VIII Commissione - Mercoledì 10 luglio 2002


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ALLEGATO 1

Delega al Governo in materia di protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche. (Nuovo testo C. 2031-ter Governo).

TESTO DELLA RELAZIONE DEL DEPUTATO ANTONIO BARBIERI

Preliminarmente è bene cominciare con l'osservare che l'argomento che oggi abbiamo innanzi, della cui disciplina da delegare al Governo con A.C. 2031-ter viene chiesto esame della Commissione, è tra quelli che richiedono particolare attenzione, per le conseguenze sociali amplificate che tal tipo di provvedimenti possono determinare, ben al di là del rilievo che avrebbe l'oggetto isolato nel suo valore scientifico.
Ricordiamo degli esempi, sia sul versante del mercato globale che su quello della comunità scientifica italiana.
Anzitutto il caso del colosso bio-tech Celera: bastò nel marzo del 2000 l'annuncio di Clinton e Blair sulla diffusione pubblica della mappa del genoma umano a far precipitare in un giorno il titolo del 28 per cento. Solo venti giorni dopo, fugati i dubbi sulle parole di Clinton e Blair che non intendevano limitare in alcun modo la brevettabilità della scoperta, e all'annuncio della mappatura completa del Dna da parte di Celera, le azioni del gigante Usa guadagnarono in due giorni più del 75 per cento.
D'altro canto al momento in cui in Italia nel febbraio 2001 si era in procinto di sottoscrivere un protocollo scientifico, cui dovesse attenersi la sperimentazione sulla utilizzazione agroalimentare delle biotecnologie, sembrava bensì raggiunta una tregua fra Governo e scienziati.
Si era stabilito, davanti al presidente del Consiglio Giuliano Amato, tra il ministro delle Politiche agricole Alfonso Pecorario Scanio e un gruppo di scienziati tra quelli che avevano firmato il manifesto per la libertà della ricerca (secondo la narrazione datane dall'autorevole inserto de La Stampa di Torino del 14 febbraio 2001) che prima si sarebbe formata una commissione di esperti per preparare un protocollo di sicurezza in base al quale dare il via alla sperimentazione.
Tra gli scienziati, proprio sull'accordo c'è stato, infatti, qualcosa di prossimo a una spaccatura. Incominciato a Palazzo San Macuto, il giorno della scienza è stato inaugurato dal Nobel Rita Levi Montalcini. «La ricerca deve andare avanti - ha detto -, sotto il controllo non di tutti, ma dei competenti, cioè degli scienziati. Oggi, più che mai, la nostra libertà non può essere messa in discussione, in gioco c'è il futuro stesso dell'umanità». Silvio Garattini, direttore dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, si è lanciato in un'appassionata arringa: «Quando mai si è stabilito che i prodotti dell'agricoltura biologica siano migliori di quelli dell'agricoltura di tipo transgenico? La scienza vuole che si facciano sperimentazioni, si affrontino i problemi e che non si generalizzi». In tarda mattinata, una piccola delegazione di scienziati, tra i quali Rita Levi Montalcini e Leonardo Santi, ha poi accolto l'invito a un colloquio con il presidente Amato e con il ministro Pecoraro Scanio. Da questo incontro è scaturito l'accordo per un unico esperimento a campo aperto e sotto controllo di una commissione di esperti. Un secondo gruppo di scienziati, Silvio Garattini, i biologi molecolari Angelo Spena, Riccardo Cortese, Edoardo Boncinelli e la professoressa di biologia Cinzia Caporale, si sono invece recati a colloquio con


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Silvio Berlusconi per illustrare al leader di Forza Italia i problemi legati alla sperimentazione degli Ogm e la necessità di finanziare la ricerca in Italia.
A Montecitorio, intanto, prendeva il via la conferenza stampa dei verdi, con il Ministro delle politiche agricole, con Grazia Francescato e un gruppo di scienziati «dissidenti». Marcello Cini, docente di fisica teorica a La Sapienza, ha inviato una lettera in cui si osserva che gli scienziati pro Ogm si limitano a dire che non ci sono evidenze certe che siano dannosi, «Ma delle incertezze - si chiede - chi si occupa? Perché nessuno si domanda, per esempio, se la creazione, la produzione di massa e il rilascio su vasta scala nell'ambiente di migliaia di forme di vita manipolate non faranno dell'inquinamento genetico una minaccia per il pianeta?» «Una ricerca condotta a Berkeley - ha riferito a sua volta Mariano Bizzarri, responsabile del laboratorio di oncologia sperimentale a La Sapienza - su topi alimentati con Ogm ha dimostrato che il loro Dna risultava modificato in alcune generazioni». Rita Levi Montalcini, in mattinata, diceva: «Si ha paura perché non si sa di che cosa si stia parlando». Non la pensano così David Suzuki, autore del testo di genetica più usato nelle università americane, Jonathan King, biologo molecolare del Mit, Joe Cummins, genetista della University of Western Ontario e Richard Lacey, microbiologo, esperto di «mucca pazza»: sono tra gli scienziati firmatari di un secondo appello. Chiedono di sospendere tutti i rilasci nell'ambiente di piante e organismi geneticamente modificati per almeno 5 anni e di non consentirne la brevettabilità.
Questa era la situazione sul finire della XIII Legislatura.
Nel settembre del 2001, dopo l'avvento in Italia della XIV Legislatura e del Governo Berlusconi, la linea di prudenza statica si sblocca dinamizzandosi nell'ambito di una posizione autonoma dell'Unione europea, che parte ponendo come principi fondamentali semplicemente i primari aspetti responsabilizzanti della trasparenza e libertà di scelta per i consumatori.
È questa la linea della Commissione europea che emerge dal Consiglio informale dei ministri dell'Agricoltura che si svolse nel settembre 2001 in Belgio e che avrebbe portato alla definizione di una strategia futura targata Ue in materia di Ogm. «Il sistema attuale di etichettatura - a parlare è David Byrne, commissario europeo della Salute - in Europa prevede che i cibi geneticamente modificati devono essere «marchiati» se ci sono tracce di Dna o proteine identificabili nel prodotto finale. Credo che possiamo fare di più. La scelta che vorrei dare ai consumatori europei è semplice: scegliere se comprare o meno un prodotto geneticamente modificato». Ulteriormente osserva Franz Fischler, commissario all'Agricoltura «bisogna scegliere, o facciamo la nostra politica in materia di biotecnologie o ci sarà imposta dall'esterno. Solo con un atteggiamento attivo si può difendere quelle che sono i principi fondamentali dell'agricoltura europea» sottolineando la «necessità» di parlare apertamente dei pro e dei contro delle biotecnologie e chiarire quali benefici possono fornire». Fischler è convinto che «l'Europa ha il diritto di determinare il proprio livello di rischio in materia di biotecnologie, come ha il dovere di fare attenzione affinché le condizioni di concorrenza siano eque tra agricoltori tradizionali e produttori di piante transgeniche». E una strategia unica in materia Ogm è sempre più necessaria anche alla luce dei risultati del workshop «Agricoltura biologica e organismi geneticamente modificati» organizzato dalla Coldiretti con Aiab, Verdi Ambiente e Società, Federconsumatori e Coop. Su 64 campioni di mangime prelevati in aziende zootecniche impegnate nell'allevamento biologico i controlli effettuati dall'Aiab, sulla presenza di contaminazioni Ogm, hanno consentito di individuare ben 25 casi positivi, il 39 per cento del totale, in relazione essenzialmente alla presenza di soia importata. È finita? No. Dai dati forniti dal Ministero della salute, che ha verificato la contaminazione relativa alla presenza di Organismi geneticamente modificati su soia e mais ad uso zootecnico importati


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nel nostro Paese per gli allevamenti convenzionali, la presenza di Ogm risulta confermata per il 91 per cento dei campioni di soia analizzati e per il 12 per cento dei campioni di mais. Tale presenza si trasferisce in parte anche nei mangimi utilizzati negli allevamenti biologici a seguito della possibilità di utilizzare nell'agricoltura biologica mangimi provenienti dall'agricoltura convenzionale in una percentuale massima del dieci per cento della razione media annua degli animali come è confermato dai dati sulle analisi effettuate. Ecco perchè, secondo Franco Pasquali, segretario generale della Coldiretti «occorre difendere i produttori e consumatori di alimenti biologici dal rischio di contaminazione da Ogm promuovendo lo sviluppo della produzione di soia certificata da destinare all'alimentazione animale e garantendo la tracciabilità e l'etichettatura». E anche facendo riferimento a questi dati che il Ministro delle risorse agricole, Giovanni Alemanno, ricorda come la posizione italiana in ambito Ue punta ad ottenere un «dibattito politico approfondito e scelte ragionevoli ed appropriate in applicazione del principio di precauzione, superando ogni pregiudizio in materia ideologica». Non solo il ministro elenca una serie di garanzie che «devono necessariamente accompagnare l'impiego delle biotecnologie: effettiva separazione delle filiere Ogm e non Ogm, garanzia della libertà di ricerca e di sviluppo scientifico, ruolo di garante e di controllore della ricerca pubblica e verifica delle norme in materia di brevettabilità delle scoperte genetiche».
In prossimità del dicembre 2001 anche il Presidente del Comitato nazionale per la biosicurezza e le biotecnologie, Leonardo Santi, rassicura che «Un decreto impedirà ogni abuso» e che le garanzie previste sono adeguate. «Il recepimento della direttiva Ue 98/44/CE che stabilisce norme sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologicbe, che pur all'articolo 18 della direttiva medesima fissava il termine per il recepimento al 30 luglio 2000» osservava Leonardo Santi «era ormai in fase conclusiva. Il Consiglio dei ministri ha infatti stabilito di concedere una delega al Governo per emanare entro sei mesi uno specifico decreto legislativo. Ciò consentirà di evitare che la direttiva vada applicata senza poter introdurre elementi in grado di rispondere a taluni dubbi o perplessità sollevate circa l'interpretazione o il senso di alcuni articoli della direttiva. Spesso la discussione sulle biotech parte da affermazioni che non affrontano mai il caso per caso e tale situazione si è ripetuta anche in materia di brevetti biotecnologici, che certo pongono problemi di un certo spessore poiché riguardano il patrimonio generico degli esseri viventi. Ma proprio perciò la discussione non va limitata solo ai massimi principi. Inoltre, in assenza di ogni normativa, si dà spazio a possibili discrezionalità autorizzative prive di controllo. Le attività innovative e di mercato necessitano di alcune garanzie per uno sviluppo economico compatibile e ciò può avvenire solo se vi sono regole precise. Le norme contenute nella direttiva 98/44/CE hanno causato molte perplessità, che però i criteri contenuti nella richiesta di delega tendono a chiarire. Questa proposta fa infatti riferimento esplicito agli obblighi derivanti da accordi internazionali, tra cui la Convenzione sulla diversità biologica, e ad aspetti relativi ai limiti e alle cautele necessarie a garantire il rispetto dei diritti fondamentali sulla dignità e l'integrità dell'uomo e dell'ambiente, nonché all'esclusione dalla brevettabilità delle procedure di donazione di esseri umani e di modifica dell'identità genetica germinale dell'essere umano, nonché la brevettabilità degli animali o la modifica della loro identità genetica. Questo provvedimento, oltre a confermare l'esclusione dalla brevettazione delle varietà vegetali e delle razze animali, vieta altresì la brevettabilità di una semplice sequenza di Dna e di una sequenza parziale di un gene che appartenga al corpo umano, finalizzando la brevettabilità dell'elemento isolato alla sua funzione specifica per impedire un monopolio indiscriminato su prodotti utili alla terapia genetica. I principi e i criteri del provvedimento di delega sono quindi puntuali e richiamano in buona parte quelli


