Resoconto stenografico dell'Assemblea
Seduta n. 857 del 12/2/2001
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TESTO AGGIORNATO AL 13 FEBBRAIO 2001


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(Discussione sulle linee generali - A.C. 1563)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Informo che il presidente del gruppo parlamentare di Alleanza nazionale ne ha chiesto l'ampliamento senza limitazione nelle iscrizioni a parlare, ai sensi del comma 2 dell'articolo 83 del regolamento.
Avverto che la I Commissione (Affari costituzionali) si intende autorizzata a riferire oralmente.
Il relatore, onorevole Maselli, ha facoltà di svolgere la sua relazione.

DOMENICO MASELLI, Relatore. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, colleghi, la presente legge si pone come obiettivo, difficile ma non impossibile, di superare, a 56 anni di distanza, un terribile trauma che ha colpito il nostro paese nella sua frontiera


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orientale. Mi riferisco all'uccisione, da parte delle forze militari titine, di alcune migliaia di italiani, che furono poi gettati negli anfratti del Carso - o foibe - per eliminarne, se possibile, anche il ricordo.
Questi fatti avvennero in due diverse epoche, nell'autunno del 1943, dopo l'8 settembre, e dopo la fine della guerra, nel periodo 1945-1947. Insieme a persone che avevano collaborato con i tedeschi vennero colpiti anche membri della Guardia di finanza e della Guardia civica, che avevano partecipato all'insurrezione contro i tedeschi, ed anche civili e partigiani italiani.
Non vi è, da parte di questo relatore, nessuna volontà, né condiscendenza al revisionismo storico. So bene che la crisi dell'impero turco e la fine dell'impero austriaco misero in moto, tragicamente, un urto tra le popolazioni viventi nella penisola balcanica, innescando una serie di contrasti tra le varie popolazioni i cui frutti sono ahimè ben presenti nelle tragedie ancora fumanti della Craina, della Bosnia, del Kosovo, della Serbia. Le due guerre mondiali hanno agito da terribili detonatori: dopo la pace di Versailles del 1919, la neonata Iugoslavia aveva assorbito le terre della Dalmazia costiera, abitate da italiani, ma aveva dovuto lasciare all'Italia l'Istria interna e parte della Venezia Giulia abitate da sloveni e croati e le politiche nazionaliste dell'epoca avevano visti tentativi di assimilazione forzate delle minoranze da parte della Iugoslavia e dell'Italia fascista.
La tensione era già alta quando Hitler scatenò la seconda guerra mondiale. L'andamento rovinoso della guerra dell'Italia in Grecia convinse la Germania ad intervenire in Grecia e anche in Iugoslavia nell'aprile 1941. La Iugoslavia fu smembrata. La Slovenia divenne una provincia italiana, la Croazia ebbe il regime ustascia di Ante Pavelic, con un principe italiano sul trono. Nacque una terribile guerra partigiana che, secondo alcuni dati, produsse un milione 690 mila morti. Credo si possa affermare che, a parte l'URSS, la Iugoslavia sia stato il paese con il più alto numero di vittime pro capite rispetto a tutta la seconda guerra mondiale.
La situazione si fece particolarmente grave dopo l'8 settembre 1943. La ferocia nazista in questa zona non fu inferiore a quella dimostrata altrove, soprattutto contro ebrei e zingari (cito questi ultimi perché nel recente «giorno della memoria» li abbiamo dimenticati e non mi sembra giusto), ma anche contro gli slavi concepiti come razza inferiore.
Pochi giorni fa abbiamo celebrato, come ho appena detto, «il giorno della memoria» e non voglio certo diminuirne l'effetto. Ho citato tutto questo perché desideravo mostrare come il fenomeno delle foibe abbia una sua spiegazione in questo scontro etnico, politico e sociale da altri scatenato. Ho parlato di spiegazioni e non di giustificazioni perché non è mai giustificabile l'uso di esecuzioni sommarie ed indiscriminate. È perciò molto difficile anche oggi stabilire quante di quelle esecuzioni avessero un motivo in qualche modo razionale nelle azioni e nelle scelte di campo dei singoli, e quante fossero senza motivo preciso o motivate solo dall'appartenenza ad un gruppo etnico o ad un ceto sociale di cui ci si voleva vendicare.
È per me fondamentale distinguere tra giudizio storico e pietas umana. Il giudizio storico sulla shoa è irreversibile e netto e deve essere ricordato a tutti; il giudizio sui singoli è oggi molto difficile se non impossibile. Già è difficile certificare che cosa ciascuno ha fatto, ancora più difficile è capire la ragione di certe scelte personali in una situazione di contrapposizione frontale. È poi quasi impossibile stabilire quali di quelle esecuzioni avessero un motivo più o meno valido, quanto fossero gratuite e coinvolgessero innocenti di qualsiasi colore. Il nostro giudizio si arresta sulla soglia della morte e di una morte atroce.
Non siamo noi i sostenitori dell'abolizione della pena di morte anche per quello che riguarda Caino? Se non vi è stata una condanna legale, come è possibile separare i Caino dai tanti Abele?


