Doc. IV, n. 4-A





Onorevoli Colleghi! - La Giunta riferisce su una richiesta di autorizzazione a eseguire la misura cautelare della sospensione dall'esercizio di pubblici uffici avanzata dalla dottoressa Laura Triassi, giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Napoli, in data 3 luglio 2001, pervenuta alla Presidenza della Camera il 4 luglio 2001, nei riguardi del deputato Riccardo Marone.
La richiesta si riferisce ad un procedimento penale (n. 9760/01 RGNR) condotto dal pubblico ministero, dottoressa Cristina Ribera, per le seguenti ipotesi di reato: concorso in abuso di ufficio; concorso in falso ideologico; concorso in truffa aggravata. I fatti oggetto del procedimento consistono essenzialmente nell'adozione - e nelle attività prodromiche a essa - di una delibera della giunta comunale di Napoli relativa alla custodia di veicoli rimossi dalla polizia municipale per infrazioni stradali e alla loro successiva demolizione.
Il predetto pubblico ministero aveva chiesto per l'onorevole Marone - vicesindaco di Napoli al momento dei fatti -, come per altri due indagati nello stesso procedimento (il dottor Angelo Parla, segretario generale del comune di Napoli e il comandante Giosuè Candita, capo dei vigili urbani della medesima città), la misura cautelare degli arresti domiciliari e solo in subordine quella interdittiva della sospensione dai pubblici uffici di cui all'articolo 289 del codice di procedura penale. Il giudice per le indagini preliminari nel respingere la richiesta principale della pubblica accusa, ha accolto la subordinata, disponendo senz'altro la sospensione dagli uffici dei due predetti coindagati, notificando loro il provvedimento e, invece, sospendendone l'efficacia nei confronti del deputato Marone in attesa dell'eventuale autorizzazione della Camera. Deve essere sin da ora evidenziato che - poiché efficace nei loro confronti a seguito della notifica - i due predetti coindagati hanno impugnato immediatamente il provvedimento, mentre l'onorevole Marone non è stato in grado di farlo.

1. Nel corso dell'esame della Giunta (svoltosi nelle sedute del 10, 17, 18 e 25 luglio 2001), è emerso chiaramente che, in via preliminare rispetto alla disamina nel merito della richiesta, si ponevano due questioni. La prima attiene alla possibilità di configurare come privativa della libertà personale del parlamentare la misura cautelare della sospensione dai pubblici uffici e dunque alla necessità che per eseguire quest'ultima nei confronti di un membro del Parlamento intervenga l'autorizzazione della Camera di appartenenza ai sensi dell'articolo 68, secondo comma, della Costituzione. La seconda questione postasi alla Giunta è quella se ritenere fornita del requisito dell'attualità la richiesta della magistratura napoletana, tenuto conto del fatto - noto essenzialmente dagli organi di stampa - che l'onorevole Marone si è dimesso dalla carica di vicesindaco di Napoli e ha rimesso nelle mani del sindaco le relative deleghe in epoca immediatamente successiva all'emanazione del provvedimento interdittivo.

2. Sul primo punto, nella discussione in Giunta, si sono registrate due posizioni distinte.
Prima di darne conto, vale la pena offrire alcuni brevi ragguagli sull'istituto della sospensione cautelare dai pubblici uffici. Questa consiste in una serie di obblighi di non fare attinenti ai munera publica. Colui che ne è destinatario non può rivestire incarichi nella pubblica amministrazione né partecipare alla formazione degli atti di questa. La prima e ovvia sanzione della violazione di tali divieti è l'inefficacia dei relativi atti. In concreto, all'interdetto temporaneamente dai pubblici uffici è vietato l'accesso alle sedi amministrative e la partecipazione ai relativi consessi decisionali. La disposizione del codice di rito, peraltro, prevede due limiti a questa misura cautelare, uno di ambito temporale (essa non può durare più di 2 mesi, salvo il rinnovo entro i limiti di cui all'articolo 303) e uno di ambito applicativo (essa non può riguardare le cariche derivanti da diretta investitura popolare). Coerentemente con questi contenuti, la misura cautelare in questione è ricompresa, nella sistematica del codice, tra le misure interdittive, le quali si distinguono da quelle c.d. coercitive, tra le quali invece rientrano la custodia cautelare in carcere, gli arresti domiciliari e altre.
Gli insegnamenti della giurisprudenza penale sull'istituto in questione - ai fini che qui interessano - sono essenzialmente 2: la sospensione cautelare può essere disposta solo in relazione a contestazioni di reato attinenti a funzioni pubbliche; l'interesse all'impugnazione viene meno se - pendente il procedimento di gravame - sopravviene l'estinzione della misura interdittiva.

