini di problemi: il primo riguarda ciò che sta effettivamente accadendo sullo sfondo. Il Presidente del Consiglio ha avuto un colloquio con il Presidente americano il quale ha un pregio, con riferimento alle modalità di gestione della politica italiana: parla chiaro, anche se credo sia in errore. Ha detto a tutto il mondo che vuole altri militari, in particolare dagli alleati più fedeli. Facciamo presto a fare i conti.
Oggi in Iraq, accanto ai polacchi, ci siamo noi e un po' di spagnoli (e pochi altri), il che significa, in sostanza, che è ragionevole immaginare che il Presidente degli Stati Uniti abbia chiesto al Presidente del Consiglio di rafforzare l'impegno militare. Il comportamento di un Governo e di una maggioranza che si sono già fatti agganciare in questo modo, in contrasto con la Costituzione, fa sorgere il legittimo dubbio che il nostro paese, che ha cominciato ad operare sulla base delle disposizioni di questo provvedimento, potrebbe andare avanti in una linea francamente preoccupante.
La risposta è una sola: fermatevi prima che sia troppo tardi, prima di trovarvi al fianco di un'operazione politica e militare inaccettabile.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE ALFREDO BIONDI (ore 14,05)

ALFIERO GRANDI. La seconda questione grave riguarda il contesto di rapporti in cui siamo inseriti. L'Italia (presidente di turno del Consiglio europeo), lavora da sola, prevalentemente con gli Stati Uniti, anziché cercare un mandato europeo, una voce europea.


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È ancora più grave se pensiamo al ruolo dell'ONU: oggi dovremmo pretendere un mandato dell'ONU per qualunque tipo di intervento di natura militare in quel paese; sarebbe giusto che oggi l'ONU potesse escludere le potenze occupanti e subentrare nella gestione della situazione sia per quanto riguarda la riorganizzazione democratica di quel paese sia naturalmente per quanto riguarda gli aspetti militari.
Invece, oggi gli Stati Uniti stanno compiendo una scelta molto chiara e molto netta: chiedono altri militari e stanno costruendo una specie di ONU fatta in casa, fatta da loro, cioè un livello internazionale extraistituzionale, fuori dalla sede legittima e naturale delle Nazioni Unite. Mi pare sia una cosa gravissima.
Pertanto, il provvedimento di cui stiamo ragionando è grave per le motivazioni da cui trae origine, per il fatto compiuto, perché impegna il nostro paese in un'azione militare che non ha alcuna giustificazione costituzionale ed anche perché pone il nostro paese nell'alveo di determinata politica (non a caso dopo l'Iraq si sente nuovamente parlare di Iran, di Siria e di altri paesi), con una precisa concezione che taglia fuori le sedi internazionali al fine di costruire un governo del mondo in un altro modo.
Ciò ha, inoltre, dei risvolti che dovrebbero interessare anche quelle forze politiche che si richiamano al liberismo, alla libertà. Mi riferisco a ciò che accade in condizioni extra istituzionali di questo tipo. Pensiamo a Guantanamo, problema a tutt'oggi non risolto, che gli Stati Uniti hanno affrontato tenendo i prigionieri fuori dal loro territorio, per evitare che venissero rivendicati i diritti dei cittadini, degli uomini, anche quando sono belligeranti e avversari.
Continuando in questo modo, il mondo futuro sarà peggiore di quello di oggi; potremo trovarci in una condizione in cui sarà molto difficile spiegare quali saranno il ruolo, le condizioni, il futuro a cui pensa l'Italia, la quale rischia di essere drammaticamente schiacciata sulla leadership americana ed inglese.
Cosa fare? Una cosa molto semplice e secca: ridurre il decreto-legge semplicemente a copertura della fase di transizione fino ad oggi, creare le condizioni perché i militari italiani tornino in patria e fare in modo che in Iraq vi sia soltanto un effettivo intervento di natura umanitaria fino a quando l'intervento dell'ONU non giustificherà la presenza di paesi, come il nostro, in un'azione di sostegno all'evoluzione democratica e alla ricostruzione di quel paese.
Devo dire poi che ritengo di grande valore che oggi vi sia da parte dell'opposizione una posizione sostanzialmente comune e netta nei confronti di questo decreto-legge. Le modalità attraverso le quali siamo arrivati al dibattito ci consentono di essere chiari: il «no» è chiaro e forte e credo che attraverso questa scelta l'opposizione risponda alle bandiere della pace che sono uscite nei giorni della guerra e che sono rimaste in tante case, appese a tante finestre, e che chiedono e sono un monito perché la questione della pace non venga dimenticata e che in alcun modo possa essere tollerata e si possa soggiacere all'idea che il fatto compiuto possa e debba andare avanti.
L'opinione pubblica italiana è stata contro la guerra, è contro la guerra, e dovrebbero saperlo anche i partiti della maggioranza. Ricordo le parole del segretario di Alleanza nazionale di Roma quando, analizzando le ragioni del crollo elettorale a Roma, ha scoperto che il 57 per cento del suo elettorato era contro la guerra in Iraq. Quell'opinione pubblica non è scomparsa: quelle bandiere sono ancora oggi appese alle finestre ed oggi l'opposizione con un «no» chiaro e forte a questo decreto-legge incontra quell'opinione e risponde alle esigenze di quest'ultima, prendendo l'impegno a continuare questa battaglia (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Mosella. Ne ha facoltà.

DONATO RENATO MOSELLA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, non era naturalmente


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pensabile trattare genericamente le missioni nelle quali sono attualmente impegnate le nostre forze armate perché è evidente che quella in Iraq avesse una sua specificità, meritando quindi una distinta valutazione politica che in parte è avvenuta.
Ancora più preoccupante tuttavia è il fatto che nel decreto-legge vi sia confusione fra missione umanitaria e gli interventi di natura militare. Su questo tema in questi giorni ed in queste ore abbiamo già manifestato le nostre perplessità al riguardo.
Lo abbiamo fatto anche a suo tempo quando si è dibattuta la risoluzione sulla missione dei militari italiani in Iraq. Sia chiaro: non ci siamo mai sottratti alla nostra responsabilità ed abbiamo assicurato l'appoggio a quegli interventi che avrebbero consentito al nostro paese di mantenere fede agli impegni assunti in sede internazionale. Abbiamo fatto questo pagando anche il prezzo di scelte per noi molto difficili: nel caso dell'Iraq ci siamo astenuti proprio perché il Governo non è stato in grado di fare chiarezza sui termini effettivi della missione alla quale avrebbero preso parte le nostre forze armate. Questa incertezza permane ancora in questi giorni e l'abbiamo registrata in maniera molto forte.
È un'incertezza intrinseca al testo stesso del decreto-legge. Si parla infatti, da un lato, di missione umanitaria finalizzata ad interventi di cooperazione verso una popolazione dilaniata da anni di embargo e di conflitti; altrove invece emergono ambiguità e contraddizioni sulla presunta funzione dei nostri militari in Iraq.
Come è stato ampiamente sottolineato da molti colleghi, non si comprende davvero come i nostri militari, operando nel sud dell'Iraq, possano essere di sostegno agli interventi umanitari quando la maggior parte, la totalità o quasi delle organizzazioni non governative italiane si trovano a Bagdad e nella zona centrale del paese.
Ribadisco: confondere la linea di demarcazione che divide gli aiuti umanitari dagli interventi militari introduce una distorsione di tipo etico ed anche culturale alla quale ci stiamo legittimamente opponendo in questi giorni ed in queste ore.
Noi non possiamo e non dobbiamo mai dimenticare che, dietro ai dati drammatici di una tragedia umanitaria annunciata, ci sono persone che patiscono sofferenze atroci, perché, anche se la televisione da un po' di tempo non porta più quelle immagini nelle nostre case, quelle cose stanno accadendo in maniera anche più cruenta di prima.
Non è più tempo di chiacchiere, quindi. La tragedia umanitaria che si profila davanti nostri occhi richiede un impegno concreto ed anche onesto da parte di tutti noi, senza distinzioni capziose, senza equivoci. In questo senso vi abbiamo invitato, in un certo qual modo, ad un dialogo che, purtroppo, è stato per certi versi troppe volte interrotto.
Durante una conferenza svoltasi a Ginevra tra le agenzie dell'ONU e gli ambasciatori dei principali Stati coinvolti nel conflitto in Iraq ancora in corso, il direttore dell'ufficio delle Nazioni Unite che coordinava gli aiuti umanitari ha gridato al mondo: aiutateci ad aiutare chi ha bisogno. Allora si è giunti alla drammatica constatazione che, senza la collaborazione di entrambe le parti coinvolte nel conflitto, si rischiava di restare impotenti di fronte alla catastrofe per l'impossibilità di portare a destinazione il cibo e i medicinali bloccati alle frontiere.
Le richieste lanciate dalla conferenza di Ginevra erano chiare: corridoi umanitari - su cui, in quest'aula, noi abbiamo tante volte insistito - e indipendenza dai militari per quanti portano i soccorsi. Le previsioni di allora si sono dimostrate anche troppo ottimistiche, vista la gravità della situazione attuale. Ci chiediamo allora: che cosa sta facendo il Governo concretamente per rispondere alla richiesta di aiuto lanciata a Ginevra ed agli appelli che Kofi Annan e i rappresentanti delle diverse agenzie delle Nazioni Unite hanno rivolto a più riprese alla comunità internazionale? Il Governo italiano, purtroppo, in questo - lo dico con rispetto - ha tenuto un basso profilo nel dibattito


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internazionale, quando noi e la maggior parte degli italiani gli chiedevamo con forza di schierarsi apertamente contro una guerra che continuiamo a considerare ingiusta. Oggi vi chiediamo di agire, di intraprendere iniziative energiche in Europa e nel mondo, perché l'Italia sia fedele a quella vocazione umanitaria per la quale sempre si è distinta. Ne va della dignità del nostro paese, ma soprattutto, in queste ore, ne va della vita di milioni di persone.
Ci è stato raccontato in quest'aula che la missione italiana aveva finalità umanitarie, che mirava a salvaguardare la popolazione civile scampata alle bombe. Bambini, giovani, anziani, uomini e donne, che hanno avuto il solo torto di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato, sopravvissuti che, in un paese completamente distrutto, si trovano senza cibo, senza acqua, senza medicine, senza generi di primissima necessità. Non vi è nulla di quanto è accaduto e che il Governo ha illustrato in quest'aula - anche attraverso l'intervento del senatore Mantica, che ho ascoltato martedì a tarda notte - che non fosse già stato annunciato e previsto nei rapporti delle organizzazioni internazionali. Ieri le bombe, oggi le bande di disperati che, con violenza e sopraffazione, provano a stabilire un loro ordine a vantaggio di questa o quella tribù, se non per appagare il desiderio di odio e di vendetta da consumare.
In questo scenario, le truppe italiane sono chiamate a svolgere la propria missione e sulla natura e la finalità della loro presenza non possono e non devono esserci equivoci. Abbiate oggi il coraggio di chiamare aiuti umanitari quelli che lo sono davvero e distinguerli da interventi di altra natura. Di fronte a chi è privo dei beni indispensabili al proprio sostentamento, sarebbe vergognoso accampare questioni di opportunità strategica e diplomatica. È una questione di civiltà, ripeto, oltre che di umanità.
E mentre pensiamo a fronteggiare l'emergenza, lasciatemi dire che occorre predisporre anche interventi di lungo periodo.
L'Abbé Pierre (ho avuto modo, nel corso di un altro intervento, in quest'aula, di ricordarlo), che, sul tema degli aiuti umanitari, poteva parlare con autorevolezza e con piena cognizione di causa, diceva: «Si tratta, nel contempo, di porre rimedio alle cause e portare un aiuto immediato» perché, «con il pretesto che non possiamo fare tutto quanto in un giorno, non possiamo starcene sempre con le mani in mano» (Applausi dei deputati del gruppo della Margherita, DL-l'Ulivo).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Villetti. Ne ha facoltà.