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Perché privare i parenti di tanti innocenti del sollievo di un ricordo della patria? Lo stesso colpevole poi non è riscattato dalla morte?
La Repubblica italiana nata dalla Resistenza è abbastanza forte per ricordare i morti di una strage non ancora dimenticata, per riconoscere i diritti degli sloveni abitanti entro i propri confini, per risarcire almeno parzialmente gli esuli dall'Istria e dalla Dalmazia, per stendere una mano amichevole ai popoli sloveno e croato, aiutando implicitamente le minoranze italiane a rivendicare i loro diritti in quei paesi.
Questa proposta di legge è estremamente semplice: consta di cinque articoli. Il primo articolo stabilisce che al coniuge superstite e ai congiunti fino al quarto grado di cittadini italiani infoibati dall'8 settembre 1943 al 10 febbraio 1947, è concessa, a domanda e a titolo onorifico, una insegna metallica con relativo diploma.
Si aggiunge che agli infoibati sono assimilati coloro che persero la vita entro l'anno 1950, qualora la morte sia sopravvenuta in conseguenza di torture, deportazioni e prigionia. Ci si può chiedere perché soltanto entro l'anno 1950, ma questo è un altro problema.
L'articolo 2 specifica le modalità per l'inoltro delle domande.
L'articolo 3 prevede la costituzione di una commissione per il rilascio della concessione della medaglia-ricordo. Rimane il dubbio su chi sarà l'esperto storico da designarsi da parte dell'istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia oppure da parte dell'istituto storico per l'età moderna e contemporanea. Vengono esclusi dal riconoscimento coloro che siano stati condannati per efferati delitti contro la persona.
L'articolo 4 fissa i primi adempimenti della Commissione e detta la frase da incidere: «La Repubblica italiana ricorda».
L'articolo 5 prevede la copertura finanziaria.
In conclusione, mi rendo conto delle difficoltà che questa proposta di legge presenta e vorrei evitare che essa, invece di far tacere i contrasti, ne sollevasse altri.
Voglio spiegare il mio atteggiamento invitandovi a leggere con me la seguente poesia di Ungaretti che mi ha colpito sempre moltissimo: «Non gridate più/ Cessate d'uccidere i morti,/ non gridate più, non gridate/ se li volete ancora udire,/ se sperate di non perire./ Hanno l'impercettibile sussurro,/ non fanno più rumore/ del crescere dell'erba,/ lieta dove non passa l'uomo.» (Applausi - Congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

MARIANNA LI CALZI, Sottosegretario di Stato per la giustizia. Il Governo si riserva di intervenire in sede di replica.