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che erano già in discussione nel precedente Parlamento, anche se alcuni di questi punti potranno forse essere meglio chiariti, dando tra l'altro uno specifico ruolo a comitati scientifici per un'indispensabile collaborazione interpretativa in fase di autorizzazione brevettuale. Citare casi limite che hanno caratterizzato autorizzazioni per brevetti anomali deve quindi sollecitare i Paesi europei a stabilire regole precise e non il rifiuto di ogni normativa, la cui assenza consente all'Italia e all'Europa di essere terreno di conquista di chi ha stabilito forme di autorizzazione molto più tolleranti ed estensive».
Passiamo così dalla cronistoria della transizione di legislatura e di governo ai presupposti immediati dell'Atto Camera n. 2031-ter del cui completamento istruttorio è il parere richiesto alla nostra Commissione.
Infatti il recepimento della direttiva Ue 98/44/CE che stabilisce norme sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, che pur all'articolo 18 della direttiva medesima fissava il termine per il recepimento al 30 luglio 2000, non aveva ancora trovato compimento, anche perché il 19 ottobre 1998 i Paesi Bassi avevano chiesto alla Corte europea l'annullamento di tale direttiva e l'Italia (con anche la Norvegia) aveva incautamente (probabilmente secondando gli indirizzi dei più oltranzisti esponenti del Governo Amato) dichiarato di sostenere il ricorso a sostegno delle conclusioni dei Paesi Bassi. Tuttavia la Corte si è pronunziata con sentenza del 9 ottobre 2001, respingendo il ricorso.
Pertanto a tutt'oggi la direttiva risulta recepita soltanto da Danimarca, Irlanda, Grecia, Finlandia e Regno Unito.
Il Governo italiano ha pertanto chiesto alle Camere la delega ad emanare le norme per il recepimento della Direttiva anzidetta. Lo ha fatto attraverso un disegno di legge: esattamente l'articolo 6 dell'Atto Camera 2031 che prevedeva la delega legislativa al Governo, da esercitarsi entro sei mesi, in materia di protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche. Nell'insieme il disegno di legge predetto era inserito in tal modo nella lunga marcia dei collegati alla Finanziaria 2002, i cui sette provvedimenti iniziali sono diventati, per via di alcuni stralci, dieci. Hanno passato il primo esame parlamentare i disegni di legge industrie e ambiente: Il primo a superare il vaglio di una delle due assemblee è il disegno di legge recante interventi per favorire l'iniziativa economica privata (A.C. 2031) che, approvato dalla Camera, è passato all'esame del Senato dove è stato assegnato alla Commissione attività produttive. Il provvedimento, però, ha anche perso un pezzetto per strada. Da una costola del disegno di legge, per uno stralcio disposto dall'Assemblea della Camera il 12 febbraio, è nato però il disegno di legge 2031-ter, che prevede una delega al Governo in materia di protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche. Si tratta dell'originario articolo 6 del provvedimento che ora viaggerà per conto proprio. Quanto all'iter, lo stralcio è stato già assegnato all'esame delle commissioni Attività produttive e Agricoltura riunite. Il nuovo disegno di legge sulle biotecnologie prevede in quali casi è possibile rivendicare, attraverso un brevetto, la «proprietà» di una scoperta. Non saranno comunque brevettabili parti del corpo umano, nei vari stadi della sua costituzione e del suo sviluppo, nonché la semplice scoperta di uno degli elementi del corpo stesso, compresa la sequenza o la sequenza parziale di un gene.
Il disegno di legge 2031 era stato trasmesso dal Governo alla Camera il 12 febbraio 2002 e quivi assegnato alla X e XII commissione. Il suo articolo 6 aveva avuto l'esame consultivo delle Commissioni VII, XII, XIII, XIV, nonché in precedenza quello referente della X. Giunto in Assemblea, il 12 febbraio 2002 ne era stato deciso lo stralcio, di tale articolo 6, che veniva ripresentato quindi come disegno di legge 2031-ter. Il testo di A.C. 2031-ter risulta dunque quello dell'articolo 6 do A.C. 2031 come risultanti dagli emendamenti approvati prima della deliberazione del suo stralcio.
Esso contiene delega al Governo per il recepimento, con decreto legislativo da


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emanare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, della direttiva 98/44/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 6 luglio 1998, sulla «Protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche», in conformità anche alla pronuncia della Corte di giustizia delle Comunità europee del 9 ottobre 2001.
La citata direttiva 98/44/CE è strutturata in 18 articoli e 56 «considerando» interpretativi, alcuni dei quali sono stati integralmente trasfusi nel provvedimento in esame, come particolari principi di delega.
La norma in esame contiene 18 specifici criteri di delega. Tale particolare struttura si rende necessaria in quanto la direttiva soprarichiamata è estremamente complessa e delicata e tocca settori sensibili delle scienze e della tecnologia.
Nell'attribuzione della delega, è stato pertanto ritenuto necessario introdurre nella normativa nazionale, oltre alle norme della direttiva, il cui recepimento è obbligatorio, disposizioni volte a chiarire aspetti che potrebbero dare luogo ad incertezze interpretative tramite l'aggiunta, nei criteri di delega, del contenuto di alcuni «considerando» interpretativi della complessa materia.
È prevista una disposizione introduttiva che richiama gli obblighi derivanti da accordi internazionali, in particolare dalla Convenzione sul brevetto europeo, dall'Accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio (TRIPS) e dalla Convenzione sulla diversità biologica (lettera a) del comma 2).
Subito dopo vengono precisati i limiti alla brevettabilità derivanti dal rispetto di fondamentali principi etici, rendendo maggiormente restrittive le disposizioni comunitarie relative ad alcuni criteri di esclusione dalla brevettabilità per contrasto con l'ordine pubblico e il buon costume, prevedendo espressamente, oltre al divieto di donazione di esseri umani e modifiche dell'identità genetica germinale dell'essere umano, anche di ogni utilizzazione di embrioni umani. Viene, inoltre, fatto espresso divieto di utilizzo dell'invenzione ove arrechi pregiudizio alla vita o alla salute dell'uomo, degli animali o dei vegetali o per evitare gravi danni ambientali tali da compromettere fondamentali esigenze di equilibrio ecologico e ambientale (lettera f) del comma 2); è stata anche stabilita l'esclusione dalla brevettabilità del corpo umano, nei vari stadi della sua costituzione e del suo sviluppo, nel rispetto dei principi fondamentali che garantiscono la dignità e la integrità dell'essere umano (lettera c) del comma 2) nonché la necessità che, nell'ambito del deposito di una domanda di brevetto, se un'invenzione ha per oggetto materiale biologico di origine umana o lo utilizza, alla persona da cui è stato prelevato il materiale debba essere garantita la possibilità di esprimere il proprio consenso libero e informato a tale prelievo in base alla normativa vigente (lettera n) del comma 2). Viene ribadita anche l'esclusione dalla brevettabilità dei metodi per il trattamento chirurgico, o terapeutico del corpo umano o animale e dei metodi di diagnosi applicati al corpo umano o animale (lettera e) del comma 2). È consentito brevettare un elemento isolato dal corpo umano o diversamente prodotto, purché sia il risultato di procedimenti tecnici che lo hanno identificato, purificato e moltiplicato al di fuori del corpo umano stesso (lettera d) del comma 2).
È prevista, inoltre, la possibilità di brevettare materiale biologico anche se preesistente allo stato naturale, purché abbia i requisiti di un'invenzione (lettera b) del comma 2) mentre è esclusa la brevettabilità di sequenze di DNA se non a determinate condizioni (lettera h) del comma 2).
Per quanto riguarda la protezione del materiale biologico di origine vegetale ed animale, è consentita la brevettabilità di piante o animali ovvero di un insieme vegetale, caratterizzato dall'espressione di un determinato gene e non dal suo intero genoma, se la loro applicazione non è limitata all'ottenimento di una determinata varietà vegetale o razza animale, rispettando il divieto per questi ultimi prodotti previsto dalla vigente legislazione (lettera i) del comma 2). Viene prevista


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l'esclusione dalla brevettabilità di una nuova varietà vegetale, anche se ottenuta con procedimento di ingegneria genetica (lettera n) del comma 2).
Il criterio di cui alla lettera g) prevede una clausola di salvaguardia.
Vengono, poi, previsti, nel rispetto del regolamento (CE) n. 2100/94 sulla protezione delle nuove varietà vegetali, i diritti degli agricoltori a utilizzare, nell'ambito delle propria azienda, i prodotti del raccolto ottenuti da materiale biologico protetto (farmer's privilege) (lettera p) del comma 2) e disciplinati l'ambito e le modalità per l'esercizio di quanto previsto al paragrafo 2 dell'articolo 11 della direttiva 98/44/CE riguardante la vendita o altra forma di commercializzazione di bestiame d'allevamento o di altro materiale di riproduzione (lettera q) del comma 2). È prevista, inoltre, una disciplina nuova del diritto brevettuale per la regolamentazione della licenza obbligatoria allo sfruttamento commerciale dell'invenzione o della varietà protetta secondo criteri di reciprocità (lettera o) del comma 2). Viene infine prevista, nella fase di attuazione, la revisione della disciplina sanzionatoria esistente.
Nel comma 3 si prevede, infine, l'informazione costante ed aggiornata del Parlamento sulle conseguenze derivanti dalla applicazione della direttiva sulle invenzioni biotecnologiche da parte dei Ministeri istituzionalmente competenti.
La direttiva 98/44/CE ha per il nostro Paese importanti risvolti economici, in quanto consente di rafforzare la protezione brevettuale che ha dimostrato e dimostra la propria utilità per il finanziamento dell'innovazione tecnologica e per la diffusione delle conoscenze scientifiche tramite il riconoscimento all'inventore di un monopolio temporale di vent'anni, ben più breve del diritto d'autore, a fronte dell'obbligo di mettere a disposizione della ricerca, tramite la descrizione, tutte le conoscenze, flutto della sua ricerca (procedimenti, prodotti e uso degli stessi) per consentire il progresso di tali settori tecnologici altamente innovativi.
Il brevetto, che come indicatore di sviluppo tecnologico e di potenziale competitivo ha infatti un importante valore economico ed è uno dei modi più efficaci per stimolare la ricerca scientifica richiamando, nel vasto ambito orizzontale delle biotecnologie che pervade numerosi settori di avanguardia (sanità, agricoltura, ambiente), uomini e capitali e contribuendo quindi anche allo stimolo e allo sviluppo dell'occupazione in tali settori innovativi.
Tra gli emendamenti dei 3 Punti di cui componevasi l'originario articolo 6 nel testo del disegno di legge 2031 presentato dal Governo, va osservato:
al Punto 1 è stato sostituito «emanare» con «adottare», in particolare aggiungendo che la delega sarà esercitata «previa acquisizione del parere delle competenti Commissioni parlamentari»;
al Punto 2 alle Convenzioni cui deve adattarsi l'attuazione della Direttiva, si aggiunge la Convenzione di Oviedo del 1997 per la protezione dell'essere umano nelle applicazioni medico-biologiche, nonché il Protocollo di Parigi del 1998 sul divieto di clonazione umana;
al 2b e b-bis in sostanza si stabilisce che il brevetto riguarda le tecnologie adoperate per ottenere la sostanza, ma non si impediscono nuovi brevetti sulla medesima sostanza ma in ordine a sue nuove applicazioni;
alla lettera c il divieto viene espressamente precisato «fin dal concepimento»;
alla lettera d la brevettabilità di parti organiche organismiche richiede la «indicazione concreta della funzione ed applicazione industriale»;
alla lettera f si precisa più ampiamente il «divieto di utilizzo contrario alla dignità umana»;
alle lettere g ed h si precisa ulteriormente la definizione e l'utilità di prodotti di natura organismica;
alla lettera n si sostituisce il testo «, alla persona da cui è stato prelevato