ROBERTO VILLETTI. Signor Presidente, la decisione che stiamo assumendo, il finanziamento ed il reperimento delle risorse finanziarie per la missione militare italiana in Iraq, ha destato in Parlamento preoccupazioni e riserve sicuramente maggiori di quanto, invece, era accaduto quando si è presa la decisione specifica del via libera alle nostre forze armate in Iraq.
Queste perplessità e riserve sono nate dal contesto iracheno e dal rischio che le truppe italiane possano essere coinvolte e considerate parte delle truppe occupanti.
Riteniamo che questo rischio, indubbiamente, esista ma che questa missione militare italiana possa essere considerata nell'ambito del mandato che la Camera aveva dato.
In qualche modo, consideriamo conseguente il nostro voto come deputati socialisti a quello che abbiamo espresso precedentemente.
Nel primo voto, non abbiamo assentito a questa missione e abbiamo espresso una posizione di astensione. Ciò significa che non abbiamo voluto ostacolare la missione che il Governo italiano si apprestava a predisporre. Abbiamo voluto dare una piena solidarietà alle forze armate italiane impegnate in compiti e in operazioni indubbiamente densi di rischi.
Su tutta la questione irachena non abbiamo mutato opinione. Siamo stati contro l'intervento unilaterale degli Stati Uniti e di alcuni dei suoi alleati perché è avvenuto al di fuori dell'ONU.


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Seguitiamo a considerare l'ONU un punto di riferimento per noi molto rilevante. Facciamo nostre le parole che ha pronunciato il Segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan: vitale è che il popolo iracheno possa avere conoscenza di un calendario chiaro che comporti una sequenza di avvenimenti specifici che possano condurre, al più presto, ad una piena restaurazione della sua sovranità. Ha proseguito: il nostro fine comune resta la conclusione rapida dell'occupazione militare che passa per la formazione di un Governo rappresentativo ed internazionalmente riconosciuto.
Condividiamo pienamente questa posizione espressa da Kofi Annan. Siamo convinti che si debba lavorare per ricomporre le divergenze che ci sono state tra l'Unione europea e gli Stati Uniti. Le diplomazie, le cancellerie europee stanno lavorando in questo senso. Considero un fatto positivo che, sia pure con riserve, il rappresentante dell'ONU a Baghdad, Sergio Vieira de Mello, abbia approvato il consiglio provvisorio di Governo «installato» dagli americani.
Questo costituisce un punto di grandissima rilevanza perché noi non pensiamo affatto che l'Unione europea debba considerare i suoi rapporti con gli Stati Uniti nell'ottica di una sorta di rivincita rispetto all'atto unilaterale - sbagliato - dell'Amministrazione americana. Siamo d'accordo con quanto ha scritto, oggi, Sergio Romano sul Corriere della sera: l'ONU - è il titolo, ma rispecchia l'articolo - non è la Canossa degli USA; dobbiamo trovare insieme, Unione europea e Stati Uniti, il modo per porre l'Iraq in condizione di avere piena autonomia e piena sovranità.
Voglio dire che noi non siamo affatto interessati a che l'Iraq cada in una situazione di caos e che guardiamo con grande preoccupazione alla guerriglia, che può essere organizzata, in quel paese, come fattore ulteriore di destabilizzazione. Anche su questo versante siamo d'accordo con l'ONU: questo Governo, che ha una certa rappresentatività delle forze irachene, può aiutare una soluzione di pace.
Siamo del parere che non si possa, oggi, chiedere il ritiro immediato delle nostre truppe, che non sarebbe neanche possibile dal punto di vista logistico, oltre che da quello politico. Pensiamo, tuttavia, che la presenza delle nostre truppe in un contesto che deve essere sempre più caratterizzato nel senso dell'aiuto umanitario, debba essere collegata alla rimessa in campo dell'ONU.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE PUBLIO FIORI (ORE 14,26)

ROBERTO VILLETTI. Io penso che l'ONU possa effettivamente ritrovare un suo ruolo. Oggi, un autorevole quotidiano inglese, quindi di un paese che è stato belligerante, il Financial Times, spiega che agli Stati Uniti è necessario un aiuto nella ricostruzione da parte dell'ONU, cioè che vi debba essere un coinvolgimento forte dell'ONU nella ricostruzione del dopoguerra.
Non siamo, questo bisogna dirlo, ad una situazione nella quale non è possibile trovare un accordo tra gli Stati Uniti e l'Unione europea. Noi speriamo che si trovi un accordo perché ciò potrebbe facilitare il rientro in campo dell'ONU. Quindi, siamo del parere che la nostra diplomazia, il nostro ministro degli esteri, il nostro paese, debbano muoversi in questa direzione. Le nostre critiche al Governo hanno riguardato proprio questo aspetto, che abbiamo ritenuto fondamentale: l'ambiguità sul problema dell'ONU, mentre noi abbiamo sempre detto che bisogna stare con l'ONU senza se senza ma perché, al di fuori dell'ONU, c'è soltanto la legge del più forte.
Quindi, colleghi, in sede di esame degli ordini del giorno, faremo in modo che vi sia un testo che dica chiaramente - del resto, il decreto-legge prevede il finanziamento fino al 31 dicembre - che, se entro tale data non vi sarà stato il coinvolgimento dell'ONU, che io spero, auspico vi sia, il nostro paese dovrà ritirare le truppe. Come vedete, si tratta di una posizione che si fa carico dell'interesse


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nazionale, che è vicina, solidale con le nostre forze armate, che non interrompe un dialogo sul terreno della politica estera con il Governo, che è preoccupata della sicurezza e degli interventi umanitari in Iraq, che individua nel ristabilimento della sovranità in Iraq un punto fondamentale e che ritrova, appunto, nell'ONU la bussola più rilevante.
Dunque, è una posizione, a mio giudizio, molto chiara, molto trasparente, molto coerente con quanto abbiamo sempre portato avanti. L'Italia può svolgere un ruolo molto importante; ciò, anche per il coraggio, l'impegno professionale, la dedizione che le nostre Forze armate mostrano in Iraq. A me piace pensare ad un esercito italiano che, in ogni evenienza, si schiera per cause giuste, di pace, di sicurezza internazionale; ritengo che, con questo nostro atteggiamento, diamo un contributo alla politica estera del nostro paese e alla missione militare che si sta svolgendo ma non perdiamo di vista alcuni principi fondamentali: quei principi secondo i quali una comunità internazionale deve essere retta, sostanzialmente, dalle Nazioni Unite, unico consesso legittimato in tal senso.
Si tratta di una posizione che riconfermiamo e che porteremo avanti con assoluta tenacia e determinazione. Questo è il nostro auspicio, signor Presidente; così ci condurremo nel dibattito parlamentare e nelle decisioni che assumeremo (Applausi dei deputati del gruppo Misto-Socialisti democratici italiani).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Maura Cossutta. Ne ha facoltà.

MAURA COSSUTTA. Signor Presidente, noi Comunisti italiani abbiamo condotto una battaglia parlamentare per poter discutere ed esprimere un voto chiaro sulla missione in Iraq; quindi, abbiamo chiesto di separare materie così diverse tra loro. Anche nelle Commissioni riunite, oggi convocate, abbiamo affermato, con chiarezza, che non eravamo d'accordo sull'assegnazione del provvedimento in sede legislativa e sulla discussione e votazione con urgenza. Ciò, anzitutto perché la proposta di legge accorpa materie, missioni diversissime: altro è Timor Est; altro è l'Afghanistan o il Kossovo, missioni rispetto alle quali noi, Comunisti italiani, siamo stati e restiamo contrari. Però, riteniamo che, dell'esame di queste materie - ovvero quelle che coinvolgono questioni internazionali - debba essere investita l'Assemblea. Tutti i parlamentari hanno, infatti, il diritto-dovere di pronunciarsi, esprimendo un voto chiaro sulle scelte di fondo in materia internazionale, scelte strategiche che caratterizzano il ruolo dell'Italia nel mondo e, quindi, anche gli interessi nazionali.
Detto ciò, stiamo discutendo, oggi, della conversione in legge del decreto-legge riguardante la missione in Iraq; noi Comunisti italiani siamo stati sempre contrari. Lo siamo oggi, e voteremo contro la conversione; ma lo eravamo anche ieri, quando non tutti avevano preso con chiarezza una tale posizione. Fin da allora, avevamo compreso che si era trattato e si trattava di una operazione mediatica, che copriva, in realtà, un'operazione politica, sbagliata, pericolosa e illegittima. Di fatto, questa missione era ed è la legittimazione, a posteriori, della guerra in Iraq; altro che Italia paese non belligerante, come voi avevate sostenuto!
Già durante la guerra, il Governo Berlusconi aveva assunto una posizione grave, di fatto precaria e subalterna all'amministrazione americana: non con le Nazioni Unite, non con l'Europa ma, anzi, contro le Nazioni Unite, contro l'Europa e contro l'articolo 11 della nostra Costituzione. Avete accettato e legittimato politicamente la guerra americana, senza le prove dell'esistenza di armi di distruzione di massa; oggi, appunto, l'opinione pubblica internazionale, e quelle inglese e americana, stanno chiedendo conto degli eventi accaduti.
Berlusconi, intervenuto in Assemblea - lo hanno sentito tutti gli italiani -, non aveva, invece, messo in dubbio l'esistenza delle prove; lo ha affermato in Assemblea, solennemente: sono sicuro che le prove ci sono. Quindi, accodandosi, legittimando oggettivamente la scelta della amministrazione