PAOLO ARMAROLI. Chiedo di parlare sull'ordine dei lavori.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PAOLO ARMAROLI. Non sono un profeta e ancora non so a quale punto dell'ordine del giorno di domani sarà iscritto questo provvedimento. Le ricordo, signor Presidente, perché a sua volta lei lo ricordi al Presidente Violante, che appena dieci giorni fa il Presidente del Consiglio, professor Giuliano Amato, rispondendo ad un'interrogazione dell'onorevole Menia, disse che il Governo faceva mea culpa per i ritardi colpevoli su questo provvedimento; esprimeva, inoltre, l'auspicio che esso andasse rapidamente in porto perché il Governo era pienamente favorevole nel merito.
Prima ancora che la maggioranza si pronunci, ritengo che, dati gli affidamenti del signor Presidente del Consiglio, la Presidenza della Camera debba iscrivere la proposta di legge ai primissimi punti dell'ordine del giorno perché non è un mistero per nessuno che la legislatura è ormai agli sgoccioli. Se il Governo intende veramente mantenere la propria parola -


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e il Presidente del Consiglio è uomo d'onore -, Alleanza nazionale, tutta la Casa delle libertà e, presumo, anche la maggioranza - perché il Governo deve avere una maggioranza parlamentare -, chiedono che la proposta al nostro esame sia iscritta al primo o, massimo, al terzo punto dell'ordine del giorno della seduta di domani. In caso contrario, chiederemo un'inversione dell'ordine del giorno. Auspico, comunque, che non si debba arrivare a tanto perché ciò significherebbe una responsabilità grave della Presidenza che opererebbe un ostruzionismo rispetto ai divisamenti del Presidente del Consiglio, di Alleanza nazionale, di tutta la Casa delle libertà e, presumo, anche della stessa maggioranza parlamentare.
Credo che queste mie considerazioni faranno breccia su di lei, signor Presidente, e sul signor Presidente della Camera, Luciano Violante. Grazie.

PRESIDENTE. Grazie a lei, onorevole Armaroli.
Il primo iscritto a parlare è l'onorevole Niccolini. Ne ha facoltà.

GUALBERTO NICCOLINI. Ringrazio il relatore per l'equilibrio e la sensibilità dimostrata nella sua relazione che conclude un lavoro svolto assieme per molto tempo. Dopo i diplomi alla memoria dei caduti nella prima e nella seconda guerra mondiale, dopo il diploma d'onore per le madri dei caduti in guerra, dopo il distintivo d'onore per gli orfani dei caduti in guerra, dopo i distintivi per i volontari della libertà o i diplomi per i combattenti della libertà ci siamo finalmente ricordati di una categoria che definire di serie B sarebbe fin troppo benevolo: si tratta di una categoria di persone che per mezzo secolo è stata cancellata completamente dalla memoria del nostro paese, ancor più di quanto avevano fatto le pietre su quei corpi all'interno delle caverne chiamate foibe.
Signor relatore, non è che queste persone venissero prima uccise e poi gettate nelle foibe; la testimonianza di due-tre rarissimi casi di persone che si sono salvate - evidentemente ogni tanto c'è un Dio che si ricorda anche di noi uomini - ci ha fatto sapere che essi venivano gettati vivi. La tecnica - lo voglio ricordare in quest'aula affollatissima, come merita una situazione del genere - era molto semplice: si legavano dieci-quindici persone con il filo spinato, si sparava al primo che, cadendo, tirava giù gli altri, con la conseguenza che il secondo, il terzo, il quarto, il quinto erano vivi (feriti, bastonati, torturati ma vivi). Su questo crollo di corpi vivi e martoriati si scaricava, poi, una gettata di pietre, per poi ricominciare: ciò è stato dimostrato anche dai ritrovamenti avvenuti pochi e molti anni dopo.
Comunque, finalmente ne parliamo. Devo riconoscere che la maggioranza ed il Governo, proprio in chiusura di legislatura, stanno dimostrando una grande attenzione verso i problemi del nord-est: mentre al Senato marcia, con i suoi problemi, il provvedimento per la tutela degli sloveni, ci siamo ricordati di stanziare un po' di soldi per gli indennizzi in favore degli esuli istriani, stiamo approvando provvedimenti che prevedono finanziamenti in favore degli esuli partiti e di quelli rimasti, in questi giorni in Commissione affari esteri esamineremo, probabilmente in sede legislativa, norme contenenti finanziamenti in favore degli italiani rimasti in un'Istria caratterizzata da un'antistorica divisione e, finalmente, discutiamo di questo riconoscimento agli infoibati. Evidentemente, anche la sinistra si è accorta di una parte del popolo italiano che finora aveva cercato di dimenticare.
Ricordo che il collega Menia ha presentato questa proposta di legge nel 1996, poco dopo essere tornato in Parlamento, ed essa è stata presa in esame due anni dopo, nel 1998. Desidero ricordare anche che ci fu una relazione estremamente negativa del collega Corsini, che non è più presente in Parlamento perché ha cambiato mestiere, che a rileggere oggi, dopo due anni, in qualche caso fa venire un po' di orticaria. Tuttavia, anch'egli ricordò e riconobbe che per cinquant'anni di questo problema non si era mai parlato. Egli