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tale materiale, debba essere garantita la possibilità di esprimere il proprio consenso libero e informato» con «la persona da cui... abbia espresso il proprio consenso», con un grado quindi di certezza avvenuta, che non si limiti alla sola generica possibilità di esprimere.
Si può dunque concludere che siamo in presenza di un testo che proviene da una accurata riflessione e nel quale ha trovato ogni garanzia il principio di tutela. Non va però dimenticato che il provvedimento si è sviluppato partendo da un piano di provvedimenti destinati allo sviluppo della economia nella concorrenza.
A questo punto va sottolineato che il brevetto di una biotecnologia pur giovando a premiare economicamente la ricerca e l'impresa, pur garantendo opportunamente il diritto di proprietà intellettuale di una scoperta potenzialmente utile alla generalità nondimeno non consente di per sé l'impiego della biotecnologia medesima la quale resta sottoposta a tutti i controlli preventivi e successivi delle leggi poste a tutela di ogni altro tipo di interesse diritto privato e pubblico.
Su queste osservazioni sembra dunque di dover ritenere irragionevole, e contrario all'interesse nazionale, qualsiasi ritardo nel porre ricercatori ed imprese in condizione di brevettare le biotecnologie.
Si è già perso un notevole tempo, sia con l'incauto ricorso alla Corte sia ora con lo stabilire che dovranno essere nuovamente udite le Commissioni Parlamentari nella emanazione dei decreti delegati.
Già dal momento dello stralcio alla fine del febbraio 2002 le imprese sono giustamente in allarme, per lo stop avvenuto alla Camera sul recepimento della direttiva comunitaria sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche. «Un colpo di mano», denunciava la Confindustria, dal momento che l'aula di Montecitorio aveva licenziato il collegato alla Finanziaria dal titolo «iniziativa privata e sviluppo della concorrenza» mettendo da parte l'articolo 6, quello che appunto recepiva la direttiva Ue.
«La decisione arriva proprio quando la Commissione europea ha presentato la strategia per favorire lo sviluppo delle biotecnologie nella Ue con una serie di raccomandazioni agli Stati membri, inclusa l'attuazione della direttiva, che troveranno un'approvazione formale al prossimo vertice di Barcellona», ha commentato Nicola Tognana, vice presidente di Confindustria per la politica industriale. Gli industriali privati sottolineano che altri Paesi, come Danimarca, Francia, Grecia, Irlanda e Regno Unito, hanno già recepito la direttiva, altri sono già in fase avanzata. L'Italia rischia quindi, ancora una volta, di restare indietro su un argomento di grande interesse per le imprese. «Ciò rende ancora più stridente il contrasto tra quanto avviene da noi e nel resto d'Europa. Solo in Italia siamo all'anno zero, non possiamo permetterci di rimanere ancora indietro», insiste ancora Tognana, rimarcando che il provvedimento è simbolico della volontà di fare ricerca e fare impresa, in settori all'avanguardia nell'innovazione. «È per questo che la direttiva Ue va recepita in tempi brevi», dice ancora il vice presidente di Confindustria. Anche perché, se ciò non avverrà entro il mese di aprile, la Ue avvierà contro il nostro Paese una procedura di infrazione.
Con la direttiva, infatti, la Comunità ha voluto offrire agli utilizzatori della ricerca nel settore delle scienze e della vita un quadro di riferimento per migliorare la brevettazione anche per i prodotti biotecnologici e rendere più competitivi settori come la sanità, l'agricoltura, la protezione dell'ambiente e l'alimentazione. Gli istituti pubblici e privati e le industrie italiane da dieci anni aspettano l'adeguamento della nostra normativa, per poter competere con gli altri Paesi europei, con gli Usa e con il Giappone. Lo stralcio, quindi, rischia di frenare lo sviluppo del settore. Del resto, da parte delle imprese non si condividono i motivi soprattutto etici e di rischio ambientale che hanno portato a mettere da parte l'articolo 6. La norma, infatti, era conforme agli accordi TRIPS e alle legislazioni internazionali; inoltre dal momento che il brevetto accompagna e segue la ricerca, gli organi dello Stato possono sempre intervenire per opporsi alla sua


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utilizzazione. La brevettabilità, infatti, non autorizza il titolare ad attuare l'invenzione, ma si limita a conferirgli il diritto di vietare a terzi di sfruttarla.
La sinergia tra polo di ricerca universitario e bioindustria è una delle strategie che potrebbero consentire all'Italia di recuperare terreno nel campo biotech. Niente di nuovo, se si pensa che la Germania, fino a poco tempo fa in posizione secondaria rispetto alla Gran Bretagna, ha raggiunto il primato continentale per numero di aziende operanti nelle biotecnologie. Nel 2001 si contavano 350 imprese, nate grazie anche alla politica di incentivazione del Governo. Con il programma Bioregioni sono state create le condizioni fondamentali per lo sviluppo di aziende locali, è stata agevolata la brevettazione e gli investimenti nel settore delle biotecnologie. Un modello, quello tedesco, che potrebbe essere mutuato nel contesto italiano.
Un modello. In particolare una svolta potrebbe arrivare da una maggiore integrazione tra centri di ricerca universitari, laboratori interni per lo sviluppo di progetti innovativi, società di consulenza che finanzino con capitale di ventura le start-up e naturalmente una legislazione snella che velocizzi il processo di brevettazione, il tutto avendo come obiettivo finale la quotazione sui mercati finanziari. «I centri d'eccellenza italiani non hanno nulla da invidiare a quelli degli altri Paesi». Sostiene Lilia Alberghina, presidente del Consiglio del corso di laurea in biotecnologie industriali dell'Università degli studi di Milano-Bicocca. «Purtroppo continua Alberghina - le analisi recenti testimoniano la scarsa rilevanza della bioindustria italiana nel contesto internazionale e questo ha generato un significativo ritardo a livello industriale. L'Italia potrebbe uscire da questa situazione seguendo l'esempio della Germania, dove grazie all'adozione di strumenti di intervento pubblico molto efficaci (concorso Bioregioni) e allo sviluppo di raggruppamenti geografici di strutture e competenze le cosiddette cluster-biovalley, si sono raggiunti risultati di altissimo livello in Europa.
Finanziamenti. Un problema risiede soprattutto nel reperimento dei canali di finanziamento e di spazi fisici idonei a realizzare un'impresa biotech. La casistica relativa alle imprese biotecnologiche italiane, che hanno seguito il percorso di sviluppo consueto per quelle statunitensi e che hanno portato a termine il progetto originano di ricerca si contano sulle dita di una mano e gran parte di esse non sono delle vere start-up bensì delle operazioni di managing buy out effettuate su realtà già esistenti. La carenza di fondi unita alla mancanza di tessuto connettivo tra centri di ricerca e possibilità di realizzare un impresa costruendo un business plan ad hoc ha finora ingessato le molte potenzialità dei ricercatori italiani. «L'impresa biotecnologica - continua Alberghina - ha dei costi elevati perché necessita di spazi consoni e di laboratori attrezzati con strumentazioni sofisticate ma soprattutto ha bisogno di un numero di addetti consistente». Gli step principali identificati per realizzare una biotech company prevedono un ruolo decisivo nel valore selettivo del progetto di ricerca in ambito biotecnologico proprio in virtù dell'onerosità dell'impegno finanziario.
Il progetto. Quattro le fasi principale del progetto. La prima identifica una ricerca di base la cui qualità e rilevanza deve essere confortata dalla seconda fase relativa alla ricerca prospettica la quale include gli aspetti di trasferibilità, brevettabilità e innovatività del progetto, elementi cruciali al proseguimento della ricerca. Il terzo passo è la stesura di un business plan preciso e dettagliato che possa attirare l'interesse di venture capitalist e società di investimento. Infine la procedura di quotazione e il relativo rientro del capitale immesso dalla società finanziaria.
Troppa ricerca che rimane inutilizzata, eccesso di pubblicazioni accademiche che servono esclusivamente ai curriculum dei ricercatori, intuizioni che non riescono a sfociare in un'idea imprenditoriale e che


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magari, manca di un brevetto, diventano una facile preda del mercato. Un problema tutto italiano che affonda le proprie radici nella burocrazia accademica.

Tabella delle imprese biotech in Europa.

Imprese biotech:
Anno 1999:
Germania: 280; Regno Unito: 270; Francia: 178; Svezia: 130; Israele: 0; Svizzera: 93; Finlandia: 69; Paesi Bassi: 70; Belgio: 62; Danimarca: 60; Italia: 46; Norvegia: 25; Irlanda: 29; Spagna: 20; Altri Paesi: 0.

Anno 2000:
Germania: 335; Regno Unito: 270; Francia: 180; Svezia: 165; Israele: 160; Svizzera: 115; Finlandia: 85; Paesi Bassi: 80; Belgio: 71; Danimarca: 65; Italia: 52; Norvegia: 30; Irlanda: 29; Spagna: 28; Altri Paesi: 50.
Fonte: Emst & Young (2001).

Il sottosegretario alle Attività produttive, Mario Valducci, aveva promesso tempi brevi (si veda «Agrisole» n. 44/2001). Ma le norme che recepiscono le indicazioni Ue sulla brevettabilità delle biotecnologie, sono state stralciate dal disegno di legge sulla concorrenza, in discussione alla Camera e rinviate a un successivo provvedimento ad hoc. Il relatore, Bruno Tabacci, ha spiegato che «non si tratta di accantonare la questione ma di realizzare un provvedimento autonomo per intervenire con cognizione di causa dopo aver fatto i necessari approfondimenti».
Dal canto suo Valducci ha ribadito «la volontà di Governo e maggioranza di arrivare comunque al recepimento delle norme anche per non far restare l'industria italiana del settore ulteriormente indietro».
Ma le imprese protestano. Secondo il vicepresidente di Confindustna, Nicola Tognana, «la decisione arriva proprio quando la commissione Ue ha presentato la strategia per favorire lo sviluppo delle biotecnologie nella Ue con una serie di raccomandazioni agli Stati membri che troveranno formale approvazione nel prossimo vertice di Barcellona. Ciò - ha rilevato Tognana - ha reso ancor più stridente il contrasto tra quanto avviene nel resto d'Europa e quanto fa il nostro Paese. Solo in Italia siamo all'anno zero, ma non possiamo permetterci di rimanere ancora indietro».
E Assobiotec, con il presidente, Sergio Dompè, ha scritto direttamente al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. «È incomprensibile una nuova pausa di riflessione - ha aggiunto il direttore dell'Associazione, Leonardo Vingiani - alla luce della sentenza della Corte di giustizia Ue, emessa alla fine dello scorso anno, che ha già rigettato le obiezioni sollevate da Italia e Olanda». Insomma, l'auspicio è che il Governo «riprenda al più presto la via già indicata che è quella di voler recepire la direttiva e non dover convertire obbligatoriamente una direttiva Ue».
L'articolo stralciato a Montecitorio, delega il Governo a recepire la direttiva Ue sui brevetti biotech entro sei mesi dall'approvazione della legge, fissando 18 principi e criteri direttivi. La delega, con una articolata serie di tutele, prevede la brevettabilità di un materiale biologico, isolato al suo ambiente o prodotto tramite procedimento tecnico. Prevista anche la possibilità di brevettare un processo attraverso il quale viene prodotto o impiegato materiale biologico, anche se esistente allo stato naturale, purché abbia i requisiti di un'invenzione. La delega esclude la brevettabilità del corpo umano o «della mera scoperta» di elementi del corpo o della sequenza o della sequenza parziale di un gene. Fra i divieti anche quelli dei processi di donazione di esseri umani, di modifica dell'identità genetica degli esseri umani, ogni utilizzo di embrioni e le modifiche su animali che comportino sofferenze senza utilità medica sostanziale per l'uomo. Esclusa anche la possibilità di brevettare una semplice sequenza di Dna o una sequenza parziale di geni, utilizzata per produrre una proteina parziale che non abbia un utilizzo specifico utile per


