Doc. IV-quater, n. 42-bis





Onorevoli Colleghi! -1. Premessa in fatto. In data 7 febbraio 1998 (con lettera pervenuta alla Camera il 9 febbraio 1998), Amedeo Matacena, deputato nella XII e XIII legislatura, avanzò una richiesta di deliberazione in materia d'insindacabilità con riferimento a due procedimenti penali condotti dall'autorità giudiziaria di Messina (proc. nn. 207 e 209 del 1996 RGNR).
L'istanza di deliberazione d'insindacabilità, assegnata alla Giunta per le autorizzazioni, non fu tuttavia mai esaminata nella XIII legislatura. Per tale motivo, come da prassi, fu mantenuta all'ordine del giorno della XIV legislatura e riassegnata alla Giunta medesima. Con lettera del 24 giugno 2002, il Matacena ne sollecitava l'esame che si è svolto nel corso di numerose sedute e precisamente il 2, 9, 10, 17 e 25 luglio e il 10 e 18 settembre 2002, poiché è sorta una delicata questione procedurale, come si vedrà, in merito all'ammissibilità della domanda.
La vicenda trae infatti origine da due articoli di giornale apparsi sulla Gazzetta del Sud rispettivamente del 29 novembre 1995 e del 3 dicembre 1995. Nel primo dei menzionati articoli, per come il fatto è riportato nel capo d'imputazione, il Matacena ha offeso la reputazione del magistrato Macrì «affermando che quest'ultimo aveva gestito l'operazione 'Olimpia', che era stato rinviato a giudizio per aver manipolato pentiti e collaboranti e che le tesi della magistratura inquirente erano assolutamente false». Nel secondo, egli avrebbe affermato che il Macrì aveva «una concezione stalinista della giustizia [e che le sue dichiarazioni] dimostrano in modo lampante qual è il suo modo di maneggiare i pentiti e collaboratori». Sicché il Matacena «aveva chiesto una perizia psichiatrica nei confronti del Macrì».
Per tali affermazioni il deputato all'epoca dei fatti Matacena è stato querelato dal dottor Vincenzo Macrì, magistrato addetto alla procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria.
Nel corso dell'esame, durante il quale l'interessato è stato ascoltato il 2 luglio 2002 ed ha depositato documentazione scritta di cui la Giunta ha preso cognizione, è emerso che per i fatti esposti il Matacena è stato condannato in primo grado dal tribunale di Messina con sentenza dell'11 ottobre 1999 a un milione e 500 mila lire di multa, al pagamento delle spese e a una provvisionale di venti milioni in favore della parte civile. La sentenza è stata confermata in grado d'appello con pronuncia in data 18 aprile 2001. A seguito di ricorso per cassazione, la Suprema Corte ha respinto le doglianze del Matacena con sentenza del 7 dicembre 2001, di talché la condanna è passata in giudicato. Si è aperta pertanto la preliminare questione sulla possibilità per la Giunta di esaminare nel merito del caso, essendo relativo a questione passata in giudicato.