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Bush. E Carlo Rossella, anziché fornire, nell'interesse nazionale del nostro paese, ai servizi italiani le informazioni ricevute, le ha direttamente consegnate ai servizi americani. Quasi facendosi tramite fattivo di questa operazione americana, contro la pace e, ripeto, contro gli interessi nazionali del nostro paese.
Evidentemente Carlo Rossella non ha soltanto la residenza a Miami ma ha anche una speciale cittadinanza americana.
Voi, quindi, senza prove di presenza di armi di distruzione di massa e senza prove di legami diretti del regime dittatoriale di Saddam Hussein con il terrorismo internazionale, avete legittimato una guerra sbagliata e pericolosa; una guerra imperiale che di fatto ha mutato in modo profondo gli scenari internazionali ed ha imposto il dominio unipolare del mondo. Una guerra permanente contro la quale purtroppo si apre uno scenario inquietante di terrorismo permanente; i segnali in questo senso sono drammatici: Cecenia e Mosca, il conflitto e la guerriglia che continuano in Iraq.
Oggi, questa missione dei nostri militari in Iraq è la legittimazione ufficiale, formale, solenne, istituzionale, a posteriori, di questa guerra. Non è una missione umanitaria: lo hanno capito tutti; ce lo dicevano anche le organizzazioni che da sempre operano nei luoghi dei conflitti e, quindi, in Iraq; organizzazioni che ci dicevano, non da oggi ma da mesi, che servivano degli aiuti immediati, sia durante sia dopo il conflitto, alle organizzazioni non governative presenti in quei luoghi; servivano, inoltre, risorse certe per gli ospedali che già c'erano e ci sono tuttora in Iraq: altro che i soldi sottratti poi all'ultimo minuto - come avete corretto - alla cooperazione internazionale e i soldi sottratti ai terremotati. È una vergogna!
I nostri militari andranno e sono nel sud del paese mentre sappiamo che gli operatori umanitari - quelli veri - operano nella zona centrale dell'Iraq. Pertanto, bugie su bugie!
Non si tratta quindi di una missione umanitaria ma di una missione militare, ed è soprattutto un'operazione politica; infatti, i militari italiani saranno sotto il comando e a fianco delle forze di occupazione, e saranno coinvolti direttamente nella stabilizzazione e nella sicurezza del territorio: altro che missione umanitaria! Saranno, di fatto, forze di occupazione.
Voi politicamente avete scelto di appoggiare, con un ministro della cultura, il Governo imposto dagli americani; ancora una volta, quindi, contro le Nazioni Unite e contro l'Europa. E Berlusconi, durante la Presidenza italiana dell'Unione europea, si reca nel ranch di Bush e fa quello che dice il Presidente americano. Tutto ciò sebbene l'ultima risoluzione dell'ONU non legittimi quest'operazione, anzi imponga dei paletti, prevedendo che quel Governo debba essere fatto dagli iracheni, e mentre i paesi europei e l'India si rifiutano di inviare propri militari da impiegare in quest'operazione da svolgersi sotto il comando degli angloamericani.
La nostra posizione al riguardo è molto chiara: i nostri militari debbono tornasene a casa, così come le forze di occupazione, americane e inglesi. È l'ONU che deve intervenire ma non per legittimare Bush: prima a casa le forze di occupazione e solo subito dopo deve intervenire l'ONU.
L'intervento dell'ONU, infatti, non deve avvenire ora, perché, se ciò avvenisse, questo significherebbe per tale organismo non decidere e non contare nulla, facendo continuare a decidere e a contare solo agli americani; significherebbe, quindi, aiutare Bush, che vuole far tornare a casa i suoi ragazzi tenuto conto che sono morti più soldati americani dopo la guerra che durante il conflitto, ed imporre in maniera definitiva quella ridefinizione dei rapporti di forza a livello internazionale determinatasi con la guerra in Iraq a seguito dell'accettazione di un mondo unipolare a comando americano sancendo, così, l'ininfluenza dell'ONU e dell'Europa.
Questo voto è molto importante perché segna la collocazione del nostro paese nello scacchiere internazionale e il ruolo dell'Italia in Europa. Con questo voto, con questa missione, il Governo Berlusconi sceglie, ancora una volta, di stare a fianco


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degli Stati Uniti e contro l'Europa e contro le Nazioni Unite e contro gli interessi nazionali.
Per tutti questi motivi noi Comunisti italiani voteremo contro, oggi come ieri, questo provvedimento; e sempre per questi motivi abbiamo lanciato una grande campagna nazionale con la raccolta di firme (una petizione) affinché questa posizione attraversi tutta la società al fine da poter chiedere il ritiro immediato dei militari italiani: le truppe italiane a casa! Riteniamo inoltre che le forze politiche appartenenti all'Ulivo debbano esprimere con chiarezza questa posizione, superando le ambivalenze, le incertezze presenti nei mesi passati.
Esse sono state e sono presenti anche all'interno dell'Internazionale socialista (perché ho sentito parlare adesso il collega Villetti). Credo che dobbiamo dire con chiarezza che, anche a partire dalla posizione sull'Iraq, si deve difendere un'idea dell'Europa non subalterna e non gregaria rispetto agli Stati Uniti. Non c'è parità e non ci sarà rapporto paritario tra Europa e Amministrazione Bush, onorevoli colleghi, se, proprio a partire dalla questione dell'Iraq, l'Europa non sceglierà di dire con chiarezza che oggi queste forze di occupazione devono tornarsene a casa, proprio per ripristinare l'ordine internazionale, il ruolo dell'ONU e, soprattutto, il ruolo dell'Europa (Applausi dei deputati dei gruppi Misto-Comunisti italiani e dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Zanella. Ne ha facoltà.

LUANA ZANELLA. Signor Presidente, abbiamo già dichiarato sia nelle Commissioni, sia in Assemblea il nostro pesante giudizio sul decreto-legge e, più in generale, sulle scelte di politica estera operate dal Governo. Con coerenza e puntualità di argomentazioni, abbiamo espresso il nostro deciso e radicale rifiuto dell'intervento in Afghanistan prima e in Iraq poi, ritenendo la strategia del Governo Bush e di coloro che vi si sono affiancati una vera e propria tragedia per il futuro dell'umanità e per i destini della democrazia ed una lesione difficilmente sanabile del corpo stesso del diritto internazionale.
Abbiamo ribadito, attraverso gli interventi dell'onorevole Cima e di altri colleghi del gruppo Misto-Verdi-l'Ulivo, la nostra netta contrarietà rispetto alle posizioni assunte dal Governo in relazione alla guerra e all'occupazione dell'Iraq da parte delle forze alleate, di cui questo decreto-legge è solamente uno degli esiti. Senza ripetere quanto è stato già detto e per argomentare, seppur succintamente, le proposte emendative che ci apprestiamo a votare, vorrei sottolineare l'estrema ambiguità con cui il Governo ha proposto la partecipazione dell'Italia alle operazioni guidate da Bush e da Blair in Iraq. Si tratta di un'ambiguità che sconfina nella mistificazione e che emerge con chiarezza anche solo a leggere le repliche alla discussione sulle linee generali espresse dal sottosegretario Mantica martedì scorso.
Ci sono ambiguità, mistificazione, oppure abbaglio, o sindrome di onnipotenza là dove si afferma che nel quadro internazionale, in continuo movimento, il Governo sta operando come soggetto principale, o come uno dei soggetti principali, teso a ridare alla comunità internazionale il ruolo che le spetta in vicende strettamente legate alla pace.
Ma di quale Governo stiamo parlando, signor sottosegretario, quando lei afferma che il nostro Governo ha agito in sede europea per affermare la centralità dell'ONU, centralità che deve trasformarsi nell'operatività di una cabina di regia? A parte che starei attento ad evocare cabine di regia, ma il Governo ha mancato e manca nel punto principale che qualifica il rapporto tra esecutivo e Parlamento e tra l'esecutivo e il paese: la chiarezza ed il coraggio di una posizione, l'univocità del messaggio.
Non si può, infatti, sostenere la centralità dell'ONU e legittimare, con una missione di stampo neocoloniale, la logica e il principio della guerra preventiva, mettendo, di fatto, una «pezza» sulla più profonda lacerazione operata alle regole


