Resoconto stenografico dell'Assemblea
Seduta n. 260 del 6/2/2003
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La seduta, sospesa alle 17,35, è ripresa alle 17,50.

Si riprende lo svolgimento dell'informativa urgente del Governo sugli sviluppi della crisi irachena.

(Interventi)

PRESIDENTE. Diamo inizio al dibattito sull'informativa urgente del Governo sugli sviluppi della crisi irachena.
Ha chiesto di parlare l'onorevole Cicchitto. Ne ha facoltà.
Onorevoli colleghi, vi invito a prendere posto, soprattutto quelli in prossimità del banco dell'onorevole Cicchitto.
Il Presidente del Consiglio dei ministri è qui in aula. Prego, onorevole Cicchitto.

FABRIZIO CICCHITTO. Signor Presidente, signor Presidente del Consiglio, onorevoli colleghi, il rischio maggiore che corre questo dibattito, e che corre anche la comunità internazionale, è quello che si apra una discussione astratta e di principio su: pace o guerra.
Una discussione di questo tipo sarebbe, in effetti, per un verso, il maggior favore possibile a Saddam Hussein e, per altro verso, un colpo alla comunità internazionale ed all'ONU. Non siamo di fronte al problema della pace o della guerra: abbiamo l'obiettivo di disarmare Saddam Hussein. E dobbiamo leggere tale obiettivo misurandoci con la grave difficoltà, emersa nella comunità internazionale, al di là di ogni previsione, dopo il 1989: si credeva che, con la fine della divisione internazionale del mondo, si andasse verso una stabilizzazione. Vediamo, invece, che si sono determinate altre contraddizioni e tensioni gravissime ed acutissime, quali quelle del Ruanda ed i massacri nell'ex Jugoslavia e in Kosovo, rispetto alle quali vi sono stati interventi tardivi; ed il ritardo e le contraddizioni della comunità internazionale hanno provocato centinaia di migliaia di morti.
Adesso ci troviamo a misurarci con due dati, che sono due fatti: l'invasione del Kuwait nel 1991 e l'11 settembre; è un fatto anche la valutazione della pericolosità di Saddam Hussein, dato che appartiene


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a tutta la comunità internazionale. Il problema che abbiamo davanti è che la risoluzione dell'ONU n. 1441 non venga vanificata da Saddam Hussein. Il rischio è che Saddam Hussein non osservi le indicazioni dell'ONU e, giocando sulle contraddizioni emergenti nella comunità internazionale, possa farla franca.
Allora - la mia opinione è diversa da quella espressa in una dichiarazione dall'onorevole Violante - debbo affermare che la linea del Governo italiano è l'unica che ha cercato di provocare il raggiungimento dell'obiettivo, il disarmo dell'Iraq, attraverso uno strumento pacifico: quello del compattamento della comunità internazionale. Non a caso, il Governo italiano ha svolto un ruolo fondamentale - che noi rivendichiamo - cercando di saldare tanti pezzi di questa comunità internazionale, dagli Stati Uniti, all'Europa, alla Russia. Questa linea, che punta l'isolamento sostanziale di Saddam Hussein, è anche l'unica che può provocare, eventualmente, il raggiungimento dell'obiettivo del disarmo attraverso la pace e non attraverso l'intervento armato.
Voglio replicare all'onorevole Castagnetti, il quale, ponendosi nell'ottica del dialogo, ha fatto una dichiarazione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio, che il dialogo da lui aperto implica anche un fatto. Paradossalmente, se noi tutti abbiamo l'obiettivo di passare attraverso il consolidamento della comunità internazionale e di piegare per via pacifica Saddam Hussein, affermare in linea di principio che non vi può comunque essere intervento armato ed aprire su questo una grande discussione ed un grande dibattito dà a Saddam tutte le armi per poter fare valutazioni diverse da quelle che auspichiamo.
Ci ricordiamo che la stessa cosa avvenne ai tempi di Milosevic, quando Milosevic aveva la sensazione che la comunità internazionale si dividesse, e così ha cercato in tutti i modi di portare avanti le stragi. Quindi, questo è un nodo essenziale ed il Governo italiano ha sviluppato una iniziativa a trecentosessanta gradi proprio per combinare questi due obiettivi: l'obbiettivo del disarmo e quello di raggiungerlo attraverso la pace.
In questo quadro emerge il gravissimo errore fatto dalla Francia e dalla Germania, ed è un duplice errore. È un errore perché hanno introdotto un elemento di contraddizione, inserendosi nella discussione riguardante la pace o la guerra, intervento armato sì o intervento no (e così via), che dà a Saddam Hussein delle carte. Aggiungo anche che è un tragico errore rispetto alla comunità europea, perché quello è stato il momento di divisione della comunità europea.
Voglio aggiungere anche un altro dato: la Francia e la Germania, evidentemente, hanno l'occhio rivolto al passato. Non si rendono conto che la comunità europea è cambiata, che l'allargamento implica una modifica profonda dei suoi equilibri e, non a caso, vi è stato il pronunciamento di otto paesi e accanto ad otto paesi della Comunità si è avuto in queste ore il pronunciamento di altri dieci paesi, ma anche la valutazione di Solana che ha ritenuto la relazione di Powell una relazione solida, che dimostra la mancanza di collaborazione dell'Iraq con gli ispettori: un rapporto molto, molto importante.
Quindi, in effetti, il grosso della Comunità europea si disloca lungo la linea che è tracciata dal Governo italiano, ed è stato un grande errore la scelta fatta - noi ci auguriamo ci sia una ricomposizione - dalla Francia e dalla Germania.
Ecco, noi oggi ci troviamo di fronte ad una situazione la quale richiede una risposta il 14 febbraio. Ci sono davanti tutte le scelte, però la possibilità di una linea pacifica deriva dall'isolamento di Saddam Hussein e non dalle lacerazioni e dalle divisioni che si possono determinare. In questo senso noi auspichiamo anche che qui in Parlamento ci sia un dialogo positivo con l'opposizione, che deve fare i conti con il fatto che alcune posizioni espresse per esempio sugli alpini, sulle basi e così via, rischiano di comportare lo smantellamento delle nostre alleanze internazionali e di dare un colpo alle cose che il paese tutto insieme ha fatto contro il


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terrorismo e contro gli interventi armati che hanno caratterizzato questa realtà.
L'Unità di ieri diceva: magari avessimo Chirac invece di Berlusconi. Mi consento di osservare, ricambiando la battuta: magari avessimo Blair invece di Cofferati (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia)! Ma, al di là di questa battuta, voglio dire che già questa situazione in cui gli schieramenti non sono rigidi, in cui c'è Chirac da una parte e Blair dall'altra, dovrebbe far riflettere sul fatto che non dobbiamo fare una discussione di carattere ideologico (pace sì, pace no), perché questo tipo di discussione di carattere ideologico sarebbe per un verso il massimo favore possibile fatto a Saddam Hussein e per un altro verso un colpo dato all'ONU, perché l'ONU ha assunto dei deliberati molto precisi e la risoluzione n. 1441 non è l'unico deliberato, ne ha assunti tanti altri nel passato.
Se Saddam Hussein potesse giocare in modo indefinito rispetto alla risoluzione n. 1441, approfittando del confronto apertosi su «guerra sì, guerra no; pace sì, pace no», non riferito al fatto che lui ottemperi o meno ai deliberati ed alle indicazioni presenti in quella risoluzione, ebbene, ciò rischierebbe di rappresentare un colpo per l'ONU. Ricordiamo la vicenda della Società delle nazioni negli anni trenta che andò incontro ad una catastrofe proprio perché i suoi deliberati, le sue indicazioni non «mordevano» rispetto alla realtà. E se noi ci attestassimo su un pacifismo unilaterale e totale - quello che ho letto nel bel libro, peraltro, di Fausto Bertinotti ed Alfonso Gianni - ebbene, quel tipo di pacifismo, che poi è quello a cui si riconducono tutte le altre varianti, è un pacifismo che è stato smentito dalla realtà della storia. Se, infatti, il pacifismo assoluto avesse prevalso negli anni trenta e quaranta, se il pacifismo assoluto avesse prevalso in Iugoslavia e in Kosovo noi ci troveremmo di fronte ad un mucchio di macerie.
Dunque, ciò richiede, onorevoli colleghi, la capacità di andare oltre, al di là delle discriminanti ideologiche e di misurarci sul nodo preciso e concreto: la realizzazione o meno della risoluzione 1441 e quindi di fronte a tutte le responsabilità, in positivo o in negativo, che la comunità internazionale deve trarne a seconda della sua realizzazione o della sua evasione da parte di Saddam Hussein (Applausi dei deputati dei gruppi di Forza Italia, di Alleanza nazionale, dell'Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro e della Lega nord Padania).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole D'Alema. Ne ha facoltà.

MASSIMO D'ALEMA. Signor Presidente della Camera, colleghi deputati, signor Presidente del Consiglio, mi rivolgo a lei per dire che, sinceramente, le ragioni di seria preoccupazione che avevamo per la situazione internazionale risultano rafforzate dal suo intervento. Non solo per il modo inutilmente provocatorio e contraddittorio con il fine proclamato, quello di ottenere solidarietà, con cui ella si è rivolto all'opposizione, ma per il fatto che il suo discorso ha cercato di nascondere la verità su questa drammatica crisi; la verità sulle divisioni che percorrono l'Europa e la comunità internazionale, sui rischi, non solo di guerra, ma anche di frattura e arretramento nel processo di unità europea e di costruzione di un nuovo ordine internazionale; la verità sulle visioni diverse che oggi si confrontano, tra le quali l'Italia deve saper scegliere e collocarsi per esercitare il suo peso; la verità sulla scelta che l'Italia ha già fatto e di cui siamo stati, via via, informati dal portavoce del dipartimento di Stato, da funzionari dell'ambasciata israeliana, da fonti quanto mai improprie per essere informati di un mutamento della collocazione internazionale del nostro paese e della politica estera dell'Italia.
Io mi permetto di dirle cosa dovrebbe fare l'Italia perché possa esservi una solidarietà dell'opposizione. La linea da seguire è quella che emerge dal dibattito del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dalle posizioni espresse dalla grande maggioranza dei rappresentanti delle Nazioni in quel contesto. Dopo l'intervento del