2.1. Secondo una prima tesi, il provvedimento cautelare di cui all'articolo 289 del codice di procedura penale non rientra tra quelli per la cui esecuzione è necessaria l'autorizzazione della Camera d'appartenenza ove riguardi un parlamentare (salvi i casi di flagranza e giudicato).
Dati i caratteri del provvedimento testè esposti - secondo questa tesi - la sospensione cautelare non potrebbe ricondursi alle misure che costituiscono una limitazione della libertà personale. Quest'ultima infatti, per costante giurisprudenza costituzionale, deve intendersi come una situazione che comporta una coazione fisica diretta sulla persona oppure una detenzione o un'altra circostanza assimilabile a questa (cfr. le sentenze nn. 2, 10 e 11 del 1956, 210 del 1995, 194 e 238 del 1996 e - da ultimo - 105 del 2001). In particolare, con la sentenza n. 210 del 1995 è stato ritenuto da parte della Corte costituzionale legittimo, secondo il parametro dell'articolo 13 della Costituzione, l'articolo 2, comma 1, della legge del 1956 sulle misure di prevenzione, che prevede il foglio di via obbligatorio, nel cui procedimento non interviene l'autorità giudiziaria. La motivazione che la Corte ha addotto è che la predetta misura consiste in un mero ordine, non eseguibile forzosamente senza l'intervento del magistrato conseguente alla sua violazione, e dunque non in una coazione diretta sulla persona. Con le stesse motivazioni la sentenza n. 105 del 2001 ha dichiarato legittimo l'istituto del trattenimento degli immigrati espulsi nei centri di permanenza temporanea proprio perché, pur essendo tale trattenimento una misura limitativa della libertà personale secondo i criteri testé illustrati, soggiace - nella disciplina legislativa in atto vigente - alle riserve di legge e di giurisdizione di cui all'articolo 13 della Costituzione. Alla luce di questa elaborazione giurisprudenziale, la misura interdittiva qui in esame non parrebbe potersi definire limitativa della libertà personale in senso stretto.
Peraltro, secondo questa tesi l'articolo 289 a fortiori non potrebbe essere ricompreso nell'ambito applicativo dell'articolo 68, secondo comma, della Costituzione. Ciò perché le due disposizioni costituzionali dettano regole dal contenuto e dalla finalità diversi. Da un lato una norma generale a tutela della libertà dei cittadini, dall'altro una norma specifica a tutela del libero mandato parlamentare, che la misura interdittiva non intacca, atteso che - per definizione - non si può applicare agli uffici ricoperti per diretta investitura popolare. Né, all'evidenza, si porrebbe un problema d'integrità del plenum dell'Assemblea. Sul piano letterale, del resto, l'articolo 68, secondo comma, della Costituzione ha riguardo per misure che «privano» il parlamentare della libertà personale e non a provvedimenti che in qualche misura la limitino.

2.2. La seconda tesi muove dal dato letterale dell'articolo 272 del codice di procedura penale, secondo cui «le libertà della persona possono essere limitate con misure cautelari soltanto a norma delle disposizioni del presente titolo». Tale disposizione comporterebbe che tutte le misure cautelari personali (quelle appunto previste nel titolo I del libro IV del codice di procedura penale) sono sostanzialmente limitative delle libertà della persona, a prescindere se siano classificate come coercitive o interdittive. Del resto, è opinione largamente diffusa in dottrina che talune misure interdittive risultano in concreto assai più afflittive di certe misure coercitive (si pensi all'interdizione dall'esercizio di determinate professioni o imprese che per i professionisti e gli imprenditori possono rivelarsi ben più limitative - per esempio - del divieto d'espatrio).
Tra i fautori di questa opinione non è mancato chi ha rilevato che già del tenore letterale dell'articolo 68, secondo comma, della Costituzione, laddove si fa riferimento a misure «altrimenti» limitative della libertà personale, si può concludere che anche le misure interdittive, ove applicate a parlamentari, necessitano dell'autorizzazione. Peraltro, secondo questa tesi il mandato parlamentare deve essere interpretato in senso ampio. Il membro del Parlamento, infatti, è spesso una figura pubblica che riveste ruoli di responsabilità politica a diversi livelli, non separabili gli uni dagli altri. Sicché limitare la possibilità di svolgere appieno il complesso degli incarichi rivestiti dal parlamentare nella vita politica del Paese deve considerarsi restrittivo della funzione.
Questa seconda tesi è risultata prevalente in Giunta, la quale ha pertanto concluso, concordando con quanto espresso dallo stesso magistrato richiedente, che spetta alla Camera di concedere o denegare l'autorizzazione all'esecuzione della misura cautelare interdittiva qui richiesta.