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definì le foibe come il simbolo di una morte oscura, segno di una cancellazione totale, visto che la scomparsa dei corpi - diceva Corsini - «prolungò l'angosciosa attesa dei congiunti e rese impossibile la celebrazione del rito pacificante della sepoltura». Già questa è un'inesattezza, perché la scoperta delle foibe e la prima riesumazione delle salme avvenne pochi mesi dopo, nello stesso 1945.
Gli inglesi e gli americani iniziarono a tirar fuori questi corpi. Quindi, se si voleva parlarne, dare sepoltura e concludere un discorso, si poteva farlo - non dico a caldo nel 1945 - qualche anno dopo la fine della guerra, quanto meno nel 1954 quando l'Italia «tornò a Trieste». Invece, non si è voluta fare questa pacificante sepoltura neanche negli anni successivi! E la sepoltura formale e retorica la stiamo facendo appena in questi giorni: 55 anni dopo!
Ricordo che si è iniziato a discutere della questione il 17 settembre 1998. Si è «tirato un po'» e all'inizio del 1999 si disse: aspettiamo ad esaminare quella proposta di legge perché l'onorevole Di Bisceglie ha preannunciato che anche lui aveva un'iniziativa legislativa pronta, che avrebbe potuto essere esaminata assieme a quella di Menia. Quindi, già due anni e mezzo dopo la presentazione della proposta di legge Menia, Di Bisceglie annunciò la presentazione del suo provvedimento. Superato il 1999, finalmente nel febbraio del 2000 Di Bisceglie presentò la sua proposta di legge che, guarda caso, era quasi la copia conforme di quella presentata dal collega Menia di quattro anni prima, con alcuni ritocchi che davano un senso diverso alla motivazione morale e spirituale che aveva spinto il collega Menia ad avanzare quella proposta!
Di Bisceglie, però, nel corso della sua relazione fece la seguente affermazione (stiamo parlando del 1o febbraio 2000): «In questa sede non siamo chiamati ad una esegesi storica, ad indicare le categorie, i motivi e il carattere dei progetti dell'esercito vincitore negli atti dell'esercito italiano». Poi aggiunse anche un'inesattezza ricorrendo alle parole «di occupazione». Non si è ben capito di quale occupazione si trattasse da parte dell'esercito italiano, visto che quelle terre erano italiane in quel momento!
Chi avrà pazienza e voglia di rileggersi gli atti di tutto l'iter parlamentare e di tutte le discussioni svoltesi in Commissione, scoprirà che da sinistra - dove mai si è accettato questo tipo di legge - vi è stata una continua ed insistente esegesi storica; ma storica di lunga data, senza cercare di capire le motivazioni (non le giustificazioni) che spinsero a certi atti esecrabili ma, risalendo indietro nella storia, per trovare (qui sì) tutte le giustificazioni a questi assassini che avevano commesso quei reati!
Ed è chiaro che proseguendo con questo sistema, sono emersi mille modi di vedere la storia e di giudicare gli atti, i gesti e le reazioni che sono sempre peggiori delle azioni che li hanno provocati; e quindi, chiaramente, questa legge ha iniziato ad essere un po' fastidiosa!
Nel corso di quelle lunghe discussioni in Commissione - nelle quali io ho sempre ascoltato senza mai intervenire - due sole persone dell'attuale maggioranza hanno cercato di non perdersi in una esegesi storica, ma di vedere il punto reale di questa semplicissima e, a mio avviso, doverosa legge: la presidente della Commissione ed il relatore. Questi ultimi in certi momenti sembravano rappresentare l'opposizione ed erano «sotto tiro» della maggioranza.
Con questo sistema, siamo pervenuti all'attuale testo di legge nel quale alcune situazioni sono state cambiate.
Nella prima proposta di legge del collega Menia si escludevano giustamente dal riconoscimento coloro i quali vennero uccisi - nei modi e nelle zone in cui si è detto: quindi gli infoibati - mentre facevano volontariamente parte di formazioni non al servizio dell'Italia. Sembrava quindi che l'onorevole Menia volesse privilegiare i soldati della Repubblica sociale italiana perché indubbiamente in quel momento era territorio italiano. Invece non è vero perché c'erano anche italiani


