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PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione delle mozioni Brugger ed altri n. 1-00066 e Volontè ed altri n. 1-00040 sulla crisi economica in Argentina (vedi l'allegato A - Mozioni sezione 1).
La ripartizione dei tempi riservati alla discussione delle mozioni è pubblicata nel vigente calendario (vedi calendario).
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.
È iscritto a parlare l'onorevole Brugger, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00066. Ne ha facoltà.
SIEGFRIED BRUGGER. Signor Presidente, con la presente mozione si intende stimolare la riflessione e sensibilizzare il Parlamento e l'opinione pubblica italiana riguardo alla profonda crisi che sta attraversando l'intero sistema finanziario e monetario internazionale, con effetti devastanti sulle economie di paesi deboli cosiddetti in via di sviluppo, in modo particolare dei paesi dell'intera America latina, primo fra tutti l'Argentina, paese notoriamente legato da molti vincoli all'Italia.
Sappiamo che le crisi finanziarie e bancarie, a partire da quelle del 1997 in Asia, in Russia e in America latina fino al più recente crollo della new economy negli Stati Uniti, sono da considerarsi non casi isolati ma manifestazioni di una crisi generale, caratterizzata tra l'altro dalla speculazione sfuggita ad ogni controllo. L'intera bolla finanziaria mondiale ha, infatti, raggiunto la vetta dei 400 mila miliardi di dollari di cui 140 mila solamente negli Stati Uniti, in rapporto ad un prodotto interno lordo mondiale di circa 40 mila miliardi di dollari e questo divario è andato accentuandosi soprattutto negli ultimi anni.
Si aggiunga un altro fatto determinante. La politica monetaristica del Fondo monetario internazionale nei confronti dei cosiddetti paesi in via di sviluppo quali l'Argentina è stata negli anni passati direttamente responsabile dell'aggravamento della loro situazione fino alla bancarotta, imponendo il pagamento di alti tassi di interesse e tagli del bilancio e degli investimenti produttivi che hanno gravemente intaccato il prodotto interno reale delle nazioni. Ne consegue che il continuo pagamento degli interessi sul debito imposto dall'FMI ha, per così dire, strangolato l'economia argentina. Pensate che nel 1998 il pagamento degli interessi era dell'11 per cento del bilancio nazionale, nel 2000 il 15 per cento e nel 2001 il 18 per cento. Questo salasso di ricchezza e di investimenti è andato sempre di più ad incidere negativamente sulle entrate fiscali che nel 2001 sono crollate del 33 per cento rispetto all'anno precedente. Altro dato veramente preoccupante è che l'intera America latina negli anni passati ha già pagato più volte l'intero ammontare del suo debito estero. Nel 1980 era di 259 miliardi di dollari; nel 1999, dopo aver pagato cumulativamente 628 miliardi di dollari in interesse rimanevano, per così dire, 793 miliardi di debito da pagare. Questi sono dati della Banca mondiale, e sono veramente impressionanti.
Quindi, si può dire che la crisi argentina non è specifica a questa nazione bensì riguarda l'intero continente latino-americano, dove il Messico e il Brasile, per esempio, sono stati condotti dall'FMI sull'orlo di un crac come quello dell'Argentina e di altre nazioni quali, per esempio, la Turchia o anche la Polonia, in quella che è una manifestazione molto forte della crisi dell'intero sistema che si evidenzia tra l'altro in maniera sempre più quantificabile
e tangibile anche negli Stati Uniti, in Giappone e in Europa, per cui una duratura soluzione per l'Argentina può aver luogo solo nel contesto di un totale riorientamento produttivo e di una riorganizzazione del sistema economico e finanziario internazionale. Indubbiamente, la crisi finanziaria in Argentina è anche conseguenza della profonda crisi politica di questo paese, ma il crac in Argentina non può essere imputato semplicemente alla corruzione nazionale, ma in larga misura al sistema politico nel Fondo monetario internazionale che, invece di sostenere una partecipazione vera nello sviluppo della nazione ha introdotto meccanismi monetaristici che hanno favorito varie forme di corruzione: ma, su questo punto non mi dilungo.
La Chiesa cattolica argentina ha preso una posizione molto chiara sulla crisi. L'arcivescovo di Rosario, Monsignor Eduardo Miràsha, ha detto il 17 novembre del 2001 che «un popolo non può morire per pagare il debito» e Monsignor Hector Aguer di La Plata il 20 dicembre 2001 ha diffuso una lettera aperta sul debito estero dove denuncia, tra l'altro, la politica di deficit zero che ha drasticamente ridotto il benessere generale allo scopo di pagare interessi sul debito agli usurai: infatti, il popolo muore per debiti contratti da altri e per fini chiaramente non di interesse nazionale.
Varie forze politiche economiche e sociali e religiose dell'Argentina hanno posto al centro della discussione la proposta per un programma di ricostruzione e di sovranità nazionale che preveda i seguenti punti. In primo luogo, lo sganciamento del peso dal dollaro, senza svalutazione o altre forme di drammatizzazione: di fatto, una nuova moneta senza obblighi con l'attuale sistema. Inoltre, misure di controllo sui movimenti di cambi e di capitale, come quelle che negli anni cinquanta si rivelarono capaci di proteggere le monete; la creazione di una banca nazionale per mettere nuovi crediti a basso tasso di interesse e a lungo per espandere gli investimenti produttivi nell'industria (in particolare, nella media industria) e nell'agricoltura; il congelamento di tutti i debiti con l'estero e l'apertura di un'indagine sulla legittimità del debito ancora dovuto; la creazione di un coordinamento di difesa con altri paesi del continente, mirante anche a creare un mercato comune latinoamericano; infine, la reintroduzione del principio inviolabile della sovranità nazionale contro ogni forma di interferenza da parte di strutture sovranazionali della globalizzazione.
Con queste premesse la mozione propone di impegnare il Governo, per quanto riguarda direttamente l'Argentina - ferma restando la necessità che il paese si doti di una politica economica, come sopra riportata, nell'interesse del popolo argentino - a sostenere, in particolar modo, la richiesta di moratoria sul debito estero, a sostenere - anche con la partecipazione diretta - i progetti di rilancio degli investimenti nell'economia produttiva, a portare questa mobilitazione anche nelle istituzioni dell'Europa, così da trasformare questo sostegno italiano in sostegno europeo e rilanciare in modo concreto l'impegno già assunto dall'Europa per l'America latina con l'appoggio al progetto del Mercosur.
Per quanto riguarda invece la crisi dell'intero sistema finanziario e monetario internazionale, il Governo si deve impegnare a portare avanti in tutte le istanze la richiesta di una totale revisione del ruolo e della politica del Fondo monetario internazionale e a prendere, in particolare, l'iniziativa di proporre la convocazione di una nuova conferenza internazionale, a livello di capi di Stato e di Governo, come quella che si tenne a Bretton Woods nel 1944 allo scopo di fondare un nuovo sistema monetario internazionale e prendere quelle misure necessarie per eliminare i meccanismi che hanno condotto alla creazione della bolla speculativa e al crac finanziario sistemico e per mettere in moto programmi di ricostruzione dell'economia mondiale (Applausi dei deputati del gruppo Misto-Verdi-l'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Rocchi. Ne ha facoltà.
CARLA ROCCHI. Signor Presidente, questa mozione, sottoscritta ampiamente dai colleghi di questo Parlamento, mette in evidenza tutta la preoccupazione che esiste nei confronti delle crisi economiche e strutturali dei paesi latinoamericani e non solo che, come l'Argentina - oggetto primario della mozione di oggi - si trovano nella drammatica situazione di venire ostacolati nella loro economia difficoltosa e spesso stentata, non per mancanza di risorse proprie, ma per meccanismi monetari di tipo internazionale, trovandosi così a pagare debiti in condizioni di usura internazionale.