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una valutazione industriale. Esclusa anche la brevettabilità di varietà e razze animali.
Le possibilità offerte dall'impiego delle moderne biotecnologie costituiscono una straordinaria opportunità ai fini del miglioramento delle condizioni generali di vita dell'uomo. Sono, infatti, molte e giustificate le aspettative che, da più parti, sono riposte riguardo alle applicazioni delle moderne biotecnologie in campo medico, chimico e farmaceutico. Maggiori preoccupazioni desta, invece, l'impiego delle biotecnologie in campo agricolo e alimentare, sul quale esistono opinioni fortemente contrastanti riguardo agli eventuali benefici che potrebbero derivare dal ricorso a tali pratiche. Negli ultimi anni, il dibattito sulle biotecnologie ha riguardato, in primo luogo, i problemi etici, ecologici e igienico-sanitari che la produzione di organismi transgenici, indubbiamente, comporta. Ciò ha contribuito a determinare una generale sottovalutazione degli aspetti economici che, a nostro giudizio, sono quelli di cui si dovrebbe tenere maggiormente conto ai fini di una serena e obiettiva valutazione sulla convenienza per il nostro sistema agroalimentare di un'eventuale apertura all'impiego degli organismi transgenici.
In quest'ottica, l'aspetto che più di ogni altro riteniamo sia necessario chiarire è se l'opzione transgenica possa essere coerente e compatibile con le caratteristiche produttive e con gli obiettivi di sviluppo del nostro sistema agro-alimentare, nonché con la domanda del consumatore e con le aspettative che i cittadini nutrono riguardo al ruolo dell'agricoltura nella società. È opinione comune che la nostra agricoltura ha particolare necessità di accrescere la propria capacità di orientarsi al mercato e quindi di sviluppare strategie produttive che, già dalle fasi di programmazione dell'offerta, possano offrire garanzie riguardo alla collocazione dei prodotti. A tal fine non si potrà, dunque, non considerare che, per quanto risulta da diversi e recenti studi, non meno dei due terzi dei consumatori europei si dichiara contrario all'impiego degli organismi transgenici in campo agricolo e alimentare. Così come non si potrà trascurare che tale espressione di volontà si associa ad altri comportamenti e ad altre aspettative che la gran parte dei cittadini hanno maturato rispetto all'agricoltura. Ci riferiamo, in particolare, al fatto che, oramai da tempo, all'agricoltura non è più richiesto dì limitarsi ad assolvere il tradizionale compito di garantire l'approvvigionamento alimentare, ma anche di assicurare lo svolgimento di altre importanti funzioni, prime fra tutte la tutela delle risorse naturali e ambientali e la garanzia della sicurezza
alimentare. La domanda del consumatore e, in genere, della società, non si fonda dunque più su caratteristiche prevalentemente quantitative (l'approvvigionamento alimentare), ma qualitative. Una tale evoluzione, da leggersi come l'effetto fisiologico diretto dello sviluppo economico generale e dell'aumento dei livelli di reddito disponibile, dimostra che, nella nostra società, la crescente attenzione verso aspetti, quali il rispetto dell'ambiente, la qualità e la salubilità dei prodotti alimentari, è un comportamento al quale si arriva, e dal quale non si torna indietro.
Ciò considerato non si può dunque pensare di aprire la nostra agricoltura all'impiego di organismi transgenici, senza prima avere attentamente valutato se, e in quale misura, una tale scelta possa comportare l'emergere di problemi di compatibilità tra ciò che i consumatori e, più in genere, la società domanda all'agricoltura e ciò che essa potrebbe essere in grado di offrire a seguito di una eventuale apertura al transgenico.
A tal fine gli elementi da considerare sono molti e tutti complessi. Riguardo ai prodotti transgenici sono, infatti, ancora troppi gli interrogativi che non hanno avuto risposte, o che non sono stati sufficientemente chiariti. In particolare, mancano gli elementi di conoscenza sufficienti a valutare l'effettiva entità, sia dei rischi per l'ambiente, sia degli effetti che potrebbero derivare sulla qualità degli alimenti. Si tratta, in entrambi, i casi di aspetti che, oltre ad avere evidenti implicazioni di carattere generale, per quanto riguarda la nostra agricoltura, potrebbero avere pesanti


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ricadute sotto il profilo economico e commerciale, qualora la qualità dei nostri prodotti agro-alimentari dovesse risultare compromessa o, comunque, meno apprezzata dal mercato, a seguito della presenza - nell'ambiente, o direttamente nei processi produttivi - di organismi transgenici.
A questo proposito, giova ricordare che la qualità non è un valore assoluto ma una caratteristica che il consumatore riconosce a un determinato prodotto in funzione di percezioni che, per quanto risulta dagli studi cui si faceva prima riferimento, non sembrano, attualmente, trovare riscontro positivo nella presenza di organismi transgenici. Quanto ora detto, non per esprimere giudizi, ma per indurre a considerare che l'impiego agricolo degli organismi transgenici potrebbe rivelarsi economicamente e commercialmente dannoso, anche nel caso in cui essi, pur risultando del tutto innocui per l'uomo e per l'ambiente, dovessero però anche solo nuocere all'immagine delle nostre produzioni tipiche e di qualità.
Riteniamo che tali considerazioni dovrebbero essere, se non condivise, almeno tenute in conto anche da coloro che sostengono l'irrinunciabilità al transgenico, in nome di un generico progresso che, in nessun caso, può essere, non diciamo fermato, ma neppure messo in discussione. Ci riferiamo, in particolare, a quella parte del mondo scientifico che, forse troppo interessata agli aspetti economici legati alla brevettabilità delle invenzioni generiche, tende a liquidare come oscurantisti tutti coloro che ispirandosi a comportamenti improntati al buon senso e al principio di precauzione, cercano assai più semplicemente di individuare i percorsi di sviluppo che meglio si prestano a tutelare e valorizzare le specificità del nostro sistema agro-alimentare.
Lo scorso è stato il secolo della fisica, del controllo della materia. Ora entriamo nel secolo della materia vivente, che pone molti più problemi perché tocca gli individui e quindi la società. Perciò implica scelte politiche. Non a caso in Germania c'è il grande dibattito sulle cellule staminali, in Francia Chirac e Jospin hanno avuto posizioni diverse sulla clonazione. Un anno fa al vertice di Lisbona i capi di Governo si sono impegnati a fare dell'Europa l'economia più dinamica e competitiva puntando sulla società dell'informazione e della conoscenza. Bisogna allora essere coerenti: per arrivarci bisogna fare il massimo sforzo nella ricerca e nello sviluppo. Altrimenti, se non lo si farà in Europa, si farà altrove. Dopo la società dell'informazione, le biotecnologie sono l'altro motore indispensabile per la competitività europea. Il vertice di Stoccolma del 23-24 marzo prossimo sancirà questa priorità. Non significa certo che tutti debbano fare la stessa cosa. Perché abbiamo culture diverse. Per esempio sulla questione dell'embrione le posizioni culturali sono diverse tra Italia, Germania e Gran Bretagna.
Non rischia questa diversità di condannare l'Europa all'impotenza e all'inazione. Infatti non necessariamente la diversità rappresenta un freno, perché ci sono talmente tante cose da fare che si può strutturare meglio la ricerca a livello europeo. Però c'è la questione aperta della brevettabilità, che oramai da parte dell'Italia deve essere chiusa al più presto.
Auguriamo quindi a questo testo dello stralcio dell'articolo 6 ch sia definitivo, sia rapidamente approvato dal Parlamento e sia seguito rapidamente dai decreti delegati. È importante perché la nostra società abbia il dinamismo economico e tecnologico necessario, indispensabile oggigiorno, a qualsiasi seria e non velleitaria difesa dell'ambiente, del territorio della qualità di vita dei cittadini.
Rallentare al di là del ragionevole questo dinamismo ammodernatore equivarrebbe ad abbandonare territorio e qualità di vita dei cittadini nelle mani del circostante universo globalizzato, che certamente non per questo eviterebbe di assorbirci in situazioni sociali nelle quali ci troveremmo impreparati. Ma quel che sarebbe triste è che ciò avverrebbe nonostante l'ottimo livello di preparazione e di iniziativa delle nostre native energie sociali.


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ALLEGATO 2

Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che istituisce una disciplina per lo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra nella Comunità e che modifica la direttiva 96/61/CE del Consiglio (COM(2001)581).

DOCUMENTO FINALE APPROVATO DALLA COMMISSIONE

L'VIII Commissione,
esaminata, ai sensi dell'articolo 127 del Regolamento della Camera, la proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, che istituisce una disciplina per lo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra nella Comunità e che modifica la direttiva 96/61/CE del Consiglio (COM(2001)581);
acquisito il parere espresso, in data 19 giugno 2002, dalla XIV Commissione (Politiche dell'Unione europea);
tenuto conto che la proposta di direttiva in esame fa parte di un «pacchetto» di proposte in materia di emissione di gas serra, che la Commissione europea ha predisposto al fine di realizzare gli impegni assunti con la firma del Protocollo di Kyoto, secondo le linee tracciate già nel marzo 2000 nel "Libro verde sugli scambi dei diritti di emissione dei gas serra nell'Unione Europea", che ha avviato un ampio dibattito in tutta Europa sull'opportunità di tale sistema e sulle sue possibili caratteristiche;
considerato che la proposta di direttiva prevede la costituzione di un sistema comunitario interno di scambio dei diritti di emissione dei gas a effetto serra, in virtù del quale si dovrebbero stabilire quote di emissioni annuali e gli Stati membri dovrebbero rilasciare permessi di inquinare alle imprese - aziende di siderurgia, di produzione di energia, di pasta da carta, di produzione di cemento, di vetrerie - il cui contributo stimato alle emissioni di CO2 (biossido di carbonio) ammonterà nel 2010 al 46 per cento;
osservato che, per i sistemi industriali dei Paesi economicamente più avanzati quali l'Italia, l'utilizzo dei meccanismi flessibili nell'attuazione degli impegnativi obiettivi previsti dal Protocollo di Kyoto può costituire una importante occasione per ridurre i costi derivanti dal Protocollo medesimo;
rilevato peraltro che la proposta di direttiva enumera una serie di misure da adottare per la sua attuazione all'interno dei singoli Paesi, prevedendo in particolare un consistente ed oneroso numero di adempimenti burocratici a carico delle imprese interessate e che, non avendo l'Italia - diversamente da altri Paesi - introdotto un sistema nazionale di scambio di diritti di emissione, la normativa in esame costituirà un elemento di forte novità, con possibili rischi di inadempienza e di sanzioni, qualora gli adempimenti non tengano conto dei limiti e delle peculiarità della situazione italiana;
considerato pertanto che tali obiettivi sono perseguibili soltanto se gli strumenti e le regole da porre in essere per la loro attuazione sapranno essere coerenti con i criteri fondamentali su cui si basa lo sviluppo del sistema produttivo ed industriale, con tutte le particolarità che esso registra storicamente nella nostra realtà nazionale;
ritenuto che vi sia la concreta possibilità di creare una eccessiva interferenza