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al servizio di paesi stranieri e italiani che combattevano non contro il fascismo, ma contro l'Italia. È diverso.
Trieste non voleva essere la capitale di una nuova Italia fascista; Trieste e l'Istria volevano far parte dell'Italia democratica che stava venendo fuori dopo la guerra, però dato che in quella terra vi erano l'esercito tedesco, gli occupanti titini e un po' di tutto, evidentemente la situazione era talmente confusa che un giovane di vent'anni in quel momento non sapeva da che parte stare. Egli voleva stare con l'Italia. Ci fu chi entrò nel CLN e chi si arruolò per la Repubblica sociale italiana. Non possiamo però farne una colpa oggi, a distanza di cinquant'anni, non mettendoci storicamente nei panni e nelle situazioni di quell'epoca nella quale fioccavano pallottole da tutte le parti, c'era l'occupazione tedesca che sappiamo quanto fosse dura e pesante e c'era il pericolo jugoslavo, che non era comunista né titino, ma che in quel momento era solo jugoslavo. Chiaramente, se poi ci si mette di mezzo l'ideologia, l'etnia, le religioni, gli ortodossi, i serbi, i croati e di tutto di più, si comprende come la situazione fosse veramente confusa. Il problema è che cinque, sei o sette mila persone finirono barbaramente trucidate. Tutto qui.
O noi riusciamo a ragionare in questi termini e quindi non gridiamo più, altrimenti anche questa legge, che è la più giusta e la più doverosa per saldare quanto meno un debito morale, visto che non abbiamo saldato gli altri debiti, avrà vita difficile. Anche con le aggiunte operate da alcuni emendamenti che il collega Di Bisceglie è riuscito ad inserire, anche andando a suggerire situazioni nuove sia in Commissione esteri che in Commissione difesa, si è pervenuti ad una legge che per certi versi è abbastanza diversa da quella che era la proposta iniziale del collega Menia.
Non riesco a capire cosa voglia dire che «la Commissione esclude dal riconoscimento i congiunti di vittime perite ai sensi dell'articolo 1 per le quali sia stato accertato, con sentenza, il compimento di efferati delitti contro la persona». Vogliamo sapere di quali sentenze si tratti. Si tratta di processi celebrati prima che le vittime fossero infoibate oppure dopo? Noi sappiamo soltanto che al momento dell'infoibamento non vi era ancora alcun processo o sentenza. Quindi, chi li ha gettati nelle foibe non aveva neanche la motivazione giuridica di una decisione del tribunale rivoluzionario di Pisino d'Istria. Non vi erano tribunali, né rivoluzionari né altro, ma vi era questa giustizia sommaria che tutto è meno che giustizia.
Queste sentenze sono giunte a babbo morto? Oppure erano state pronunciate in precedenza da tribunali. Questo è un discorso che va chiarito, anche se - come giustamente ricordava il relatore - la pietas è un'altra cosa. Quando si è pagato con la vita, indipendentemente dal fatto che ci sia stato un tribunale idoneo a pronunciare una simile sentenza oppure no, il conto dovrebbe essere saldato a quel punto. Quindi, il fatto che la Repubblica italiana ricordi chi è stato ucciso così orrendamente (vi assicuro che la stragrandissima maggioranza era composta da innocenti) è proprio il minimo dei minimi dei minimi che si possa fare.
Alla luce di queste considerazioni, il gruppo di Forza Italia è particolarmente favorevole a questa legge o lo sarebbe stato ancora di più se fosse rimasto il testo del collega Menia. Non faremo niente per ritardarla, poiché riteniamo che, alla chiusura del millennio, dobbiamo dedicarla ai nostri caduti dell'Istria, di Trieste, della Dalmazia e di Fiume, di terre che ancora oggi, nonostante tutto, si sentono italiane (Applausi dei deputati del gruppo di Alleanza nazionale).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Menia. Ne ha facoltà.