Nella mozione che è stata presentata vengono riportati dei dati che ci dicono come questi paesi abbiano pagato ad abundantiam il debito originariamente contratto e come per la politica del Fondo monetario internazionale - tutta da rivedere - si trovino a vivere, anzi a non vivere, per la stretta degli interessi che su questo debito originario sono stati calcolati. Ciò significa che nella valutazione dei bilanci di queste nazioni la parte di risorse che viene destinata necessariamente al pagamento degli interessi - che spesso hanno ampiamente coperto la cifra originaria - copre una parte sempre crescente delle risorse medesime di questi paesi. In particolare, veniva ricordato come in Argentina nel 1998 il pagamento degli interessi fosse pari all'11 per cento del bilancio nazionale, nel 2000 al 15 per cento e nel 2001 al 18 per cento, una progressione davvero impressionante.
È necessario, quindi, che - ci auguriamo - il Governo si senta impegnato su tutti quei punti che sono stati congruamente ricordati dal collega Brugger. È anche necessario che, oltre l'Argentina e tenendo d'occhio gli altri paesi vittime di questo sistema non più tollerabile, venga posta in essere una misura internazionale.
Capisco quanto ciò sia difficile perché la globalizzazione comporta questo tipo di effetti; tuttavia, non vogliamo rischiare l'insorgere di due conseguenze inevitabili; mi riferisco, in primo luogo, al disagio etico di vedere paesi ridotti nelle condizioni dell'Argentina (tra l'altro, la grandissima presenza in quel paese dei nostri connazionali rende questo dramma ancora più vicino a noi) ed, in secondo luogo, meno nobile ma più comprensibile, al contraccolpo del crollo di queste economie su quelle dei paesi sviluppati (l'andamento delle borse in questi ultimi tempi ne è testimonianza assoluta). A causa di queste due condizioni, è probabilmente arrivato, sia pure in ritardo, il momento di prendere consapevolezza della necessità di un intervento integrato, complessivo, collettivo, di rivedere le strutture che hanno portato a questi disastri, mettendo il Fondo monetario internazionale nella condizione di svolgere il compito originario che sarebbe stato suo proprio o di non svolgere affatto alcun compito, consentendo alla comunità internazionale, perdendo quel potere che ha condotto a tali effetti, di rinegoziare strutture, modalità e procedure per concepirle in maniera tale da non portare alla disperazione intere economie nazionali, evitando alla comunità allargata gli inevitabili contraccolpi economici ed etici che necessariamente derivano da eventi come quello che ha interessato l'Argentina (Applausi dei deputati del gruppo Misto-Verdi-l'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Landi di Chiavenna. Ne ha facoltà.
GIAN PAOLO LANDI di CHIAVENNA. Signor Presidente, rappresentante del Governo, colleghi, gli anni novanta hanno rappresentato per la società argentina una stagione di mutamenti profondi; sono stati caratterizzati da una forte alternanza e variabilità negli investimenti e nelle politiche di sviluppo, da cambiamenti politici e da aperture economiche finanziarie ai mercati internazionali.
Quando Fernando De la Rua vinse le elezioni per la presidenza della Repubblica il 24 ottobre del 1999, sconfiggendo il candidato allora antagonista, il peronista Eduardo Duhalde, l'economia argentina registrava già taluni segnali negativi, quali un debito pubblico crescente, allora giunto a 114 miliardi di dollari ed una disoccupazione
del 15 per cento. Non poteva, tuttavia, dirsi in vista una crisi quale quella che avrebbe poi sconquassato il paese di lì a pochi anni, in particolare nei due anni successivi. Il presidente uscente, il peronista Menem, è stato fautore, insieme al suo ministro dell'economia Domenico Cavallo, del risanamento economico dei primi anni novanta, raggiungendo una notevole popolarità.
In effetti, la politica economica tracciata da Cavallo, ministro dal 1991, è quella che contrassegna la prima metà del decennio della storia economica, sociale e politica dell'Argentina. Cavallo propone immediatamente un'azione di apertura economica di ampio impatto sull'economia argentina che abbia le caratteristiche della irreversibilità. La legge di conversione del marzo del 1991 impone la parità fissa del peso al dollaro e si accompagna ad una vasta riforma dello Stato già avviata con la legge dell'agosto del 1989 la quale autorizza a procedere alla privatizzazione di tutte le proprietà industriale dello Stato, consolida il debito pubblico, definisce un accordo tra Stato federale e province; viene definita una riforma fiscale e si avvia una ampia deregolazione dell'intera economia argentina.
Per i primi anni novanta il sistema generò risultati positivi tanto che il prodotto industriale posto uguale a 100 nel 1986 scese a 89 nel 1989 e risalì fino a 124 nel 1994. Le esportazioni crebbero nello stesso periodo da sei mila 360 milioni di dollari a quindicimila milioni di dollari anche se, nel contempo, le importazioni dei soli beni capitali aumentavano da 4 mila 724 milioni di dollari a 20 mila 317 milioni di dollari. Il piano venne assistito con grande attenzione dal Fondo monetario internazionale; la linea di Cavallo si presentava come un'applicazione rigorosa di quel Washington consensus che definiva l'approccio delle istituzioni internazionali (il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale) agli inizi degli anni novanta. Tale approccio prevedeva un forte riorientamento a favore di politiche di apertura unilaterale, con aggancio al dollaro delle economie locali e contestualmente una deregolazione e privatizzazione interna.
Nel settembre del 2000 la World Bank presentava la situazione argentina in questi termini: i risultati del programma di riforme del Governo sono stati notevolissimi. %L'Argentina ha registrato un forte sviluppo economico negli anni '90, con un'economia che si è espansa da una dimensione stimata di 141 miliardi di dollari nel 1990 a 298 miliardi di dollari nel 1998, ovvero quattro anni fa. Invece della iperinflazione già sperimentata, l'Argentina ha ora uno dei tassi di inflazione più bassi del mondo. L'inflazione dei prezzi al consumo è stata negativa nel 1999, i prezzi all'ingrosso crescono soltanto nella misura dell'uno, due per cento.
Il deficit del Governo federale è sceso da una media di sei-otto per cento, registrato per la maggioranza degli anni '80, all'1,4 per cento nel 1998; la recessione del 1999 ha comunque fatto salire rapidamente il deficit federale al 2,6 per cento, escludendo però i ricavi dalle privatizzazioni. Il debito estero è moderato come quota del Gdp equivalente al 51 per cento. Sono dati forniti dal World Bank Group nel 2000, come dicevo riferiti alla situazione economica e gestionale del 1998. Quest'analisi così specificamente ottimista annotava però che la base esportativa del paese era ridotta, cosicché il debito totale rappresenta più di quattro volte il volume annuale delle esportazioni di beni e di servizi: il volume del debito rappresenta infatti l'85 per cento del totale delle esportazioni del 1999. Inoltre, si ricorda come, dopo anni di inflazione, il mercato interno dei capitali rimanga molto ridotto e basso il tasso di monetizzazione rispetto al livello di reddito dell'Argentina; ed ancora, l'analisi in esame sottolinea come sia il Governo sia le maggiori imprese continuano a dipendere dal mercato dei capitali internazionali per finanziarsi e come la mancanza di credito interno costituisca un collo di bottiglia per le piccole e medie imprese.
In conclusione, si evidenzia, da parte della World Bank Group, come questa situazione lasci l'Argentina vulnerabile agli shock esterni. La prima forte destabilizzazione della fragile situazione interna si produsse nel 1995 in relazione alla svalutazione del peso messicano; una seconda fase di destabilizzazione è legata alla crisi dei paesi del sud est asiatico. Come è noto, nel giugno del 1997, si ebbe la pesante svalutazione del bat thailandese che trascinò al ribasso tutte le monete dell'area in sequenza, ovvero quelle delle Filippine, dell'Indonesia, della Malesia, di Singapore e del Vietnam, fino a colpire la Corea e lo stesso Giappone, con una svalutazione a catena, il crollo delle borse locali e l'esplosione del tasso di disoccupazione.