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segretario Colin Powell e a partire anche dalla preoccupante denuncia che egli ha fatto (che, sicuramente, ha aggravato le nostre preoccupazioni anche se, come ha detto oggi il capo degli ispettori dell'ONU, Hans Blix, le prove portate da Powell non appaiono inoppugnabili e noi non sosterremo che l'Iraq abbia, con certezza, armi di distruzione di massa anche se non possiamo escluderlo), molti hanno chiesto all'Iraq di cooperare seriamente, all'ONU di rafforzare il regime delle ispezioni (cito dalla posizione del Governo francese), di prolungare il tempo degli ispettori per arrivare alla distruzione delle armi attraverso una soluzione che scongiuri la guerra.
Dunque, nessuna concessione a Saddam Hussein, ma un percorso che consideri, in pari tempo, l'obiettivo della distruzione delle armi pericolose (se verranno trovate) come compatibile con quello di scongiurare una guerra. In questo senso penso sia sbagliato dire che vi sono alcune ore, alcuni giorni, addirittura alcuni minuti: queste scadenze sono state fissate sulla base di altre esigenze. È evidente che il Governo degli Stati Uniti - che ha ammassato un norme esercito ai confini con l'Iraq e che è consapevole che un'offensiva militare non potrà essere scatenata se non entro una certa data per ragioni climatiche o strategiche - ha molta fretta; non credo però che questa logica possa essere quella di una comunità internazionale che può, se è possibile evitare la guerra e disinnescare il pericolo Saddam, prendersi ancora una settimana o dieci giorni per ricercare una soluzione pacifica.
Questo è ciò che avrei voluto sentire da lei, perché corrisponde alla vocazione dell'Italia, alla vocazione di un grande paese che, per i sentimenti della stragrande maggioranza del popolo, per il peso che ha il mondo cattolico, per l'orientamento di tanti cittadini che si riconoscono nelle posizioni della sinistra, come in quelle di altri partiti, ha sempre giocato un ruolo di pace; un grande paese che non ha una vocazione bellicosa e che non è mai stato in prima fila nella ricerca di una soluzione di forza alle crisi internazionali; un grande paese che è stato, ed è, amico degli israeliani, dei palestinesi e degli arabi e che oggi non sa più levare la voce.
Le leggo alcuni comunicati stampa di oggi della Reuters: a Gaza due infermieri sono stati uccisi perché sono usciti dal loro ospedale per vedere cosa stesse succedendo; in mattinata un'anziana donna era deceduta perché hanno fatto saltare in aria la sua casa dove abitava il figlio, ucciso due anni fa in un combattimento: non si sono accorti che c'era; in un'altra città palestinese è stato ucciso un ragazzo, 11 anni, che stava tirando alcune pietre.
Quando leggo queste notizie non provo soltanto l'angoscia per queste vittime civili e per queste forme barbare di repressione, ma anche perché so che a questi delitti ne seguiranno altri che non di meno mi inorridiscono, come quelli dei kamikaze che si getteranno nei mercati o sugli autobus, e perché vedo che noi, oramai, siamo tra quelli che, in nome della lotta al terrorismo, giustificano ogni forma di repressione, non comprendendo che questa repressione alimenta, e non sconfigge, il terrorismo (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, della Margherita, DL-l'Ulivo, Misto-Comunisti italiani e Misto-Verdi-l'Ulivo).
Signor Presidente del Consiglio, lei ha parlato del Kosovo. Sì, nel Kosovo, alla fine, convenimmo che era inevitabile usare la forza: era in corso un'aggressione contro un popolo, centinaia di migliaia di persone fuggivano dalle loro case incalzate da un esercito; era necessario agire per porre fine ad una guerra che da dieci anni insanguinava i Balcani. Fu merito degli Stati Uniti, in quell'occasione, spingere l'Europa ad agire. C'era, però, un progetto politico, c'era un'idea di quello che doveva accadere dopo: non andammo per rovesciare Milosevic, ma per difendere i diritti dei cittadini del Kosovo. A partire da quell'intervento si è costruita una pace, una convivenza etnica, si è avviato un processo democratico.
Oggi qual è il progetto politico? L'occupazione militare dell'Iraq? Quali saranno le conseguenze di questa guerra? Si


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può ragionare di un conflitto di questa portata senza discutere su cosa esso potrebbe significare per il mondo, per il Mediterraneo, per la sicurezza del nostro paese? Rubo le parole del ministro degli esteri egiziano, riportate sul quotidiano Le Monde: una guerra avrebbe ripercussioni catastrofiche per gli iracheni, per gli occupanti, per l'economia e la stabilità della regione e per quella che noi chiamiamo lotta contro il terrorismo; non ci sarebbe nessuno vincitore.
Non parla un estremista, parla il ministro degli esteri di un grande paese del quale siamo amici. Dobbiamo essere sordi di fronte a queste preoccupazioni?
Quali saranno le conseguenze, oltre a quelle inevitabili sul piano umanitario di un massacro di una popolazione già stremata da 11 anni di embargo? Quale mondo? Questo è il punto: un grande paese non può agire senza una visione di questi problemi e ne parla non un pacifista, ma un uomo che ama la pace, ma che sa che l'uso della forza può essere, a volte, inevitabile. Tuttavia, al comando vi deve essere la politica, altrimenti rischiamo davvero una frattura drammatica ed uno scontro di civiltà e l'occidente si illuderebbe di regolare il mondo con la forza.
Il terrorismo è una guerra senza bandiere e senza territorio. È un pericolo enorme e la sua forza è nell'odio e nel fondamentalismo. Se noi alimentiamo l'odio e il fondamentalismo, non solo avremo un mondo più ingiusto, ma anche meno sicuro. Noi siamo amici dell'America, ma dovere degli amici è dire: state sbagliando. Dovere dell'Europa sarebbe oggi gettare sul piatto della bilancia di questa crisi la sua unità e la sua saggezza.
Lei ha lavorato per minare l'unità dell'Europa e, certamente, non ne ha mostrato il volto più saggio; per questo motivo, signor Presidente del Consiglio, non siamo solidali con lei (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, della Margherita, DL-l'Ulivo, Misto-Comunisti italiani, Misto-Socialisti democratici italiani e Misto-Verdi-l'Ulivo - Congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Zacchera. Ne ha facoltà.

MARCO ZACCHERA. Signor Presidente, ho ascoltato le dichiarazioni del Presidente del Consiglio e, innanzitutto, vorrei esprimere il rispetto, la considerazione e la condivisione di quanto egli ha affermato. Ho apprezzato, soprattutto, la concretezza, la sobrietà e la serietà con la quale ha affrontato questo passaggio, difficile e forse epocale, dei nostri giorni e ritengo lo abbia apprezzato anche buona parte dell'opposizione.
Ho condiviso buona parte dell'intervento del collega D'Alema, ma ho trovato la sua conclusione semplicemente infelice. Infatti, a mio avviso, in questi giorni, il ruolo dell'Italia premia il Governo italiano per ciò che sta facendo. Mi riferisco al lavoro di ricucitura a livello europeo che sottolinea il ruolo importante del nostro paese. Credo, veramente, che in questi mesi in politica estera abbiamo compiuto un salto di qualità. Infatti, comunque vada la crisi irachena, è estremamente importante che la Russia sia sempre più contigua e legata all'Europa, così come è assolutamente necessario che il nostro continente ritrovi una linea di intesa comune, che forse è meno lontana di come appare su certi mezzi di stampa.
Non sfuggono a nessuno i rischi che l'Europa sta affrontando in questo momento e quelli che potrebbero arrivare alla propria politica, alla propria sicurezza, al proprio futuro economico, anche a guerra conclusa. Tuttavia, va detto che l'Italia sta lavorando bene per ritrovare termini d'intesa anche verso la Francia e, soprattutto, verso la Germania, sulla cui posizione temo abbiano pesato anche contingenze elettorali interne. Sulla strada di una necessaria integrazione europea, credo che, anche in politica estera, l'Italia stia facendo un buon lavoro. La ringrazio, così come ringrazio il Vicepresidente e gli altri membri del Governo, per un impegno volto anche a cercare di compiere ogni sforzo per tentare, fino all'ultimo, di coinvolgere le Nazioni Unite prima di ogni decisione unilaterale.


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Dobbiamo fare davvero di tutto e di più e glielo dico con il cuore, signor Presidente, a nome dei miei colleghi di gruppo, anche perché personalmente sono uno dei sottoscrittori dell'appello che le abbiamo rivolto prima di Natale come deputati appartenenti alla Casa delle libertà. Tuttavia, constatiamo con soddisfazione che il nostro Governo è impegnato a tutto campo per cercare di convincere Saddam Hussein a fare un passo indietro con chiarezza e con lealtà. Per spingerlo sulla strada della ragionevolezza nulla deve rimanere intentato, a cominciare dal coinvolgimento delle nazioni arabe moderate, che non possono essere lasciate fuori da uno scenario che toccherà direttamente il loro stesso futuro.
Non vogliamo che la crisi irachena si trasformi in una crociata anti-Islam e non solo per i potenziali rischi di terroristi fanatici, ma anche perché l'Europa, e soprattutto l'Italia, ha bisogno anche dei paesi arabi. In particolare, quelli che si affacciano sul Mediterraneo devono diventare un punto di riferimento proprio per la politica mediterranea e del Medio Oriente: questo è un punto fondamentale. Innanzitutto, vi è la credibilità che l'Italia deve mantenere a livello internazionale ed è fondamentale l'azione di pace che già oggi migliaia di nostri soldati stanno svolgendo in regioni difficili del mondo.
Signor Presidente del Consiglio, il mese scorso ero in Afghanistan a salutare il nuovo anno con i nostri soldati. Ho sorvolato quelle montagne brulle, sconfinate, desolate dove sono stati mandati i nostri soldati per una missione di pace di straordinaria difficoltà, ma anche importante. Una guerra causerà, forse, onde d'urto gravi in tutta quella zona e si troveranno praticamente in prima linea, ma la loro professionalità è una tutela per il buon nome dell'Italia. Nelle operazioni di peacekeeping sottolineo come anche le armi possano servire veramente per garantire la pace e la ripresa dei contatti interetnici. Ciò vale dalle montagne dell'Afghanistan come da quelle del Kosovo.
Anche finanziariamente siamo impegnati al massimo: questo bisogna spiegarlo agli italiani. Abbiamo visto ieri in Commissione esteri che si tratta di 700 milioni di euro solo per i prossimi mesi. Questo, va ricordato, è un impegno che il Governo sta mantenendo.
Soprattutto, continuiamo a fare tutto il possibile perché la guerra venga evitata, anche all'ultimo momento. Tuttavia, dobbiamo cominciare a pensare al periodo successivo alla crisi e non solo perché non è tollerabile che regimi come quello di Saddam Hussein continuino a minacciare il mondo, ma perché l'Europa deve avere comunque la possibilità di dire la sua sul futuro di quell'area. Ecco perché ci vuole l'Unione europea, così importante anche dal punto di vista di quell'area per le risorse energetiche.
Ricordiamoci che Saddam non ha esitato ad uccidere migliaia di curdi iracheni, a sterminare perfino gran parte della propria famiglia, a impedire qualsiasi forma di opposizione o di dissenso interno. È per questo che dobbiamo essere coinvolti affinché quelle risorse energetiche servano in futuro per finanziare anche lo sviluppo pacifico dell'Iraq del quale l'Europa deve continuare ad essere un partner, come è stato nella storia, sempre privilegiato. Questo è un punto fondamentale per la nostra stessa sopravvivenza economica come europei e italiani. Anche per questo non possiamo non assumerci una parte di responsabilità in Iraq.
È, però, anche necessaria una strategia europea ed a tal proposito la richiamo, signor Presidente del Consiglio, su altri punti di crisi: da Israele al conflitto palestinese. Un anno fa lei ha lanciato l'idea di un piano Marshall straordinario per quell'area. È un'iniziativa che va rilanciata anche e soprattutto dopo un'eventuale guerra perché altrimenti rischiamo di perpetuare un focolaio di crisi continua e ricorrente verso la quale l'Europa si troverà in prima linea subendone sempre e soltanto conseguenze nefaste. Mi riferisco a conseguenze politiche alle quali dobbiamo prepararci anche - attenzione - con punti di vista che non sempre potranno essere identici a quelli americani perché potranno essere diversi gli interessi


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da tutelare. In un'economia globalizzata nessuno fa sconti, neppure agli amici.
Oggi l'Italia deve dimostrare di continuare di voler fare l'impossibile per mantenere aperta un'ipotesi di pace e deve chiedere comunque il coinvolgimento, come giustamente lei ha sottolineato, signor Presidente del Consiglio, di tutte le nazioni del mondo in un fronte comune contro il terrorismo e contro chi non accetta le soluzioni internazionali. È una partita difficile, ma dopo le sue parole di oggi, che mi sono sembrate veramente molto sagge, siamo fiduciosi e continueremo su questa strada ricordandoci che se guerra, purtroppo, sarà essa non sarà mai, comunque, contro il popolo iracheno che da decenni subisce la dittatura, la povertà, il terrore (Commenti dei deputati del gruppo di Rifondazione comunista).
Impegnamoci tutti, quindi, per cercare di convincere Saddam Hussein a disarmare, ma non facciamolo con piazzate che non servono a nulla, bensì con la volontà sincera di pace che nasce dalla coerenza, dal ragionamento, dalla volontà di costruire ed aiutare popolazioni a liberarsi. Questa è e sarà sempre la pace vera, la pace che viene dalla libertà (Applausi dei deputati dei gruppi di Alleanza nazionale e di Forza Italia).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Rutelli. Ne ha facoltà.

