XIV LEGISLATURA

PROGETTO DI LEGGE - N. 2567




        Onorevoli Colleghi! - La presente proposta di legge - senza mettere in discussione la scelta antinucleare operata 15 anni fa dal nostro Paese - intende tuttavia rimuovere un anacronistico ostacolo all'attività dell'ENEL sul mercato internazionale.
        La politica energetica europea si trova oggi di fronte a sfide che segneranno il futuro dell'intero continente, tanto sul piano dei rapporti economici internazionali, quanto su quello delle politiche ambientali. E' infatti del tutto matura la consapevolezza delle crescenti difficoltà di approvvigionamento: oggi l'Unione europea importa la metà del suo fabbisogno, ma con gli attuali ritmi di crescita, nel giro di 30 anni le importazioni rischiano di salire al 70 per cento del fabbisogno complessivo, con un tasso di dipendenza del 70 per cento per il gas e del 90 per cento per il petrolio.
        L'allargamento non cambierà, ma al contrario accentuerà, questa tendenza. Infatti, a parte le riserve di gas e petrolio del Mare del Nord, in gran parte già in via di esaurimento, la Unione europea anche nella sua composizione allargata dispone solo di risorse carbonifere.
        Già il Libro verde della Commissione europea del novembre 2000 aveva denunciato il continuo aumento della dipendenza energetica dell'Unione dall'esterno ed evidenziato i rischi economici, sociali, ecologici e fisici di questa dipendenza. In termini geopolitici, infatti, il 45 cento delle importazioni di petrolio proviene dal Medio Oriente e il 40 per cento delle importazioni di gas naturale dalla Russia: si tratta - in particolar modo nel primo caso - di aree a rischio. Tutto ciò in uno scenario in cui l'Unione europea non dispone di mezzi efficaci per influenzare i mercato internazionale.
        Questi dati appaiono purtroppo incontestabili e la stessa speranza nell'impiego delle energie rinnovabili - com'è noto - non può rappresentare che una risposta molto parziale ai problemi di approvvigionamento: secondo le stime più ottimistiche, fra 20 anni, non più del 10 per cento del fabbisogno complessivo potrà essere coperto da fonti rinnovabili. Fra l'altro - come dimostra ad esempio la recente vicenda delle centrali eoliche in Belgio - anche l'installazione di impianti di grandi dimensioni per la produzione di energia da fonti rinnovabili non sempre viene accolta favorevolmente dalle popolazioni interessate e dai movimenti ambientalisti.
        E' giustificata, quindi, la preoccupazione diffusa nei Paesi dell'Unione europea ed espressa, anche di recente, dal Commissario per l'energia e i trasporti Loyola de Palacio durante gli incontri tenuti in Italia nel marzo scorso con i Ministri delle attività produttive e delle infrastrutture e dei trasporti.
        Anche in campo ambientale ci troviamo di fronte ad una fase completamente nuova. Negli anni più recenti, l'intera comunità internazionale ha dovuto prendere atto della pericolosità - per lo stesso futuro dei pianeta, quanto meno volendo rispettare un cauto principio di precauzione - delle emissioni di gas serra e l'Unione europea ha assunto un ruolo centrale nel negoziato internazionale per la ratifica del Protocollo di Kyoto. Questo ruolo, dopo l'abbandono del negoziato da parte degli Stati Uniti - che pure non contestano la validità dell'obiettivo, ma solo i mezzi per raggiungerlo - si è trasformato in una vera e propria leadership mondiale del negoziato.
        I Paesi europei si impegneranno presto, con la ratifica del Protocollo di Kyoto, a una drastica riduzione - entro il 2012 - delle emissioni di CO2, pari complessivamente all'8 per cento rispetto al livello di emissioni raggiunto nel 1990. Tale impegno - anche se non accompagnato, per ora, da un sistema stringente di sanzioni, che comunque dovrebbero tenere presenti i diversi livelli di partenza dei vari Stati nel campo delle emissioni da ridurre - pone i singoli Paesi europei e l'Unione europea dinanzi ad una responsabilità politica di grande rilievo internazionale, sia per il ruolo avuto dall'Unione europea nel difficile negoziato, sia per il forte livello di sensibilizzazione dell'opinione pubblica europea sui problemi dell'inquinamento atmosferico e delle variazioni climatiche.