Alla fine dello stesso anno, la crisi investì l'America latina, cogliendo dapprima l'Ecuador, poi la stessa Argentina, il Cile, la Colombia, l'Honduras, il Paraguay ed il Venezuela. In tale contesto, il Fondo monetario internazionale intervenne massicciamente a favore del Brasile, con un prestito di 41 miliardi e mezzo di dollari per evitare che la maggiore economia latino-americana giungesse ad un default dagli esiti imprevedibili. Contestualmente il Brasile svalutò la propria moneta con effetti significativi, in particolare nell'ambito del Mercosur, laddove invece la Argentina mantenne il cambio vincolato al dollaro.
I primi segnali di crisi in Argentina si ebbero quindi a partire dagli anni '90, quando per reagire alla crisi messicana si dovettero avviare politiche restrittive che portarono ad un aggravamento della povertà interna e a dissidi entro la compagine governativa di Menem, con le dimissioni, nel 1996, di Cavallo. Alle presidenziali del 1999 De la Rua otteneva più del 50 per cento dei voti, a capo di uno schieramento di centrosinistra - l'Alleanza democratica - che aveva fatto della denuncia della corruzione uno dei punti di forza della propria campagna elettorale.
Il risultato di quella tornata elettorale peraltro non era univoco: il rinnovo parziale della Camera e gli esiti delle elezioni amministrative in sei province confermava di contro la maggioranza e del peronista partito giustizialista presso quel ramo del Parlamento e in molte zone del paese. Proprio la difficile dialettica fra il Governo centrale e le amministrazioni delle province più importanti costituirà uno tra gli elementi salienti della crisi argentina, cui ricorrere per formulare osservazioni e riflessioni, scevre da prevenzioni e pregiudizi ideologici, se vogliamo affrontare questo dibattito e la conseguente valutazione delle mozioni all'attenzione di questa Camera con obiettività.
A De la Rua spettava il compito fondamentale di risanare l'economia e di trasformare i benefici della stabilità monetaria in un motore della ripresa dello sviluppo e della lotta alla disoccupazione, favorendo una redistribuzione del reddito complessivo.
L'elezione di De la Rua a capo di una vasta coalizione, in cui aveva confluito l'Union radical, il nuovo fronte di sinistra, il Frepaso e il movimento antimenemista, contro il peronista Duhalde, già governatore della provincia di Buenos Aires, non portò ad un sostanziale cambiamento di linea della politica economica, mentre gli effetti della crisi internazionale del 1997 trasmettevano i loro impulsi negativi sul mercato interno attraverso il meccanismo dell'indebitamento estero, sia pubblico che privato, esasperato inoltre dalla parità del peso rispetto ad un dollaro che mano a mano si apprezzava in modo più significativo, data la svalutazione continua delle monete degli altri paesi coinvolti nella crisi.
Caduta della produzione e delle esportazioni, aumento della disoccupazione, maggiore indebitamento, diminuzione delle riserve valutarie rivelavano che la crisi ormai colpiva il paese e che le cause fondamentali risiedevano nell'assenza di un Governo serio, stabile, di una politica virtuosa; quindi, in buona sostanza, si trattava di un fatto interamente endogeno, con relative poche responsabilità da parte delle istituzioni internazionali, alle quali, invece, in qualche modo, si vuole far
riferimento nella mozione illustrata dal collega Brugger e, successivamente, dalla collega Rocchi.
Il peggioramento delle condizioni economiche durante tutto il secondo semestre del 2000 rappresentarono una prova difficile per la coalizione governativa, provocando un rimpasto nel marzo 2001: si dimetteva il ministro dell'economia Luis Machinea, dopo aver lanciato un programma di inasprimento fiscale, ed era chiamato a sostituirlo il noto economista Ricardo Lopez Murphy. Quando Murphy annunciò un programma di austerità che avrebbe comportato tagli per 4 miliardi e mezzo di dollari, la tensione politica e sociale divenne insostenibile. De la Rua non fu più in grado di sostenere il suo neoministro e, dopo appena due settimane, chiamò ancora Domingo Cavallo, il quale non ricopriva incarichi ministeriali del 1996. Cavallo chiese ed ottenne il 27 marzo 2001 poteri speciali per impostare la sua politica di risanamento e l'ampiezza dei poteri conferitigli non aveva precedenti nella storia costituzionale dell'Argentina democratica.
Il 14 ottobre 2001 si tennero nuove elezioni politiche per il rinnovo di metà della Camera ed il rinnovo del Senato; per la prima volta, i senatori venivano scelti direttamente dal corpo elettorale. Una sconfitta elettorale del Governo appariva ormai scontata, vista anche l'impopolarità di De la Rua a non impegnarsi direttamente nella campagna elettorale. L'ex presidente Alfonsìn, padrino politico di De la Rua, sfidava il leader peronista Duhalde per un seggio al Senato per la provincia di Buenos Aires, basando tutta la campagna elettorale su una salata critica al Governo. Il piccolo partito di Cavallo, Acción por la República, si schierava con l'opposizione peronista.
Le elezioni videro un notevole risultato dei peronisti e del partito giustizialista, che raggiunsero il 40 per cento dei consensi contro il 20 per cento dell'Alianza democrática. Per la prima volta nella storia dell'Argentina, la maggioranza di ambedue le Camere era discorde rispetto a quella del Presidente della Repubblica. Vera protagonista delle elezioni era però la stanchezza dell'elettorato, con un'astensione pari a circa il 40 per cento: tradotto, la totale sfiducia del popolo argentino nei confronti di quella classe politica e dirigente che non aveva risolto, nonostante le crisi vere, reali, annunciate da anni, i problemi economici e sociali di quel paese.
La vittoria peronista peggiorava i rapporti tra Governo e province, le quali detengono poteri decisivi sui bilanci locali. I governatori peronisti non erano disponibili ad appoggiare le misure proposte dal Governo, di cui respinsero in novembre il piano di riordino del debito. Quando Cavallo, ormai alle strette, lanciò misure estreme di austerità e riduzione del disavanzo, introducendo infine un blocco parziale dei conti bancari, la tensione sociale salì di colpo al livello di guardia. Al decreto governativo detto «corallito» risponde una montante protesta di piazza, avanzata da un ceto medio impoverito dalla crisi economica e il fragore di questa contestazione dà voce ancor di più alla piazza, alla protesta e a quanto noi sappiamo essere avvenuto, con morti.
Il rischio paese, che era stato a quota 899 nel gennaio 2001, quando il Fondo monetario internazionale aveva autorizzato l'estensione della linea di credito, era giunto a 1035 all'arrivo di Cavallo in marzo. Era a 1300 il 1o luglio e, dopo le elezioni di ottobre, superava quota 2000. Il 5 novembre era a 2537, il 20 novembre a 3055. Il 5 novembre il Fondo monetario internazionale rifiutava una quota del prestito precedentemente accordato, sostenendo - e perché accusare il Fondo monetario sulla base di questa ricostruzione? - che il Governo non aveva attuato il programma di riforme con i tagli al bilancio pubblico. Il rischio paese sale a 4116 punti il 19 dicembre. Il giorno dopo, Cavallo si dimette.
Tra il 19 e il 20 dicembre 2001, in seguito ad estese manifestazioni popolari e di malcontento, De la Rua proclama lo stato di assedio. A seguito dei disordini insorti, si ebbero 3.200 arresti, 27 morti ed un imprecisato numero di feriti. Pressato dalla piazza, dopo il rifiuto peronista di
formare un Governo di unità nazionale, De la Rua si dimise, lasciando la Casa Rosada, residenza presidenziale a Buenos Aires, fuggendo in elicottero. Subentra a De la Rua, il Presidente del Senato Puerta.