FRANCESCO RUTELLI. Signor Presidente, signor Presidente del Consiglio, onorevoli colleghi, in questi giorni di domande drammatiche è nostro dovere presentare al Parlamento e, quindi, al popolo italiano risposte motivate, serie, credibili.
Innanzitutto, dobbiamo rispondere se l'ordine delle priorità di cui si sta occupando la comunità internazionale sia quello giusto. La mia risposta è «no».
La tragedia dell'11 settembre, le decine di eventi terroristici in ogni parte del mondo, la conferma dell'esistenza di una rete potente e minacciosa che si è insinuata in molti paesi e mantiene solidi insediamenti e protezioni: tutto questo richiama un'altra domanda. Dov'è finito Bin Laden? Dove sono le decine di capi della sua organizzazione? È anche per contribuire ad una risposta, che abbiamo convintamente votato a favore del rischioso invio degli alpini in Afghanistan, affinché in quel paese non torni ad esservi un santuario del terrorismo. E forniamo ogni supporto al Governo e alla comunità internazionale per prevenire, disarticolare e combattere la minaccia terroristica. Questa è la priorità: oggi e domani! Non lo è altrettanto l'Iraq.
L'intensa concentrazione di forza, tecnologia e intelligenza contro l'Iraq sottrae enormi energie da questa priorità. È un errore grave. Se, Dio non voglia, vi fossero in Italia vittime di Al Qaeda e del terrorismo internazionale, quella non sarebbe la conferma che oggi è giusto sostenere la priorità di una guerra in Iraq, al contrario, che si sono distratte le energie dalla vera priorità e che magari si è dato ulteriore alimento al terrore.
Una seconda domanda è se sia fondato o meno il caso della comunità internazionale contro il regime di Saddam Hussein. La nostra risposta, Presidente, è «sì». È necessario e urgente contrastare una delle più orrende dittature della storia recente che, alimentata irresponsabilmente per anni anche da molte fonti occidentali, ha già dimostrato la sua crudeltà, oltre che un'infinita capacità di mentire.
Saddam ha sterminato centinaia di migliaia di suoi connazionali, centinaia di migliaia di iraniani (Commenti dei deputati del gruppo di Rifondazione comunista), ha invaso il Kuwait, ha usato i gas per massacrare l'opposizione dei curdi ed ha sostenuto e sostiene - se non quelle di Al Qaeda - azioni di terrorismo. Questi fatti acclarati richiamano anche un dovere per le opinioni pubbliche dei paesi democratici. Sarebbe indecente non dichiarare Saddam Hussein un nemico dell'umanità e della pace.
Ma a questo punto spunta una terza, decisiva domanda. È appropriata a questa minaccia la risposta di una guerra, di un'invasione dell'Iraq? La mia risposta è «no». Anche il rapporto di Colin Powell, reso ieri al Consiglio di Sicurezza dell'ONU,


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impone - non supera - il dovere di investire le Nazioni Unite del compito di disarmare e di rendere inoffensiva la dittatura irachena. Impone cioè alla comunità internazionale il dovere di rendere efficaci le ispezioni e dare sostanza ad una politica di contenimento, piuttosto che di attacco militare. Il contenimento può essere più efficace, oltre che molto meno doloroso - anche su questo sono d'accordo con il collega D'Alema - per il tributo di vite umane, meno dannoso e meno costoso di una guerra, di un'occupazione militare e civile e della successiva ricostruzione dell'Iraq. Il disarmo dell'Iraq, Presidente, sarebbe il trionfo della Nazioni Unite e sarebbe anche un grande successo dell'America, le cui truppe, assieme a quelle inglesi, avrebbero contribuito, attraverso una pressione energica, e non una guerra, a questo storico risultato.
Vi è infine una quarta domanda, che più di tutte ci riguarda più da vicino e sulla quale è forte, signor Presidente del Consiglio, il nostro dissenso da lei. Come sta agendo l'Italia in questa crisi gravissima? Sta contribuendo in modo utile e positivo, secondo i propri mezzi? Sta servendo l'interesse nazionale? La risposta è purtroppo negativa.
Signor Presidente del Consiglio, il suo è stato un discorso privo di speranza. Lei ha usato parole prudenti e toni misurati, ma non ha trovato parole di speranza per le decine di milioni di italiani, la maggioranza del nostro popolo, che sperano di evitare la guerra e che per questo manifestano numerosi, anche in questi giorni, la propria passione civile.
Non si tratta di giustificare la guerra, ma di fare di tutto per evitarla. Nei 50 anni del dopoguerra, l'Italia ha storicamente svolto una funzione significativa; lei, onorevole Berlusconi, sta portando la nostra patria fuori da quei binari. Lei è il promotore di un'Italia piccola, che contribuisce alla divisione dell'Europa e, dunque, a fare più piccola anche quest'ultima (Commenti dei deputati del gruppo di Forza Italia).
L'interesse strategico dell'Italia consiste nel dare legittimità morale e forza effettiva, in quanto risiede in una grande Europa, alleata ed amica degli Stati Uniti e dotata finalmente, a partire dalle sei nazioni fondatrici, di strumenti di difesa e di politica estera credibili, in cui noi italiani rappresentiamo una forza di dialogo, di sviluppo, di pace, nel Mediterraneo, nei Balcani, nel mondo arabo. Anziché consolidare e rilanciare queste posizioni, lei le sta indebolendo, tutte e tutte insieme.
Oggi, occorre dire «no» alla guerra ed assumersi responsabilità precise. La guerra non convince, in quanto l'obiettivo che ci accomuna è il disarmo dell'Iraq, non approvvigionamenti più semplici dell'energia o un ridisegno della mappa politica della regione del golfo, che portino destabilizzazione e più terrore.
Oggi, quella disegnata dall'America appare una strategia zoppa; non si può fare una guerra senza consenso. Non vi sarà consenso anche perché si è scelto di non agire per fermare, in Medio Oriente, il disastro tra israeliani e palestinesi né di mantenere le promesse pronunciate con solennità il 12 settembre 2001 e, purtroppo, subito dimenticate. Si è scelto di non agire contro il terrorismo con una strategia di lungo termine, capace di sradicare le radici della fame, di troppe cocenti umiliazioni umane, della povertà.
Signor Presidente, poco fa ho incontrato il ministro degli esteri tedesco Fischer, che presiede il Consiglio di Sicurezza dell'ONU e con lui ho condiviso la preoccupazione sul rischio di una prossima radicalizzazione islamista della regione mediorientale, anche come conseguenza di questi fatti.
Crediamo che avere coraggio significhi dire e fare qualcosa, oggi, di molto diverso da ciò che sembra affermarsi. Forza alla legalità internazionale attraverso le Nazioni Unite e non ad un illusorio strapotere militare, per attenzione all'articolo 11 della nostra Costituzione e perché - lo scrisse Cicerone duemila anni fa - siamo servi delle leggi perché possiamo essere liberi.


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ALFREDO BIONDI. L'ha detto Ulpiano!

FRANCESCO RUTELLI. Lotta al terrorismo, disarmo dell'Iraq attraverso l'ONU, «no» ad una guerra di invasione dell'Iraq, priorità alla pace in Medioriente, più unità e più forza all'Europa, amicizia con gli Stati Uniti colpiti dal terrorismo, sapendo che agli amici non si dice sempre di sì, si dice sempre la verità!
Questa è la bussola per l'Italia. Signor Presidente del Consiglio, stia attento, non rompa la bussola della nostra nazione (Commenti del deputato Armani). Infatti, non arrecherebbe solo un danno al suo Governo, ma anche un danno insostenibile al popolo italiano (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-l'Ulivo, dei Democratici di sinistra-l'Ulivo e del deputato Cima - Congratulazioni)!

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Follini. Ne ha facoltà.

MARCO FOLLINI. Signor Presidente, il dilemma che oggi è di fronte a noi e a tutta la comunità internazionale non è quello tra la pace e la guerra. La domanda, piuttosto, è come la pace si possa costruire e non solo invocare e di quanta sicurezza la pace abbia bisogno per affermarsi. Dobbiamo chiederci per quali vie, con quali iniziative, con quali decisioni, attraverso quale concerto internazionale questa sicurezza possa essere resa più forte e meno fragile di quanto ci sia apparsa all'indomani dell'11 settembre. Infatti, non c'è dubbio che la crisi irachena sia in qualche modo figlia di quella tragedia. Essa ne riflette sicuramente la paura e, forse, ne può contenere e riprodurre la minaccia.
Ci troviamo di fronte ad un paese che ha violato a più riprese le regole della legalità internazionale, che non ha ottemperato a ben 16 risoluzioni delle Nazioni Unite - da ultimo la n. 1441 -, che ha accumulato armi di distruzione di massa, la cui pericolosità non sfugge, credo, a nessuno di noi. Siamo di fronte ad un paese oppresso da un regime sanguinario che, in questi anni, ha seminato centinaia di migliaia di vittime, troppe volte cadute nel mezzo della disattenzione e del torpore di ciascuno di noi.
Il disarmo dell'Iraq e di Saddam Hussein - condivido le parole del Presidente del Consiglio - fa parte dei doveri e dell'impegno della comunità internazionale e non a caso viene oggi ad essere ai primissimi punti delle priorità delle Nazioni Unite. Lasciare quelle armi incontrastate, lasciare quella minaccia libera di dispiegarsi, significherebbe accettare di vivere in un mondo ancora più pericoloso. Non credo che ci aiuterebbe la rassegnazione di fronte a tutto questo e non è un caso che le Nazioni Unite per 16 volte abbiano ripetuto che non possiamo avere il cuore in pace voltando la testa da un'altra parte.
Di fronte a questi problemi, vorrei dire che ci saremmo aspettati - e ancora ci aspettiamo - dall'opposizione parole di maggiore generosità, se così posso dire, di maggiore saggezza. L'impegno del nostro paese è quello di ricondurre questa crisi dentro l'alveo delle Nazioni Unite, di contribuire a rendere le sue risoluzioni efficaci e di evitare che la politica delle grandi potenze si muova, come troppo spesso tende a muoversi, al di fuori dei confini tracciati dalle decisioni comuni, che spesso maturano in modo assai faticoso. Sono in molti a nutrire scetticismo sulla possibilità che l'ONU concorra a disegnare un ordine internazionale più sicuro e più equo ed ancora in questi ultimi giorni c'è stato chi nel dibattito politico di casa nostra si è spinto a dichiarare letteralmente poco credibili le Nazioni Unite. Noi pensiamo l'opposto, noi affidiamo alle Nazioni Unite il presidio della legalità internazionale e in quel presidio vediamo il limite invalicabile dell'unilateralismo delle parti, di tutte le parti.
Proprio il ricordo dell'11 settembre, tante volte evocato in questi giorni, indica un percorso di più strette e più intense relazioni internazionali. All'indomani di quell'attentato, si formò una grande coalizione di paesi e di popoli, divisi da interessi geopolitici contrastanti e attraversati