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fondamentali della convivenza internazionale e contribuendo, nei fatti, a ridurre l'ONU a supporto logistico delle forze dell'impero statunitense e dei suoi vassalli.
Il collega Folena, nel suo intervento nella discussione sulle linee generali, faceva cenno al costo della guerra e del dopoguerra in Iraq e al pauroso incremento delle spese militari statunitensi: 48 miliardi di dollari, 4 miliardi di dollari al mese (tra l'altro, il doppio del previsto). Non voglio, in questa sede, fare la retorica su cosa si potrebbe fare di bene nel mondo con queste astronomiche cifre, cifre che fanno impallidire i 232 milioni per l'invio dei nostri militari in Iraq e rendono ancor più drammaticamente insignificanti i 21 milioni, già spesi peraltro per i primi interventi e gli studi di fattibilità di non si capisce bene quali futuri progetti.
Sono, tuttavia, finanziamenti che per noi rappresentano qualcosa, specie se vengono sottratti agli interventi per la ricostruzione e per i danni causati dalle calamità naturali nel corso del 2002. Con queste briciole noi dovremmo far fronte ai drammatici problemi dell'Iraq, alle carenze infrastrutturali e sanitarie, all'emergenza umanitaria e alla disoccupazione (pari al 90 per cento), cui si porrebbe argine distribuendo la pelosa carità occidentale, assegni agli ex ufficiali e sottufficiali iracheni. Ci si è accorti, infatti, che forse non era il caso di licenziare ad nutum 440 mila soldati, senza avere peraltro la forza di disarmarli, e 300 mila funzionari accusati di appartenere al partito Baath. È evidente - ed è stato ribadito dalle colleghe e dai colleghi - che questa operazione nella regione di Nassiriya ha soprattutto lo scopo evidente - qui si tratta di una vera e propria mistificazione - di un'adesione ex post all'invasione dell'Iraq, senza valutare in modo onesto e chiaro la situazione oggettiva dell'Iraq, senza pronunciarsi sulle opacità e sulle falsità che avvolgono fatti inquietanti, le cosiddette prove, il dossier sull'uranio, il coinvolgimento dei nostri servizi segreti e perfino la morte di una persona direttamente implicata in queste vicende.
È evidente, come affermano gli operatori umanitari in Iraq, che non si tratta certo di tutelare la loro opera e presenza. Anzi, l'opera delle ONG impegnate da mesi in Iraq è messa a duro rischio da questa presenza così ambigua e totalmente appiattita sulle forze di occupazione. Si spaccia per missione umanitaria un'impresa militare che mette a repentaglio non soltanto la vita dei nostri giovani, ma anche la credibilità del nostro paese, che ancora una volta si isola dal contesto europeo proprio nel semestre in cui guida, con la Presidenza italiana, l'Unione stessa.
Dal Governo si pretende una soluzione internazionale che possa invertire profondamente il percorso intrapreso. Si abbia il coraggio di chiedere il ritiro delle truppe occupanti e la riattivazione dell'ONU che deve assumere la responsabilità che le compete, la responsabilità di avviare un processo di vera democratizzazione e di ristabilizzazione della sovranità ed autonomia del popolo iracheno. È un percorso difficilissimo, ma che deve essere assolutamente intrapreso, appoggiandosi e non prescindendo dalle espressioni libere di un popolo che - lo ricordiamo - è stato martoriato da guerre, dall'embargo, da una dittatura efferata, ma che conserva in sé la grandezza e la forza che fecero dell'Iraq, già 25 anni fa, uno Stato tra i più ricchi, con una scolarizzazione elevata, in grado di esportare tecnici e laureati in tutto il mondo e con un sistema sanitario avanzato.
Proprio su queste energie e potenzialità bisogna che l'ONU - ed il Governo italiano all'interno di tale organismo - si appoggi per invertire definitivamente il percorso intrapreso (Applausi dei deputati dei gruppi Misto-Verdi-l'Ulivo e di Rifondazione comunista).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Melandri. Ne ha facoltà.

GIOVANNA MELANDRI. Signor Presidente, non so quanti dei colleghi seduti in quest'aula oggi si ricordino il bellissimo film di Mike Leigh Segreti e bugie. È un titolo, anzi una didascalia, che potrebbe


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ben rappresentare l'atteggiamento tenuto da alcuni Governi, tra cui quello italiano, lungo tutto il corso dell'intervento militare in Iraq.
Vi sono stati segreti e bugie sull'esistenza delle armi di distruzione di massa che hanno portato Stati Uniti e Gran Bretagna a dichiarare una guerra illegittima e fuori dal quadro internazionale. Vi sono stati alcuni segreti, e forse anche qualche bugia moltiplicata dalla forza mediatica di alcune grandi reti televisive, come Fox, sull'andamento reale del conflitto con un avversario descritto come militarmente forte, i cui eserciti sono, invece, scomparsi come neve al sole. Vi sono segreti ancora non svelati e nuove bugie sul postguerra e sulla ricostruzione democratica di quel paese.
La sua parte poco gloriosa di bugie il Governo italiano l'ha riservata nel dopoguerra alla configurazione del carattere con il quale giustificare l'invio di militari italiani in territorio iracheno. In quest'aula - molti interventi lo hanno ricordato questa mattina - nel mese di aprile il ministro Frattini disse testualmente: la missione che avremo in Iraq non è l'ISAF e neppure quella dei Balcani, missioni queste destinate alla stabilizzazione politica e sociale oltre che alla sicurezza. Quella dell'Iraq è, invece, una missione italiana che ha scopo emergenziale ed umanitario per salvaguardare, mentre si definisce il quadro internazionale, le condizioni della popolazione civile. Queste sono state le parole del ministro Frattini il 15 aprile scorso.
L'articolo 6 del decreto-legge in esame prevede, invece, che la missione Antica Babilonia si caratterizzi per l'invio di un contingente militare al fine di concorrere al processo di stabilizzazione del paese ed a garantire le condizioni di sicurezza. Dunque, segreti e bugie.
Anche per questo siamo contrari al provvedimento in esame. Questo decreto-legge - è stato detto stamattina anche da Fabio Mussi e da altri colleghi in quest'aula - non è un atto dovuto di finanziamento di una missione militare già autorizzata dal Parlamento. Si tratta di un atto politico perché questo provvedimento è, soprattutto, al di fuori del mandato che il Parlamento ha conferito al Governo italiano. Vorrei dire ai membri del Governo, che ne hanno parlato in sede di discussione generale, che tale decreto-legge ha poco a che vedere con la risoluzione n. 1483 delle Nazioni Unite che richiama, piuttosto, a precisi obblighi delle leggi e delle convenzioni internazionali quelle che la risoluzione definisce potenze occupanti e, naturalmente, anche quei paesi come l'Italia che sono a loro sottoposti.
Il Governo italiano, dunque, si muove al di fuori del mandato conferitogli dal Parlamento nel mese di aprile. Sottopone i militari italiani ai comandi delle forze angloamericani che si sono attribuite unilateralmente il compito di gestire la ricostruzione dell'Iraq, come unilateralmente avevano aperto le ostilità. L'Italia entra nella coalizione dei volenterosi, vincitori, occupanti, decidete un po' voi come chiamarli.
Antica Babilonia non è una missione umanitaria e di pace al pari delle altre, che noi oggi abbiamo voluto, invece, grazie alla separazione di questa decisione riguardante l'Iraq dal rifinanziamento di altre missioni umanitarie, concorrere a rifinanziare, con l'approvazione di un apposito provvedimento in sede legislativa nelle Commissioni riunite Esteri e Difesa.
Alla base di questo decreto-legge al nostro esame vi è, in fondo, la scelta politico-diplomatica del Governo Berlusconi di andare in soccorso del vincitore. Non è un fatto di poca cosa: questo decreto-legge non è un atto ragionieristico con cui si manda all'incasso un assegno spiccato per pagare quella medesima spesa che il Parlamento aveva deciso di affrontare. È evidente che questi soldi servono a finanziare una presenza militare in Iraq molto, molto diversa dagli scopi e dai compiti assegnati tre mesi fa, sulla base della situazione che allora ci era stata presentata dal Governo. La verità è che per capire questo atto del Governo italiano bisogna tornare forse un attimo agli esiti della recente visita texana del Presidente Berlusconi. Il Premier, a Crawford, dimentico


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del fatto che rappresentava non solo se stesso e non solo l'Italia - che peraltro mal rappresenta, considerando quanto forte e profonda sia la volontà di pace, tesa a riportare sotto le insegne delle Nazioni Unite anche la crisi postbellica - ma anche l'intera Unione europea, della quale è il Presidente di turno, è apparso molto più preoccupato di accreditarsi ulteriormente al Presidente Bush, che non di rappresentargli l'esigenza, che l'Unione condivide, di affrontare il post guerra in Iraq, facendo rientrare pienamente in campo le Nazioni Unite.
Postino dell'impero: così lo ha definito Vittorio Zucconi. E, più che portavoce dell'Europa presso la Casa Bianca, il Presidente Berlusconi si è trasformato, ancora una volta, in portavoce della Casa Bianca, anzi portavoce di quei neoconservatori, i quali - ci auguriamo temporaneamente - occupano la Casa Bianca in Europa. Persino Tony Blair, che noi abbiamo osteggiato e le cui scelte non abbiamo condiviso, ha dimostrato però maggiore dignità, quando davanti al Congresso degli Stati Uniti ha invitato l'America a non rinunciare all'Europa e ad abbandonare la diplomazia del comando per tornare a quella della partnership.

GUSTAVO SELVA. Quello che facciamo noi!

GIOVANNA MELANDRI. Tuttavia, devo dire che vi erano tutti i presagi degli esiti di questo viaggio già in un'intervista a Time Magazine di qualche giorno prima, in cui nello spazio di sei righe il Presidente Berlusconi prima dichiarava: ho detto spesso che le armi non sarebbero mai state trovate. E poi, sei righe dopo, diceva: spero che finiremo per trovarle. È un Presidente del Consiglio che parla a un passante che tira a indovinare. Mi chiedo però cosa egli effettivamente sappia e soprattutto cosa intende dire quando dice: noi finiremo con il trovarle. A chi spetta questo compito? Spetta ai soldati italiani?
Colleghi, la guerra è finita da mesi e non mi sembra che il Governo italiano abbia adempiuto al compito, qui esposto nello scorso mese di aprile dal ministro Frattini, di impegnarsi nell'ambito dell'alleanza con gli Stati Uniti per riportare in tempi rapidi il processo di ricostruzione dell'Iraq in ambito ONU. Ancora ieri, Kofi Annan, incontrando il Consiglio provvisorio iracheno ha auspicato che l'occupazione militare finisca al più presto possibile e la Russia si è fatta portavoce dell'esigenza sentita da molti paesi del Consiglio di sicurezza dell'ONU che si arrivi presto ad una nuova risoluzione, che riconosca più spazio alle Nazioni Unite.
Soffermiamoci ancora un minuto su quanto sta accadendo nel post guerra iracheno. Con grande amarezza stiamo assistendo da qualche settimana all'inevitabile processo che sta conducendo mass media ed opinione pubblica mondiale a comprendere che la guerra in Iraq è stata fondata su un castello di segreti e bugie. La vicenda irachena sta dando alcune dure, ma necessarie, lezioni al Governo Bush; la prima, è che impaurire gli elettori funziona, ma solo per poco. Così scriveva ieri The Guardian. Ora il sospetto che le prove addotte dai Governi di Bush e Blair per giustificare l'azione militare, gli ormai leggendari yellow cakes, fossero state artificiosamente costruite era ragionevolmente fondato, e da tempo.
Il capo della CIA, Tenet, il portavoce, Fleischer e Condoleezza Rice, incalzati ogni giorno di più dai media americani, si stanno assumendo - al posto del Presidente Bush - la responsabilità per l'inserimento nel discorso di quelle famose 16 parole, secondo le quali vi era la certezza che l'Iraq stava ricevendo materiale per costruire la bomba atomica.
Già all'epoca - eravamo nel mese di febbraio - molti saltarono sulla sedia e Colin Powell tra loro.