Il 23 dicembre fu formato un nuovo Governo ed il Presidente Rodriguez Saa, peronista, fu scelto per traghettare il paese ad elezioni da tenersi a marzo. Il piano proposto da Saa che non godeva degli speciali poteri concessi a Cavallo, venne accolto con forte scetticismo. Gli argentini continuavano a formare lunghissime file davanti alle banche per ritirare dollari, in previsione della svalutazione nel peso annunciato da Saa e dall'inasprimento del blocco dei conti. Negli ultimi giorni di dicembre molte banche continuavano ad essere chiuse. Il blocco dei conti era ancora vigente. Gli argentini potevano ritirare al massimo mille pesos, circa 1.050 euro. La classe media continuava ad organizzare manifestazioni contro il grande caserolazo della notte di capodanno.
Dopo le dimissioni di Saa ed il rifiuto di Ramon Puerta, al 1o gennaio 2002 il Presidente provvisorio divenne Camaño. Mentre infuriavano scontri violenti proprio davanti alla sede della Camera dove si trovavano, faccia a faccia, un corteo peronista e uno di estrema sinistra, il Parlamento in seduta comune indicava un nuovo Presidente della Repubblica, Duhalde, lo sconfitto dell'elezione del 1999. Duhalde formava un Governo con schieramento molto ampio, chiamato a prendere misure ormai imprescindibili ed impopolari in carica fino al 2003, il termine del mandato che era stato di De la Rua. Veniva accantonata così l'opzione di elezioni anticipate.
Il 1o febbraio la Corte Suprema dell'Argentina dichiarava l'incostituzionalità del blocco per violazione degli articoli 14, 16 e 17 della Costituzione sul diritto dei cittadini alla tutela del proprio patrimonio. A seguito di tale sentenza, la Banca centrale predisponeva la chiusura delle banche per alcuni giorni, temendo l'assalto agli sportelli della popolazione argentina.
Gli anni novanta, quindi, hanno visto fasi alterne nell'economia argentina. Il decennio si aprì su una situazione di iperinflazione che proprio nel 1990 raggiunse la fase più acuta. La gestione economica degli anni ottanta aveva visto un massiccio ricorso all'indebitamento pubblico, al fine di coprire il disavanzo prodotto da una politica fiscale insufficiente a fronteggiare una spesa pubblica crescente. L'impossibilità di ricorrere ad ulteriore indebitamento per pareggiare il bilancio aveva indotto il Governo argentino all'emissione di nuova moneta, avviando, in tal modo, un processo inflazionistico di notevole portata. Dal 1975 al 1991 il tasso d'inflazione ha superato ogni anno, con la sola eccezione di due anni, il 100 per cento.
Inoltre, sebbene l'economia argentina vivesse un buon momento e il Governo godesse di entrate derivanti da un vasto programma di privatizzazione degli anni che vanno dal 1993 al 1998, il dato del debito pubblico rispetto al PIL continuava a crescere. Più che l'entità di quel dato registrato nel 1998, preoccupante era il suo tasso di aumento. Inoltre, altri elementi destavano inquietudine anche nei momenti positivi dell'economia argentina.
Le entrate fiscali si mantenevano contenute. La gran parte del gettito delle tasse provinciali sono dedicate alle spese delle province. Il debito pubblico era così gestito quasi interamente dalle tasse statali alle quali dovevano essere sottratte le somme trasferite alle province per ripianare i deficit nei bilanci locali.
Questa ricostruzione - per quanto succinta - credo che voglia dimostrare quanta responsabilità abbia la classe politica argentina, la mala gestio della politica da parte della classe dirigente argentina a cui va imputato l'effettiva e reale responsabilità del dissesto, del crac, e del default a cui faceva riferimento il collega Brugger. Dall'inizio dell'anno 2002, l'Argentina ha dichiarato la cessazione dei pagamenti del suo debito estero che è pari a 141 miliardi di dollari.
Con un'iniziativa inusuale, il ministro argentino delle finanze attuale, Lenicov, ha inviato una lettera investitori non argentini, sottoscrittori dei titoli della Repubblica
argentina. In essa, tra l'altro, si legge: desideriamo rassicurare gli investitori stranieri che hanno sottoscritto i bond argentini. L'equità e la trasparenza sono principi fondamentali che intendiamo portare avanti nel dialogo con i creditori.
Detto da un ministro argentino, dopo la ricostruzione che ho appena fatto, credo che i 350 mila investitori italiani per più di undici miliardi di euro...
MARCO BOATO. Quattordici!
GIAN PAOLO LANDI di CHIAVENNA. ... per più di quattordici miliardi di euro, debbano nutrire serie preoccupazioni. Diceva ancora Lenicov: «Stiamo concentrando gli sforzi per avviare un programma sostenibile mirato ad assicurare la solidità del sistema finanziario e ad indirizzare il paese sul cammino della stabilità economica e fiscale. Siamo consapevoli di avervi messo in gravi difficoltà, ma anche i nostri cittadini sono colpiti da enormi avversità». Qualche giorno orsono, lo stesso Duhalde ha dichiarato che la ristrutturazione del debito argentino comunque non potrà garantire la piena soddisfazione dei creditori internazionali, in particolare dei piccoli, dei piccoli creditori italiani verso i quali noi guardiamo con grande e sofferente attenzione, come il Governo sa perfettamente per alcune iniziative che questo partito, che io rappresento, ha assunto ed intende reiterare per stimolare l'attenzione del Governo nei confronti non solo del paese Argentina ma, soprattutto, dei piccoli e medi investitori italiani che sono stati vittime, e sono tuttora tali, di una situazione economica gravissima la cui responsabilità - è vero - è sì imputabile, in parte, ad organizzazioni internazionali (World Bank e Fondo monetario internazionale) ma, a nostro avviso, è prevalentemente addebitabile alle responsabilità ultradecennali di una classe politica corrotta (come credo di avere in qualche modo dimostrato).
In questa serie di avvenimenti, importanza centrale ha assunto il Fondo monetario internazionale, il cui intervento si è fatto sempre più serrato, specie partire dal 1999. Nella crisi argentina, il ruolo del Fondo assume aspetti di particolare rilievo. A differenza di molti altri casi che ne hanno visto l'intervento solo all'acuirsi di crisi economiche regionali (anche in America: basti ricordare i casi del Messico e del Brasile), in Argentina, il Fondo ha operato per molti anni anche prima dell'avvento della recessione. Si può affermare che, per tutti gli anni novanta, l'evoluzione economica del paese è avvenuta con il supporto e sotto la stretta osservazione del Fondo.
In tal senso, la situazione argentina offre un'occasione di riflessione sulle modalità di intervento della comunità internazionale attraverso il predetto ente. Da taluni tale riflessione è stata ancora più sollecitata ove si consideri che l'Argentina, attraverso la parità peso-dollaro, ha legato strettamente le proprie sorti a quelle delle politiche monetarie statunitensi (negli anni novanta, quel paese è stato a lungo considerato un allievo modello dagli economisti di Washington per la sua apertura all'investimento estero ed al programma di privatizzazione). La crisi Argentina (ed altre ancora) indicano, quindi, la necessità - questo è vero - della riforma del sistema finanziario globale, a partire proprio dalla riforma del Fondo.