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della direttiva in esame con le decisioni dei singoli Stati membri, fra loro strutturalmente divergenti per tanti aspetti del loro sviluppo economico e produttivo, nella definizione dei rispettivi piani nazionali delle riduzioni delle emissioni di gas ad effetto serra, per cui la proposta di direttiva in esame dovrà essere coordinata con l'insieme delle misure che l'Italia sarà chiamata ad assumere in conseguenza della ratifica del Protocollo di Kyoto, tra le quali l'adozione di un piano nazionale che porterà alla revisione della vigente delibera CIPE del 1998, recante gli impegni nazionali per il raggiungimento degli obiettivi del Protocollo stesso;
osservato che una questione centrale è rappresentata dalla scelta, per il primo periodo di applicazione della direttiva, tra la volontarietà o la obbligatorietà del sistema, che comporterebbe non poche differenze sotto il profilo delle ricadute concrete sul sistema produttivo, con particolare riferimento a quello oggi esistente in Italia;
ritenuto altresì opportuno un approfondito esame del «Libro verde sugli scambi dei diritti di emissione dei gas serra nell'Unione Europea», che si sofferma su numerosi aspetti problematici, ponendo in particolare l'accento sulla necessità di garantire che le iniziative degli stati membri non creino indebiti ostacoli alla libertà di stabilimento nell'ambito del mercato interno;
considerato che, ai fini del calcolo dell'abbattimento dell'emissione dei gas serra, l'impegno dell'Italia appare particolarmente oneroso, tanto da far ritenere molto concreti i rischi che potranno derivare dal meccanismo di scambio dei diritti di emissione a livello comunitario per le imprese italiane, con riflessi significativi in termini di competitività e di occupazione;
rilevato che non appare coerente con gli stessi impegni definiti dal Protocollo di Kyoto una prospettiva che possa tradurre i meccanismi flessibili, da questo previsti, in inutili strumenti di controllo e penalizzante tassazione sull'attività delle imprese ovvero in aggravi di costi per l'intero sistema produttivo, con ovvie ricadute sui prezzi finali dei loro prodotti e servizi;
esprime le seguenti valutazioni, invitando il Governo a condizionare al loro rispetto il suo assenso alla proposta di direttiva:
1) appare indispensabile che l'Italia e gli altri Stati membri possano mantenere la più ampia autonomia nella definizione delle politiche nazionali per il raggiungimento degli obiettivi definiti dal Protocollo di Kyoto; in questo contesto, appare necessario che anche i criteri per l'attribuzione delle quote di emissione, ai sensi della proposta di direttiva, siano stabiliti a livello nazionale, sulla base delle politiche adottate dal singolo Stato membro, in applicazione del principio di sussidiarietà;
2) almeno nella prima fase di attuazione del nuovo regime di scambi (2005-2007), si potrebbe ipotizzare un sistema di adattamento di carattere volontario, al termine del quale potrebbero essere adottati gli adeguati correttivi ed aggiustamenti richiesti dall'esperienza concreta;
3) non appare condivisibile il sistema di allocazione delle quote a pagamento a partire dal 2008, previsto dall'articolo 10 della proposta di direttiva, in quanto sembrerebbe creare una vera e propria forma di tassazione sulle imprese; a tal fine, si potrebbe prevedere un principio per cui l'allocazione delle quote avvenga a titolo gratuito anche dopo il periodo transitorio;
4) andrebbe garantito un meccanismo di applicazione della direttiva, che consenta il pieno coinvolgimento dei rappresentanti dei settori interessati, garantendo al contempo il riconoscimento degli sforzi già compiuti dai sistemi industriali più avanzati, come quello italiano, fortemente spinto da tempo ai risparmi energetici, data la sua fortissima dipendenza dalle importazioni dall'estero;


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5) andrebbe valutata l'opportunità di promuovere la creazione di un sistema condiviso a livello comunitario per il monitoraggio e la verifica dei livelli di emissione e dei livelli di riduzione effettivamente conseguiti dai diversi sistemi industriali e produttivi dei Paesi dell'UE;
6) si potrebbe verificare la possibilità di non prevedere una rigida esclusione di determinati settori produttivi e, dunque, di inserire nell'ambito di applicazione della direttiva, di cui all'allegato 1, anche altri settori interessati dal regime di scambi, quali, ad esempio, il settore chimico e quello dei rifiuti;
7) andrebbe realizzata ogni possibile iniziativa per garantire che non vi siano sovrapposizioni, nell'applicazione della direttiva, tra strumenti di tipo volontario (quali, ad esempio, gli scambi di quote di emissioni) e strumenti di tipo tradizionale, impostati sul principio dell'obbligatorietà e del controllo;
8) occorrerebbe valutare la possibilità di tenere conto, nell'ambito dello scambio di quote di emissioni, anche dei crediti derivanti dall'applicazione di tutti i meccanismi flessibili previsti dal protocollo di Kyoto;
9) si potrebbe fare in modo di includere nel sistema di scambi anche le emissioni indirette (quali, ad esempio, quelle che corrispondono ai consumi di energia elettrica acquistata) nell'ambito del meccanismo di emission trading delineato dalla direttiva, considerato che il solo riferimento alle emissioni dirette non consente una effettiva valutazione dell'efficienza energetica;
10) si dovrebbe ipotizzare un meccanismo che garantisca che importanti riduzioni di gas serra, conseguite anche mediante iniziative realizzate in Paesi terzi, consentano in tal modo l'acquisizione di ulteriori crediti di emissione; a tal fine, occorre prevedere, all'articolo 24 della proposta di direttiva, che ciascuno Stato membro - e non solo la Comunità - possa concludere accordi con i Paesi terzi per il riconoscimento reciproco di quote di emissioni;
11) occorrerebbe infine valutare la possibilità di definire il regime di scambi fra diversi impianti posseduti da uno stesso gruppo industriale, che tuttavia siano operanti in diversi Stati membri o anche in Stati terzi.

PROPOSTA ALTERNATIVA DI DOCUMENTO FINALE
PRESENTATA DAI DEPUTATI VIANELLO E REALACCI.

La VIII Commissione,
esaminata, ai sensi dell'articolo 127 del Regolamento della Camera, la proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, che istituisce una disciplina per lo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra nella Comunità e che modifica la direttiva 96/61/CE del Consiglio (COM(2001)581);
acquisito il parere espresso, in data 19 giugno 2002, dalla XIV Commissione (Politiche dell'Unione Europea);
tenuto conto che la proposta di direttiva in esame fa parte di un «pacchetto» di proposte in materia di emissione di gas serra, che la Commissione europea ha predisposto al fine di realizzare gli impegni assunti con la firma del Protocollo di Kyoto, secondo le linee tracciate già nel marzo 2000 nel «Libro verde sugli scambi dei diritti di emissione dei Gas serra nell'Unione Europea», che ha avviato un ampio dibattito in tutta Europa sull'opportunità di tale sistema e sulle sue caratteristiche;
considerato che la proposta di direttiva prevede la costituzione di un sistema


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comunitario interno di scambio dei diritti di emissione dei gas serra, in virtù del quale si dovrebbero stabilire quote di emissioni annuali e gli Stati membri dovrebbero rilasciare permessi di inquinare alle imprese, di cui all'allegato 1, il cui contributo stimato alle emissioni di CO2 (biossido di carbonio) ammonterà nel 2010 al 4.6 per cento;

considerato che

gli effetti dell'emissione incontrollata dei gas serra determina gravi squilibri ambientali e climatici, contribuisce all'impoverimento di vaste aree del Pianeta, mette in discussione il futuro dell'umanità intera;
conseguentemente bisogna dare una rapida e rigorosa applicazione del Protocollo di Kyoto, superando le resistenze materiali e culturali, gli egoismi nazionali che si frappongono, soprattutto da parte dei Paesi dell'occidente;
la Direttiva in discussione può essere la prima ed importante traduzione dei principi contenuti nel Protocollo di Kyoto, anche perché viene applicata al fine di poter ridurre le emissioni di CO2 (biossido di carbonio), gas serra che da solo contribuirà, entro il 2010 (se non ci saranno interventi conseguenti) a determinare il 46 per cento del totale delle emissioni;
è ormai impropria la definizione usata di «industria nazionale». Non è chiaro infatti se per «industria nazionale» si intenda riferirsi a imprese di proprietà pubblica, o a imprese le quali abbiano sede e/o rappresentanza legale e/o di stabilimento in uno Stati membro della Unione Europea. Appare quindi molto difficile definire i presunti interessi da tutelare delle «imprese nazionali», se non per individuare e, per quanto possibile favorire nei loro processi di riconversione e di salvaguardia dell'occupazione, le imprese stabilite in Italia. Molto meglio sarebbe discutere di politiche industriali, energetiche e di politiche ambientali dell'Unione Europea, ciò anche per poter accelerare i processi innescati conseguentemente all'adozione di un unico sistema monetario;
al contrario, l'applicazione del Protocollo di Kyoto e della Direttiva in discussione costituisce l'occasione per poter accelerare il processo di riconversione di imprese, spesso povere tecnologicamente e a forte impatto ambientale, in senso eco-compatibile. Si ricorda come la Direttiva preveda meccanismi premianti per le imprese che riducano le loro emissioni di gas serra;
le tipologie (categorie di attività) di cui all'allegato 1 della Direttiva, rappresentano - generalmente - settori ormai residuali nel tessuto industriale italiano il quale, al contrario, in grande parte, è costituito da piccole e medie imprese e da imprese artigiane;
appare più consono richiedere al mondo delle imprese scelte di politica industriale che vadano nella direzione della eco-sostenibilità (come peraltro sostenuto dall'imprenditoria aderente al Kyoto club), prevedendo, da parte del Governo, misure di incentivazione e di aiuto, così come previsto, ed anzi auspicato dalle Direttive comunitarie in materia;

esprime le seguenti valutazioni invitando il Governo a condizionare al loro rispetto il suo assenso alla proposta di Direttiva:
nella prima fase di attuazione (2005-2007) si prevedano obiettivi nazionali e politiche nazionali, solo come transizione verso piani ed obiettivi comunitari. Naturalmente il mercato dei diritti di emissione dovrebbe seguire parallelamente tale processo. Questa soluzione pare quella maggiormente coerente rispetto le diverse opzioni espresse dal «Libro verde sugli scambi dei diritti di emissione dei gas serra nell'Unione Europea»;
va promossa la creazione di un sistema condiviso a livello comunitario per il monitoraggio e la verifica dei livelli di emissione e dei livelli di riduzione effettivamente


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conseguiti dai diversi sistemi industriali e produttivi dei Paesi dell'Unione Europea, tale monitoraggio andrebbe esteso anche alle misure adottate dai diversi Stati membri per raggiungere gli obiettivi posti dalla Direttiva;
va estesa la tipologia delle categorie di cui all'allegato 1 della Direttiva in discussione anche alle industrie chimiche, nonché ai sistemi di incenerimento di rifiuti; parimenti si può ipotizzare l'avvio di un meccanismo analogo a quanto previsto nella Direttiva, anche per quanto attiene altri gas serra, cosa peraltro auspicata dal «Libro Verde»;
va impostata una politica condivisa tra i diversi Stati membri dell'Unione Europea, affinché si estendano i meccanismi di incentivazione e di adesione volontaria, escludendo gli strumenti impositivi, soprattutto se improntati ad un aumento della pressione fiscale;
va ipotizzata un meccanismo che garantisca che importanti riduzioni di gas serra, conseguite anche mediante iniziative realizzate in Paesi terzi, consentano l'acquisizione di ulteriori crediti di emissione; è l'Unione Europea che ha la facoltà di concludere accordi con i Paesi terzi per il riconoscimento reciproco di quote di emissione. Naturalmente andranno escluse da questo meccanismo iniziative industriali che segnino un incentivo all'uso dell'energia prodotta dal nucleare;

invita

il Governo italiano a prevedere, fin la prossimo Documento di programmazione economica e finanziaria, misure a sostegno e di incentivo alle imprese che intraprendono politiche improntate alla eco-compatibilità e al risparmio energetico.
Tali misure, accompagnate da politiche di governo del mercato del lavoro, andranno destinate prioritariamente ai settori industriali di cui all'allegato 1 della Direttiva.