PRESIDENTE. Onorevole Melandri, la invito a concludere.

GIOVANNA MELANDRI. Ho quasi concluso, Presidente.
Ricordiamoci lo scenario di quelle terribili settimane: da un lato, due Governi talmente convinti di voler perseguire, attraverso


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l'attacco all'Iraq, il loro piano geopolitico, fondato sulla guerra come strumento di controllo dei focolai di tensione mondiale che li hanno indotti ad avvalersi anche di prove inattendibili, dall'altro, l'ONU che, con i suoi ispettori - perfino l'ormai pensionato Hans Blix e il capo dell'Agenzia atomica El Baradei -, continuava a ripetere che non era possibile avere la certezza che l'Iraq producesse o conservasse armi di distruzione di massa. E, in mezzo, altri due grandi soggetti: l'enorme opinione pubblica, contraria a quella guerra e alla dottrina della guerra preventiva come nuovo parametro di riferimento per i rapporti internazionali e i molti Governi indecisi sulla posizione da assumere. Alcuni di questi - tra cui la Francia, la Germania e molti altri Governi che siedono nel Consiglio di Sicurezza - non presero affatto per buoni i dossier prodotti a sostegno della necessità e dell'urgenza dell'intervento militare.
Altri Governi, come quello dell'Italia - ecco il punto -, si sono accodati docilmente alla coalizione dei willings, con la provinciale speranza di ricevere qualcosa in cambio, quando questa si fosse trasformata - come era prevedibile che accadesse in breve tempo - in coalizione dei winnings. Ecco dove siamo oggi: segreti e bugie.
Ora, la ricostruzione di questa vicenda e il ristabilimento ormai prossimo ed inevitabile della verità non servono solo a farci sentire a posto con la nostra coscienza, ma devono sapersi tradurre in giudizio critico e iniziativa politica. Proprio come sta facendo l'opposizione democratica all'interno del Congresso degli Stati Uniti che ha finalmente rotto il velo di unanimismo che ha accompagnato la scelta militare di Bush e che, oggi, sta richiamando il Presidente al dovere di riconoscere le bugie e di farsi carico delle responsabilità.
Oggi, esprimeremo un voto contrario sulle vostre bugie e, nei prossimi giorni, vi chiederemo anche di istituire una Commissione di inchiesta, al fine di fare chiarezza sulle ragioni della guerra. Ciò in quanto vogliamo che quegli anticorpi che le grandi tradizioni democratiche hanno nei confronti delle menzogne si rafforzino anche nel nostro paese.
Infine, Presidente, siamo davvero consapevoli della delicatezza del ruolo che i nostri militari svolgono per mantenere e restituire la pace in zone del mondo sofferenti e dilaniate. Tuttavia, questa missione - riprendo le parole utilizzate qui ieri dal rappresentante del Governo - è stata snaturata, non ha gli stessi scopi e le stesse finalità per cui era stata prevista. Non è una missione umanitaria e sottopone i nostri soldati al rischio di diventare bersaglio di un'insofferenza montante nei confronti delle forze occupanti.
Al di là di tanta stucchevole retorica sui nostri ragazzi - lo dico anche ai colleghi della maggioranza -, crediamo che troppi siano i segreti e le bugie dall'inizio della guerra ad oggi. Per tale motivo vorremmo che i militari italiani, esposti a gravi rischi in ragione dell'incredibile superficialità di chi ha ingaggiato una guerra preventiva e illegittima, tornassero a casa, finché sulla loro missione non sventoli un'altra bandiera, quella delle Nazioni Unite (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l'Ulivo e Misto-Comunisti italiani).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Buffo. Ne ha facoltà.

GLORIA BUFFO. Questa guerra, sbagliata ed illegale, non ha portato né la pace né l'ordine e non ha portato fortuna nemmeno a chi l'ha voluta e che, pur di ottenerla, ha ingannato il mondo.
Saddam mente - si diceva -, ma quando mentono i paladini della democrazia da esportazione, bisogna sapere che si incrina un pilastro fondamentale della nostra convivenza.
Quanti nuovi giovani terroristi verranno indottrinati con l'argomento che Bush e Blair hanno inventato le armi di distruzione di massa come ragione per questa guerra?
Il mondo è globale, e se il battito d'ali di una farfalla può provocare un uragano nell'altro emisfero, tanto più una bugia a Washington, a Londra, a Roma, provoca


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danni e conseguenze pesanti. Il Presidente statunitense ed il Premier britannico sono chiamati a risponderne, sarà bene che accada anche qui in Italia.
Oggi esprimiamo un voto sulla politica internazionale dell'Italia, non sul puro finanziamento di un'ordinaria missione all'estero. Che oggi si voti sulla politica del Governo Berlusconi a proposito di Iraq e sulla collocazione dell'Italia rispetto alla politica di Bush, all'ONU, all'Europa, non lo dico io, è sotto gli occhi di tutti. Lo hanno detto autorevolmente Rutelli e Fassino il 15 aprile scorso, quando motivarono l'astensione - che non condivisi - con una sospensione del giudizio: la verifica la faremo, dissero, quando arriverà in Parlamento il decreto sul finanziamento e sulle modalità della missione in Iraq. Oggi è il momento della verità per tutti, e la verità è semplice: essa è scritta nel testo del decreto-legge ed è scritta, purtroppo, nello svolgersi degli eventi che è sotto gli occhi di tutti.
Il riassunto è presto fatto. In primo luogo, la guerra, su cui non abbiamo cambiato idea, né noi, né gli italiani, né l'ONU, non è finita, non solo perché gli americani contano ormai più morti che nella prima guerra del Golfo, ma perché ci sono gli occupanti, ma non ci sono, come dicevo, né la pace, ne l'ordine, né, tantomeno, la democrazia.
Blair ha sostenuto frettolosamente che la storia gli darà ragione: se le armi c'erano, avevamo ragione noi, ha detto; se non c'erano, avevamo ragione lo stesso. Temo che tali argomenti servano a consolarsi dei guai più che a governare il mondo.
In secondo luogo, la guerra non è finita, e sono state anche scoperte le bugie che sono servite per iniziarla. Se la legalità internazionale e la democrazia, che implica di non ingannare i cittadini, sono messe in crisi da questa vicenda, si tratta di un danno collaterale tra i peggiori.
L'ideologia dello scontro di civiltà, teorizzato da Huntington, sta diventando un rischio grave e una malattia severa per la democrazia. La visione dell'occidente come un insieme di «democrazie canaglia» da parte di qualche miliardo di uomini - perché è così che qualche miliardo di uomini vede la vicenda - non aiuterà a migliorare il mondo.
In terzo luogo, il Governo Berlusconi, mentre Bush e Blair stanno sulle spine, decide una missione di alcune migliaia di soldati senza alcuna copertura internazionale.
Inoltre, il carattere della missione è militare e non umanitario: non lo dicono i propagandisti dell'opposizione, ma le cifre contenute nel decreto-legge, che parlano del 10 per cento delle risorse destinato alle iniziative umanitarie, mentre il resto è destinato alla logistica militare.
Tutto ciò avviene ignorando l'articolo 11 della Costituzione, che non prevede la fattispecie del fiancheggiamento e supporto militare di potenze che occupano un paese straniero contro la legalità internazionale.
Quelle che ci vengono proposte sono enormità. Contro l'ONU, fuori dall'Europa e dalla nostra Costituzione, in splendida solitudine mandiamo soldati e soldatesse a rischiare per alleggerire l'onere di Gran Bretagna e Stati Uniti e per far parte del giro di quelli che potranno dire: c'eravamo anche noi.
Si potrebbe aggiungere che alle organizzazioni non governative non si dà una lira, mentre molti affari si profilano all'orizzonte per i privati. Gli iracheni hanno sofferto e stanno soffrendo moltissimo: credo non meritino che l'avventura italiana si scarichi su di loro.
Non penso si tratti di insipienza da parte vostra, sapete quello che state facendo: Berlusconi vuole essere il portavoce di Bush in Europa (Blair l'alleato, Berlusconi il semplice portavoce). Avete voluto essere della partita in Iraq, senza combattere, ma accorrendo subito dopo.
Frattini ha mentito sulla missione umanitaria e il vostro Governo ha contribuito, molto probabilmente, al castello di bugie sulle armi di distruzione di massa. Ecco quello che state facendo! La vostra visione e la vostra azione, piccola ma regressiva, sono pericolose. Meglio attendenti del più forte che coautori della politica europea


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per un ordine più sicuro e non imperiale del mondo. Come i populisti di provincia, mentite all'opinione pubblica. Parlate spessissimo del popolo e a nome del popolo italiano, ma per voi l'importante è che il popolo non venga a sapere come stanno veramente le cose.
C'è una strada seria, che ridarebbe all'Italia un ruolo progressivo, dopo una guerra sbagliata e rischiosa: ritirare le truppe, lavorare per un ingresso a pieno titolo dell'ONU nella vicenda irachena e per un aiuto serio alle popolazioni dell'Iraq. Milioni di italiani hanno appeso le bandiere della pace. Molte sono ancora appese ai loro balconi. Quegli italiani non vogliono un'Italia con l'elmetto, non vogliono soldati e soldatesse a rischio per una ragione sbagliata, non vogliono un paese genuflesso davanti a Bush e alla sua politica. Ma, anche stavolta non ascoltate gli italiani.
Per questa ragione, cercheremo di correggere il decreto-legge, ma voteremo contro la scelta di una missione avventurosa, sbagliata e illegale (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, di Rifondazione comunista e Misto-Comunisti italiani).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Cima. Ne ha facoltà.