Beninteso, il dibattito in ordine alla convertibilità ed all'atteggiamento del Fondo su questo tema registra anche voci discordanti. Ad altre conclusioni, rispetto ad alcune voci di importanti economisti, giungono altri orientamenti più critici. Ad esempio, vengono mosse critiche da quei commentatori i quali ricordano i meriti del piano di convertibilità, come Rudiger Dornbusch del MIT in un articolo su Il Sole 24 Ore del 3 maggio 2001. Secondo tale impostazione, la valuta forte avrebbe indotto molti benefici in termini di fiducia e di stabilità, dando, così, notevoli prospettive strategiche all'economia argentina. Il problema è, secondo tale opinione, che non è seguita una vera, importante e seria riforma fiscale, una politica degli investimenti. La svalutazione non sempre si rivela una medicina adeguata, dal momento che, in regime di mercati aperti e
globali, è difficile realizzare una svalutazione mirata. Nessuno può assicurare che una svalutazione mirata non sfugga al controllo e metta in moto una spirale inflazionistica.
Tutte le analisi conducono, quindi, in ogni caso, alla considerazione del problema centrale dell'insolvenza, che può essere affrontato solamente con una seria, anche se dura, riforma fiscale e, soprattutto, con una riconversione del quadro politico argentino che passi al di là del brutto e nefasto periodo ancora vigente della partitocrazia argentina e che porti ad un risanamento della politica. Noi ci auguriamo che alle prossime elezioni argentine possa affermarsi una coalizione che abbia a cuore le sorti del mercato nazionale ed anche degli interessi internazionali.
Sul problema della politica fiscale si sono a lungo appuntate le analisi degli esperti vicini al Fondo; molte volte essi hanno rilevato la criticità dell'organizzazione fiscale argentina che ha impedito una corretta gestione del debito. Veniva inoltre criticato il sistema di ripartizione di competenze tra Governo centrale e province che costringe i governi argentini a farsi carico di politiche di spesa locali poco responsabili, togliendo altre risorse alla gestione del debito pubblico. Anche le analisi del Fondo riconoscono di non aver fatto abbastanza per indurre i governi argentini ad adottare manovre correttive su questo versante.
Credo che in questa ottica vada letta, vista e interpretata l'attuale posizione del Fondo monetario internazionale, che non credo vorrà e potrà abbandonare al proprio destino l'Argentina, perché questo potrebbe - come si è detto molte altre volte - determinare un «effetto domino» anche su altri tipi di economie; ma non credo che sia corretto e giusto - come purtroppo ho letto nella mozione - addebitare esclusivamente le responsabilità ai sistemi dei mercati liberali, al Fondo monetario internazionale, alle grandi istituzioni internazionali.
Avrei desiderato sentire anche dall'opposizione una ferma accusa o, comunque, una serie riflessione sulle responsabilità vere ed intollerabili della classe politica argentina. Infatti, l'Argentina - lo ha già detto anche bene il collega Brugger - rappresenta uno dei paesi con la più alta rappresentanza di italiani residenti, seconda solo alla Germania e alla Svizzera. La presenza di italiani residenti è stata stimata all'anagrafe consolare in più di 570 mila unità, con un'alta concentrazione a Buenos Aires; il 31,7 per cento degli italiani proviene dalle regioni dell'Italia settentrionale, il 14,2 dal centro, il 54,1 dal sud e dalle isole.
La presenza imprenditoriale italiana in Argentina è notevole, specialmente nel settore automobilistico, che assorbe il 70 per cento degli investimenti di reti italiane in Argentina; il resto degli investimenti vede una buona presenza del settore delle telecomunicazioni - Telecom Italia detiene una quota rilevante di Telecom Argentina -, del settore dell'industria agricola, nello sfruttamento di risorse naturali. Vi è anche una forte presenza delle istituzioni bancarie nel settore finanziario - la BNL detiene una quota del Banco Sudameris Comit - ; nella realizzazione e gestione di grandi opere, la SEA gestisce 33 aeroporti argentini, compreso quello di Buenos Aires.
Il 15 gennaio 2002, il Presidente della Camera, l'onorevole Casini, si è recato a Buenos Aires per incontrare il presidente Duhalde e ha recato un messaggio di solidarietà del Presidente Ciampi. L'Italia - ha confermato Casini - appoggerà gli sforzi argentini nella ricontrattazione delle norme del debito estero. L'Argentina è stata di nuovo inserita tra i beneficiari del fondo italiano per la cooperazione allo sviluppo, ricevendo in prima battuta un aiuto di 100 milioni di euro. Il decreto-legge 16 gennaio 2002, n. 3, recante disposizioni urgenti per il potenziamento degli uffici diplomatici e consolari in argentina, convertito in legge l'8 marzo 2002 (legge n. 35), ha incrementato il personale degli uffici diplomatici, in particolare del consolato. Tale misura si è resa quindi necessaria per l'impressionante picco di richieste di passaporti. L'Italia ha inviato, in
occasione della visita del Presidente della Camera, primi aiuti, medicinali per tamponare le gravi carenze registrate negli ospedali argentini. Il 23 gennaio il viceministro delle attività produttive, Adolfo Urso, ha annunciato un pacchetto di misure destinate a favorire le imprese italiane in Argentina, proponendo una moratoria biennale alle imprese che hanno contratto debiti contratti con la Simest. Il Governo italiano si è detto deciso a favorire le attività produttive argentina, superando la logica dell'assistenza e dell'indebitamento.
A cementare il complesso dei rapporti tra Italia e Argentina, alla fine dello stesso mese di gennaio 2002, il ministro degli esteri del Governo Duhalde, Carlos Ruckauf, è venuto in Italia. A conferma della necessità di un'attenta verifica della situazione argentina da parte italiana, la Banca dei regolamenti internazionali ha reso noto il 28 gennaio il grado di esposizione delle banche italiane. Essa ha raggiunto, nel terzo trimestre 2001, la quota di 6 mila 811 milioni di dollari, seconda solamente alle quote statunitensi e spagnole. Al fine di monitorare l'emergenza economica del paese latinoamericano è stato istituito un gruppo di lavoro coordinato dall'Associazione bancaria italiana, che recentemente ha costituito anche un'agenzia unica per la raccolta delle deleghe al fine di tutelare, speriamo nel migliore dei modi, anche i risparmiatori al tavolo di quelle cosiddette trattative per la rinegoziazione del debito contratto dagli argentini nei confronti dei risparmiatori italiani (auguriamoci che questo tavolo si apra veramente).
Questo pool di esperti ha richiamato l'attenzione sul fatto che il rischio Argentina per l'Italia ha una doppia valenza dal momento che risultano esposte non solo le grandi banche e gli investitori istituzionali ma, come dicevo, anche 350 mila piccoli risparmiatori per 14 miliardi, come correttamente ricordava anche il collega Boato. Il comitato direzionale per la cooperazione allo sviluppo presso il Ministero degli affari esteri, nella seduta dell'8 febbraio 2002, ha deliberato alcuni stanziamenti per un programma di cooperazione in favore dell'Argentina. In particolare, sono stati stanziati 500 mila euro per il 2002-2003 a favore della piccola e media impresa italo-argentina per sostenere, evidentemente, i progetti importanti su cui l'Italia è fortemente impegnata.
In conclusione, signor Presidente, onorevoli colleghi, noi non crediamo che si debba affrontare il problema della crisi e del crac argentini con una angolazione tutta di carattere ideologico. Siamo convinti che vi siano responsabilità delle istituzioni internazionali ma, ancora di più, siamo convinti che vi siano gravi, gravissime responsabilità da parte della classe politica argentina che fa pagare al proprio popolo, al popolo argentino, ed agli investitori internazionali (non solo alle grandi istituzioni, come accennavo prima, ma anche al grande risparmio gestito, ai piccoli risparmiatori europei in modo particolare) un prezzo che è veramente il frutto della insipienza politica e della partitocrazia degenerata del sistema argentino.
Noi non siamo, in linea di principio, contrari ad alcune conclusioni che leggo nella mozione Brugger ed altri se venisse depurata di alcuni passaggi, il primo in particolare (quello che sostiene la moratoria del debito estero) e, se venissero in parte anche modificate alcune altre conclusioni, potremmo sicuramente guardare con una certa attenzione alla parte conclusiva di questa mozione. Personalmente, sono contrario alle premesse e quindi, qualora si addivenisse ad un voto per parti separate e vi fosse una depurazione, un miglioramento di alcune conclusioni, potremmo guardare con una certa attenzione anche ad alcune osservazioni.