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da ideologie assai diverse, che si sentivano, tuttavia, impegnati a ricercare e a coltivare il minimo comune denominatore di un impegno coordinato contro la minaccia più immediata del terrorismo e contro la minaccia, non così remota, dello scontro tra le civiltà.
Quella coalizione ha tenuto fede solo in parte agli impegni che aveva assunto. Essa ha fronteggiato una guerra difficile in Afghanistan nel tentativo di estirpare le radici del terrorismo - peraltro, una guerra non ancora conclusa -, ma non è stata in grado di avviare la costruzione di un nuovo ordine mondiale, non ha saputo sciogliere il nodo aggrovigliato e sanguinoso del conflitto israeliano-palestinese e non è riuscita ad affrontare con idee comuni le molte emergenze di un mondo inquieto e turbolento. Non è un caso che la cronaca di questi giorni segnali molte, troppe linee di frattura e di divisione e non è un caso che qualche difficoltà in più, occorre riconoscerlo, si registri anche all'interno di quel nucleo occidentale che proprio la crisi dell'11 settembre avrebbe dovuto rendere semmai ancora più coeso. C'è davanti a noi il rischio di un Atlantico più largo, di una distanza che tende a crescere tra l'Europa e gli Stati Uniti e ci sono diverse idee intorno alla stessa politica europea che, mai come in questi ultimi tempi, ha mancato l'obiettivo di parlare al mondo con una sola voce, come tante volte ci eravamo promessi e ripromessi.
Personalmente, io non credo che i documenti europei di questi giorni siano, come dire, scolpiti nella roccia. Non credo che la dichiarazione comune franco-tedesca e l'altra dichiarazione sottoscritta inizialmente da otto paesi, tra cui l'Italia, descrivano due Europe in conflitto, un conflitto che sarebbe difficile da comporre, se di questo si trattasse.
Non siamo a quel punto ma, se vogliamo evitare il rischio di aprire una frattura nel cuore della nostra politica estera, dobbiamo cominciare a ritessere una posizione comune, che sappia combinare vocazione di pace, identità europea e legame atlantico ed ho fiducia che il Governo si muoverà in questa direzione.
Penso anch'io, come ha osservato l'onorevole Rutelli, e molti altri assieme a lui, che una divisione tra Europa e Stati Uniti non aiuterebbe la causa della pace. Evitare quella divisione significa, da parte dell'Europa, non venire meno alla comprensione che è dovuta ad un grande paese, libero e democratico, come gli Stati Uniti.
Ho usato la parola «comprensione», quella stessa parola con cui, molti anni fa, l'onorevole Moro - che certo non praticava un'atlantismo privo di senso critico - si rivolse agli Stati Uniti negli anni della guerra del Vietnam. Tanto più, credo che la comprensione sia dovuta alle difficoltà, agli impegni, alle angosce che scaturiscono dalla drammatica sfida del terrorismo e dalla diffusione, in tanta parte del mondo, di un robusto sentimento di avversione.
Evitare quella divisione significa anche, e soprattutto, per gli Stati Uniti mettere da parte, una volta per tutte, quelle tentazioni unilaterali, quell'attitudine a fare da sé ed a pensare per sé, quella diffidenza nei confronti della faticosa diplomazia internazionale che hanno segnato, fin troppo in profondità, alcuni momenti della politica americana. Credo faccia parte dello stesso spirito dell'alleanza che abbiamo liberamente contratto e liberamente rinnovato ripetere amichevolmente agli Stati Uniti che in quelle posizioni unilaterali e nella visione che le esprime noi non ci possiamo e non ci vogliamo riconoscere.
Colpire oggi il terrorismo, tagliare quelle che vengono considerate le sue diramazioni istituzionali sarebbe un'impresa vana, se ad essa non si accompagnasse un'idea del mondo capace di interpretare il pluralismo delle culture e l'esigenza di un diverso e più giusto equilibrio tra i popoli. Senza di questo l'uso della forza a sostegno della legalità non sarebbe risolutivo di nulla e potrebbe, semmai, produrre altre ferite.
Un mondo diviso, diviso lungo il confine tra nord e sud, tra ricchi e poveri, oppure un mondo diviso e lacerato lungo la linea dello scontro o dell'incomprensione tra le civiltà, sarebbe decisamente un


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luogo meno sicuro; meno sicuro per i più deboli, ma anche meno sicuro per quanti hanno dalla loro la maggiore forza.
Non può esistere un governo delle relazioni internazionali che sia forte, senza avere intelligenze e cuore dalla sua. Anche per questo è così fondamentale, a nostro parere, affidare alle Nazioni Unite, al più largo concorso di paesi il percorso nei prossimi giorni. Non vi può essere nessuna guerra senza un mandato della comunità internazionale; non vi può essere nessuna pace senza il disarmo degli arsenali illegali; non vi può essere nessuna sicurezza senza il rafforzamento dei legami di coesione. Stanno qui, dentro questi confini, le risposte difficili che tutti noi, oggi, andiamo cercando (Applausi dei deputati dei gruppi dell'Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro e di Forza Italia - Congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Cè. Ne ha facoltà.

ALESSANDRO CÈ. Signor Presidente, signor Presidente del Consiglio dei ministri, onorevoli deputati, non vi è dubbio che l'Italia, attraverso il Presidente del Consiglio Berlusconi abbia riacquisito prestigio a livello internazionale e stia giocando un ruolo importante nella risoluzione della grave crisi irachena.
Gli obiettivi del Governo italiano sono la difesa del diritto internazionale, della democrazia, della pace, della sicurezza e degli interessi del nostro paese e dell'Europa. A tal fine, l'azione diplomatica del nostro Governo si è finora svolta ricercando la massima coesione fra i paesi del mondo occidentale e il coinvolgimento dei paesi arabi moderati. Tale azione è tesa, inoltre, a trovare soluzioni multilaterali largamente condivise, per evitare decisioni unilaterali da parte degli Stati Uniti.
Purtroppo, esistono, ad oggi, rilevanti difficoltà a livello europeo ed internazionale. A livello europeo una frattura è stata determinata dall'asse franco-tedesco che ha assunto posizioni antiamericane dettate da interessi strategici di politica interna ed internazionale, senza consultare i partner europei. Ne è derivata una risposta da parte di otto Stati - compresa l'Italia - ispirata dalla necessità di ricucire questo strappo. Si è trattato di un grave errore da parte della Francia e della Germania; nulla può essere più deleterio, in questo momento, di una divaricazione tra Europa e Stati Uniti e di uno scollamento interno alla comunità europea. Tanto più grave questo errore perché sostenuto da un falso pacifismo, smentito nei fatti - ad esempio - dalla politica militare di potenza della Francia impegnata negli esperimenti nucleari negli atolli del Pacifico e come gendarme dell'Africa occidentale.
Di fatto, Francia e Germania tentano di imporre una loro leadership europea e temono grossi rischi di ordine pubblico legati all'imponente immigrazione musulmana. Sia la Francia sia la Germania non hanno, peraltro, mai nascosto alcuni atteggiamenti ostili verso il nascente Governo della Casa delle libertà, chiudendo pregiudizialmente il dialogo con l'Italia e favorendo conseguentemente la nascita di un'alleanza preferenziale tra Berlusconi, Blair, Aznar e Bush.
Conseguenza di questa situazione è l'ulteriore indebolimento del nucleo continentale dell'Alleanza atlantica, a tutto vantaggio di una posizione egemonica dell'asse angloamericano. Altro fattore critico è costituito dalla sempre più evidente inadeguatezza degli organismi decisionali dell'ONU, anche di fronte ad evidenti violazioni delle proprie risoluzioni. Non vi è dubbio, infatti, che Saddam Hussein sia un dittatore che costituisce un rischio devastante per la comunità internazionale. Innumerevoli sono le sue violazioni dei trattati di non proliferazione di armi non convenzionali. È dimostrata dalla storia recente la sua aggressività e sono confermati i massacri da lui compiuti sui curdi e sugli sciiti.
Dalle prove raccolte sembra ormai certo il suo sostegno al terrorismo, la sua collaborazione con Al Qaeda, il finanziamento dei kamikaze e della jihad islamica. Non ci sfuggono, peraltro, ulteriori motivazioni che spingono verso la guerra. Lo scenario nuovo, dopo l'11 settembre, con il


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tramonto dell'economia virtuale ed il ritorno dell'economia reale, ha messo a nudo alcuni limiti del sistema politico ed economico occidentale. In particolare, gli Stati Uniti si sono resi conto che il sistema di controllo totalizzante sul pianeta da essi propugnato è troppo costoso, specialmente dopo l'entrata in crisi dell'economia finanziaria e li espone ad essere bersaglio fisso di ogni crisi internazionale.
All'orizzonte, inoltre, appare sempre più concreta la nascita di un controimpero che basa i suoi elementi di forza sul collante religioso, su una struttura patriarcale forte, su una consistente crescita demografica e sul possesso di beni primari, ad esempio il petrolio in grande quantità. Diventa, pertanto, determinante riuscire ad avere maggiore controllo o, perlomeno, maggiore capacità di contrattazione con i paesi possessori di materie prime fondamentali per la crescita economica.
L'Iraq può essere, in particolare, per gli Stati Uniti, un possibile sostituto dell'Arabia Saudita, alleato affidabile sulla carta, ma meno nella realtà. Tutto questo è indubbio, ma, altresì, abbiamo il dovere di rilevare che alcuni orientamenti dell'amministrazione americana sono fortemente criticabili, in particolare la dottrina Bush, che vuole imporre esplicitamente gli Stati Uniti come unica ed inarrivabile potenza mondiale, e la correlata volontà, più o meno espressa, di mantenere un'Europa fortemente subordinata.
La strada che i paesi europei devono percorrere non è, tuttavia, quella dello scontro con l'alleato di oltre Atlantico, bensì quella del rafforzamento e della maggiore coesione dell'Europa stessa per poter reggere un confronto aperto con gli Stati Uniti.
Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, oggi siamo chiamati ad esprimerci su un percorso da seguire. A nostro parere, la strada già intrapresa dal Governo Berlusconi è quella giusta. Prioritario è trovare una posizione comune europea, riavvicinare Europa e Stati Uniti, prevedendo un accordo a livello ONU nel quale si contemperino l'impegno della comunità internazionale contro il terrorismo e per la pace, con l'assunzione di responsabilità da parte di tutti gli Stati membri.
In presenza di prove certe, non è pensabile rifuggire dall'impegno comune, pena una spaccatura ed una delegittimazione dell'ONU stessa, con il via libera giustificato all'unilateralismo Stati Uniti-Gran Bretagna. Crediamo che una comunità internazionale compatta e determinata possa raggiungere lo scopo di piegare Saddam e costringerlo ad ottemperare realmente alle risoluzioni ONU o ad indurlo all'esilio.
Questo risultato è impensabile con una comunità internazionale divisa. Mentre ribadiamo un'assunzione di responsabilità, non disconosciamo i pericoli di un'eventuale guerra, la recrudescenza del terrorismo, la reazione violenta di alcune comunità islamiche presenti in Europa, un'imponente invasione dell'Europa da parte di nuovi diseredati, l'esplosione di altri focolai in Medio Oriente, la recrudescenza del conflitto arabo-israeliano, nonché il rischio della saldatura di un fronte antioccidentale.
Per evitare tutto questo da subito è indispensabile rafforzare il dialogo con i paesi islamici moderati per emarginare l'integralismo, lanciare messaggi positivi e ridare autonomia vera ai popoli del pianeta, valorizzare e rispettare le diversità, rivitalizzando nel contempo i valori di riferimento del sistema occidentale: l'importanza della famiglia, dei figli, per rafforzare la nostra identità culturale senza la quale la nostra civiltà sarà destinata a soccombere.
L'opinione pubblica del nostro paese è contro la guerra: certamente si pensa che la guerra debba essere evitata a tutti i costi. La guerra è dolore, sofferenza e paura: nessuno di noi la vuole. È sbagliato però contrapporre il Papa a Bush come ha fatto un autorevole settimanale.
Il piano spirituale e quello politico sono difficilmente comparabili e l'opinione pubblica del nostro paese non può e non deve dimenticare che già oggi siamo nel mirino del terrorismo, come ha ricordato lo stesso Colin Powell proprio ieri in sede ONU. Il