ROBERTO MENIA. Signor Presidente, colleghi, un grande vescovo di Trieste, Antonio Santin, nato a Rovigno d'Istria, s'inginocchiò sulla foiba di Basovizza, che all'epoca non era ancora chiusa e dettò un'epigrafe, che oggi campeggia sulla grande pietra che copre la foiba: «Onore e cristiana pietà a coloro che qui sono


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caduti. Il loro sacrificio ricordi agli uomini le vie della giustizia e dell'amore sulle quali fiorisce la vera pace». In quella stessa occasione, ebbe a dire: questa foiba è un grande calvario con il vertice sprofondato nelle viscere della terra.
Non voglio, signor Presidente, confondere, o mettere insieme in qualche modo, discorsi e questioni della politica dell'oggi, come ha fatto anche il relatore Maselli, con un principio che è del tutto diverso e che voglio affermare attraverso questo provvedimento. Mi limito, allora, a raccontare alcune storie di questo calvario. Lo faccio anche perché alcuni dei nomi e delle storie sono di padri o congiunti di persone che conosco da vicino, per i quali ho sentimenti di amicizia, amore, affetto: conosco tanti, per esempio, della famiglia Cossetto.
Norma Cossetto era una ragazza di 23-24 anni, di Santa Domenica di Visinada, in Istria, che nel 1943 girava con la sua bicicletta l'Istria, raccogliendo notizie sulla storia della sua terra, a cui voleva tanto bene. Si stava laureando ed aveva intitolato la sua tesi di laurea: «All'Istria rossa», perché rossa è la terra del centro dell'Istria, a causa della bauxite. Fu prelevata dai partigiani comunisti di Tito, portata nell'ex caserma dei carabinieri del suo paese, seviziata, martoriata, violentata da diciassette uomini: pianse per una notte intera, come raccontò una donna che abitava vicino e che andò a vedere, attraverso la finestra, da dove provenissero le grida e i lamenti. Fu infoibata la mattina dopo e sarebbe stata riesumata alcuni mesi dopo dagli uomini del maresciallo Arzarich, il capo dei vigili del fuoco di Pola, che si distinsero nei mesi seguenti all'ottobre 1943 in queste operazioni.
La prima grande ondata di infoibamenti, infatti, fu quella seguita all'8 settembre 1943, quando le bande partigiane comuniste iugoslave spadroneggiarono per circa due mesi all'interno dell'Istria: una volta tornata in qualche modo la normalità, dopo alcuni mesi, vi fu una serie di riesumazioni, soprattutto ad opera di speleologi e pompieri, su incarico delle autorità, per quanto era possibile ricostituire le autorità in quelle zone. Furono 600 gli istriani che, nei mesi seguenti all'ottobre 1943, furono riesumati dalle foibe e fu così possibile stabilire il numero (ma ne parleremo dopo) dei presunti assassinati in quei mesi. Norma Cossetto fu ritrovata martoriata, come dicevo, con legni conficcati nelle mammelle. Il padre di Norma, tra l'altro, che si trovava a Trieste, fu avvisato del fatto che la figlia era stata arrestata ed andò a chiedere notizie di quanto era accaduto; gli dissero di non preoccuparsi, che anzi era opportuno che si trattenesse anch'egli per un interrogatorio, ma fece la stessa fine della figlia.
Nel provvedimento abbiamo voluto associare agli infoibati anche altri uomini e donne periti in altro modo, ma evidentemente associabili: persone fucilate, annegate, lapidate. La storia di una lapidazione terribile, ad esempio, è quella che mi ha raccontato Nidia Cernecca un'esule di Gimino, che oggi vive a Verona: lei era una bambina di sei anni e un giorno vide comparire a casa sua un personaggio con una stella rossa sul berretto. Era Ivan Matika, uno degli imputati nel famoso «processo foibe» che si sta celebrando a Roma e che ha trovato mille ostacoli non solo da parte degli Stati di Slovenia e Croazia, che notoriamente hanno fatto pressioni decise nei confronti del nostro Governo e della nostra magistratura perché si lasciasse perdere, ma, come ha fatto ben capire il magistrato Pititto - che ha avuto il coraggio di attivare questo procedimento - da parte delle stesse autorità italiane e alti poteri italiani. Probabilmente, tra l'altro, il processo non porterà a nulla. Ivan Matika, il capo dei partigiani di Tito nell'Istria, che aveva eletto il castello di Montecuccoli - perla dell'arte italiana che si trova a Pisino, sopra la grande foiba, quella che ispirò Verne nel suo libro Viaggio al centro della terra - a grande prigione da dove dettava le sue sentenze di morte, si presentò in casa del Cernecca, che era un buon uomo che aiutava la gente del suo paese - era italiano - e lo prelevò per un interrogatorio. Sparì per un giorno e la gente del