Siamo, ovviamente, favorevoli alla mozione Volontè ed altri.
Concludo riaffermando che da parte di Alleanza nazionale vi è un grande, importante, fondamentale impegno per sostenere l'economia argentina e per sostenere gli italiani residenti in Argentina ai quali guardiamo con grande attenzione e solidarietà; e vi è grande attenzione anche nei confronti dei risparmiatori italiani coinvolti nel crac. Non possiamo accettare
demagogia ed ideologizzazioni su questi grandi temi. Non è colpa del mercato, non è solo colpa del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale ma, lo ripeto e lo sottolineo, la maggiore responsabilità è della classe politica argentina che merita di essere definitivamente archiviata e speriamo che ciò avvenga nelle prossime elezioni politiche in modo tale che da maggio 2003 ci si possa confrontare con gente seria, gente per bene, una classe politica non corrotta che sappia fare seriamente gli interessi del popolo che l'ha eletta.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Boato. Ne ha facoltà.
MARCO BOATO. Signor Presidente, sottosegretario Baccini, colleghi, non ho tutto il tempo che ha avuto a disposizione il collega Landi di Chiavenna, quindi, purtroppo o per fortuna, a seconda dei punti di vista, dovrò parlare molto più sinteticamente e non approfondire tutte le questioni.
Ringrazio, in primo luogo, il collega e amico Siegfried Brugger per aver preso l'iniziativa, che ho subito condiviso, di presentare, ormai qualche mese fa, questo documento di indirizzo al Governo che poi è stato firmato da decine di parlamentari di tutti gli schieramenti politici. Dunque, forse il collega Landi, da questo punto di vista, dovrebbe essere un tantino più cauto nei giudizi, perché non è stata un'iniziativa dell'opposizione ma un'iniziativa che, intenzionalmente, ha cercato la trasversalità nel Parlamento italiano per porre, al Parlamento ed al Governo, una serie di questioni che sono all'attenzione nostra, di tutta l'Europa e, ahimè, di tutto il mondo.
La situazione tragica dell'Argentina è stata inserita nella nostra mozione nel contesto del dramma - non uso il termine tragedia in questo caso - più generale che riguarda l'America latina.
La questione specifica dei risparmiatori italiani, appena richiamata con tanta passione dal collega Landi di Chiavenna, era già stata da me sollevata in Assemblea il 2 luglio scorso, con un'interpellanza presentata nel gennaio 2002. Credo che la seduta nella quale fu discussa la mia interpellanza con il sottosegretario Tanzi fosse presieduta proprio dal Vicepresidente Mussi.
PRESIDENTE. Onorevole Boato, confermo le sue parole.
MARCO BOATO. Ribadisco quindi che avevo già sollevato, in gennaio (anche se poi il Governo ha risposto alla mia interpellanza solamente il 2 luglio scorso), la questione dei 350 mila risparmiatori italiani e dei relativi investimenti complessivi, per una cifra, gigantesca, pari a 14 miliardi di euro. Avevo quindi già rappresentato al Governo ed al Parlamento, a gennaio per iscritto ed il 2 luglio nel corso dell'illustrazione e della replica alla mia interpellanza, la necessità di adottare iniziative a tale riguardo.
Con la mozione oggi in discussione abbiamo voluto evidenziare non tanto questo problema reale, che tempestivamente abbiamo sottoposto all'attenzione del Parlamento e del Governo, ma abbiamo voluto porre al centro dell'attenzione la questione complessiva dell'America latina e, in particolare, la situazione del tutto peculiare e tragica dell'Argentina. Non ho alcuna difficoltà, collega Landi di Chiavenna - e credo che in quest'aula, qualunque sia la collocazione politica, nessuno abbia tale difficoltà - nel denunciare le enormi responsabilità della classe politica argentina. I primi a farlo sono, d'altra parte, gli stessi cittadini argentini. Credo che l'Argentina abbia vissuto, nel momento massimo della crisi, prima che si giungesse all'attuale Presidenza, una situazione che non penso sia stata mai registrata in altri paesi del mondo, cioè il succedersi di tre Presidenti della Repubblica in pochissimi giorni. Ciò fa comprendere a quale livello bassissimo, anzi, direi sotto zero, fosse giunta la credibilità della classe politica e quanto drammatica sia pertanto la crisi del sistema politico-istituzionale argentino. Parlo anche di crisi istituzionale, perché in Argentina è in crisi ormai anche lo Stato di diritto, non essendovi
più alcuna certezza giuridica, non solo sotto il profilo economico e finanziario.
Da questo punto di vista non ritengo pertanto che si possa alimentare una polemica che risulterebbe del tutto priva di senso, in quanto tutti sappiamo che la bancarotta economico-finanziaria si accompagna anche ad una bancarotta politica.
Ciò che però dobbiamo cercare di comprendere, per non scaricare tutte le responsabilità della crisi su fattori interni all'Argentina e per essere più realisti del re, sono le eventuali responsabilità esistenti sul piano internazionale; ciò comporta un'analisi delle iniziative che può e che deve adottare il nostro paese - da tali considerazioni nasce la nostra mozione - in un contesto europeo e di partecipazione degli istituti finanziari internazionali, quali il Fondo monetario internazionale e la stessa Banca mondiale.
Quando discussi il 2 luglio la mia interpellanza non sapevo, lo scoprii il giorno seguente, che proprio il 1o luglio era giunta in Argentina una delegazione dell'altro ramo del Parlamento composta da colleghi senatori di tutti i gruppi parlamentari delle commissioni esteri, lavoro, industria e ambiente, tra i quali anche il verde Martone. Nel bollettino del 24 e del 30 luglio della Commissione Affari esteri del Senato - mi sembra che nella prima seduta fosse presente proprio il sottosegretario Baccini - si può trovare una relazione molto dettagliata e documentata di quella visita, dalla quale emergono non solo i problemi legati alla crisi politica interna, che sono stati in questa sede evocati e che è giusto sottolineare, ma anche quelli di livello internazionale.
Non credo che sia un esponente dell'opposizione di centrosinistra il premio Nobel per l'economia Joseph Stiglitz, e perciò vorrei rimandare all'articolo uscito il 16 settembre sulla pagina del Corriere Economia intitolato «Argentina, le colpe delle banche estere e del Fondo monetario internazionale». In esso, lo Stiglitz, oltre ad alcune critiche, avanza anche alcune proposte le quali, formulate non solo sotto il profilo degli aiuti, partono da una diagnosi delle possibilità di ripresa dell'economia argentina meno tragiche di quelle che a volte appaiono (anche essendo tragica la situazione) e sottolineano la necessità del superamento, nel commercio, del protezionismo da parte dell'Unione europea e degli Stati Uniti d'America. Infatti, la possibilità per l'Argentina di commerciare liberamente con tali continenti risolverebbe molti problemi.
Al riguardo, proprio per la terzietà che caratterizza sempre i nostri uffici, vorrei citare due dossier predisposti dal Senato: il dossier n. 170, sulla crisi economica e finanziaria dell'Argentina, e il dossier n. 209, predisposto proprio in occasione della visita della delegazione che ho citato e pubblicato all'inizio di luglio. È tutto di grandissimo interesse, ma, dovendo concludere, vorrei leggere soltanto una parte specifica, che il collega Landi di Chiavenna potrà analizzare con attenzione.