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dovere delle forze politiche è quello di rappresentare la realtà per quella che è, con le sue verità nascoste, con i sui rischi e le opzioni politiche possibili.
Per questo ci appare irresponsabile la posizione assunta su questo tema dal centrosinistra, ancora una volta diviso al suo interno; un centrosinistra con due facce: la prima è quella del pacifismo utopico militante sbandierato in senso antioccidentale e strumentalizzato da Cofferati al fine della politica interna; la seconda è quella del moderato Rutelli, moderato per opportunità politica e non sicuramente per convinzione, costretto ad una perenne rincorsa dell'ala sinistra della propria coalizione, facendosi a tal fine scudo in modo ipocrita del ricorso sine die all'ONU e del pacifismo di facciata.
Quello che abbiamo di fronte è lo stesso centrosinistra che con disinvoltura avallò l'intervento della NATO nel Kosovo senza alcuna decisione parlamentare ed ignorando la sovranità popolare, sostenendo l'assurda e contraddittoria giustificazione della guerra umanitaria. Una guerra, quella in Kosovo, consumata dopo aver collaborato a far fallire le trattative diplomatiche, dopo avere aiutato - ricordiamolo - il regime di Milosevic con l'acquisto di Telekom Serbia (Applausi dei deputati del gruppo della Lega nord Padania); una guerra propugnata dagli Stati Uniti d'America anche con l'obiettivo di dividere e destabilizzare l'Europa inserendo un cuneo musulmano nei Balcani.
In conclusione, signor Presidente, la Lega nord Padania non vuole la guerra: essa lavora per la pace e persegue l'armonia fra i popoli della terra e ne rispetta le identità e le diversità. Parimenti la Lega nord Padania è abituata ad affrontare la realtà per quella che è e non a nascondere la testa sotto la sabbia, bensì a trovare la soluzione dei problemi.
La Lega nord Padania è per la difesa della nostra civiltà occidentale e per l'Europa, per il binomio Europa-Stati Uniti senza il quale l'occidente cessa di esistere. La Lega nord Padania è contro la dittatura ed il terrorismo.
Per difendere tutti questi valori e queste appartenenze la Lega nord Padania ritiene che la guerra, come ultima ratio e all'interno di un percorso largamente condiviso dalla comunità internazionale, non possa venire esclusa come possibilità per garantire la libertà dei popoli e del futuro dell'umanità.
L'orgoglio di ogni persona, di una comunità e di un paese si nutrono della coscienza che alcuni valori sono inestimabili e per la loro difesa vale la pena lottare in ogni modo (Applausi dei deputati dei gruppi della Lega nord Padania, di Forza Italia, di Alleanza nazionale e dell'Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Bertinotti. Ne ha facoltà.

FAUSTO BERTINOTTI. Signori Presidenti, deputate e deputati, mi rivolgo ad ognuno di loro perché penso che il fatto che questa seduta non si concluda con un voto costituisca una menomazione della sovranità del Parlamento; un Parlamento oggi ammutolito di fronte al rischio grave del precipitare della guerra. Resta nel paese un vuoto cupo, inammissibile, secondo noi, colpevole. Forse questa stessa aula risente di questa lesione.
La maggioranza porta una responsabilità grave di questa manomissione, ma vorrei dire agli esponenti del centrosinistra, che spesso hanno sottolineato l'esigenza di una maggiore autorevolezza del Parlamento contro un arbitrario primato dell'esecutivo, che per nascondere le proprie divisioni interne non vale la pena pregiudicare le prerogative del Parlamento (Applausi dei deputati del gruppo di Rifondazione comunista).
Tace il Parlamento, parla il Governo. E il Governo stesso sa che non rappresenta l'opinione prevalente nel paese, un paese avverso alla guerra, come l'Europa è avversa alla guerra. Basterebbe contro questa guerra una ragione etica.
È stato detto autorevolmente, nei giorni scorsi, che la sola guerra ammissibile nel mondo di oggi è quella alla fame. Luis


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Ignacio da Silva, il popolare Lula, che guida il Brasile ha detto, a porto Alegre come a Davos: verrà il giorno in cui tutti avranno un piatto in cui cibarsi ogni giorno. Vi chiedo: di quanti giorni, di quanti mesi, di quanti anni si allungherà l'attesa di questo giorno attraverso l'avventura della guerra?
Il Pontefice, citando un profeta come Geremia, ha parlato di un Dio che si ritrae nei cieli, come spaventato da questo mondo. Noi laici saremmo ugualmente disperati se non sapessimo guardare al popolo di porto Alegre, portatore oggi di un'altra ragione etica, la ragione etica che basterebbe a dire di no alla guerra. Ma le ragioni politiche sono pesanti come macigni. Il re - bisognerebbe dire l'imperatore - è nudo. E il suo discorso, signor Presidente del Consiglio, non è riuscito a nasconderlo.
Gli Usa hanno usato sostanzialmente per questa guerra due argomenti già falsificati dalla realtà. Non c'è nulla che leghi l'Iraq in maniera provata al terrorismo, come ha riconosciuto l'intelligence del principale alleato degli Stati Uniti d'America e sul piano delle armi micidiali le argomentazioni nordamericane sfiorano, anzi precipitano nel grottesco. Non si sa dove si trovino queste armi, l'unica cosa che si sa, signor Presidente del Consiglio, è da dove vengono: vengono dal Governo di Reagan e poi da quello di Bush padre, che negli anni ottanta hanno alimentato l'Iraq con i materiali per le armi batteriologiche e chimiche, compresa quell'antrace che arriva all'Iraq direttamente dal Pentagono degli Stati Uniti d'America.
Oggi Colin Powell dice una cosa su cui dovreste riflettere. Dice che è difficilmente comprensibile, per le persone normali, capire le ragioni per cui si può accedere a questa guerra. Signori del Governo, la democrazia è l'esercizio delle persone normali. Se le persone normali non possono capire le ragioni della guerra, la democrazia chiederebbe che non venisse fatta.
In realtà, questa guerra gli Stati Uniti d'America l'avevano decisa da tempo, per ragioni inconfessabili: per le ragioni del controllo di una risorsa come il petrolio; di più, per il controllo di un'area geopoliticamente strategica come il Medio Oriente; in realtà, ancora più profondamente, per un potere imperiale che, in un mondo caratterizzato dall'ingiustizia e dall'instabilità, da una globalizzazione che non produce sviluppo, ma crisi, chiede, per impedire il cambiamento, una guerra imperiale.
La strategia della guerra preventiva ne esprime la ratio, ma dovete pur riconoscere che quella strategia è incompatibile con la carta dell'ONU, come è incompatibile con l'articolo 11 della Costituzione italiana. In realtà, voi chiedete il ricorso all'ONU. Ma attenzione: il Consiglio di Sicurezza non ha come materia disponibile la strategia della guerra preventiva, perché questa è incompatibile con la sua carta.
Se il Consiglio di Sicurezza dell'ONU desse via libera a questa guerra, la guerra, per ciò stesso, non diventerebbe più accettabile: sarebbe l'ONU che diventerebbe più lontana dai popoli, dai bisogni di questo mondo, e diventerebbe, sostanzialmente, prigioniera della potenza nordamericana e screditata.
Il no alla guerra è necessario per ricostruire un nuovo ordine mondiale, per combattere un sistema che è un sistema di guerra; per guadagnare quell'altro mondo possibile nel quale c'è bisogno non di un pacifismo assoluto, ma di un pacifismo relativo, quello attinente al nostro tempo.
E se non bastano le ragioni etiche e quelle politiche, allora - lo dico a voi, che tante volte avete usato questo argomento - c'è il tema della sicurezza. Avete spesso usato questo argomento per una costruzione di legge e di ordine, per negare e limitare dei diritti ed oggi sembrate non vedere cosa mette a rischio questa guerra. Non c'è nel mondo un conflitto di civiltà, ma questa guerra può costringere il mondo nella strettoia di un conflitto che può diventare di civiltà.
Il terrorismo è nemico dell'umanità, ma voi, con questa guerra, invece che contrastarlo e combatterlo, lo alimentate. L'esperienza dell'Afghanistan è lì a dirvelo: Bin Laden e i terroristi non sono stati colpiti,


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e quel paese è stato in realtà devastato. E persino le parole che, sembravano generose, del Presidente del Consiglio, che diceva: sì, c'è questa guerra in Afghanistan, ma almeno compensiamola (se si può dire così) con la soluzione della questione palestinese, sono di fronte ad uno scacco: la questione palestinese è risultata aggravata, non risolta, e neppure sulla via di una soluzione.
La guerra genera guerra, la guerra chiama il terrorismo, la guerra ed il terrorismo diventano le coppie che guardano a un mondo impossibile: questo sì, può costruire una vera e propria crisi di civiltà. Ed è per questo che noi diciamo con fermezza, pur consapevoli delle nostre modeste forze, ma consapevoli anche che queste nostre modeste forze stanno dentro un grande movimento: né un uomo né un soldo per questa guerra; né un uomo né una parte di questo nostro paese né di terra né di mare né di cielo. Dobbiamo essere indisponibili a quella che è solo un'avventura di guerra infinita e indefinita.
Voi oggi ci impedite il voto come elemento di trasparenza democratica, in cui, di fronte ad una prospettiva di guerra, ognuno si assuma fino in fondo le sue responsabilità nell'unica forma decente e rigorosa, quella evangelica del «sia il tuo sì, sì; il tuo no, no»: non ci sono terze vie sulla guerra. Noi pronunciamo il nostro no di oggi e di domani, un no incondizionato: non aspettiamo il Consiglio di sicurezza dell'ONU, e temiamo la scivolata ulteriore di un organismo internazionale già purtroppo fagocitato dalle forze dell'impero.
Non in nostro nome, anche se non c'è il voto, si potrà portare l'Italia in questa guerra, e vorrei che voi avvertiste che la disobbedienza a questa guerra è l'unico linguaggio che noi possiamo opporvi in nome di un'altra civiltà. Questo linguaggio animerà questa Europa: il 15 febbraio, in tutte le capitali europee, il popolo della pace farà sentire la sua voce. E questo Parlamento muto sarà ancora più cupo di fronte a quelle voci, che interpreteranno anche la politica ammutolita, contro chi oggi tradisce la vocazione dell'Europa della pace, e persino di un voto del Parlamento europeo, e contro chi vuole oggi, in nome di una subalternità agli USA, precipitare in una avventura pericolosa. E diversamente anche da chi capisce, ma non ha la forza per opporsi, il nostro è un no resoluto, irrevocabile ed incondizionato a questa guerra (Applausi dei deputati del gruppo di Rifondazione comunista e di deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Diliberto. Ne ha facoltà.