LAURA CIMA. Signor Presidente, ci troviamo nella fase della discussione sul complesso degli emendamenti ma in realtà, stiamo facendo una discussione sulle linee generali, di carattere politico, perché i fatti che si sono verificati ieri, a partire dalla decisione della Conferenza dei presidenti di gruppo, hanno cambiato la prospettiva e hanno aggiunto chiarezza al dibattito. Quindi, mi pare giusto che ci sia la necessità di intervenire non soltanto sul complesso degli emendamenti ma sull'intero quadro della manovra stralciata come è stato deciso. I due presidenti hanno fatto notare che il dibattito, forse anche per questo motivo, comporta molte ripetizioni e che la coazione a ripetere non aiuta a chiarire nulla. Anche approfittando del fatto che la collega Zanella è giustamente intervenuta per la prima volta su questo tema e, quindi, ha avuto modo di esprimere fino in fondo il suo pensiero e il pensiero dei Verdi e avendo io già espresso più volte il pensiero dei Verdi in quest'aula e in Commissione, vorrei limitarmi ad alcune considerazioni fondamentali, anche se generali.
La prima considerazione riguarda la grande soddisfazione dei Verdi per come si è evoluta l'intera vicenda, perché ricordo con sofferenza il fatto che, di nuovo, con Rifondazione comunista - non ricordo quanto ai Comunisti italiani -, fossimo in pochi a suo tempo, a non cadere, nel tranello delle dichiarazioni del ministro Frattini. In quell'occasione, mi stupì che molti colleghi pacifisti, che con noi avevano manifestato in piazza, si fidassero tutto sommato di queste decisioni e votassero a favore della risoluzione che, proposta dalla nostra parte, comunque concorreva a sostenere l'invio di truppe in Iraq. Credo che il quotidiano di Torino La Stampa, con un articolo che, pur sfiorando un po' il pettegolezzo, chiarirà a chi lo leggerà i retroscena della vicenda di ieri, nel titolo individui chiaramente chi ha vinto: Missioni all'estero, la spunta l'Ulivo. La nostra soddisfazione è anche questa, perché non soltanto ci siamo ricompattati, come ho avuto modo di fare notare al sottosegretario Cicu durante la discussione sulle linee generali, quando egli sosteneva che fossimo divisi, ma abbiamo anche vinto questa prima fase di scontro con il Governo.
Sicuramente, i gravi errori degli alleati naturali del Governo Berlusconi, del nostro Presidente del Consiglio hanno spinto il Governo e la maggioranza in una situazione di grave empasse, che poi ha determinato il fatto che le proposte fatte in quest'aula ieri avessero dovuto, come è avvenuto, essere ingoiate altrimenti il decreto-legge rischiava di decadere.
Da questo punto di vista, io credo che ci stiamo avviando poco per volta verso una chiarezza molto maggiore su che cosa sta succedendo nel mondo, sulla valutazione e sui canoni di interpretazione della realtà, il che finalmente distingue chiaramente


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in questo paese le posizioni della maggioranza e del Governo da quelle dell'opposizione, pur con qualche articolazione diversa che può ancora esserci. In ogni caso, mi riferisco anche all'intervento in Commissione dell'onorevole Minniti, che di fatto ha espresso le critiche rispetto alle altre missioni, uguali a quelle espresse dai Verdi che poi le hanno trasformate in emendamento, e, ancora una volta, contraddittoriamente secondo me, ha votato a favore di quelle missioni, perché essendo stati respinti quegli emendamenti non si poteva votare a favore. Comunque, c'è tempo e anche qui andremo a vedere cosa succederà.
Mi pare sia stata sconfitta soprattutto una visione molto burocratica, che per esempio il presidente dei Democratici di sinistra D'Alema aveva espresso più volte anche sui suoi articoli, per cui la ratifica delle missioni all'estero è dovuta: bisogna pagare i nostri militari e quindi è come se un comune rifiutasse di pagare i propri dipendenti, se il Parlamento si ribella a questo. Finalmente, invece, abbiamo ripreso in mano la politica e quindi siamo entrati nel merito e nelle ragioni della questione e per questo motivo siamo anche riusciti ad ottenere delle divisioni che facilitano la trasparenza del Parlamento nel voto.
Il secondo punto che voglio mettere in rilievo è il fatto che il modello di relazioni politiche, di intervento internazionale, di intervento militare e comunque di legittimazione di predominio sul mondo che l'amministrazione Bush ha imposto, purtroppo, fa scuola e si incontra con la faciloneria del nostro Governo e per quanto riguarda il Presidente del Consiglio vi è anche la non conoscenza della storia della diplomazia italiana in tutti i grandi conflitti, le crisi mondiali come quelle mediterranee. Questo ha determinato che il modello di relazioni «ranch di Bush» dove il nostro Presidente è corso, somigliasse in realtà al modello di relazioni casalingo nella villa di Arcore, che comunque è assolutamente fuori da ogni logica seria di democrazia, di confronto internazionale, europeo, parlamentare italiano, di rapporto corretto tra maggioranza ed opposizione e secondo me anche all'interno della stessa maggioranza.
Mi sono dimenticata di dire che tra le grandi soddisfazioni dei Verdi c'è anche una non piccola vittoria che abbiamo ottenuto ieri, il cambiamento del finanziamento della missione, dovuto anche a contraddizioni interne alla maggioranza che abbiamo determinato con la nostra battaglia, perché le dichiarazioni della Lega nord Padania al riguardo erano abbastanza evidenti. Non ho capito bene, perché non ho avuto il tempo di seguire in queste ore caotiche, ma mi pare che adesso questi finanziamenti vengano presi dal fondo imprevisti del Presidente del Consiglio. Questa nuova soluzione sembra quasi una vignetta.
Sicuramente questa voce di bilancio, se esiste davvero, verrà sempre più ampliata, man mano che gli errori del Governo e della maggioranza verranno alla luce, come è accaduto in questa occasione. Per quanto riguarda il modello di relazioni politiche prima ricordato, non vorrei riferirmi solo al ranch di Bush ed alla villa di Arcore (che ci fanno capire chiaramente come si interpreta la democrazia e la capacità di governare la complessità del mondo), alla guerra preventiva, all'operazione Enduring Freedom (più volte abbiamo denunciato questi aspetti e, pertanto, non mi dilungherò sui medesimi) o alla rottura di organismi internazionali nati nel dopoguerra, come l'Unione europea o l'ONU, per evitare l'insorgere di altre guerra e gestire in modo non violento i conflitti, ma anche ad altre questioni che sono emerse.
Dal falso dossier sull'uranio del Niger è emersa una cosa ancora più grave: l'uso dei falsi dossier al fine di legittimare posizioni contrarie agli organismi internazionali, all'ONU, all'Unione europea. È un atto gravissimo che, non a caso, ha determinato una situazione di crisi politica strisciante sia per Blair, per quanto riguarda la Gran Bretagna, sia per Bush, per quanto riguarda gli Stati Uniti.
Vorrei che il Governo italiano si pronunciasse al riguardo, anche perché ieri -


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vorrei sottolinearlo poiché ritengo si tratti di una questione importantissima - l'ufficio di Condoleezza Rice, che ha ammesso di aver utilizzato questi dossier falsi, ha scagionato il primo accusato (Tenet e la Cia) su cui si era cercato di scaricare il barile (non si tratta di una cosa di quattro soldi), scusandosi per questo.
Vorrei sapere che cosa dice il nostro Governo in merito a questa vicenda, perché ancora non l'ho sentito esprimersi al riguardo. Se siamo succubi e gregari degli Stati Uniti, come lo siamo in questa situazione, voglio capire se lo siamo anche per quanto riguarda la questione delle bugie che si sono diffuse e quanto i nostri servizi segreti, oltre che Panorama, abbiano contribuito alla loro diffusione.
Per questo motivo, sottoscriverò sicuramente (i Verdi sono d'accordo) la richiesta di istituire una Commissione di inchiesta sulle ragioni della guerra, richiesta avanzata dagli onorevoli Mussi e Melandri. Non sarà certamente solo questa inchiesta a dover capire come questo modello si sta sviluppando e come sta inficiando il diritto internazionale, la legittimità, le relazioni politiche consolidate, la credibilità del nostro paese.
Bush ha ricevuto Berlusconi nel momento di Presidenza italiana del Consiglio europeo (egli rappresenta l'Unione europea). Certo, l'imbarazzo non era da poco per Berlusconi, poiché il primo atto forte di politica estera del semestre italiano è stato la sua corsa al ranch di Bush (egli ha dovuto dire che ci andava in una certa veste). Ma vi rendete conto di quanto siamo ridicoli agli occhi del mondo? Questo è il modello, questo è il modo con cui si costruisce la politica estera in Italia!
Credo di aver detto forse qualcosa di diverso, facendo contenti i due presidenti delle Commissioni difesa ed affari esteri e, pertanto, adesso entrerò nel merito degli emendamenti più significativi che sono stati presentati a tale provvedimento.
Non entrerò più nel merito della questione, non soltanto perché, avendo parlato sul complesso degli emendamenti e volendo offrire un quadro più generale del problema, non mi è più possibile farlo, ma anche perché è stata una scelta del gruppo Misto-Verdi-l'Ulivo quella di presentare emendamenti, proprio per la soddisfazione che ho ricordato nel mio primo intervento, con tutti gli altri colleghi dell'Ulivo.
L'unico emendamento che abbiamo presentato da soli, come ricordava l'onorevole Grandi, è quello contro il codice militare, per la soppressione di questa vergogna.
La stessa cosa abbiamo fatto in Commissione stamane per quanto concerne l'altro provvedimento. Non entro quindi nel merito perché credo che la politica sia chiara, perché la soddisfazione di aver visto crescere intorno alla nostra linea tutto l'Ulivo è grande, e perché la vittoria dell'Ulivo rispetto al Governo sulle missioni estere è riconosciuta dagli organi di stampa, in particolare da un organo come La Stampa di Torino che non può essere certo tacciata di parzialità rispetto alla sinistra.
Per questa ragione, credo non sarà necessario che si intervenga su tutti gli emendamenti che abbiamo sottoscritto, magari appoggeremo altri emendamenti, in modo da esprimere certamente un «no» deciso su questo decreto-legge, non prima di aver fatto di tutto per cercare ancora di modificarlo, come già abbiamo ricordato in precedenza.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Angioni. Ne ha facoltà.