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paese raccontò di averlo visto passare completamente incanutito nell'arco di una notte per le bastonate ricevute e con sulle spalle un sacco di pietre; fu portato nel bosco, gli fecero posare il sacco, scavare la sua tomba e fu lapidato. Non basta: siccome aveva due denti d'oro, ritennero opportuno tagliargli la testa e portarla a un meccanico di Canfanaro perché glieli estraesse.
In Istria non accadeva solo questo, i perseguitati non erano solo gli italiani, ma anche, ad esempio, i sacerdoti istriani. Vi sono alcune storie terribili e per alcuni di loro recentemente è stato istruito il processo di beatificazione. Ricordo, ad esempio, don Angelo Tarticchio, di Gallesano, vicino a Pola, che aveva trentasei anni e fu arrestato insieme ad altri trenta dei suoi parrocchiani, fu buttato nella foiba di Lindaro e quando fu riesumato lo trovarono completamente nudo, con una corona di spine conficcata sulla testa, i genitali tagliati e messi in bocca. Don Miro Bulesic venne sgozzato a Lanischie, era già il 1947, abbondantemente dopo la fine della guerra. Siccome aveva studiato a Roma ed era gesuita era falso come tutti i gesuiti; era pur vero che durante la guerra partigiana si era prodigato per salvare due partigiani croati arrestati dai tedeschi, ma se questi ultimi lo avevano ascoltato significava che era loro amico e quindi ritennero opportuno sgozzarlo.
Furono trentasette i sacerdoti ammazzati in Istria in quegli anni.
Posso raccontare di Fiume. Pochi in Italia oggi sanno che la città che viene chiamata Rijeka era la Fiume d'Italia, che aveva dato esempi magnifici, bellissimi di attaccamento all'Italia. Ricordo, ad esempio, l'ultimo vescovo di Fiume italiana, monsignor Camozzo, che morirà esule, il quale, all'atto di andarsene da Fiume, volle portare via le sue cose dalla sua chiesa, ma in particolare la bandiera. Tagliò in tre il tricolore italiano: con la parte verde avvolse un calice e lo mise in una valigia, avvolse un altro calice con la parte bianca e poi una bibbia con la parte rossa, mettendola in un'altra valigia.
A Fiume nei giorni immediatamente seguenti il 3 maggio 1945 scomparvero due senatori del Regno ai quali il Parlamento italiano non si è mai degnato, ad esempio, di fare un busto, mentre sono stati fatti busti di altre persone: mi riferisco, ad esempio, al «Migliore» - vi sarebbe parecchio da dire e da dubitare sul fatto che sia un padre della patria - che troneggia nei nostri corridoi.