2. La questione pregiudiziale. Sul punto, il Presidente della Giunta ha prospettato che vi sono due precedenti della XIII legislatura, riguardanti rispettivamente il deputato Sgarbi e il deputato dell'XI legislatura Stefano Apuzzo. Nel primo di questi casi era accaduto che l'interessato aveva avanzato istanza d'insindacabilità in relazione ad un procedimento già definito con sentenza civile irrevocabile. Nella seduta del 13 dicembre 2000, su proposta del Presidente della Giunta Ignazio La Russa, la Giunta all'unanimità aveva deliberato la restituzione degli atti al Presidente della Camera considerando la richiesta d'insindacabilità inammissibile. Sulla base di questo precedente, il Presidente della Camera Violante, nell'aprile 2001, prospettò all'ex deputato Apuzzo che la sua richiesta d'insindacabilità relativa a fatti coperti da un giudicato penale non era accoglibile. Né tanto meno era ammissibile l'ulteriore richiesta dell'Apuzzo alla Camera di elevare un conflitto d'attribuzioni in confronto dell'autorità giudiziaria, giacché il presupposto del conflitto d'attribuzioni è una delibera d'insindacabilità, delibera che - per l'appunto - non era più possibile.
Si tratta di due precedenti di cristallina esattezza per i motivi che di seguito si espongono.
L'articolo 68, primo comma, della Costituzione prevede l'irresponsabilità per i membri delle Camere per i voti dati e le opinioni espresse nell'esercizio delle loro funzioni. L'autonomo rilievo di questa causa di non punibilità è rimasta sottotraccia per gran parte del periodo repubblicano, giacché fino al 1993 vigeva l'istituto dell'autorizzazione a procedere. Sicché un parlamentare querelato per diffamazione, prima ancora di far valere l'insindacabilità ai sensi del primo comma dell'articolo 68 della Costituzione, godeva dello schermo offertogli dal secondo comma della medesima disposizione costituzionale. Non di meno, nella prassi, quando una delle Camere veniva investita di una richiesta di autorizzazione a procedere per un fatto che riteneva rientrare nell'insindacabilità anziché denegare l'autorizzazione a procedere deliberava la restituzione degli atti all'autorità giudiziaria.
Vigente questa prassi, nel 1988, a seguito di un ricorso per conflitto d'attribuzioni elevato dall'autorità giudiziaria nei confronti del Senato, la Corte costituzionale ha stabilito (con sentenza n. 1150 del 1988) che, sebbene l'articolo 68, primo comma, della Costituzione preveda una causa di non punibilità (sulla cui natura processuale o sostanziale non occorre qui diffondersi), il potere di dichiararne la sussistenza non spetta in prima battuta all'autorità giudiziaria, bensì alla Camera d'appartenenza del parlamentare di cui si tratta. Ove questa deliberi nel senso dell'insindacabilità, l'autorità giudiziaria deve adeguarsi alla pronuncia parlamentare. Solo se ritiene che la Camera competente si sia pronunciata per l'insindacabilità con un procedimento viziato oppure omettendo di valutare i presupposti della prerogativa o avendoli erroneamente valutati, può elevare un conflitto d'attribuzioni davanti alla Corte costituzionale per sollecitare un sindacato sulla delibera parlamentare e chiederne l'annullamento, in modo da poter pervenire a una pronuncia difforme.
Questa giurisprudenza è assolutamente costante dal 1988 a oggi. Peraltro, con la sentenza n. 265 del 1997, la Corte costituzionale ha avuto occasione di fissare un ulteriore principio di tipo procedurale: quello per cui - non essendo più previsti nella legislazione vigente motivi di pregiudizialità in virtù dei quali il giudice procedente debba attendere la deliberazione parlamentare su fatti oggetto del suo esame - il procedimento giudiziario non s'interrompe durante l'eventuale svolgimento di quello parlamentare (volto alla chiesta pronuncia d'insindacabilità), ma è sospeso solo in presenza di un'effettiva deliberazione, che costituisca l'esercizio concreto del potere attribuito alla Camera competente di dichiarare l'insindacabilità delle opinioni di un suo componente. È ovviamente sotteso a questo esatto principio fissato dalla Corte che, ove la deliberazione parlamentare non intervenga prima del passaggio in giudicato di un'eventuale condanna giurisdizionale, il potere della Camera di pronunciarsi - sebbene astrattamente non consumato - non può più essere esercitato nel caso concreto, giacché altrimenti sarebbe frustrato il senso stesso dell'attività giurisdizionale. Questa, infatti, è volta per sua natura a dirimere liti e ad accertare reati con pronunce che diventano, esauriti i vari gradi della giurisdizione, definitive e irrevocabili. In questo, del resto, sta il valore della certezza del diritto, coessenziale allo Stato democratico contemporaneo.