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ALLEGATO 3

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE STRATEGIE NAZIONALI PER IL RAGGIUNGIMENTO DEGLI OBIETTIVI DEFINITI DAL PROTOCOLLO DI KYOTO DEL 1997, IN MATERIA DI CONTROLLO DEL LIVELLO DI EMISSIONI DI GAS SERRA

DOCUMENTO CONCLUSIVO APPROVATO DALLA COMMISSIONE

1. Premessa.

L'Ufficio di Presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, della VIII Commissione, nella riunione dell'11 luglio 2001, ha concordato sull'opportunità di svolgere un'indagine conoscitiva sulle strategie nazionali per il raggiungimento degli obiettivi definiti dal protocollo di Kyoto del 1997, in materia di controllo del livello di emissioni di gas serra, sulla quale è stata acquisita, ai sensi dell'articolo 144, comma 1, del regolamento, l'intesa con il Presidente della Camera.
L'indagine conoscitiva è stata quindi deliberata dalla Commissione nella seduta del 17 luglio 2001 ed è stato fissato al 15 febbraio 2002 il termine per la sua conclusione; successivamente, tale termine è stato prorogato al 30 settembre 2002.
Nelle intenzioni della Commissione le finalità dell'indagine, che ha tratto origine anche dagli aspetti problematici e dagli sviluppi emersi in ambito internazionale in merito alle modalità di attuazione del Protocollo di Kyoto del 1997, sono riconducibili ai seguenti obiettivi:
esaminare ed eventualmente definire strategie nazionali per il conseguimento degli obiettivi definiti dal protocollo di Kyoto, tenendo conto delle misure finora adottate e degli orientamenti definiti in sede comunitaria;
approfondire le ragioni che sono alla base dell'incremento di emissioni di gas serra che si è registrato in Italia nel periodo 1990-1998, al fine di individuare possibili misure di intervento alternative, capaci anche di recuperare il gap che si è venuto a creare rispetto ai livelli di riduzione delle emissioni da raggiungere entro il periodo 2008-2012.

La Commissione ha quindi promosso lo svolgimento dell'indagine conoscitiva per approfondire, insieme ai numerosi soggetti competenti, i possibili interventi da effettuare - entro tempi brevi - per consentire all'Italia di adeguarsi agli impegni assunti con il Protocollo fatto a Kyoto nel 1997, recentemente ratificato dal Parlamento italiano, affinché tali misure possano anche costituire una significativa occasione di sviluppo e di crescita per gli operatori del settore produttivo e per l'intero sistema di concorrenza delle imprese.
L'indagine si è concretamente avviata l'11 ottobre 2001 con l'audizione del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, Altero Matteoli (poi proseguita nella seduta del 14 novembre 2001), e con l'audizione del Ministro delle politiche agricole e forestali, Giovanni Alemanno, in data 18 ottobre 2001.
Si sono poi svolte le audizioni di rappresentanti dell'ENEA e del CNR, in data, rispettivamente, 20 novembre 2001 e 19 febbraio 2002. Successivamente, in data 21 febbraio 2002, ha avuto luogo l'audizione del Vice Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, Guido Possa . Infine, il 26 febbraio 2002 si è svolta l'audizione di rappresentanti del «Kyoto club», mentre il 30 maggio 2002 sono stati


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auditi i rappresentanti di Confindustria e di associazioni di imprese ad essa aderenti.
Rispetto al programma dell'indagine originariamente definito dalla Commissione, che prevedeva anche lo svolgimento di ulteriori audizioni, l'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, della VIII Commissione, nella riunione del 12 giugno 2002, ha convenuto sull'opportunità di ridurre il ciclo di audizioni previste, ritenendo esaurienti gli elementi emersi nel corso delle audizioni già svolte. Al riguardo, peraltro, si è ritenuto che un ulteriore quadro di elementi conoscitivi di rilievo fosse stato acquisito nel corso delle audizioni informali svolte nell'ambito del Comitato ristretto sul disegno di legge C. 1798, recante una delega al Governo per il riordino in materia ambientale, nonché nelle audizioni effettuate nell'ambito dell'esame della proposta di direttiva comunitaria sugli scambi di emissioni di gas serra (con particolare riferimento all'audizione di europarlamentari italiani dell'omologa Commissione del Parlamento europeo).
Pertanto, nella seduta del 19 giugno 2002, la Commissione ha deciso di considerare concluso il programma di audizioni dell'indagine conoscitiva e di procedere alla discussione del documento conclusivo.


2. Il quadro giuridico esistente.

Com'è noto, con il Protocollo sottoscritto a Kyoto il 7 dicembre 1997 da oltre 160 paesi partecipanti alla terza sessione della Conferenza delle parti della Convenzione sui cambiamenti climatici, i paesi industrializzati si sono posti l'ambizioso obiettivo di ridurre del 5,2 per cento, entro il 2012, le emissioni dei sei gas ritenuti responsabili di una delle cause del riscaldamento del pianeta. Sulla base della successiva ripartizione degli obiettivi da conseguire per ciascun paese entro il 2012 - operata sulla base di determinati parametri - per l'Italia è stata individuata la percentuale del 6,5. Tale percentuale deve essere tuttavia maggiorata del differenziale negativo registrato nel periodo 1990-1998, in parte dovuto al fatto di aver preso come unico riferimento il 1990, anno in cui l'Italia aveva già avviato politiche di risparmio energetico a seguito delle crisi degli anni ottanta legate al prezzo del petrolio.
Oggetto del Protocollo è pertanto uno solo degli aspetti del cambiamento climatico: la riduzione, attraverso un'azione concordata a livello internazionale, delle emissioni di gas serra, per cui i paesi industrializzati (elencati nell'Annex I del Protocollo) si impegnano a ridurre le proprie emissioni entro il 2012. Il protocollo di Kyoto non prevede vincoli alle emissioni per tutti i paesi firmatari, ma solo per quelli compresi nell'elenco citato (Annex I): una lista di 39 paesi che include i paesi OCSE e quelli con economie in transizione verso il mercato. Tale scelta è stata operata in attuazione del principio di «responsabilità comune ma differenziata» secondo il quale, nel controllo delle emissioni, i paesi industrializzati si fanno carico di maggiori responsabilità, in considerazione dei bisogni di sviluppo economico dei PVS.
Obiettivo del Protocollo è la riduzione delle emissioni globali di sei gas, ritenuti responsabili di una delle cause del riscaldamento del pianeta: anidride carbonica (CO2), metano (CH4), ossido di azoto (N2O), esafluoruro di zolfo (SF6), idrofluorocarburi (HFCs) e perfluorocarburi (PFCs).
Gli impegni generali previsti dal Protocollo sono: il miglioramento dell'efficienza energetica, la correzione delle imperfezioni del mercato (attraverso incentivi fiscali e sussidi), la promozione dell'agricoltura sostenibile, la riduzione delle emissioni nel settore dei trasporti e l'informazione rivolta a tutte le altre Parti sulle azioni intraprese (cosiddette «comunicazioni nazionali»).
Il 29 aprile 1998 la Commissione europea ha firmato il Protocollo, siglato anche da tutti gli Stati membri individualmente: essi daranno corso agli impegni, ai quali l'Unione europea fornisce un quadro generale di riferimento, tenuto conto delle


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politiche comunitarie in materia ambientale. L'Unione europea si è impegnata per una riduzione globale delle emissioni dei sei gas serra pari all'8 per cento rispetto ai valori del 1990. L'articolo 4 del Protocollo le riconosce la facoltà di ridistribuire tra i suoi Stati membri gli obiettivi ad essa imposti, a condizione che rimanga invariato il risultato finale. L'accordo politico su tale ridistribuzione, noto come accordo sulla ripartizione degli oneri, è stato raggiunto nel Consiglio Ambiente del 16-17 giugno 1998, e consente ad alcuni Stati membri di aumentare le loro emissioni e ad altri di ridurle, in modo che l'Unione europea raggiunga congiuntamente l'obiettivo dell'8 per cento.
Quindi, il 23 ottobre 2001, la Commissione ha presentato una proposta di decisione relativa alla ratifica da parte dell'UE del Protocollo (COM(2001) 579, procedura di consultazione), che recepisce l'accordo sulla ripartizione degli oneri. L'articolo 5 della proposta di decisione ha quindi disposto che gli Stati membri depositino gli strumenti di ratifica contemporaneamente a quello della Comunità, come definitivamente avvenuto.
Proprio in attuazione delle citate previsioni, merita al riguardo rilevare che, nel corso di svolgimento dell'indagine conoscitiva, l'iter parlamentare per la ratifica del Protocollo di Kyoto, svoltosi presso le Commissioni riunite III e VIII della Camera dei deputati a partire dal 21 marzo 2002, si è concluso - il 29 maggio 2002 - con l'approvazione definitiva, da parte dell'Assemblea del Senato della Repubblica, dell'A.S. 1415, ora divenuto legge 1o giugno 2002, n. 120.
La legge italiana non si limita alla mera ratifica del Protocollo, ma reca una serie di disposizioni finalizzate al raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra.
Si dispone, infatti, che il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, entro il 30 settembre 2002, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e con gli altri ministri interessati, è tenuto a presentare al CIPE:
un piano di azione nazionale per la riduzione dei livelli di emissione dei gas serra e l'aumento del loro assorbimento;
una relazione contenente lo stato di attuazione e la proposta di revisione della delibera CIPE n. 137 del 19 novembre 1998 e lo stato di attuazione dei programmi finanziati dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio in attuazione del decreto-legge 30 dicembre 1999, n. 500, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 febbraio 2000, n. 33, e del regolamento di cui al decreto del Ministro dell'ambiente 20 luglio 2000, n. 337, nonché di ulteriori programmi pilota di cui al comma 3 dell'articolo 2 della stessa legge.

Per quanto riguarda, in particolare, la proposta di revisione della delibera CIPE n. 137 del 19 novembre 1998, che ha costituito una dei principali oggetti dell'indagine conoscitiva, la legge italiana di ratifica precisa che essa dovrà contenere l'individuazione delle politiche e delle misure finalizzate al raggiungimento dei migliori risultati in termini di riduzione delle emissioni mediante il miglioramento dell'efficienza energetica del sistema economico nazionale e un maggiore utilizzo delle fonti di energia rinnovabili, all'aumento degli assorbimenti di gas serra derivanti dalle attività e dai cambiamenti di uso del suolo e forestali, alla piena utilizzazione dei meccanismi istituiti dal Protocollo di Kyoto per la realizzazione di iniziative congiunte con gli altri Paesi industrializzati (joint implementation) e con quelli in via di sviluppo (clean development mechanism), e, infine, all'accelerazione delle iniziative di ricerca e sperimentazione per l'introduzione dell'idrogeno quale combustibile e per la realizzazione di impianti per la produzione di energie alternative pulite (biomasse, biogas, combustibile derivato dai rifiuti, impianti eolici, fotovoltaici, solari).
Il meccanismo di joint implementation, di cui si parlerà più diffusamente in seguito, è finalizzato alla realizzazione di progetti comuni tra Paesi industrializzati per la riduzione delle emissioni mediante