FRANCO ANGIONI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, stiamo discutendo il decreto-legge per l'invio degli aiuti umanitari alla popolazione irachena e per la presenza del contingente militare.
Questo documento doveva rappresentare l'atto conclusivo dell'iter decisionale.
È un documento complesso, molto articolato ma per alcuni aspetti non esaustivo perché sull'Iraq e su questa vicenda vi sono molte idee da chiarire.
Per mettere ordine e soprattutto per non essere frainteso, anche perché sul percorso tecnologico vi sono state voci differenti, mi permetto di fare alcuni riferimenti agli avvenimenti che hanno preceduto


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questo documento. 15 aprile: il ministro Frattini indica dinanzi all'Assemblea le linee generali dell'esigenza operativa che si sta profilando, ovvero la necessità di un intervento umanitario nei riguardi della popolazione irachena, al termine delle operazioni belliche.
Egli indica che questo intervento è urgente, precisando altresì che per le condizioni nelle quali occorre operare è necessario che gli aiuti umanitari siano accompagnati da un contingente militare per fornire sicurezza agli operatori stessi. Indica inoltre anche la probabile area di dislocazione del contingente nel sud dell'Iraq. Indica infine i settori di intervento individuabili nell'assistenza sanitaria, la distribuzione dei generi di prima necessità, la ricostruzione di alcune infrastrutture, la bonifica dagli ordigni esplosivi.
Le modalità di dettaglio, questa è un'altra precisazione, saranno comunicate successivamente perché vi è la necessità di approfondire la materia e comunque questa comunicazione verrà fatta al Parlamento prima della partenza del contingente.
L'opposizione espresse in quella occasione una concordanza sull'esigenza dell'intervento umanitario e sulla sua urgenza, facendo presente che dopo le operazioni belliche per le condizioni del popolo iracheno, fiaccato da più di dieci anni di sanzioni, vi era la necessità dell'intervento della comunità internazionale.
Tutti concordammo anche sull'esigenza, date le condizioni di disordine relative all'ordine pubblico nel paese, della presenza di un contingente militare che fornisse un minimo di sicurezza agli operatori dediti a questa attività.
Con l'occasione chiedemmo inoltre che in ogni caso ci si adoperasse affinché l'intervento militare fosse posto sotto la bandiera ONU, al fine di poter distinguere la fase della guerra da quella della ricostruzione.
Il 14 maggio, il Governo - in particolare il ministro Martino - comunica alle Commissioni riunite di Camera e Senato precisazioni in ordine agli elementi di dettaglio che tanto attendevamo. Ci viene comunicato che si tratta di un'operazione umanitaria - questo è l'impegno che il ministro Martino esprime, a conferma di quanto disse il ministro degli esteri - oltre al nome dell'operazione - Antica Babilonia - e che sarebbe stato predisposto un contingente militare - leggo testualmente - di medie dimensioni ma di elevata qualità, per consentire una autosufficienza logistica indispensabile per la distanza.
Il ministro Martino precisa anche che il comando nazionale sarà destinato a Bassora - una conferma del dato precedente - presso il comando divisionale britannico. Questo sembra un termine di spazio ma, in verità, è un termine di grande spessore tecnico, perché indica che saremo sotto comando della divisione britannica. Chiedo venia, ma a questo punto devo fare una precisazione di carattere tecnico: l'autorità che ha la facoltà di cedere un reparto militare e quindi cedere questa autorità - tecnicamente si chiama «comando operativo» -, nel compiere questa azione cede questa responsabilità con la definizione del compito assegnato a queste truppe (entro il quale il reparto che lo riceve deve poter rimanere e non fuoriuscire), definisce l'entità delle forze (che non può essere cambiata) e l'area di impiego ed indica il comando che riceverà l'autorità del controllo operativo su queste truppe. Non viene detto altro, perché - cito ancora - l'impiego effettivo delle forze sarà stabilito sulla base della direttiva ministeriale, che sarà comprensiva anche delle regole d'ingaggio. Il tutto - nuova conferma - verrà comunicato al Parlamento prima della partenza del contingente.
I primi di giugno il contingente ha quasi completato il suo schieramento in Iraq, ma della direttiva non abbiamo avuto ancora notizia. Il 10 luglio, invece, arriva il disegno di legge per la conversione del decreto-legge n. 165 e nella relazione illustrativa vi è la conferma che si tratta di aiuti umanitari alla popolazione irachena, che bisognerà attuare il ripristino delle infrastrutture per migliorare le condizioni di vita e che il contingente militare avrà compiti strettamente connessi a garantire


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la sicurezza degli aiuti umanitari. Quindi, vi è la conferma che il contingente militare è complementare all'attività principale, che è quella umanitaria.
Viene indicato lo stanziamento dei fondi per l'attività umanitaria - 21 milioni e 550 mila euro - e, successivamente, all'articolo 6, l'entità della cifra stanziata per il contingente militare - 232 milioni e 451 mila euro -, cioè un rapporto di 1 a 10 (uno è l'attività umanitaria, dieci il contingente). Pur facendo tutte le proporzioni, perché parte del contingente militare fornisce contributo all'attività umanitaria, il rapporto di 1 a 10 è eccessivo per poter considerare ancora prevalente l'attività umanitaria rispetto alla presenza del contingente.
Sempre in questo documento viene ancora riferito che è previsto un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri per la composizione di dettaglio e per le modalità operative per lo svolgimento della missione. Dal 15 aprile stiamo ancora aspettando di sapere esattamente quali siano le finalità dell'operazione e, soprattutto, dell'apparato militare.
Tra l'altro, nell'ambito dell'articolo 6 - e questo è il punto essenziale - finalmente compare il compito vero del contingente, che è duplice: fornire sicurezza alle attività umanitarie, al fine di consentirne lo svolgimento, e partecipare al processo di stabilizzazione del paese. Anche qui vorrei annoiarvi con un piccolo chiarimento.
Il primo compito, quello di fornire sicurezza agli interventi umanitari e agli operatori sanitari che svolgono tale missione, è un'attività a carattere prevalentemente difensivo, statico, per proteggere chi deve svolgere una determinata funzione. Invece, un processo di stabilizzazione del paese presuppone un'attività prevalentemente dinamica ed offensiva.
Sono due compiti a contrasto che possono essere sicuramente svolti ma questa seconda parte, l'attività della stabilizzazione, è contraria a tutto ciò che c'era stato detto nelle due tappe prima indicate, ossia il 15 aprile, da parte del ministro degli esteri, e, successivamente, il 14 maggio, da parte del ministro della difesa.
L'11 luglio, ossia il giorno dopo la ricezione del decreto, veniamo a sapere dalla stampa che è stato firmato il trasferimento di autorità. Che cos'è il trasferimento di autorità?

PRESIDENTE. Onorevole Angioni...

FRANCO ANGIONI. Signor Presidente, non ho a disposizione 15 minuti di tempo?

PRESIDENTE. Sì, onorevole, ma c'è l'intesa che avverto dopo dieci minuti.

FRANCO ANGIONI. È un documento nel quale si cede l'autorità cui ho fatto riferimento prima. Chi ha l'autorità di poter dare questa concessione definisce il compito, le modalità particolari, cerca di tutelare il contingente, definisce le regole di ingaggio. Nulla di tutto questo ci è giunto.
È necessario, dunque, svolgere su questo argomento alcune considerazioni. Il Parlamento è ancora in attesa di conoscere gli elementi salienti della missione militare per comprenderne appieno le finalità.
Si ribadisce la necessità e la convenienza della copertura delle Nazioni Unite. È un vantaggio che andiamo ricercando, perché il popolo iracheno possa sapere che c'è una netta differenza tra coloro che hanno esercitato le attività belliche e le attività umanitarie che seguono. Ci rendiamo conto che può essere ancora utile la presenza dell'aiuto umanitario, ma vogliamo che sia nettamente separato da quelle attività che hanno caratterizzato le operazioni belliche.
Chiediamo, quindi, al Governo italiano di sostenere gli sforzi che attualmente il Segretario generale delle Nazioni Unite sta facendo per poter raccogliere le adesioni di molti paesi che possono concorrere a questa operazione.
Desideriamo che il nostro contingente possa rappresentare l'Italia e sia, invece, sotto la bandiera dell'ONU. Se non fosse possibile, qualsiasi altra soluzione multinazionale è preferibile allo schieramento


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con le truppe di occupazione, così come sono state definite dalla risoluzione n. 1438 delle Nazioni Unite.
Tra l'altro, ce lo impone lo stillicidio continuo di uccisioni che la guerriglia sta realizzando contro le truppe americane a testimonianza che il popolo iracheno, almeno una parte di esso, non accetta questa intrusione sul proprio territorio, un'intrusione che l'islam considera sacrilega da parte delle popolazioni straniere. Tra l'altro, ci sono anche da tutelare le nostre organizzazioni non governative (sono più di 50) che operano in sintonia con le agenzie delle Nazioni Unite e sotto il controllo del Ministero degli affari esteri, senza alcun contatto con la linea di comando diversa che caratterizza, invece, il contingente militare.
Desidero concludere questo mio intervento, non privo di critiche come avete potuto notare, esprimendo, lo dico pacatamente ma con orgoglio, la più viva solidarietà, mia e di tutto il mio gruppo, agli uomini e alle donne militari e civili già operanti in Iraq, assicurando loro che, come Parlamento, non faremo mancare, indipendentemente dalle valutazioni di carattere politico, il nostro sostegno morale e finanziario per l'assolvimento del loro rischioso compito.
Non siamo distanti, come qualcuno ha pensato di poter dire, dalla nostra gente. Desideriamo, invece, essere vicini con la razionale consapevolezza della necessità di ridurre i loro rischi (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).

PRESIDENTE. Prima di dare la parola all'onorevole Gerardo Bianco, vorrei rivolgere un saluto alla delegazione del comune di Cosenza, presente in tribuna (Applausi).
Ha chiesto di parlare l'onorevole Gerardo Bianco. Ne ha facoltà.

GERARDO BIANCO. Signor Presidente, vorrei pregare, se permette, il collega Mongiello, in altra occasione rimproverato, di lasciare il banco del Governo per consentirmi di essere ascoltato.

GIOVANNI MONGIELLO. Le chiedo scusa.

