XIV LEGISLATURA
PROGETTO DI LEGGE - N. 679
Onorevoli Colleghi! - Dopo più di venti anni dalla data
di entrata in vigore della legge 22 maggio 1978, n. 194, il
problema dell'aborto può oggi essere affrontato in modo nuovo.
Questo ventennio ha portato nuove consapevolezze. La prima
consapevolezza affiora chiaramente dalla lettura di un libro
"Ma questo è un figlio" pubblicato alla fine degli anni
novanta dall'editore Gribaudi e curato dal professor Giuseppe
Garrone, responsabile del numero verde Sos Vita del Movimento
per la vita. La pubblicazione raccoglie molte testimonianze
autentiche di donne che hanno attraversato la drammatica
esperienza dell'aborto e che, in seguito, hanno ripensato alla
propria scelta e l'hanno rivissuta in maniera critica. Dopo
aver fatto esperienza della disperazione, che le ha spinte ad
abortire, queste donne riescono a comunicare un messaggio di
speranza. E' opportuno leggere queste testimonianze, anche per
evitare di cadere nell'ipocrisia di chi è sempre pronto a
giudicare senza l'umiltà di ascoltare e di comprendere.
Da queste testimonianze affiora una verità: la scelta di
abortire porta sempre conseguenze drammatiche, non solo per il
concepito, ma anche per la donna e, in qualche modo, anche per
il padre. Conseguenze che lasciano tracce indelebili sulle
persone coinvolte. Non è un caso che si parli di donne
"vittime dell'aborto". Domanda: la legge n. 194 del 1978 ha
avuto come obiettivo prioritario la tutela del benessere della
donna e del concepito? La sua applicazione concreta è andata
in questa direzione? O l'obiettivo era innanzitutto la difesa
di una astratta autodeterminazione accompagnata dal rifiuto
dell'aborto clandestino?
L'applicazione concreta della legge n. 194 del 1978
dimostra che, purtroppo, il dramma del concepito e della donna
che abortisce non è stato ben tenuto in conto. Inoltre sono
sostanzialmente falliti gli obiettivi declamati dai relatori
della stessa legge. Nel volume La legge sull'aborto,
edito nel 1978 da Editori Riuniti, Giovanni Berlinguer, uno
dei relatori alla Camera dei deputati della legge n. 194 del
1978, scrive che la legge "si propone di azzerare gli aborti
terapeutici; di ridurre gli aborti spontanei; di assistere
quelli clandestini. Si propone inoltre di favorire la
procreazione cosciente, di aiutare la maternità, di tutelare
la vita umana dal suo inizio".
Nella realtà il conseguimento di questi obiettivi è nella
sostanza fallito: il ricorso all'interruzione volontaria di
gravidanza è uno strumento di controllo delle nascite, un
metodo drammatico di contraccezione. Primo dato: in Italia,
come emerge dalla relazione del Ministro della sanità relativa
all'attuazione della legge n. 194 nel 1978, relativa agli anni
novanta, risultano essere stati eseguiti 139.607 interventi di
interruzione volontaria della gravidanza nelle strutture
autorizzate. Questo significa che, mediamente, c'è stato un
aborto per ogni 4 bambini che sono venuti alla luce e la
situazione è confrontabile a quella odierna. La pratica
abortiva è dunque diffusa in modo capillare, non è un
"rimedio" a situazioni eccezionali caratterizzate da
difficoltà insuperabili. Secondo indagini dell'Istituto
superiore di sanità, "almeno nel 70/80 per cento dei casi il
ricorso all'aborto volontario avrebbe la finalità di
interrompere una gravidanza non desiderata intervenuta a
seguito del fallimento o di un uso scorretto dei metodi per il
controllo della fertilità".
Come emerge da una proposta di risoluzione presentata al
Parlamento europeo, il profilo medio della donna che
abortisce, in base ai dati definitivi relativi all'anno 1996,
è coerente con queste conclusioni: si tratta infatti di una
gestante che nella gran parte dei casi è coniugata (56,2 per
cento, con punte del 69,6 per cento al sud), non separata
(solo il 3,4 per cento) né divorziata (1,2 per cento), in età
compresa prevalentemente tra i 25 e i 34 anni (45,3 per
cento), con sufficiente livello di istruzione (il 49,4 per
cento ha il diploma di scuola media inferiore, il 33 per cento
quello di scuola media superiore e solo l'1,6 per cento non ha
alcun titolo di studio), e con non più di due figli: in
particolare, il 39,5 per cento non ha alcun figlio, il 20,1
per cento ne ha uno, il 27,3 per cento ne ha due. E' una donna
che, sulla base delle statistiche, si troverebbe in condizioni
ottimali per accogliere il nascituro. E tuttavia ricorre
all'aborto. E poiché la scelta di abortire è una scelta di
grave sofferenza, per chi la subisce ma anche per chi la
pratica, occorre esplorare un sentiero nuovo, un sentiero che
conduca al rifiuto dell'aborto come contraccettivo, come
metodo per il controllo delle nascite. Un sentiero
inesplorato.