Alla pagina n. 36 si scrive che il direttore generale del Fondo monetario internazionale (quindi, non un esponente dell'opposizione di centrosinistra), Horst Köhler, ha parlato esplicitamente, in un'intervista al quotidiano Le Monde del 22 gennaio 2002, del fallimento del Fondo nella crisi argentina. Come scrive il servizio studi del Senato operando una sintesi, egli ha ammesso una scarsa attenzione alle dinamiche sociali del paese, ribadendo comunque che le uniche prospettive dell'Argentina sono legate a drastiche misure di risanamento, anche impopolari (purtroppo, anche noi abbiamo vissuto, sia pure in misura minore, ad esempio, l'esperienza del 1993 e quelle successive). Tali affermazioni riecheggiavano, in parte, alcune critiche di autorevoli commentatori europei e statunitensi e, tra questi, spiccava il premio Nobel per l'economia del 2001 Joseph Stiglitz. L'insigne economista ha sottolineato, in un articolo del 9 gennaio 2002 pubblicato su Handelsblatt (che, se non ricordo male, è un quotidiano di Amburgo), che un primo errore del Fondo monetario sarebbe stato quello di aver sostenuto l'introduzione della parità fra peso e dollaro, una mossa che - come già
ricordato - avrebbe avuto il merito di combattere l'inflazione, ma che non avrebbe stimolato un processo di crescita sostenuta e duratura. Secondo Stiglitz, il Fondo avrebbe dovuto consigliare all'Argentina un rapporto di cambio più flessibile, che tenesse conto della struttura commerciale del paese. Un secondo errore del Fondo monetario internazionale, sempre a giudizio di Stiglitz, sarebbe stato quello di aver permesso che buona parte del sistema bancario argentino finisse in mani straniere (questo è un tema che riprenderà sei mesi dopo sul Corriere Economia nell'articolo citato). Ciò avrebbe comportato che, nell'erogazione del credito, siano risultate penalizzate le piccole e medie aziende e che il potenziale di crescita del paese non sia stato, quindi, sfruttato in pieno. Infine, un terzo ed ultimo errore, che Stiglitz definisce addirittura fatale, è quello di aver sostenuto in un periodo di crisi una politica finanziaria restrittiva. È lo stesso errore che il Fondo monetario internazionale ha compiuto in Asia e le conseguenze sono state altrettanto fatali. Il Fondo monetario internazionale farà tutto il possibile per addossare ad altri la colpa - ha concluso Stiglitz - ma la crisi argentina ha dimostrato che il sistema finanziario globale deve essere riformato e che bisogna iniziare proprio con una riforma radicale del Fondo monetario internazionale.
Queste affermazioni nulla tolgono alla verità della débâcle della classe politica Argentina. Infatti, ad esempio, nella prima metà degli anni novanta la situazione economico-finanziaria in Argentina era molto diversa.
Tuttavia, collega Landi di Chiavenna, al di là che lei abbia o meno firmato la mozione (mi sembrava di aver visto anche la sua firma), ritengo sia assolutamente sbagliato immaginare che le questioni poste pacatamente e costruttivamente al nostro Governo siano basate su una strumentalità ideologica. Credo che ciò che ho letto nel dossier del servizio studi del Senato con riferimento ad una citazione del direttore del Fondo monetario internazionale autocritica e ciò che ha scritto più volte il premio Nobel per l'economia dell'anno scorso, Joseph Stiglitz, dimostrino la fondatezza delle osservazioni svolte. Dopodiché, in vista del voto di domani, si potrà benissimo - credo che il collega Brugger sia disponibile - predisporre una risoluzione unitaria che in qualche modo trovi punti più ampi di convergenza. Tuttavia, credo sia fondamentale partire dai dati della realtà che sono interni, ma anche internazionali (Applausi del deputato Brugger).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Benvenuto. Ne ha facoltà.
GIORGIO BENVENUTO. Signor Presidente, ci troviamo di fronte ad una crisi del sistema finanziario a livello mondiale, caratterizzata da una speculazione che ormai sfugge ad ogni controllo. Come viene ricordato nella mozione Brugger ed altri n. 1-00066, la bolla speculativa è di 400 mila miliardi di dollari, dieci volte di più del PIL che viene prodotto nel mondo.
Questa crisi del sistema finanziario ha avuto una sua particolare eco negli ultimi anni in Asia, nella crisi del sistema bancario giapponese, in Russia, in America latina e ha assunto una particolare e caratteristica virulenza in Argentina. Tale crisi, che non si riesce a governare e controllare, crea grandi problemi per i risparmiatori, per i cittadini dei diversi paesi e per i fondi pensione.
La mozione dell'onorevole Brugger parte da questa considerazione, si sofferma sulla crisi argentina ed individua soluzioni che tengano conto sia dei problemi dell'Argentina, sia di una necessaria riflessione che dobbiamo svolgere. Il Governo italiano, ed anche l'Unione europea, devono cercare soluzioni riflettendo non solo sugli errori, sulle ruberie e sulla corruzione di determinati sistemi politici, ma anche sul comportamento degli organismi internazionali, in particolare del Fondo monetario internazionale.
Brugger parla dell'Argentina, terra a cui siamo particolarmente legati. Vi è un legame straordinario tra il nostro paese e l'Argentina, voglio ricordarlo non in maniera
retorica. Vorrei ricordare che a Buenos Aires, vicino al consolato, vi è la sede della società di mutuo soccorso, fratellanza e benevolenza che aveva riunito tutti i rappresentanti dei diversi Stati dell'allora Italia divisa e parlava di Italia ancor prima della proclamazione dell'unità d'Italia del 17 marzo 1861. Vorrei ricordare anche l'appoggio che il nostro paese di fronte alla tragedia, alla dittatura, ed al drammatico fatto dei desaparecidos ha dato alle madri della Plaza de Mayo.
Questo legame di cui abbiamo parlato è alla base della mozione presentata dall'onorevole Brugger e viene anche testimoniato dal fatto che i risparmiatori italiani, insieme agli spagnoli, sono quelli che più di tutti hanno concorso ad investire il loro risparmio nell'Argentina. È stato ricordato che vi sono 350 mila risparmiatori italiani che hanno investito 14 miliardi di euro: ciò richiede una maggiore attenzione da parte del Governo. Infatti, dopo una grande fatica e molte risoluzioni adottate, solo in questi giorni l'ABI ha intrapreso un'iniziativa per cercare di informare tali risparmiatori.
Detto questo, ritornando alla mozione vorrei esprimere posizioni più approfondite, se mi si consente, di quelle espresse dell'onorevole Landi di Chiavenna. Prendo spunto da una serie di riflessioni e documentazioni di cui ha parlato l'onorevole Boato poco fa. Riferendomi anche ad un interessante saggio di Fabio Boscherini vorrei dire qualcosa di più su quanto avvenuto in Argentina. Infatti, non vi sono dubbi sulle responsabilità gravissime della classe politica argentina, ma bisogna dire qualcosa di più. Se si vuole trovare una soluzione bisogna avere una valutazione più ampia, altrimenti non siamo in grado di costruire proposte e, allora sì, abbiamo un approccio ideologico e propagandistico senza renderci conto che il problema richiede soluzioni a livello internazionale.
Vorrei allora ricordare che ci troviamo di fronte ad una situazione che è stata affrontata negli anni novanta, all'inizio con dei risultati positivi, ma alla fine con una drammatica conclusione di quelle riforme economiche che erano state individuate all'inizio del 1991, dopo decenni di instabilità, di incertezza e di inflazione galoppante. Fu adottata la cosiddetta legge di convertibilidad, che si basava su un cambio fisso della moneta argentina con il dollaro (1 ad 1) e poi tutta una serie di provvedimenti, ispirati al consenso di Washington, che si basavano su una limitazione dell'intervento dello Stato e su di un'apertura immediata e generalizzata dell'economia con un esteso e completo programma di privatizzazione.