        Da queste mutate condizioni sui due versanti, energetico ed ambientale, deriva la ripresa della riflessione sul nucleare - energia la cui produzione non determina, come è noto, emissioni di CO2 - e sulla possibilità di conseguire, proprio attraverso un maggior ricorso al nucleare, gli obiettivi imposti dal Protocollo di Kyoto. Questo elemento, fra l'altro, mette in evidenza una forte contraddizione interna a certi settori dell'ambientalismo che non possono presentarsi come i paladini del Protocollo di Kyoto e, al tempo stesso, mantenere il ruolo tradizionale di inflessibili oppositori di ogni opzione nucleare.
        Fuori dall'Europa, vi sono oramai chiari segnali di un diffuso interesse verso nuovi investimenti nucleari. Non solo in Cina o in Giappone, ma anche negli stessi Stati Uniti, dove una riconsiderazione dell'opzione antinucleare sembra oggi tutt'altro che impossibile. E' noto che un'apposita commissione presieduta dal vicepresidente Cheney sta prendendo in considerazione l'atomo, alla pari delle altre fonti tecnicamente possibili per risolvere i problemi pressanti di approvvigionamento e allo stesso tempo per dare una risposta credibile all'opinione pubblica mondiale sul problema delle emissioni di CO2 e delle variazioni climatiche.
        In Europa, il nucleare attualmente copre il 14 per cento della domanda di energia e il 35 per cento di quella di elettricità. Ciò fa risparmiare all'Unione europea 312 milioni di tonnellate all'anno di emissioni di CO2, cioè il 7 per cento del totale delle emissioni di gas a effetto serra negli stessi Paesi. La Commissione europea stima che il semplice mantenimento dell'attuale quota di energia nucleare nella produzione di elettricità manterrebbe le emissioni di CO2 sui livelli del 1990, ma richiederebbe la costruzione entro il 2005 di 100 gigawatt elettrici, circa 70 reattori, per sostituire quelli che raggiungono la fine del ciclo di vita e coprire l'aumento della domanda. Limitarsi a mantenere aperte le centrali esistenti per la durata di vita normale, che è di 40 anni, senza costruirne di nuove, significherebbe mancare del 4 per cento l'obiettivo previsto dal Protocollo di Kyoto. Se le centrali nucleari esistenti, invece, fossero progressivamente chiuse e sostituite con altre elettriche convenzionali diventerebbe del tutto impossibile raggiungere gli obiettivi di Kyoto.
        Il dibattito sull'opzione nucleare è stato, dunque, riaperto anche nel nostro continente e nei prossimi anni costituirà sicuramente uno dei temi di maggiore impatto strategico. Si va infatti chiarendo come l'energia nucleare rappresenterebbe - sul piano della lotta all'inquinamento e su quello della riduzione dei costi, nonché dell'indipendenza dalle aree geopoliticamente più critiche - la soluzione da privilegiare. Inoltre, l'evoluzione tecnologica riesce ormai a garantire livelli di sicurezza impensabili ancora dieci anni fa.
        Permangono, tuttavia, altri aspetti - non sottovalutabili - che impongono una grande prudenza: in primo luogo, il problema dello smaltimento delle scorie; in secondo luogo, la vulnerabilità degli impianti nucleari rispetto ad attacchi terroristici, messa in luce tragicamente dagli attentati dell'11 settembre e dalle minacce terroristiche che tuttora continuano a manifestarsi. Infine, occorre considerare che le installazioni nucleari - sia sul piano sociale e tecnologico, sia sul piano economico - richiedono un controllo centralizzato dei numerosi fattori in gioco e prediligono assetti monopolistici del mercato energetico. Non è un caso che tale opzione sia oggi privilegiata in Paesi come l'Iran o la Cina e che fra i Paesi europei il più nuclearizzato sia la Francia, in cui prevale ancora un assetto monopolistico del mercato energetico.
        Il dibattito sul nucleare in Europa è condizionato, fra l'altro, dal fatto che i Paesi dell'Unione europea non hanno una situazione confrontabile in questo campo.