OLIVIERO DILIBERTO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signori del Governo, francamente io non so, dopo avere sentito il Presidente del Consiglio, se vi sia in voi la consapevolezza della enormità del passo che state compiendo. L'Italia è oggettivamente in guerra, una guerra di fatto già proclamata unilateralmente dagli Stati Uniti, che lungi dal risolvere il terribile problema del terrorismo, lo aggraverà in modo molto serio, anche contro l'Italia, e che ha come unica motivazione quella di occupare i pozzi di petrolio.
Una logica neocoloniale, imperialista in senso classico! Così come si destabilizza il Venezuela, produttore anch'esso di petrolio, si intende occupare l'Iraq. Il petrolio: solo quello è il motivo di una guerra di cui non si possono prevedere i tempi, i confini geografici, i costi - sicuramente terribili - in termini di vite umane. Una sporca guerra coloniale!
L'Italia è, ormai, priva di politica estera dopo che per decenni si era tenuta, invece, una linea di equilibrio e di cooperazione, con Israele, ma anche verso il mondo arabo, in particolar modo verso i palestinesi. L'Italia è, ormai, solo una pedina, un servo sciocco dell'Amministrazione americana. Abbiamo già concesso l'uso delle basi ed il permesso di sorvolo del nostro territorio nazionale ed abbiamo già inviato, senza che il Parlamento ed il paese fossero adeguatamente informati dello scopo della missione, i nostri alpini a combattere in Afghanistan. E bene abbiamo fatto - possiamo dirlo a posteriori


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- noi Comunisti italiani, allora, a votare recisamente contro quell'invio. Altro che missione di pace! Stiamo entrando in guerra: guerra per giunta preventiva, di aggressione senza motivo, senza avere subito un attacco, e del tutto sproporzionata, per mezzi, per risorse, per apparati, anche mediatici, messi a sua disposizione rispetto alle eventuali violazioni dell'Iraq; guerra contro ogni norma del diritto internazionale, contro il Trattato fondativo dell'ONU, un ente ormai inutile, come ha detto Powell, se esso non si piegherà alla volontà degli Stati Uniti; guerra in palese violazione anche dei principi contenuti nell'articolo 11 della Costituzione, il quale non afferma soltanto che l'Italia ripudia la guerra, ma anche che può dichiararla, eventualmente, solo per difendersi.
Noi, invece, stiamo entrando in guerra; e lo stiamo facendo senza alcuna capacità, da parte vostra, di comprendere la domanda vastissima di pace che viene dal nostro popolo, e certamente non solo da quello di sinistra. Stiamo entrando in guerra, in una guerra che - l'hanno detto gli americani - non esclude l'impiego di armi nucleari! A quale immane catastrofe ci state portando? Siete degli irresponsabili! Vi state assumendo una responsabilità di fronte alla storia di questo paese, tanto è vero che anche tanti colleghi parlamentari di destra nutrono preoccupazione.
Non è retorica, purtroppo: vi state assumendo una responsabilità verso le nuove generazioni, le quali dovranno convivere con una guerra permanente: ad una guerra globale, preventiva e permanente si contrappone un terrorismo globale, anch'esso permanente. Questa è la guerra dei ricchi contro i poveri del pianeta, ma ciò aumenterà l'odio dei poveri e la loro disperazione. L'occidente rischia di diventare una sorta di fortezza globale in un mondo di poveri. È la guerra dell'occidente contro tutti! E sento usare termini che, francamente, pensavo consegnati, ormai, solo ai libri di storia; sento parlare di nuova crociata, come se la croce non fosse simbolo di pace e di fratellanza! Non ascoltate minimamente nemmeno le parole coraggiose del Pontefice sui temi della pace.
Noi non ci stiamo! Continueremo tenacemente ad operare affinché prevalgano le ragioni della pace. Il nostro presidente, onorevole Cossutta, è in Iraq per incontrare gli ispettori dell'ONU, i quali nulla hanno trovato, sinora, che giustifichi la guerra, e per ricercare soluzioni pacifiche ed equilibrate. Egli è in Iraq con una delegazione del Parlamento europeo della quale fanno parte autorevoli rappresentanti anche del Partito popolare europeo, il vostro gruppo!
Il mondo non può funzionare con la brutalità della legge del più forte! E non può essere il mercato, che presuppone il controllo delle risorse energetiche, cioè del petrolio, a regolare la vita umana e, magari, a condannare a morte milioni di individui, la stragrande maggioranza dei quali sono cittadini inermi, vittime civili.
La guerra ha sostituito la politica estera. Noi siamo radicalmente contrari, senza tentennamenti o incertezze, senza distinguo, e chiediamo ai colleghi dell'Ulivo, simbolo di pace: cari colleghi dell'Ulivo, nessuna timidezza nel contrastare la guerra; ce lo chiede il nostro popolo, che vuole la pace, comunque e sempre la pace. Cerchiamo allora di essere tutti insieme su questa linea per contrastare la deriva della guerra perché sono con noi su questa linea, senza tentennamenti o distinguo, le donne e gli uomini di buona volontà, quelli che manifesteranno a Roma e in tutte le capitali europee il 15 di questo mese, le associazioni per la pace, il volontariato che opera da decenni proprio nei territori di guerra. Milioni di cittadini onesti, che insieme a noi vi dicono oggi: signori del Governo, questa sporca guerra la farete non in nostro nome, perché la vostra politica ci fa semplicemente orrore (Applausi dei deputati del gruppo Misto-Comunisti italiani e di deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Boselli. Ne ha facoltà.


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ENRICO BOSELLI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, voglio dire, in premessa, che non ci appartengono le manifestazioni di intolleranza che si sono espresse qui in Assemblea questo pomeriggio. Noi socialisti crediamo che il confronto politico, persino quando assume toni aspri, non debba mai degenerare nella rissa, ma debba essere sempre condotto nell'ambito delle regole e nel rispetto del Parlamento. Così, del resto, si è sempre comportato l'Ulivo e così sono certo continuerà a comportarsi.
Signor Presidente, neppure in questi giorni in cui sembra che l'intervento militare americano sia inevitabile si devono rallentare gli sforzi per trovare una soluzione al grave problema iracheno attraverso vie pacifiche e diplomatiche. Come da tempo sosteniamo anche in quest'Assemblea, l'hanno ripetuto tanti colleghi prima di me, un analogo impegno dovrebbe essere profuso per affrontare e risolvere la questione israelo-palestinese.
Noi non sottovalutiamo affatto il gravissimo pericolo che è rappresentato dal terrorismo, soprattutto dopo l'11 di settembre, dopo la tragedia delle due torri, anzi, azioni di contrasto devono e possono esser fatte anche sul piano militare. Tuttavia, è evidente che non ci si può illudere che attraverso guerre tradizionali si possano effettivamente colpire e sradicare le centrali del terrorismo internazionale. Noi siamo convinti che debbano essere le Nazioni Unite a stabilire modi e mezzi con i quali fronteggiare gli Stati fiancheggiatori o, come vengono definiti, gli Stati canaglia.
Non vi sono, almeno finora, le condizioni per dare il via ad operazioni militari, anche se devono essere prese in seria considerazione le gravi dichiarazioni di ieri del segretario di Stato americano Colin Powell sui tentativi messi in atto dal regime iracheno per occultare le armi non convenzionali e le informazioni sui legami tra la dittatura di Saddam Hussein e il terrorismo internazionale.
È molto probabile, come hanno dichiarato proprio nella giornata di ieri i rappresentanti di alcuni paesi del Consiglio di Sicurezza, che si debba dare un ulteriore lasso di tempo agli ispettori per intensificare ed estendere le indagini. Non mi sottraggo tuttavia ad una domanda certo del tutto ipotetica, ma gravida di significati sul piano politico. Se il nostro paese facesse parte del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, allo stato attuale, come dovrebbe votare? Sì o no? Rispondo senza esitazioni: l'Italia, se facesse parte del Consiglio di Sicurezza, dovrebbe, allo stato attuale delle cose, dei dati a disposizione, votare «no» alla guerra.
Non ci sono quindi nell'Ulivo divisioni sul «no» alla guerra. Noi siamo d'accordo, tutti d'accordo sulle linee essenziali che sono state votate la scorsa settimana dal Parlamento europeo a Bruxelles. Noi abbiamo criticato il Governo perché è sembrato che si muovesse in modo oscillante e ondivago con la propria azione politico-diplomatica.
Noi siamo del parere che l'Italia avrebbe dovuto e dovrebbe lavorare di più per l'unità piuttosto che per la divisione dell'Europa. Non giova al ruolo che potrebbe avere l'Unione Europea andare in ordine sparso. Questo vale, signor Presidente, per la presa di posizione franco-tedesca, a cui pure ci sentiamo più vicini, ma vale anche per la lettera di alcuni altri paesi europei a cui l'Italia ha aderito.
Il Presidente del Consiglio ha usato oggi toni pacati e misurati, ha fatto appello all'opposizione perché si realizzi una più vasta convergenza attorno alla politica estera del nostro paese e comunque ha richiamato tutti al rispetto reciproco. Io condivido questa aspirazione che è stata anche alla base delle iniziative dei governi di centrosinistra in questi anni. Noi consideriamo, però, fondamentale, per poter raggiungere un'ampia convergenza politica parlamentare, che l'Italia ancori la propria politica estera alle decisioni delle Nazioni Unite. Al di fuori delle ragioni dell'ONU - lo dico all'onorevole Bertinotti - ci sono soltanto le ragioni del più forte.
Il Presidente del Consiglio ha parlato di una seconda risoluzione con il che si può ipotizzare che il Governo italiano abbia, almeno, qualche riserva rispetto ad un intervento militare unilaterale da parte


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degli Stati Uniti. Tuttavia, signor Presidente, su questo punto, che è un punto centrale, rimangono alcune questioni non chiarite che andrebbero chiarite al più presto. Noi avremmo preferito che lei fosse più esplicito affermando che solo una decisione dell'ONU può dare legittimità ad un eventuale intervento militare in Iraq. Noi, comunque, condizioniamo qualsiasi tipo di convergenza tra Governo ed opposizione sulla politica estera al riconoscimento esplicito del primato dell'ONU. Questa è la condizione per dare un largo consenso ed un largo sostegno alla politica estera italiana, evitando divisioni che possono diminuirne l'autorevolezza in campo internazionale (Applausi dei deputati dei gruppi Misto-Socialisti democratici italiani, dei Democratici di sinistra-l'Ulivo e della Margherita, DL-l'Ulivo).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Pecoraro Scanio. Ne ha facoltà.

ALFONSO PECORARO SCANIO. Signor Presidente, signor Presidente del Consiglio, lei nell'assumere le sue funzioni ha giurato sulla Costituzione repubblicana ed ha giurato anche sull'articolo 11 che dice che l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e come strumento di risoluzione delle controversie internazionali. Lei ha giurato su questa Costituzione ed è tenuto come noi tutti ma, ancora di più perché il Governo ne è interprete, a rispettare il dettato costituzionale.
Nel suo intervento, signor Presidente, evidentemente preparato un po' velocemente, lei dice che la guerra preventiva è qualcosa che assomiglia alla prevenzione o alla dissuasione. Mi sembra una confusione gravissima. Il principio della guerra preventiva è l'opposto della prevenzione perché prevenzione significa cercare di evitare la guerra; la guerra preventiva, ovvero la dottrina Bush in materia, è una cosa molto grave, significa che si può partire per invadere un paese senza che vi sia stato alcun atto di violazione, di attacco, dunque cambiando completamente i precedenti in questa materia. Questa è una cosa molto grave come molto grave è che qui, in Parlamento, si ribadisca una posizione che non vede l'Italia schierata per una politica attiva di pace.
I Verdi hanno dichiarato sempre con molta chiarezza, con azioni sempre non violente - diversamente da altri e diversamente da forze politiche che ritengono, invece, normale usare metodi violenti salvo poi proclamarsi pacifici - il loro «no» alla guerra che è anche un «no» a tutte le vicende conseguenti alla scelta bellica ed un «no» anche alle altre guerre (sono 77 i conflitti armati in corso nel pianeta). Una politica vera di pace dovrebbe permanentemente lavorare per risolvere i conflitti; si è parlato qui del conflitto israelo-palestinese ma sono tanti i conflitti e, in realtà, noi non vediamo una politica per la pace degna delle aspettative e delle aspirazioni.
In particolare, la vicenda irachena non vede avviarsi alcuna ragionevole azione attiva per la pace. Chiediamo un'iniziativa diversa; l'abbiamo chiesta a tutte le forze politiche, ripeto, a tutte, non solo al centrosinistra, al quale, in particolare, domandiamo di essere coerente con quel quasi 100 per cento di propri elettori che è dichiaratamente e totalmente contrario alla guerra. Ma è ben l'85 per cento degli italiani - questo dovrebbe riguardare anche gli amici e colleghi del centrodestra - ad essere contrario alla guerra in Iraq! Il Parlamento deve saper rappresentare ciò che pensano i cittadini, non le convenienze o gli opportunismi che variano volta per volta in relazione a singole vicende politiche. Voi rischiate di trascinare l'Italia in una vicenda drammatica: il pericolo terrorismo, infatti, rischia di ampliarsi e non di ridursi. Fare la guerra, come un'invasione all'Iraq, significa, di fatto, rinunciare alla capacità di svolgere una qualsiasi azione di pace.
Su tale punto dobbiamo mobilitare con molta forza tutte le coscienze; in particolare, chiediamo che il Parlamento si esprima con un voto, e che voti per la pace: tale istituzione non può essere chiamata ad esprimersi solamente quando vi è da ratificare un'azione bellica! In tal