Quali risultati ha conseguito la legge n. 194 del 1978 sul
versante della lotta alla clandestinità? Anche qui ha fallito:
l'aborto clandestino, secondo stime ovviamente non
perfettamente verificabili, si sarebbe attestato intorno alle
45 mila unità.
E l'obiettivo di una procreazione più cosciente? Anche
questo fallito, se è vero che oltre un quarto delle donne che
ricorrono all'interruzione volontaria della gravidanza lo ha
già fatto una o più volte in occasioni precedenti: l'area
della recidività riguarda esattamente il 24,8 per cento delle
gestanti che hanno abortito nel 1996.
Cresce, infine, a testimonianza ulteriore del fallimento
degli obiettivi declamati dai relatori della legge n. 194 del
1978, il ricorso all'interruzione della gravidanza
nell'approssimarsi del periodo di gestazione che consente la
possibilità di vita autonoma del feto. E tutto questo avviene
mentre la cronaca quotidiana segnala casi di aborti effettuati
prima del centottantesimo giorno di gravidanza, che in realtà
causano una nascita prematura. Il professor Marcello Assumma,
primario neonatologo all'ospedale San Camillo di Roma, aveva
dichiarato in proposito a La Repubblica (11 marzo 1999)
che "in un anno mi è accaduto cinque volte. Si trattava di
parti abortivi: tre bambini sono morti dopo qualche giorno,
due sono sopravvissuti, sia pure con handicap gravi". Il
professor Marcello Orzalesi, primario neonatologo all'ospedale
Bambin Gesù di Roma, aveva confermato questa esperienza
ricordando che "la medicina oggi permette di spostare indietro
di due-tre settimane il limite della vita" e quindi aumenta
temporalmente la possibilità di sopravvivenza autonoma della
vita del concepito al di fuori dal corpo materno. In base alle
più recenti ricerche, a 25 settimane, quando è ancora
possibile, ai sensi dell'articolo 6 della legge n. 194 del
1978, l'aborto per finalità eugenetiche, le probabilità di
sopravvivenza del feto sono pari a circa il 79 per cento dei
casi.
Infine, un punto cruciale: la legge n. 194 del 1978
prevede la fase dell'aiuto e della dissuasione, anch'essa
declamata dai relatori. La gestante che si rivolge al
consultorio, ad una struttura socio-sanitaria o al proprio
medico di fiducia dovrebbe essere indotta a riflettere, a
seguire le possibili alternative all'aborto. Che cosa è in
realtà accaduto? Nel 1996, il 73,9 per cento degli aborti è
avvenuto dietro mera certificazione del medico di fiducia o
del servizio ostetrico-ginecologico: e la dissuasione? E'
coincisa con il rilascio dell'attestazione di gravidanza
necessaria per sottoporsi all'intervento?
Solo circa il 24,5 per cento delle donne è passato dai
consultori che dovrebbero avere un ruolo centrale nella
dissuasione. Perché non esistono studi del Ministero della
sanità per verificare se veramente e in che modo quest'opera è
stata svolta? Considerata l'estrema sofferenza a cui si
espongono la gestante ed il concepito ricorrendo all'aborto,
come è possibile tutelarsi contro l'incultura che privilegia
la disperazione e la morte, contro la pubblica istigazione
all'aborto?
Di qui la necessità di una proposta di legge che, senza
cadere nel moralismo bacchettone ed ipocrita di chi vuole
giudicare senza comprendere, abbia come obiettivo proprio la
prevenzione e la dissuasione, e che preveda: il riconoscimento
del diritto alla vita di ogni essere umano fin dal
concepimento; la tutela della maternità e la garanzia del
diritto alla procreazione cosciente e responsabile;
l'inserimento dell'argomento della prevenzione dell'aborto nei
programmi delle scuole medie superiori attraverso la
conoscenza di significative testimonianze di donne che hanno
fatto diretta esperienza dell'aborto e che su di essa hanno
riflettuto giungendo a conclusioni critiche rispetto alla
propria scelta; una campagna preventiva e dissuasiva nei
confronti dell'aborto, promossa dal Ministero della sanità, in
collaborazione con i movimenti per la vita riconosciuti,
attraverso tutti i principali organi d'informazione;
l'introduzione nel codice penale del reato di pubblica
istigazione all'aborto; l'istituzione, presso il Ministero
della sanità, di un "Fondo per la vita", gestito dalle
regioni, da destinare alle gestanti ed alle giovani madri in
difficoltà ed a sostegno delle organizzazioni private
volontarie che promuovono la vita attraverso l'assistenza
morale ed economica alle donne che si trovano in queste
difficoltà. Nella convinzione che "le difficoltà della vita
non si risolvono eliminando la vita ma superando le
difficoltà".