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la diffusione e l'impiego di tecnologie più efficienti, con l'accreditamento ad entrambe le Parti delle riduzioni ottenute. I programmi di cooperazione tecnologica di joint implementation sono sostanzialmente indirizzati verso i Paesi con economia in transizione del Centro-Est Europa, che devono ristrutturare i loro sistemi produttivi e commerciali, poco efficienti e competitivi. Questa «spinta verso Est» è stata peraltro accentuata dall'approvazione di un emendamento al disegno di legge di ratifica, secondo cui, ai fini dell'adempimento degli impegni quantificati di riduzione delle emissioni, viene considerata anche la partecipazione di imprese italiane operanti nel settore energetico ad iniziative, pubbliche o private, realizzate nei paesi dell'Europa orientale con economia in transizione e destinate alla costruzione, ristrutturazione o messa in sicurezza di impianti energetici che consentono di ridurre od eliminare l'emissione di anidride carbonica. Tutto ciò, nel rispetto della decisione 16/CP.7 adottata a Marrakech nel novembre 2001.
Oltre alla relazione, il comma 3 dello stesso articolo 2 della legge, prevede che il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, entro il 30 marzo di ogni anno, individui, con proprio decreto e di concerto con i ministri interessati e con la Conferenza unificata Stato-regioni-città, i programmi pilota da attuare a livello nazionale ed internazionale per la riduzione delle emissioni e l'impiego di piantagioni forestali per l'assorbimento del carbonio.
I programmi pilota dovranno avere l'obiettivo di definire i modelli di intervento più efficaci dal punto di vista dei costi, sia a livello interno che nell'ambito delle iniziative congiunte previste dai meccanismi istituiti dal Protocollo di Kyoto. Sull'attuazione di tali programmi il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio trasmette al Parlamento, entro il 30 novembre di ogni anno, una relazione.
Altre disposizioni della legge di ratifica danno attuazione all'impegno assunto anche dall'Unione Europea durante la Sesta Conferenza delle Parti firmatarie della Convenzione tenutasi a Bonn nel luglio 2001, che prevedeva, tra l'altro, l'istituzione di tre fondi per sostenere i Paesi in via di sviluppo che adotteranno programmi di riduzione delle emissioni e che risultano particolarmente vulnerabili agli effetti dei cambiamenti climatici (inondazioni, siccità, eccetera).
Infine, la legge italiana di ratifica del Protocollo reca anche uno stanziamento pari a 25 milioni di euro per ciascuno degli anni 2002, 2003 e 2004, per l'avvio dei programmi pilota, e di 68 milioni di euro annui, a decorrere dall'anno 2003, per il finanziamento dei fondi di sostegno ai Paesi in via di sviluppo.
Per completare il quadro normativo di riferimento in relazione al Protocollo di Kyoto, infine, si ricorda che, sin dal 1993 - quindi immediatamente dopo il Summit di Rio sullo sviluppo sostenibile - l'Italia si è dotata di un Piano globale, approvato dal CIPE, per l'attuazione dell'Agenda 21.
Il Programma Agenda 21, approvato a Rio de Janeiro nel 1992 e sottoscritto da oltre 170 nazioni, è un catalogo delle politiche e delle azioni mirate allo Sviluppo Sostenibile. L'Agenda 21 è il processo di partnership attraverso il quale gli Enti Locali operano in collaborazione con tutti i settori della comunità locale per definire piani di azione per perseguire la sostenibilità. Proprio in considerazione delle peculiarità di ogni singola città, le autorità locali di tutto il mondo sono quindi invitate a dotarsi di una propria Agenda.
In Italia, il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio sostiene il processo di Agenda 21 locale, co-finanziando numerosi progetti. Attraverso il Bando emanato con il DM ambiente del 18.12.2000 si sta sostenendo l'attuazione di 111 progetti risultati idonei per un importo complessivo di 12,9 milioni di Euro. Tutti i progetti risultano attivati entro i termini previsti. Il successo di questo Bando per il finanziamento di programmi di sviluppo sostenibile e attuazione di Agende 21 Locali, ha suggerito all'Amministrazione di replicare l'esperienza per il 2002, anche in previsione del summit sullo Sviluppo Sostenibile di Johannesburg.


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Venendo alle iniziative più recenti, in preparazione del nuovo summit di Johannesburg, in data 5 ottobre 2001, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio ha presentato al Consiglio dei Ministri una prima proposta di «Strategia d'azione ambientale per lo sviluppo sostenibile in Italia», redatta dal Servizio per lo Sviluppo Sostenibile del Ministero dell'Ambiente con la collaborazione dell'ENEA. Il Documento, che è attualmente in fase di ulteriore elaborazione e integrazione, riflette la proposta della Commissione europea sul Sesto Piano d'Azione per l'Ambiente e conferma la volontà nazionale di conformarsi al nuovo cammino europeo e internazionale a favore della sostenibilità. L'attuale bozza della Strategia Nazionale si articola in capitoli ciascuno dei quali dedicato ad uno specifico settore di intervento: Clima ed atmosfera, Natura e biodiversità, Qualità dell'ambiente e qualità della vita negli ambienti urbani, Prelievo delle risorse e produzione di rifiuti.
In conclusione, il quadro delle iniziative per l'attuazione degli impegnativi obiettivi fissati dal Protocollo di Kyoto è più che avviato e, dunque, si tratta di comprendere in che misura, secondo quali indirizzi e, soprattutto, con quali strategie nazionali l'Italia potrà muoversi per il raggiungimento degli impegni assunti in sede internazionale.

3. Le prospettive generali.

In questo contesto, il paese è chiamato ad una grande sfida che, per dare luogo a risultati positivi, deve essere imperniata sulla presa di coscienza dell'importanza di considerare la politica ambientale non come elemento isolato ma come politica trasversale rispetto agli altri settori economici e produttivi. Al tempo stesso, il raggiungimento di tale traguardo deve essere considerato come una preziosa occasione per il rinnovamento e la modernizzazione del nostro sistema produttivo e dei trasporti, in modo da assicurare un approvvigionamento di fonti energetiche che sia il meno dipendente possibile da variabili di carattere politico od economico. Le politiche nazionali per il raggiungimento di tali obiettivi dovranno tuttavia fare in modo che gli interventi individuati siano applicabili non solo alle imprese di grandi dimensioni ma anche a tutte le piccole e medie imprese del paese ed in modo da non pregiudicare la capacità competitiva in ambito nazionale ed internazionale del nostro settore industriale.
Tuttavia, non può non rilevarsi come gli accordi sottoscritti in sede internazionale, coinvolgendo almeno fino al 2012 i soli paesi industrializzati, rischiano di produrre l'effetto di una riduzione di gas serra limitata ad una ristretta parte della terra nonostante la portata globale degli obiettivi prefissati. Infatti, pur essendo da una parte condivisibile il principio della «responsabilità comune ma differenziata» che è stato applicato a Kyoto, proprio per non gravare i paesi in via di sviluppo di ulteriori oneri in una delicata fase di transizione, non può non destare preoccupazione il fatto che, in tale modo, paesi come la Cina e l'India - che hanno registrato negli ultimi anni significativi tassi di sviluppo e che si caratterizzano per una elevatissima densità di popolazione - non siano coinvolti negli obiettivi di riduzione di emissioni per il miglioramento planetario. Oltretutto, coinvolgendo anche tali paesi nelle politiche di riduzione delle emissioni, si potrebbe fare in modo che le loro politiche industriali e dei trasporti siano da subito imperniate su meccanismi ecocompatibili, tramite interventi di esportazione e di sviluppo di tecnologie volti ad evitare che tali Stati incorrano nei medesimi errori fatti dai paesi industrializzati dovuti alla mancanza, negli anni passati, della possibilità di fare ricorso a tecnologie available. In tale senso, appare positiva - anche se non esaustiva - la decisione adottata alla Conferenza delle parti di Bonn di istituire un fondo per sostenere i paesi in via di sviluppo che adotteranno i programmi di riduzione delle emissioni e che risulteranno particolarmente vulnerabili agli effetti dei cambiamenti climatici.


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Inoltre, non può che destare preoccupazione il fatto che gli Stati Uniti, rilevante produttore di gas ad effetto serra in proporzione rispetto al resto del pianeta, non abbiano ancora definito in misura chiara il percorso per il raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni inquinanti.
Sempre nell'ottica della necessità di un intervento globale appare altresì opportuno che, per il futuro, si faccia ricorso a quei meccanismi flessibili di cooperazione ambientale internazionale individuati nella Conferenza di Bonn (Joint implementation e Clean development mechanism). In proposito, appare infatti prioritario consentire a paesi come l'Italia di acquistare crediti tramite interventi in paesi con un'economia meno avanzata o, comunque, in fase di transizione tramite, ad esempio, la realizzazione o la ristrutturazione di centrali di energia alternative o mediante interventi che consentano di evitare la deforestazione del pianeta.
Al riguardo, com'è noto, l'Unione europea ha già provveduto a definire in un libro verde le linee direttrici per consentire lo scambio di quote di gas serra tra i paesi dell'Unione; a tale documento ha fatto seguito una proposta di direttiva, esaminata dalla VIII Commissione nell'ambito della fase ascendente di esame della legislazione comunitaria, che tuttavia, per il momento, limita a taluni settori e a determinati gas l'applicazione dei meccanismi di assegnazione di quote e del relativo scambio.
In linea più generale, quindi, per il raggiungimento dei traguardi fissati in ambito internazionale, occorrerà promuovere serie e decise azioni e politiche di intervento, soprattutto al fine di incidere in modo strutturale sui fattori che finora non hanno consentito di conseguire positivi risultati rispetto agli obiettivi del Protocollo di Kyoto. Esemplari, in proposito, sono le risultanze in termini di profitto conseguite fino ad oggi - soprattutto in taluni settori - da quelle imprese che hanno applicato politiche attente all'ambiente e che hanno sviluppato tecnologie ecocompatibili. A tale fine, pertanto, sarà necessario intervenire in modo tale da realizzare un vero e proprio cambiamento culturale del sistema produttivo - e del paese nel suo complesso - rispetto alle politiche di tutela dell'ambiente, in modo che le sfide tecnologiche richieste siano viste come elementi di innovazione e di sviluppo nell'ottica congiunta dell'incremento della competitività e, al tempo stesso, della ecocompatibilità.
In tale ambito, si possono quindi individuare quattro linee direttrici sulle quali si potranno impostare le future azioni di politica nazionale per l'individuazione di strategie nazionali volte al raggiungimento degli obiettivi fissati dal Protocollo di Kyoto:
politiche volte a prevedere meccanismi (di carattere economico, fiscale e simili.) per ridurre la produzione nazionale di gas serra, soprattutto nel settore dei trasporti;
interventi diretti ad incrementare ed a valorizzare i «serbatoi» per l'assorbimento dei gas serra (sinks);
finanziamento e valorizzazione di progetti di ricerca volti all'introduzione e al potenziamento di meccanismi maggiormente «ecocompatibili», con particolare riferimento alle fonti di energia alternativa;
diffusione tra i cittadini e tra le imprese della cultura scientifica e tecnologica di salvaguardia dell'ozonosfera e, più in generale, dell'ambiente.

4. Politiche di intervento nazionale per la riduzione della produzione di emissioni di gas serra.

Le strategie nazionali per la riduzione dei livelli di emissioni di gas serra devono muoversi congiuntamente verso il settore dei trasporti e verso quello di produzione di energia nell'ambito di un percorso integrato ed intersettoriale che tenga conto degli obiettivi da raggiungere entro il 2012 in termini di riduzioni di emissioni. Tenuto conto del significativo incremento di


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produzione di gas serra previsto in Europa per quanto concerne il settore dei trasporti, si rendono quanto mai indispensabili ed urgenti interventi finalizzati a razionalizzare tale settore sia sotto il profilo di un nuovo bilanciamento tra gomma e ferro sia dal punto di vista della realizzazione di nuove infrastrutture. Al contempo, appare auspicabile il ricorso sistematico a strumenti quali l'uso generalizzato della telematica nella gestione del controllo del traffico, la razionalizzazione del comparto dei servizi, il rinnovo del parco circolante e lo sviluppo dell'intermodalità. Infatti, tenuto conto delle positive iniziative di recente intraprese per rendere maggiormente ecocompatibile il settore dei trasporti, soprattutto in ambito urbano, sarà necessario promuovere con maggior convinzione - per i prossimi dieci anni - la costruzione di nuove infrastrutture per il trasporto pubblico, investimenti mirati per il potenziamento del settore ferroviario di trasporto delle merci, un maggiore coordinamento di tutti i mezzi di trasporto. In proposito, inoltre, il Libro bianco dell'Unione europea sui trasporti prevede, in prospettiva, interventi per lo sviluppo, nel settore dei trasporti urbani, di carburanti realizzati attraverso gas naturali e, a lungo termine, attraverso l'utilizzo di idrogeno.
Per quanto riguarda i possibili interventi a carattere politico e economico, occorrerà ricorrere con maggiore diffusione soprattutto allo strumento della cosiddetta «fiscalità incentivante» imperniata su logiche premianti rispetto a chi investe in nuove tecnologie piuttosto che ad impostazioni di command and control. Diversamente, infatti, il problema potenziale nell'ambito del sistema produttivo - prospettato da quasi tutti i soggetti auditi - sarebbe quello di uno spostamento degli interventi verso il livello dei consumi, con il rischio di possibili contrazioni di tali livelli e, conseguentemente, del tasso di crescita del Paese. Al contempo l'introduzione di misure fiscali potrebbe essere subordinata al raggiungimento degli obiettivi assegnati attraverso schemi di accordi volontari, come già avvenuto in alcuni Paesi europei: occorre infatti attivare meccanismi efficaci per incrementare la propensione dell'industria allo sviluppo di energie rinnovabili. Più in generale, occorre che le misure intraprese in sede nazionale siano accompagnate da valutazioni ex ante dei relativi costi e dei benefici, inclusi quelli ambientali, insieme ad un sistema di monitoraggio successivo degli impatti sull'ambiente e dell'economia. Tale impostazione - cui fino ad oggi non si è fatto il ricorso necessario - consentirebbe, infatti, di valutare con maggiore certezza tempi e modi per il raggiungimento degli obiettivi fissati dal Protocollo di Kyoto, così da intervenire per indirizzare o rivedere - medio tempore - l'andamento delle politiche intraprese.