Questa politica - ed è al riguardo che dobbiamo svolgere la nostra riflessione, anche perché vedo che le proposte contenute nella mozione di Brugger vanno in questo senso -, all'inizio, ha ridotto l'inflazione: nel 1994 al 3,9 per cento; nel 1995 all'1,6 per cento; nel 1996 allo 0,1 per cento. Ha determinato inoltre un aumento del PIL: il 10,6 per cento nel 1991, il 9,6 per cento nel 1992; poi dal 1993 al 1998 un aumento annuo del PIL del 5 per cento, con la sola eccezione del 1995. Ma se questo è stato l'avvio, vi è stato poi un rovescio della medaglia, perché il meccanismo adottato, cioè questa politica economica scelta a seguito della pressione del Fondo monetario internazionale, ha portato il sistema argentino ad una dipendenza del proprio modello dalle entrate di capitali e quindi ad un forte indebitamento verso l'estero.
Vi è stata, quindi, un'esplosione di tale indebitamento verso l'estero: 70 miliardi di dollari nel 1991, che sono diventati 140 miliardi nel 2001 (e questa esplosione del debito estero è avvenuta, nonostante siano state vendute tutte le imprese nazionali). Non si è riusciti con tale esplosione del debito estero a controllare il deficit fiscale e si è dovuti così ricorrere ad un maggior indebitamento, con delle continue emissioni di titoli, che tra il 1993 e il 1995 equivalevano ad una media annuale di 5-6 miliardi di dollari; poi le emissioni di titoli sono diventate, nel periodo 1997-2000, 13-14 miliardi di dollari annuali.
Con questa politica - e quindi con le responsabilità dei governanti argentini - vi è stata una fortissima accentuazione della fuga dei capitali all'estero e oggi infatti si
trovano all'estero 127 miliardi di dollari, dei quali 73 miliardi sono usciti a partire dal 1991.
Questo processo di progressivo indebitamento ha sottratto risorse al paese e ha determinato tagli nella spesa pubblica, accompagnati da una forte riduzione del gettito fiscale. Il processo di privatizzazione, che si è voluto generalizzato, ha impoverito il paese, perché è stato realizzato senza regole e con criteri fortemente pregiudiziali per l'Argentina, con il continuo espatrio degli utili prodotti dalle ex imprese pubbliche, ora di proprietà di società estere. Si è sviluppata un'intensa deindustrializzazione dell'economia, con una contemporanea crescita della disoccupazione: è passata da 7 per cento del 1992 al 20 per cento del 2001.
Questa - lo dico all'onorevole Landi di Chiavenna - non è ideologia, è realtà. Infatti, i processi di privatizzazione, quando vengono svolti senza regole e al di fuori di una politica di carattere più generale, inevitabilmente finiscono per mettere in moto processi non virtuosi.
Quindi, lo scoppio di questa crisi in Argentina è avvenuto per ragioni finanziarie e per ragioni industriali. Voglio ricordare che, per ragioni finanziarie, nel 2001, l'Argentina non era più in grado di far fronte alle proprie scadenze, in quanto doveva pagare, in conto capitale e in conto interessi, 26 miliardi, avendone a disposizione solo 5. Inoltre, in quel periodo, per attrarre i creditori, prevedeva interessi per prestiti in dollari fino al 16 per cento. Da ciò derivava una crisi di carattere finanziario, in quanto era difficile rinegoziare il debito; infatti, a differenza degli anni '80 quando il debito estero argentino faceva capo a un gruppo ristretto di banche commerciali straniere, nel 2001 - ed è problema che abbiamo anche noi -, questo debito estero è detenuto da una miriade di istituzioni finanziarie e di piccoli risparmiatori.
Dunque, al di là delle critiche, dov'è la responsabilità? La responsabilità sta nel fatto che per coprire il debito occorreva affrontare il problema di un aumento della competitività del sistema. Infatti, se si vuol far fronte ad un debito, il sistema deve essere competitivo.
Ecco, quindi, il problema della politica del Fondo monetario internazionale. Non è possibile coprire il debito se si avvia un processo di deindustrializzazione, che ha ricevuto una forte spinta dalle politiche macroeconomiche adottate a partire dal 1991. Voglio ricordare che la deindustrializzazione in Argentina è stata progressiva: nel 1969, il settore industriale incideva sul PIL per il 28 per cento; nel 1990, per il 23 per cento; nel 2001, solo per il 16 per cento. Questo è il processo che ha contribuito, in modo rilevante, ad impoverire e ad annullare le potenzialità del paese in termini di capacità di crescita sostenibile nel medio e lungo periodo.
Dunque, vi è la responsabilità dei governanti, vi è la corruzione che si è determinata, vi è la fuga dei capitali all'estero, e vi è la privatizzazione, ma commetteremmo un gravissimo errore se non ci ponessimo anche il problema di una responsabilità e di errori commessi dalle istituzioni internazionali. Il Fondo monetario internazionale ha appoggiato quelle politiche e, ricordo, definiva l'Argentina come il suo miglior allievo.
Quindi, ritengo che il Fondo monetario internazionale debba rivedere la concezione di un modello di sviluppo e di apertura economica: si dovrebbe promuovere e sviluppare la crescita con gli interventi di politica finanziaria, si dovrebbe promuovere e sviluppare la crescita e il consolidamento sistema industriale dei paesi in via di sviluppo, in un'ottica di accrescimento della competitività del paese nel suo complesso. Insomma, occorre evitare il fallimento dei processi di apertura unilaterale, che non sono coordinati mentre dovevano esserlo, nell'ambito di una possibile integrazione regionale.
Nella mozione Brugger ed altri n. 1-00066, giustamente, si evidenzia che questa integrazione regionale in Argentina era possibile; infatti, ci si riferisce al Mercosur in un ambito di politica internazionale che deve essere caratterizzato da un gradualismo
che permetta i necessari aggiustamenti ai soggetti o alle aree più deboli, come quelle oggi in discussione.
Si evidenzia, quindi, l'impossibilità di stimolare la crescita e la governabilità dei processi di sviluppo senza la presenza di un adeguato settore industriale.
A questo proposito, vorrei anche ricordare che le istituzioni a livello internazionale e il Fondo monetario internazionale dovrebbero riferirsi all'approccio scelto dall'Unione europea nell'attuazione dei processi di apertura, che sono basati sul gradualismo e sulla concertazione tra partner.
Dunque, ho voluto ricordare questi aspetti per dire che la mozione Brugger ed altri n. 1-00066, nel sollevare tali questioni, avanza richieste al Governo. Cosa si chiede al Governo? Si chiede di affrontare, in particolare per quanto riguarda l'Argentina, il problema di una moratoria sul debito estero; di sostenere, con la partecipazione diretta, i progetti di rilancio degli investimenti e, soprattutto, di portare l'impegno nelle istituzioni dell'Unione europea, in modo che il sostegno italiana possa - come dire - muoversi in una logica europea.
Inoltre, la mozione coglie l'occasione per avanzare un'altra richiesta. Penso si tratti di un aspetto che non può essere sottovalutato e che è evidente di fronte al crescendo di crisi e di problemi cui stiamo assistendo: si chiede di avanzare, a livello internazionale, in tutte le sedi, una richiesta di approfondimento, di revisione e di riflessione sul ruolo e sulle politiche del Fondo monetario internazionale. Ho voluto ricordare come alcuni errori e la limitatezza di alcuni interventi abbiano facilitato il determinarsi della situazione ed abbiano rappresentato un male piuttosto che una cura.
La mozione chiede anche al Governo di prendere l'iniziativa, proponendo la convocazione di una conferenza di Capi di Stato a livello internazionale - ci si richiama alla grande importanza assunta nel 1944 dal sistema di Bretton Woods - per fondare un nuovo sistema monetario internazionale e per prendere le misure necessarie ad eliminare, a controllare e a governare i meccanismi che hanno portato alla creazione della bolla speculativa e al crac finanziario che stiamo vivendo in questi giorni (Applausi).
PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni.
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