        Si va - come detto - dalla Francia, che per quasi l'80 per cento del proprio fabbisogno elettrico ricorre all'energia nucleare e che è fortemente interessata alla produzione di reattori di nuova generazione, a Paesi come la Germania, che hanno deciso di abbandonare il nucleare, ma procedono in modo graduale allo smantellamento delle centrali esistenti in modo da compensare i costi della rinuncia a questa fonte di energia; fino alla Svezia, che pure sin dal 1980 aveva deciso l'abbandono del nucleare, ma che continua ad approvvigionarsi per quasi il 50 per cento da tale fonte, avendo chiuso negli ultimi 22 anni solo una delle sue 10 centrali. Senza contare, infine, la Finlandia il cui Governo di centro-sinistra ha approvato di recente la realizzazione della quinta centrale nucleare localizzata nel paese. A seguito di questa decisione il partito dei Verdi è uscito dal Governo.
        In Italia, com'è noto, i tre referendum del novembre del 1987 hanno determinato un indirizzo che ha escluso la prosecuzione di ogni programma nucleare nel nostro Paese. Delle 4 centrali elettronucleari che erano state realizzate a partire dalla fine degli anni 1950, Latina, Trino Vercellese, Caorso e Garigliano, quest'ultima fu fermata per modifiche nel 1978 e non più riavviata e le altre 3 furono fermate, in successione, a partire dal 1988 a seguito del referendum. In conseguenza di quella scelta, che pure aveva alla base legittime preoccupazioni di carattere ambientale anche a seguito del grave incidente di Cernobyl in Ucraina, abbiamo dovuto sostenere costi economici altissimi, che - nella parte tradottasi direttamente in aggravi tariffari - pesano ancora oggi sui consumatori. L'Italia ha dovuto affrontare i costi dello smaltimento delle scorie (senza peraltro ancora pervenire alla creazione di quel deposito nazionale, sempre più urgente, che consentirebbe uno smaltimento in condizioni di effettiva sicurezza), continuando però ad importare energia dalle centrali nucleari francesi poste a pochi chilometri dal nostro confine.
        Ma la presente proposta di legge non intende in alcun modo riaprire una questione, quella della presenza di centrali nucleari nel nostro Paese, che - come affermato di recente anche dai Ministri dell'ambiente e della tutela del territorio e delle attività produttive - deve ritenersi chiusa.
        Il problema deve oggi essere posto, invece, fuori dagli schematismi ideologici, in termini completamente nuovi. Infatti, non vi è dubbio che, qualunque sia l'indirizzo che l'Unione europea e i singoli Paesi europei, a seguito della firma del Protocollo di Kyoto, assumeranno sulle prospettive dell'approvvigionamento energetico, quella nucleare sarà una tecnologia verso cui si indirizzeranno cospicui investimenti nel prossimo futuro: in primo luogo in correlazione all'allargamento della stessa Unione europea. Secondo un recente studio dell'Istituto di ecologia di Vienna, oggi le centrali nucleari più pericolose si trovano, infatti, in Russia e nei Paesi dell'Est, in primo luogo in Bulgaria ed Armenia.
        La produzione di energia nucleare continuerà a detenere un posto importante nel paesaggio energetico di almeno sei Paesi candidati. Infatti, ben sette dei tredici Paesi candidati hanno centrali in attività o in costruzione. Tre di essi (Bulgaria, Lituania e Slovacchia) hanno avviato lo smantellamento delle unità considerate non ammodernabili ad un costo ragionevole. La Commissione quindi partecipa, da un lato, all'attuazione degli impegni di chiusura, ma partecipa anche attivamente ad altre attività attinenti alla sicurezza nucleare, e soprattutto all'ammodernamento delle centrali esistenti.
        Molti reattori nucleari di progettazione sovietica o occidentale possono essere ammodernati sulla base di norme di sicurezza accettabili.