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senso abbiamo depositato una mozione con la quale chiediamo che venga detto con chiarezza «no» anche all'uso delle basi e degli spazi aerei italiani, perché il contributo italiano alla guerra che lei, signor Presidente del Consiglio, sta preparando sarà quello di utilizzare gli scali ed i cieli italiani per andare a bombardare la popolazione civile irachena. Questo è il rischio al quale siamo esposti! Il problema è che ciò viene disposto non per la democrazia o perché Saddam Hussein è un dittatore. Infatti, al mondo, lui non è l'unico ad esserlo! Sappiamo che questa battaglia ha come obiettivo il petrolio! Lo sanno tutti, lo dicono anche gli osservatori americani.
Le nostre iniziative, signor Presidente, saranno attuate insieme al Green party - il partito Verde degli Stati Uniti d'America - che ci aiuterà nella nostra battaglia anche nella manifestazione del 15 febbraio. Quel giorno, infatti, in tutto il pianeta si manifesterà contro questa guerra ed i nostri amici del Partito Verde americano manifesteranno davanti all'ambasciata italiana proprio contro la politica bellicista del nostro Governo. Vogliamo infatti dimostrare che il popolo americano è cosa ben diversa rispetto ai falchi del Governo Bush, al punto che il consiglio comunale di San Francisco, presieduto da un verde, ha votato all'unanimità una risoluzione contro la guerra, come ha fatto anche il consiglio comunale di Chicago e la parte più avanzata e più attenta degli Stati Uniti d'America.
La vostra, quindi, non è semplicemente una richiesta vetero-antica di semplice alleanza, ma è una posizione vecchia rispetto al tema della guerra preventiva, che è un tema nuovo, drammatico e catastrofico. Pertanto, vi chiediamo con fermezza - lo chiediamo anche al Parlamento tutto - di rispettare la Costituzione e di dire nettamente «no» alla guerra in Iraq (Applausi dei deputati del gruppo Misto-Verdi-l'Ulivo).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Pisicchio. Ne ha facoltà.

PINO PISICCHIO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor Presidente del Consiglio, in discussione quest'oggi non è il catalogo tra bellicisti e pacifisti, bensì il comportamento seguito dal Governo italiano fino ad oggi ed il comportamento che dovrà essere tenuto, nel prossimo futuro, di fronte alla crisi irachena, in coerenza con i valori fondativi della nostra Repubblica, dei trattati internazionali e degli interessi dei cittadini italiani.
Diciamo allora subito che non abbiamo condiviso la scelta compiuta dal Primo ministro di sottoscrivere il documento degli otto governanti europei di sostegno preventivo a Bush; ciò non solo per il significato politico che ha assunto, anche al di là della misura letterale, di adesione aprioristica alla teoria dell'azione bellica preventiva, ma anche perché ha concorso a lacerare maggiormente la già difficile unità europea. Questo quando manca solo qualche mese al turno di Presidenza italiana.
L'ancoraggio della politica estera italiana non può essere rappresentato che dal riferimento europeo e dalle Nazioni Unite, in coerenza con la tradizionale scelta di campo dell'Italia democratica e repubblicana. L'atlantismo italiano non può non iscriversi all'interno di questo fortissimo quadro di riferimento che si rispecchia appieno nei valori costituzionali.
Esprimiamo, Presidente Berlusconi, la nostra critica al documento degli otto con lo stesso spirito con cui convintamente sostenemmo la decisione di inviare i nostri alpini in Afghanistan quale partecipazione italiana alla scelta dell'Unione europea per la lotta al terrorismo.
Le cose oggi sono, allo stato degli atti, non smentito dalle dichiarazioni di Powell, alquanto diverse. Qual è la natura di un'eventuale iniziativa militare contro l'Iraq? È l'applicazione della strategia del cosiddetto attacco preventivo, sconosciuta dal diritto internazionale, oppure è la legittima sanzione contro un paese sconfitto in un conflitto pregresso, che sta fortemente violando le intese armistiziali sottoscritte al momento della resa? Questa è una domanda che ha posto il capo dei


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democratici al Senato di Washington, Biden. Infatti, la grave questione della pericolosità dell'attuale regime iracheno e della sua politica degli armamenti non può essere disgiunta dal tipo di ordine internazionale e di stabilità globale che si intende difendere e consolidare. Allora, nessuna scelta fuori dall'ONU e nessuna azione che si muova contro la convergenza degli Stati europei.
L'Italia deve lealtà al Trattato dell'Alleanza atlantica, che non può e non deve essere messa in discussione, perché rappresenta uno degli elementi costitutivi della politica italiana, a cominciare da Aldo Moro. Siamo per la pace e non per uno sterile neutralismo. Tuttavia, l'Italia può e deve rifiutare, con comportamenti concludenti, l'idea dell'ineluttabilità di un'azione bellica, poggiata sullo scivoloso teorema della guerra preventiva, lontana, oltre che dalla civiltà giuridica, anche dalla lunga tradizione di politica estera della stessa America.
In questo nostro argomentare non vi è alcun residuo di ideologismo, ma solo l'onesto tentativo di mettere in luce ragioni in cui la stragrande maggioranza dei cittadini del nostro paese possa rispecchiarsi, facendo ricorso alla politica. Abbiamo il dovere della politica, quando perde la politica, allora si fa strada la forza e nessuno sa mai dire a quali esiti essa possa portare (Applausi dei deputati dei gruppi Misto-UDEUR-Popolari per l'Europa, della Margherita, DL-l'Ulivo e Misto-Socialisti democratici italiani).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole La Malfa. Ne ha facoltà.

GIORGIO LA MALFA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, esprimo il pieno apprezzamento dei repubblicani per il discorso del Presidente del Consiglio, per l'equilibrio, la prudenza, ma anche per la chiarezza estrema delle posizioni del Governo italiano nella drammatica crisi internazionale dell'Iraq e per la capacità di tenere fermi i punti di riferimento fondamentali che hanno guidato la politica italiana nel secondo dopoguerra.
Non possiamo che augurarci, come tutti in quest'aula, che non si arrivi alla guerra, che essa non sia necessaria e che l'Iraq di Saddam Hussein decida, finalmente, di rispettare pienamente quei vincoli e quelle richieste, ferme e ultimative, che la comunità internazionale, attraverso l'ONU, gli ha posto, in particolare con la risoluzione n. 1441.
Avevamo già considerato gravissime le posizioni di Saddam Hussein, alla luce dei risultati delle prime indagini degli ispettori; tuttavia, nel discorso di ieri del sottosegretario di Stato americano è contenuto un nuovo elemento che, se provato, aggrava ulteriormente la posizione dell'Iraq: mi riferisco al collegamento all'azione del terrorismo.
Onorevoli colleghi, se dovesse emergere un collegamento diretto con l'organizzazione di Al Qaeda, ciò creerebbe una ragione ulteriore di urgenza per affrontare il problema costituito dal fattore iracheno.
Onorevoli colleghi, lo ripeto: l'augurio è che la guerra non sia necessaria e che l'Iraq si possa liberare della minaccia che pende sulla sua popolazione civile costituita dall'esistenza di quel dittatore. Del resto, in merito a questo giudizio su Saddam Hussein, tranne piccole componenti, larga parte del Parlamento si dichiara d'accordo.
Onorevoli colleghi dell'opposizione, colgo qui una contraddizione di fondo. Non si può, da un lato, condannare il regime iracheno, non si possono lamentare le violazioni di precedenti deliberati dell'ONU, ma, nello stesso tempo, rifiutare ogni ipotesi di uso della forza. Questa impostazione non è solo debole, ma anche contraddittoria, onorevole D'Alema, perché in circostanze come queste l'esperienza storica, anche dell'Europa, ha indicato che solo la minaccia credibile dell'uso della forza, solo la compattezza e la coralità dei paesi democratici possono far sì che un dittatore si pieghi e che dalla guerra si possa allontanarsi tutti.
L'errore di coloro i quali in buona fede oggi proclamano la pace è quello di mandare a Saddam Hussein il messaggio di un occidente diviso ed incerto e, dunque, di


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incoraggiare la continua sfida del dittatore nei confronti delle regole della comunità internazionale.
L'argomento che viene usato sulla minaccia dell'estendersi del terrorismo, onorevoli colleghi, lo avete usato anche quando l'anno scorso si decise un'azione nell'Afghanistan che fu preconizzata come un'azione militare lunga che avrebbe esteso il terrorismo. Lo stesso alcuni di voi hanno fatto quando la comunità democratica decise, finalmente, di colpire la Iugoslavia di Milosevic: anche in quell'occasione si disse che ciò avrebbe soltanto esteso le condizioni di guerra.
Ciascuno si prenda le proprie responsabilità, onorevoli colleghi. È vero che l'ONU deve essere la regola della comunità internazionale. È giusta l'aspirazione manifestata che l'ONU sia, non domani ma già oggi, l'organismo internazionale sotto la cui autorità si possa e si debba decidere l'uso della forza nei confronti di certi regimi. Tuttavia, l'ONU deve avere una credibilità e deve saper prendere le decisioni che affermano la sua credibilità e, dunque, il diritto internazionale.

PRESIDENTE. Onorevole La Malfa...

GIORGIO LA MALFA. Signor Presidente, concludo parlando della terza questione, il rapporto con l'Europa.
Qualcuno ha accusato, in questi giorni, il Governo italiano di aver diviso l'Europa e di aver allontanato l'Italia da una delle sue direttrici fondamentali. Consentite al rappresentante di un partito che ha seguito le vicende italiane nel dopoguerra e ha contribuito alle sue scelte di ricordare, onorevole D'Alema, che la politica estera italiana all'indomani della tragedia del fascismo fu costruita su due fondamenti: l'integrazione europea e l'Alleanza atlantica. Aggiungo che tali fondamenti per la loro storia comune e per la loro comune tragedia accomunavano l'Italia e la Germania. Voglio sottolineare che il motore dell'Europa è stato sì, per certi aspetti, l'amicizia franco-tedesca, ma che rispetto alle grandi questioni internazionali Italia e Germania non ebbero mai dubbi che quell'Europa unita che essi volevano costruire anche per uscire definitivamente dalla tragedia della loro storia era un'Europa strettamente alleata con gli Stati Uniti.
Onorevoli colleghi, questa è la posizione che il Governo italiano tiene ed è per questo motivo che i Repubblicani lo incoraggiano a continuare sulla sua strada e dar prova, come sta facendo, di equilibrio e coraggio (Applausi dei deputati dei gruppi Misto-Liberal-democratici, Repubblicani, Nuovo PSI e di Forza Italia).

PRESIDENTE. Passiamo ora agli interventi a titolo personale.
Chiedo all'onorevole Biondi di sostituirmi alla Presidenza perché è convocato l'Ufficio di Presidenza per le questioni a voi note.
Ha chiesto di parlare, a titolo personale, l'onorevole Costa, al quale ricordo che ha due minuti a disposizione. Ne ha facoltà.

RAFFAELE COSTA. Signor Presidente, signor Presidente del Consiglio, poco prima di Natale oltre 50 deputati della maggioranza le rivolsero un appello affinché lei non si scoraggiasse nella sua azione rivolta a scongiurare la guerra ed insistesse a far sentire la voce della grande maggioranza degli italiani e degli europei contrari al conflitto.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE ALFREDO BIONDI (ore 19,30)

RAFFAELE COSTA. A questa nostra lettera lei ha risposto con atti concreti: incontri internazionali, istruzioni ai diplomatici, discorsi, note di stampa. Nell'intervenire oggi riteniamo occorra su questo tema tenere conto di vari elementi: del pericolo rappresentato da Saddam, del pericolo rappresentato dal terrorismo, del pericolo rappresentato da una guerra. Si tratta di tre sfide all'umanità, di tre drammi per il popolo iracheno, soprattutto di tre ipotesi luttuose. Queste tre sfide convivono in un difficile equilibrio.