I precedenti citati avevano anche una ragione pratica di palmare evidenza: quella di evitare che potessero essere avanzate richieste d'insindacabilità da parte di membri delle Camere, anche cessati, relativamente a fatti anche molto risalenti nel tempo e definiti con sentenze definitive già interamente eseguite. È chiaro infatti che eliminare lo sbarramento del giudicato significherebbe consentire l'accesso alla deliberazione d'insindacabilità a un numero assolutamente indeterminato di casi del passato.
Per questi motivi e rifacendosi agli esatti precedenti maturati all'unanimità nella Giunta nella XIII legislatura, il Presidente Siniscalchi ha proposto nel caso odierno la restituzione degli atti al Presidente della Camera.
Inopinatamente, su tale proposta si sono dichiarati contrari non solo membri che non avevano mai prima d'ora affrontato la questione, ma anche membri dell'attuale Giunta delle autorizzazioni che facevano parte anche della Giunta della scorsa legislatura nonché deputati che in questa legislatura si sono già apertamente pronunciati per la validità del principio che qui si propugna. Si tratta di un cambiamento di opinione del tutto inspiegabile, che ha contribuito a far respingere la proposta del Presidente a maggioranza, sia pure stretta.
Ove la proposta della Giunta fosse malauguratamente accolta dall'Assemblea, a nessuno può sfuggire quale conflitto permanente si aprirebbe tra i poteri dello Stato. È chiaro che il significato dell'odierna posizione della maggioranza della Giunta è una pregiudiziale e aperta dichiarazione di ostilità nei confronti della giurisdizione, sulle cui pronunce anche definitive la Camera si riserverebbe di intervenire in ogni tempo, vanificando così gli esiti dell'attività dell'autorità giudiziaria per il mero arbitrio delle proprie procedure, le quali nel caso dell'insindacabilità sono sostanzialmente rimesse al deputato interessato, il quale le avvia avanzando la propria richiesta di deliberazione e - per la prassi che si è instaurata a partire dalla XIII legislatura - ne sollecita la trattazione in Giunta prima e in Assemblea poi. Come è stato esattamente osservato da un collega nel corso della discussione in Giunta, si arriverebbe così al parossistico risultato di concedere al deputato interessato la facoltà di scegliersi il momento politicamente più propizio per avanzare e sollecitare una deliberazione d'insindacabilità.
Né vale l'argomento usato dalla maggioranza della Giunta relativo al fatto che il Matacena, diversamente dai deputati interessati ai casi precedenti, avrebbe tempestivamente presentato la sua istanza di insindacabilità e che vi sarebbe una sorta di «colpa» della Camera nel non averla esaminata per tempo. Si tratta con tutta evidenza di un assunto insostenibile dal momento che da sempre i parlamenti sono padroni del proprio ordine del giorno e che non sussiste alcun diritto di alcuno a ottenere una pronuncia nel merito da parte delle Camere (ciò vale per i presentatori di proposte di legge, di petizioni e quant'altro).
Né ancora - e di questo profilo dubitano gli stessi componenti di maggioranza presso la Giunta - si può ritenere che la deliberazione d'insindacabilità possa costituire oggetto per il rimedio straordinario della revisione, giacché questa può basarsi unicamente su nuovi elementi di fatto, provati ex novo o, secondo la più recente giurisprudenza della Corte di cassazione, già presenti agli atti ma non valutati. L'insindacabilità in questo caso - come è ovvio - non è un nuovo fatto, bensì un giudizio che la Camera esprimerebbe.
Men che meno - e su questo la Giunta è stata unanime - sarebbe possibile per il Matacena far valere l'eventuale pronuncia d'insindacabilità nel giudizio civile in cui egli è stato citato - non già per rispondere delle affermazioni fatte (sulla cui illiceità è già sceso il giudicato) - bensì per essere condannato al pagamento di una somma determinata nell'ammontare, che il giudice penale non ha inteso quantificare. L'oggetto di tale giudizio civile quindi non è l'an della responsabilità bensì il quantum del risarcimento.
In definitiva, il voto espresso dalla maggioranza della Giunta, costituzionalmente illegittimo e politicamente provocatorio, costituisce una sorta di amnistia ex post per i parlamentari, ben potendo applicarsi lo stesso parametro a tutti i già condannati con sentenze passate in giudicato. Un caso gravissimo e inaccettabile che tende deliberatamente a rendere ancora più aspro il conflitto tra potere politico e potere giudiziario, in contrasto con il principio di leale collaborazione tra organi costituzionali.

3. Conclusione. Per i motivi esposti, i membri di minoranza della Giunta non hanno ritenuto di poter esaminare il merito della vicenda e di pronunciarvisi, data l'impossibilità di scavalcare la questione pregiudiziale esposta.
Invito pertanto vivamente l'Assemblea a respingere la proposta.

Pierluigi MANTINI, relatore per la minoranza


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