        Fra le più importanti: le unità 5 e 6 della centrale di Kozloduy in Bulgaria; le unità 1 (in attività) e 2 (in costruzione) della centrale di Cernavoda in Romania; due unità a Bohunice e due altre unità alla centrale di Mochovce in Slovacchia; la centrale di Krsko in Slovenia (gestita congiuntamente da Slovenia e Croazia); quattro unità a Paks in Ungheria; quattro unità alla centrale di Dukovany e una unità a Temelin nella Repubblica ceca, entrambe oggi in via di privatizzazione con gara a cui potrebbe partecipare anche l'ENEL in joint venture con la spagnola Endesa. In qust'ultimo caso, qualora ENEL ed Endesa si aggiudicassero la privatizzazione, potrebbe ipotizzarsi anche una importazione in Italia di energia elettrica di origine nucleare attraverso un opportuno adattamento del sistema europeo degli impianti di trasmissione.
        Per questi interventi - in prosecuzione dei programmi Phare e TACIS - la Commissione europea ha stanziato ingenti risorse.
        Ebbene, la normativa vigente, come modificata da uno dei tre referendum del 1987, impedisce oggi all'ENEL di partecipare ad attività nucleari all'estero. In seguito alla approvazione del terzo dei quesiti abrogativi del 1987 - del tutto irrilevante ai fini della sicurezza del nostro territorio - l'Ente nazionale per l'energia elettrica, allora sotto il pieno controllo dello Stato ed unico ente elettrico italiano, dovette interrompere tutte le proprie attività nel settore e rinunciare alla sua partecipazione nell'impianto elettronucleare francese Super-Phoenix, in quanto privata della facoltà di promuovere la costituzione di società con compagnie o enti stranieri o di assumervi partecipazioni al fine di realizzare o gestire impianti elettronucleari. Tutto ciò non mancò di avere effetti negativi, anche occupazionali, sull'intera industria elettronucleare italiana, che da allora di fatto fu praticamente smantellata.
        Uno dei tre referendum sul nucleare abrogò infatti una parte dell'articolo unico della legge 18 dicembre 1973, n. 865 che - sostituendo l'articolo 1, comma settimo, della legge 6 dicembre 1962, n. 1643 - aveva abilitato l'ENEL alla realizzazione e all'esercizio di impianti elettronucleari.
        Successivamente, l'articolo 34 della legge 9 gennaio 1991, n. 9 (Norme per l'attuazione del nuovo Piano energetico nazionale: aspetti istituzionali, centrali idroelettriche ed elettrodotti, idrocarburi e geotermia, autoproduzione e disposizioni fiscali), sostituì nuovamente il comma settimo dell'articolo 1 della legge n. 1643, ma non dispose la cessazione di quel divieto che conseguiva dall'esito del referendum.
        Oggi riteniamo che siano maturi i tempi per una revisione di quella decisione.
        Essa non trova più riscontro in una realtà in cui l'opzione del nostro Paese contro la scelta di installare centrali nucleari sul territorio nazionale è ormai consolidata ed esistono - fra l'altro - forti ragioni economiche che ne renderebbero irrealistica la messa in discussione. D'altro canto, come dimostrato anche dal vivace dibattito europeo, le tecnologie e gli investimenti per un nucleare sicuro sono destinati ad avere una importanza crescente. Occorre quindi evitare che le aziende italiane, fra le quali l'ENEL - oggi trasformata in società per azioni quotata in borsa e in via di crescente privatizzazione - rimangano tagliate fuori da un settore che vede invece un crescente interesse da parte dei competitori esteri. Effetti positivi di tale nuovo orientamento potrebbero aversi sia sull'approvvigionamento energetico, come detto attraverso il sistema degli elettrodotti europei, sia sull'industria impiantistica italiana, sia sulla stessa ricerca tecnologica.
        Se le grandi aziende europee ed italiane operanti nel settore energetico (e fra queste l'ENEL concentrata soprattutto nel suo core business), costrette dalla Unione europea ad abbandonare sempre più i loro privilegi monopolistici all'interno del mercato nazionale, stanno iniziando ad operare sul mercato internazionale con intelligente dinamismo, allora occorre che anche la politica nazionale faccia la sua parte, ammodernando il quadro normativo in cui si svolge la competizione economica e rimuovendo ostacoli che non hanno più alcuna ragion d'essere.




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