GERARDO BIANCO. Signor Presidente, signor ministro, allorquando, all'indomani della rapida, vittoriosa avanzata delle forze anglo-americane cadde il regime di Saddam Hussein, si affrettò immediatamente ad offrire le sue forze armate, il suo aiuto, il Governo agì con una precipitazione che sembrava più affetta da una sorta di sindrome cavouriana di avere i bersaglieri in Crimea che ispirata da una meditazione attenta di quella che doveva essere una politica giusta e strategicamente elaborata.
Ma non voglio soffermarmi su questo aspetto perché in politica, soprattutto in quella internazionale, non si deve guardare all'indietro, ma si deve guardare ai fatti verificatisi. Si è verificato, indubbiamente, un fatto importante: la caduta di un regime dittatoriale e sanguinario, la qual cosa non può che essere salutata con soddisfazione. Quindi, nessuno sguardo volto all'indietro, ma una valutazione di quello che deve essere l'atteggiamento che dobbiamo assumere come Governo, tenendo presente che questa è materia così delicata e così incandescente che operare ritenendo di poter ricavare vantaggi di parte, dall'una o dall'altra, dalla maggioranza o dall'opposizione, è disegno assolutamente miope.
Credo che a tale criterio si sia ispirata l'opposizione quando, qui in Parlamento, il ministro Martino è venuto a chiarire le ragioni dell'invio delle forze militari in Iraq, anche se in un contesto non propriamente convincente. Avevamo davanti agli occhi le immagini di un paese dissestato e delle famiglie che andavano alla ricerca disperata di acqua; avevamo davanti agli occhi le immagini terribili di bambini che tendevano la mano per ricevere un aiuto; avevamo davanti a noi la tragedia di un tesoro archeologico di grandissima importanza per la storia della nostra civiltà occidentale depredato e sparito (sono scomparsi 3 mila pezzi)!
Direi che proprio di fronte a questo spettacolo ci sembrò giusto accettare, sia


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pure con alcune riserve rispetto al contesto, che delle Forze armate venissero inviate per sostenere questo aiuto umanitario e civile e per aiutare l'Iraq a riprendersi. Questa era la nostra ispirazione. Peraltro, proprio qui in Parlamento discutemmo, con il ministro Urbani, l'importante accordo intervenuto per ripristinare i beni archeologici e per riportare ordine in determinati campi che già in precedenza erano stati affidati all'Italia.
Vi fu, dunque, un atteggiamento di apertura, un'apertura di credito. Ma quell'intervento, che doveva sostenere, appunto, l'aiuto umanitario e civile, la ricostruzione, quali caratteristiche ha assunto oggi? Questa è la domanda centrale! Credo che tutti debbano rendere omaggio al collega Angioni per quello che ha rappresentato, per quello che sa e per la spiegazione che ha dato di un termine che, però, non è stato chiarito: la stabilizzazione che richiede un intervento dinamico rischia non dico di stravolgere il tipo di intervento militare (non voglio utilizzare termini forti), ma sicuramente di renderlo ambiguo. Su questo punto un chiarimento non c'è e non c'è stato: si rischia di rendere ambiguo il tipo di intervento!
Ecco perché, a mio avviso, alcune preoccupazioni vi sono, altrimenti si sarebbe potuto avere un consenso più ampio da parte nostra. Quello che noi chiediamo al Governo è, soprattutto, la valutazione di un dato che è politico, signor ministro. Stia un po' attento, ministro, perché noi abbiamo tradizioni comuni: io vengo da una tradizione comune. Benissimo.
Allora, io la richiamo a questa attenzione, atteso che è l'unico rappresentante del Governo presente, insieme con i sottosegretari; non la contesto in alcun modo. Però, vorrei steste attenti al seguente elemento; ritiene che la stabilizzazione, termine che usate nell'articolo 6 del testo, possa ottenersi senza un intervento multilaterale?

CARLO GIOVANARDI, Ministro per i rapporti con il Parlamento. È l'ONU che usa quel termine.

GERARDO BIANCO. Ho letto, vi sono delle perplessità. Se si forniscono dei chiarimenti, va benissimo. Però, fate riferimento ad una decisione dell'ONU, decisione che, peraltro, non coinvolge, oggi, paesi il cui contributo è necessario per potere stabilizzare la situazione. Non lo dico io; lo ha detto, oggi, una persona a mio avviso di indiscutibile indipendenza di pensiero, Sergio Romano. Vi sono paesi che sono indispensabili, come la Francia, la Russia e, aggiungo, l'India; ma potrei includere anche il Canada. Paesi importanti per potere rendere veramente multinazionale l'intervento; ma soprattutto, occorre l'egida dell'ONU. Non vi possono essere stazioni; la Presidenza italiana dell'Unione europea dovrebbe consentirvi di esercitare un ruolo importante.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE PIER FERDINANDO CASINI (ore 15,45)

GERARDO BIANCO. Cosa ha riferito, il nostro Presidente del Consiglio, a Bush su tale materia, che è essenziale? Ha suggerito di chiedere, finalmente, l'intervento dell'ONU; infatti, un popolo orgoglioso, con una grande tradizione alle spalle, con un forte senso di identità, difficilmente si arrenderà a forze di occupazione. La possibilità di stabilizzazione è tutta legata alla possibilità che questo paese sia governato dando il senso di aiutare le forze del paese stesso a stabilizzarsi da sole. Guai se si dà la sensazione che il comportamento delle forze militari sia quello di forze di occupazione. Dobbiamo dare questo contributo, di suggerimenti ed idee, ad un grande paese amico, gli Stati Uniti. Non si tratta solo di dare un aiuto in termini umanitari; è importante anche il contributo politico. Ecco perché un'altra strada dovrebbe essere seguita; concordare con gli altri paesi dell'Unione europea una linea comune. Il nostro Presidente del Consiglio, in quanto Presidente dell'Unione europea, dovrebbe rappresentare, nei confronti degli Stati Uniti d'America, la voce di tutta l'Europa. Non della nuova Europa o della vecchia Europa; ma dell'Europa


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con la sua storia e la sua tradizione di saggezza in tale ambito.
Ma non voglio dilungarmi su ciò; vorrei soltanto che il Governo riuscisse a comprendere che, se vuol dare un senso strategico alla sua linea politica, è essenziale ottenere che, finalmente, la situazione dell'Iraq sia posta sotto l'egida dell'ONU e sia fatta oggetto di interventi multilaterali.
Credo, peraltro, che si tratterebbe, se permettete, anche di favorire una dialettica presente negli Stati Uniti; l'America non è soltanto il gruppo dei cosiddetti falchi. È anche Colin Powell, è anche quella serie di persone che si rendono conto di avere bisogno di una articolazione meno orgogliosa della propria azione politica, più attenta. Peraltro, qualche passo già si muove in questa direzione; noi potremmo dare un contributo.
Però, a tal punto, mi pongo una domanda, me la pongo in coscienza. Mi chiedo se, malgrado gli errori di prospettiva, malgrado la fretta, la precipitazione, si possa, nell'immediato - questa è la domanda di fondo che dobbiamo porci -, dire alle truppe: tornate indietro. A tale riguardo, qualche perplessità la nutro; lo dico con molta franchezza. Penso che non possiamo interrompere una serie di interventi già avviati in campi essenziali della ricostruzione, come ho riferito dianzi. Interrompere tout court questo intervento significherebbe rovinare quel poco di buono che si è fatto e, comunque, in ogni caso, non correggere gli errori compiuti; forse, anzi, significherebbe aggravarli. Ecco perché, personalmente, ritengo non si possa esprimere un voto contrario in questo momento. Lo dico a titolo personale, per gli amici che condividono la mia idea; ma anche perché non possono esserci equivoci sulla nostra vicinanza ai soldati che, in nome non di una parte ma dell'Italia, operano in quelle zone. Operano, come tutti gli altri operatori, in settori delicati; penso non si possa dire di no.
Ma non possiamo neppure avallare una politica del Governo che, se permettete, è, qualche volta, presuntuosa e che ritiene di poter avere compiti più alti di quelli che competono ad un paese come il nostro, un paese che dovrebbe giocare il suo ruolo soprattutto all'interno dell'Europa, con l'Europa, con tutta l'Europa: non dividendo alcuni paesi dagli altri, in quanto, così, l'Italia, non gioca alcun ruolo. Quindi, non potrebbe essere, certo, un voto pienamente a favore.
Ma, io ritengo che il Governo contemporaneamente si debba porre un problema, nel senso che noi non possiamo stare lì all'infinito, ma dobbiamo porci l'obiettivo di ottenere che l'amministrazione dell'Iraq passi sotto l'ONU e che vi sia un intervento multilaterale; altrimenti, bisognerebbe cominciare a riconsiderare le scelte fatte.
Signor ministro, ogni volta che cito l'ONU, lei fa cenno di sì; conseguentemente, voglio sperare che sia così. Noi abbiamo creduto al ministro Martino; in qualche maniera abbiamo creduto anche al ministro Frattini, ma oggi le perplessità sono oggettivamente aumentate proprio perché vi sono termini e parole che, come hanno evidenziato poc'anzi i colleghi intervenuti, comportano conseguenze. Mi riferisco all'operatività attiva, che significa anche intervento militare; qui, voi vi trovereste a dovervi scontrare anche con il dettato costituzionale.
Per quanto mi riguarda, nutro fortissime riserve sulla linea seguita dal Governo; in particolare, avrei preferito una maggiore prudenza, una maggiore ponderazione, un maggiore coinvolgimento e, quindi, una maggiore consultazione con paesi come la Francia e la Germania e con altri paesi che hanno rappresentato un forte momento di insistenza sul valore dell'ONU; avere dei contatti con questi paesi avrebbe significato avvalorare l'ONU, senza per questo essere contro gli Stati Uniti. Sono infatti dell'idea che noi dobbiamo sempre cercare una positiva intesa con gli Stati Uniti il cui contributo alla difesa del nostro paese e dell'occidente non credo debba essere in questa sede ricordato.
Abbiamo però anche il dovere di sottolineare che, se vogliamo svolgere una data funzione, non dobbiamo essere gli


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àscari di nessuno, ma dobbiamo essere liberi e misurati, corretti e pronti a capire in che direzione deve muoversi la storia del Medio Oriente e quella del mondo. E questo lo si deve fare sapendo rispettare la civiltà e l'indipendenza di questi paesi. Questo è quello che noi chiediamo. I nostri soldati e i nostri operatori sono lì per aiutare la gente e non certo per diventare membri di un'alleanza che deve rinnovare la sua stessa ragion d'essere se vuole salvare la possibilità di ricostruire l'Iraq. Questo, ripeto, è quello che chiediamo al Governo.
Ecco perché, per quanto mi riguarda, mi asterrò dal voto su questo provvedimento proprio perché ritengo che non possiamo nell'immediato ritirare le truppe perché, in questo modo, non potremmo garantire la sicurezza.
Al Governo chiedo, nel momento in cui queste decisioni non siano assunte - mi riferisco, ad esempio, a quelle decisioni che portino avanti il multilateralismo e l'intervento dell'ONU - di riconsiderare la sua politica perché, in quel caso, sarebbero venute meno le stesse premesse per cui l'intervento è stato effettuato (Applausi dei deputati del gruppo della Margherita, DL-l'Ulivo - Congratulazioni).

PRESIDENTE. Nessun altro chiedendo di parlare sulle proposte emendative riferite agli articoli del decreto-legge, sospendo brevemente la seduta.

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