3. Si è svolta pertanto, nella seduta del 18 luglio 2001, l'audizione del deputato interessato.
Nel corso di questa, l'onorevole Marone ha ricordato - ciò che del resto emerge anche dal provvedimento giudiziario del GIP di Napoli - che già nel mese di maggio, a carico degli indagati Parla, Candita e Marone stesso (che non era ancora deputato), era stata disposta la misura interdittiva, la quale tuttavia era stata annullata in sede di appello dal tribunale di Napoli per la circostanza che non si era svolto il previo interrogatorio degli indagati, ai sensi dell'articolo 289, comma 2, secondo periodo, del codice di procedura penale. Dopo che la procedura per l'irrogazione della misura cautelare è stata ripetuta, il deputato Marone si è dimesso dalla carica di vicesindaco di Napoli, rivestita durante il periodo in cui sindaco della città era Antonio Bassolino e riattribuitagli dal nuovo sindaco, onorevole Rosa Russo Jervolino. Dopo le dimissioni del deputato Marone da vicesindaco, le connesse deleghe di giunta sono state attribuite ad altri membri della giunta medesima e la carica di vicesindaco è oggi rivestita dal professor Rocco Papa.
Queste circostanze hanno evidenziato la sussistenza del secondo dei problemi preliminari cui poc'anzi si è accennato, vale a dire quello relativo all'attualità della misura cautelare irrogata.
Anche su questo punto, nel corso dell'esame, si sono delineate due opinioni. Secondo una prima tesi - che trova appigli nella giurisprudenza della Cassazione - poiché la sospensione si riferisce a tutti i potenziali incarichi nell'amministrazione pubblica e ha un'efficacia concreta a largo spettro, il solo fatto delle dimissioni da vicesindaco dell'onorevole Marone non potrebbe determinare la perdita del requisito dell'attualità della misura cautelare.
Secondo la tesi avversa, invece, due profili appaiono decisivi per negare alla misura cautelare interdittiva di cui si tratta il carattere dell'attualità. Da un lato, è del tutto evidente che la carica amministrativa, rivestita dal Marone e in relazione alla quale sussistono le pretese esigenze cautelari, di cui all'articolo 274 del codice di procedura penale, era proprio quella di vicesindaco. Venuta meno la carica, vengono meno anche i presupposti per l'irrogazione del provvedimento interdittivo (si noti che anche questo argomento appare trovare qualche riscontro nella giurisprudenza della Corte di cassazione).
Dall'altro lato, appare assumere significativo rilievo che in data 19 luglio 2001, il tribunale di Napoli ha accolto l'appello interposto contro il provvedimento di sospensione dagli indagati Parla e Candita, proprio sull'assunto della mancanza delle esigenze cautelari. Appare verosimile pertanto che - se non considerate sussistenti per quegli indagati che nell'ipotesi accusatoria hanno avuto un ruolo più rilevante nel commettere i fatti - a maggior ragione, ove avesse potuto impugnare anch'egli il provvedimento, l'onorevole Marone avrebbe visto riconoscere come valide le sue ragioni dal tribunale in sede di appello.
Se ne conclude - secondo questa tesi - che, rispetto al momento in cui è stato disposto il provvedimento del GIP, sono intervenuti rilevanti elementi di novità che indicano come la misura cautelare interdittiva per eseguire la quale è stata avanzata richiesta di autorizzazione abbia perso la sua attualità.
Questa opinione è risultata largamente prevalente in seno alla Giunta. Per questi motivi, la Giunta medesima, a maggioranza, propone che l'Assemblea deliberi di restituire all'autorità giudiziaria procedente gli atti relativi alla richiesta di autorizzazione in esame.

Enzo CEREMIGNA, Relatore.


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