5. Politiche volte alla valorizzazione dei «serbatoi» per l'assorbimento dei gas serra.

L'accordo raggiunto nell'ambito della VI Conferenza delle parti firmatarie della Convenzione, avvenuto a Bonn nei giorni 19-26 luglio 2001, riconosceva, tra l'altro, ampie possibilità di utilizzo dei sinks, ovvero di nuove piantagioni forestali ed attività agro-forestali, al fine di assorbire il carbonio atmosferico. Tale meccanismo è stato riconosciuto anche in favore dell'Italia nonostante la stessa nel corso del 2000 avesse in realtà compiuto una scelta diversa in merito a tale aspetto ed avesse, in pratica, rinunciato a tali risorse. L'impostazione dell'accordo di Bonn è stata poi confermata nell'ambito dell'accordo della VII Conferenza delle parti che si è svolto a Marrakesch nel mese di novembre 2001, ed è stato assegnato ai vari Paesi un budget nazionale di sinks: conseguentemente i crediti di carbonio ottenuti da tali risorse potranno essere commercializzati anche dopo il primo periodo di adempimento (2008-2012). Pertanto, preso atto di questa nuova possibilità prevista dagli accordi internazionali per la riduzione delle emissioni, che consente anche di acquistare nuovi crediti tramite interventi di riforestazione dei PVS, non può non evidenziarsi


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l'importanza di valorizzare e potenziare il nostro patrimonio forestale alla luce del ruolo che esso svolge sia ai fini dell'assorbimento dell'anidride carbonica, sia come fonte di energia rinnovabile e sostitutiva dei combustibili fossili. In particolare per quanto concerne quest'ultima modalità di utilizzo, occorre ricordare che il comparto agro-alimentare e forestale rappresenta un vero e proprio giacimento di materie prime da utilizzare, oltre che nel tradizionale impiego alimentare, anche ai fini della produzione di energia. In tal senso appare quindi opportuno proseguire i programmi nazionali per l'energia rinnovabile da biomasse, anche tramite lo stanziamento di adeguate risorse finanziarie. Le medesime considerazioni devono essere svolte in merito alla necessità di potenziare la superficie boschiva del nostro Paese - mediante interventi di riforestazione e di afforestazione - sia tramite previsioni di carattere finanziario sia tramite la promozione di reali forme di coordinamento tra le diverse amministrazioni interessate, come rilevato in modo efficace dal ministro delle politiche agricole e forestali nel corso della sua audizione. La ripresa dell'industria boschiva, infatti, può significare anche una ripresa del «bosco produttivo», che è nell'interesse nazionale e dovrebbe essere incrementata come attività industriale.
In altri termini, è necessario che le misure a sostegno del ruolo ambientale dell'agricoltura e delle foreste siano ricomprese nell'ambito di politiche intersettoriali condotte a livello territoriale e che i proventi dei meccanismi di «fiscalità ecologica» siano, almeno in parte, reinvestiti nelle predette attività, così da realizzare un duplice risultato rispetto agli obiettivi da perseguire in aderenza al Protocollo di Kyoto.

6. Politiche di ricerca e progettazione per l'individuazione di meccanismi e strumenti maggiormente «ecocompatibili», con particolare riferimento alle fonti di energia alternativa.

Tra le strategie nazionali di intervento per il raggiungimento degli obiettivi del Protocollo di Kyoto, accanto ad interventi i cui risultati in termini di miglioramento del livello di emissioni appaiono ormai consolidati, un capitolo importante è rappresentato dagli interventi volti ad individuare ed incentivare forme di produzione di energia, che consentano di superare l'attuale modello fondato principalmente sulla combustione dei combustibili fossili - al quale è associata l'immissione nell'atmosfera di grandi quantità di biossido di carbonio ed altri gas serra - per approdare a nuove forme di approvvigionamento energetico più compatibili con l'ambiente. A tal fine sono in corso di sperimentazione nuove forme di produzione e di utilizzo di energia che siano da una parte compatibili con l'ambiente e dall'altra a costi competitivi con quelli derivanti dai fossili, in un panorama nel quale le energie rinnovabili svolgano un ruolo significativo nell'economia globale delle risorse energetiche. In tale contesto, essenziale risulta quindi proseguire nella promozione e nel finanziamento di attività di ricerca pubblica e industriale, oltre che nella diffusione della cultura scientifica, soprattutto nella prospettiva di un miglioramento di medio e lungo periodo.
Giova infatti ricordare che, in tale direzione, si muove ad esempio lo stanziamento di risorse per l'ottimizzazione delle procedure e degli strumenti per la valutazione e riduzione degli impatti sull'ambiente previsto, da ultimo, dall'articolo 5 del cosiddetto «collegato ambientale» per il 2002.
In tale contesto, come affermato dal professor Rubbia nel corso della sua audizione, preso atto che sussistono a priori solamente due sorgenti primarie di energia dotate sia del necessario potenziale energetico, sia delle caratteristiche di durata sufficienti per i bisogni futuri della civilizzazione industriale - l'energia derivata dal sole e l'energia nucleare - , non può non rilevarsi come la scelta operata dal nostro Paese, circa quest'ultima fonte di energia, pone l'Italia di fronte alla necessità di compiere sforzi di gran lunga maggiori rispetto a quelli degli altri paesi industrializzati (come, ad esempio, la Finlandia)


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per il conseguimento degli ambiziosi obiettivi fissati dal Protocollo di Kyoto. Occorre pertanto capire se vi siano gli spazi per rafforzare e potenziare la ricerca scientifica nel settore, affinché non resti definitivamente preclusa ogni possibilità, per il nostro Paese, di aggiornare le conoscenze in materia di produzione di energie alternative.
Accanto a tali forme di energia alternativa, peraltro, il quadro delle nuove fonti di produzione di energia elettrica ricomprende il biogas, la legna e derivati, i rifiuti solidi urbani, l'eolico. A questi si aggiungono il carbone ed i gas naturali, risorse di primaria importanza in questo campo, considerati gli utilizzi crescenti quali sorgenti primarie di energie e vista la previsione di lunga durata del loro utilizzo. Per quanto riguarda nello specifico le forme di energia derivanti dal sole, occorre ricordare come le forme di utilizzo diretto (quale in particolare il fotovoltaico) hanno fatto registrare alti costi commerciali mentre molto più frequente risulta attualmente il ricorso all'utilizzo indiretto (energia idroelettrica, biomasse). Al contempo, significativi sono i progetti in corso di studio quali, in particolare, quello sul solare termodinamico ed il progetto idrogeno e celle a combustibile, che prevede l'utilizzazione del gas naturale (metano) come sorgente primaria di energia. Sono altresì in corso di esame - e di adattamento alla nostra realtà territoriale - quei progetti che hanno avuto una rilevante diffusione in ambito internazionale come gli impianti a concentratori parabolici lineari denominati con il termine SEGS e riconducibili ai sistemi ibridi solare-fossile.
In conclusione, appare di prioritaria importanza incentivare con vigore politiche dirette ad incoraggiare la ricerca e lo sviluppo di nuove fonti energetiche, nel quadro di azioni che intervengano congiuntamente sulla tecnologia, sulla domanda e sulle politiche fiscali. Ciò tanto più in considerazione della situazione dell'Italia in merito all'approvvigionamento energetico - troppo dipendente dall'estero - , in una prospettiva temporale di lungo periodo, che vede un notevole incremento dei consumi soprattutto nelle aree in via di sviluppo, a fronte di un gap evidente tra le potenzialità dei combustibili fossili (ad eccezione del carbone) e la richiesta energetica mondiale. Tale gap dovrebbe peraltro raggiungere i massimi livelli intorno al 2030-2040.
In sostanza, il nostro Paese, non solo per ragioni di difesa dell'ambiente, ma anche per esigenze di diversificazione di fonti di approvvigionamento energetico, dovrà pur sempre puntare sull'energia rinnovabile, sull'ecosostenibilità dello sviluppo economico e, più in generale, sui meccanismi di risparmio energetico. È chiaro, infatti, che la ratifica del Protocollo di Kyoto renderà più evidenti tutte le problematiche ancora irrisolte e che investono il rapporto tra mutamenti climatici del pianeta e produzione antropica dell'effetto serra.

7. Politiche di comunicazione e di diffusione di comportamenti attenti alle problematiche del globo.

Congiuntamente a politiche nazionali volte alla riduzione del livello di emissioni ed al potenziamento dei «serbatoi» di gas serra, ed insieme alla valorizzazione delle attività di ricerca volte ad individuare meccanismi alternativi di approvvigionamento energetico e di produzione industriale, non può non richiamarsi la necessità di porre una particolare attenzione a politiche di comunicazione e sensibilizzazione dei cittadini alle tematiche ambientali e, segnatamente, ad una logica di risparmio energetico. In una società caratterizzata da varie opzioni di beni e servizi energetici, infatti, gli obiettivi di diminuzione del livello di gas serra non possono non essere accompagnati da politiche di informazione che consentano di indirizzare i consumi tenendo conto anche di tali finalità. In particolare, essenziale sarebbe l'incentivazione di prassi contenitive rispetto al riscaldamento domestico ed all'utilizzo di automezzi privati, quest'ultima da realizzarsi


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soprattutto attraverso il potenziamento dei mezzi pubblici di trasporto, possibilmente elettrici, insieme alla diffusione di elettrotecnologie quale, ad esempio, la pompa di calore. Al riguardo, giova inoltre ricordare come, in linea con tale esigenza, sono stati da ultimo previsti, con l'articolo 6 del «collegato ambientale per il 2002», specifici stanziamenti per l'attuazione di un programma di comunicazione ambientale volto a sensibilizzare l'opinione pubblica e gli imprenditori alle esigenze ed ai problemi relativi all'ambiente.

8. Conclusioni.

L'indagine conoscitiva ha evidenziato l'esigenza che l'Italia muova i suoi passi di avvicinamento agli obiettivi fissati dal Protocollo di Kyoto, secondo una strategia che tenga conto specificamente delle caratteristiche del nostro sistema sociale ed economico-produttivo.
In questo quadro, significativi progressi si attendono dall'attuazione delle misure contenute nella legge di autorizzazione alla ratifica del Protocollo e, in particolare, dalla revisione della delibera CIPE del 1998. A tal fine, anche per individuare forme stabili di programmazione per il futuro, nei prossimi documenti di programmazione economica e finanziaria potrebbero essere contenute le linee guida degli interventi di politica economica generale che si intendono adottare per il raggiungimento degli obiettivi del protocollo di Kyoto.
L'auspicio è che tali progressi siano in grado di cogliere le interessanti prospettive di sviluppo offerte dal mondo scientifico, aprendo la strada ad un effettivo miglioramento della competitività del sistema produttivo nazionale, che promuova altresì tutte le possibili evoluzioni tecnologiche, affinché lo sviluppo di fonti di energia a basso impatto inquinante possano avere concretamente un futuro.