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La domanda che avanza nel mondo è questa: è urgente, è impellente, è doveroso eliminare Saddam e giustificare una guerra? In molti si sono posti questo interrogativo ed hanno dato risposte diverse. L'America, o meglio il suo Governo, sembra aver risposto positivamente, mentre in Europa e nel mondo sono in tanti a pensarla diversamente.
È più urgente eliminare il persecutore dei curdi, l'uomo che ha tolto la libertà al suo popolo rischiando di far morire migliaia di persone in un conflitto, oppure è più importante salvare qualche vita umana cercando con altri mezzi di eliminare Saddam o di ridurlo all'impotenza? Tutti possono dare una risposta soggettiva al quesito drammatico che è sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, chi deve decidere? Chi ha l'autorità per farlo? La decisione va rimessa alle Nazioni Unite. Questo non per viltà, per indecisione, per lasciar scegliere ad altri, ma perché l'equilibrio internazionale per chi vuole rispettare le regole della democrazia si deve reggere sui trattati internazionali, sull'organizzazione che la comunità si è data, sull'imparzialità dell'arbitro delle contese internazionali.
Sono molte le cose che potrebbero essere dette, ma è giusto che siano altri a dirle in piena libertà. Personalmente vorrei ricordare il dramma del popolo iracheno, che rischia di risultare schiacciato, contro ogni sua volontà, nel conflitto fra il dittatore, che lo sobilla, e chi per eliminare il dittatore è costretto a muovergli guerra.
Infine un aspetto positivo. Chi parla fa parte, signor Presidente del Consiglio, a pieno titolo e con convinzione della sua maggioranza: un'adesione convinta, anche se non sempre conforme. Un'adesione corretta proprio perché libera e liberale. Le farà piacere sapere che siamo in tanti in Italia, cittadini liberi, a chiederle di non desistere mai dal tentare di scongiurare il conflitto. Il suo discorso ci convince che sta tentando di farlo (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare, a titolo personale, l'onorevole Ricciotti. Ne ha facoltà.

PAOLO RICCIOTTI. Egregio Presidente, egregio Presidente del Consiglio, in supporto anche all'intervento dell'onorevole Cicchitto di Forza Italia ritengo sia importantissimo in pochi minuti delineare il cambiamento della politica internazionale del nostro paese e il ruolo che il Presidente del Consiglio ha, e sta avendo, nel contesto internazionale. È un ruolo di primo attore, in una strategia che cambia, in un mondo che nella globalizzazione vede cambiare il futuro, i valori e le prospettive del nostro mondo.
In questa globalizzazione l'Italia, dopo tantissimi anni, è diventata e sta diventando il punto di riferimento di una nuova strategia che non vede un rapporto conflittuale con gli Stati Uniti d'America - come nel nostro paese vediamo da troppi anni -, ma vede un rapporto consolidato in una prospettiva di pace. Una prospettiva di pace che solo uno statista come Berlusconi - e non lo dico perché sono deputato di Forza Italia - poteva delineare, perché egli ha la coscienza e la consapevolezza che esistono una serie di problematiche oltre a quella dell'Iraq: esiste la crisi della Corea del nord, così come esiste la crisi relativa al contenzioso India-Pakistan (dove, come pochi sanno, a primavera inizieranno le recrudescenze) e la questione israelo-palestinese. In questo contesto, chiaramente il ruolo dell'Italia ha cambiato e cambierà sempre di più lo scenario europeo ed internazionale. Uno scenario che è molto chiaro a tutti, come è emerso dalle dichiarazioni di Powell.
Vorrei ricordare che gli americani hanno bruciato con questa decisione alcune fonti di intelligence ben definite ed è chiaro che non potrebbero fornire una specificazione molto più approfondita, anche perché quello che appare è che in prospettiva se Saddam non tornerà indietro, inevitabilmente lo scenario di una possibile guerra sarà uno scenario futuribile ben visibile. Però vorrei ricordare che Powell ha detto delle cose molto importanti:


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ha espresso un appoggio totale a Blix e ai suoi ispettori; ha mostrato dei nastri di registrazione (e personalmente non ho sentito nessuno dell'opposizione che lo ha detto) ben definiti; ha mostrato delle foto ben definite dei satelliti che identificano tantissime basi; ha parlato del programma missilistico dei missili non convenzionali; ha parlato del problema del terrorismo islamico (e ha dichiarato tra parentesi che nella nostra nazione esiste una rete consolidata di regime terroristico) ed ha inoltre detto che l'Iraq produce armi letali. Vorrei ricordare...

PRESIDENTE. La invito a concludere, onorevole Ricciotti.

PAOLO RICCIOTTI. Concludo, signor Presidente. Vorrei ricordare all'opposizione che è improprio, per non dire ridicolo, quello che ha detto Rutelli: pensare che alle guerre in genere si possa arrivare con il consenso di tutti. Ancora più improprio è dire che Berlusconi rompe la linea di pace della politica estera italiana e che addirittura infrange la nostra bussola. Se la bussola l'ha persa lui, l'hanno persa... (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia)

PRESIDENTE. Onorevole Ricciotti, dovrebbe concludere.
Ha chiesto di parlare, a titolo personale, l'onorevole Sgarbi. Ne ha facoltà.

VITTORIO SGARBI. Signor Presidente della Camera, illustri colleghi, signor Presidente del Consiglio, questo dibattito non ha mostrato, nell'apparenza della sua attuale conclusione, una urgenza e un dramma quale il tema sembrava richiedere e richiede.
Una collega della maggioranza, alla sua prima esperienza parlamentare, era stupita di questa mancanza di attenzione, della partenza improvvisa del leader reale dell'opposizione, D'Alema, e del leader presunto, Rutelli, e noi siamo rimasti qui a svolgere i nostri interventi.
Tra l'altro, per una forte antipatia verso il prevalere di una cultura egemone, che cancella le culture minori, ma un tempo fondanti - perché l'America è un paese barbaro rispetto alla Mesopotamia, rispetto alla cultura straordinaria che è di tutti e anche degli americani - ho avuto più di altri una esperienza avventurosa e drammatica, violando l'embargo, con una operazione abbastanza complessa. Pensare che uno studente americano non possa recarsi in Iraq a studiare gli assiri o i babilonesi è qualcosa che nega le ragioni stesse della civiltà di cui noi siamo responsabili ed eredi.
Per cui, ci sono nuovi barbari contro un'antica civiltà, che è divenuta barbara nel modo più feroce anche contro se stessa. E, in questo percorso storico, l'errore più evidente è quello dell'onorevole D'Alema, che poneva su due diversi livelli l'attuale vicenda e la determinazione con cui il Presidente del Consiglio è con gli americani - oggi civiltà egemone, ma barbari rispetto agli iracheni di un tempo -, dicendo che fu merito degli Stati Uniti, nell'occasione in cui si andò a combattere in Kosovo, spingere l'Europa ad agire. Come se questa fosse cosa diversa da quella; questa è più grave!
Infatti, l'errore di D'Alema sta nel dire che non andammo per rovesciare Milosevic, ma lui dov'era? Si andò per rovesciare e si rovesciò Milosevic, seguendo gli indirizzi intuiti per primo dal radicale Pannella, che svolse una campagna straordinaria, quando uomini - come Cossutta - andavano ad inginocchiarsi da Milosevic. E quel Milosevic fu abbattuto per volontà degli americani, che chiamarono gli alleati ad una battaglia giusta, che non era guerra, ma lotta di liberazione.
Noi dobbiamo liberare il popolo iracheno e liberare la civiltà dalla minaccia che ha portato alla distruzione, a New York, con una violenza inaudita - che oggi noi civiltà egemone sentiamo come violenza a noi stessi - delle due torri. L'eliminazione dallo skyline di New York delle due torri è una violenza contro la civiltà.
Ora, qual è stato l'unico errore degli americani? Aver troppo atteso e aspettato pazientemente che l'ONU convergesse su


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posizioni inevitabili non per la guerra, ma per restituire la libertà al popolo iracheno.
Io contro l'embargo ho fatto tutto ciò che potevo fare, proprio rispetto al principio che non si possono chiudere le porte di una civiltà - né chi agisce con l'embargo né il popolo che lo patisce -, ma qualcuno ha portato il popolo iracheno a patire la violenza americana dell'embargo e quella che arriverà.
Allora, se fosse capitata un'azione di attacco all'Iraq subito dopo - 10 giorni, 20 giorni, un mese - la caduta delle due torri, nessuno avrebbe avuto il coraggio di ribellarsi a quella legittima lotta di liberazione. Il troppo attendere ha condotto all'idea che la violenza sia degli americani e non di quelli che hanno armato la mano dei terroristi - e tuttora lo fanno - per distruggere i presidi della civiltà cattolica, cristiana ed umana, come è accaduto alle due torri.
Dunque, occorrerà trovare soluzioni diplomatiche fino al limite del possibile, ma non si può chiamare guerra quella che è lotta di liberazione contro la barbarie, la violenza e la criminalità che Saddam Hussein ha guidato attraverso il tragico atto della caduta delle due torri (Applausi dei deputati dei gruppi di Forza Italia e di Alleanza nazionale).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare, a titolo personale, l'onorevole Craxi. Ne ha facoltà.

BOBO CRAXI. Signor Presidente, rinuncerei al mio intervento per rispetto dei colleghi e per rispetto del Presidente del Consiglio.
Non rinuncio, naturalmente, ad esprimere delle idee. Do soltanto un suggerimento: bisogna imporre l'altolà a Saddam Hussein, il rispetto delle risoluzioni dell'ONU e bisogna fare ciò anche nei confronti dello Stato di Israele, che deve rispettare le risoluzioni delle Nazioni Unite. Buon lavoro (Applausi).

SILVIO BERLUSCONI, Presidente del Consiglio dei ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Il Presidente del Consiglio dei ministri ha chiesto di intervenire brevemente per svolgere alcune considerazioni. Egli ne ha senz'altro la facoltà. Preciso che, evidentemente, il suo intervento non riapre il dibattito.

MARCO BOATO. Allora, non lo riapriamo!

PRESIDENTE. Prego, onorevole Berlusconi.

SILVIO BERLUSCONI, Presidente del Consiglio dei ministri. Signor Presidente, non c'è da parte mia alcuna intenzione di riaprire il dibattito, voglio dire soltanto grazie a coloro che si sono intrattenuti in aula fino ad ora e, nello stesso tempo, garantire a tutti che il Governo ha lavorato e continuerà a lavorare per la pace.
Gli ultimi interventi svolti hanno chiaramente indicato come noi pensiamo che la pace si possa ottenere, vale a dire soltanto con una pressione esercitata da una concorde comunità internazionale; spero che questa pressione possa condurre il dittatore iracheno a prendere la strada di un disarmo vero oppure la strada dell'esilio.
Noi non vogliamo la guerra, non l'abbiamo mai voluta, vogliamo la pace ed operiamo per la pace ma, se la risoluzione, successiva alla n. 1441, che io credo verrà adottata dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU, darà legittimità ad un intervento, noi saremo lì, non con i nostri militari, cosa che non ci è stata chiesta, ma a dare il nostro aiuto per gli interventi umanitari e logistici e, ove avvenisse un'azione militare, per aiutare l'Iraq a diventare una vera e piena democrazia (Applausi dei deputati dei gruppi di Forza Italia, di Alleanza nazionale e dell'Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro).

PRESIDENTE. Ringrazio il Presidente del Consiglio dei ministri, onorevole Berlusconi.
È così esaurito lo svolgimento dell'informativa urgente del Governo sugli sviluppi della crisi irachena.

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