Il senatore Icilio Bacci fu arrestato nei primi giorni del maggio del 1945 e scomparve; il senatore Riccardo Gigante fu arrestato, si sa che fu portato in un bosco e buttato in una fossa comune. Ma vi erano altri casi. A proposito di Fiume, potremmo raccontare, ad esempio, il caso di Angelo Adam, ebreo antifascista, deportato dai tedeschi a Dachau, che si salvò, tornò a Fiume e quando, nel dicembre del 1945, riprese la sua attività sindacale insieme agli italiani, giacché questo non andava un granché bene ai nuovi padroni, fu arrestato assieme alla moglie ed alla figlia, fu deportato e scomparve.
A Fiume si usava impiccare la gente ai ganci di macelleria. A Fiume fu ammazzato il custode dei giardini, che si chiamava Adolfo Landriani. Gli volevano far gridare: «viva Fiume jugoslava»; lui gridò: «viva Fiume italiana» ed allora gli spaccarono la testa contro la parete ed egli continuò a gridare, con voce sempre più flebile. A Fiume fecero scomparire - lo ammazzarono e lo buttarono poi tra le rovine del Molu Stocco - un ragazzino che si era arrampicato sul pennone di piazza Dante e aveva messo la bandiera italiana.
A Zara si usava annegare la gente. Molti di voi conosceranno, ad esempio, il vecchio Maraschino dei Luxardo, che era una perla di Zara italiana. I Luxardo, tra l'altro, hanno ricostruito a Torreglia, in provincia di Padova, la vecchia fabbrica del Maraschino, che all'epoca era un vanto italiano. Nicolò Luxardo fu prelevato nel 1944 dai partigiani, portato oltre gli scogli di Zara assieme alla moglie, annegato e poi buttato a fondo. Pensate che Luxardo fu poi processato nel 1945,


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un anno dopo, e nella sentenza si disse che, non avendo risposto all'invito di comparizione, poiché si era tenuto nascosto, veniva condannato all'impiccagione in contumacia e tutti i suoi beni venivano confiscati.
A proposito di Zara, per chi raccoglie i vecchi numeri della Domenica del Corriere, vi è un'illustrazione di questo giornale del 1944 che narra la storia del farmacista di Zara, Ticina, che fu ammazzato ed annegato insieme alla moglie, alla figlia, al fratello ed alla nipotina di sei anni, tutti con una pietra al collo. A Zara non c'erano le foibe e quindi era più facile ammazzare annegando.
Vi potrei raccontare di Trieste, anche in questo caso pensando a tanta gente che conosco. C'è, per esempio, una persona già anziana che ricorda spesso e mi racconta con le lacrime agli occhi di suo padre che fu buttato nell'abisso, nella foiba Plutone, insieme ad altri quaranta ragazzi, tutti italiani, che erano le guardie carcerarie di Trieste. Lo riconobbero anni dopo perché in mezzo alla poltiglia di ossa e di resti umani c'era un brandello della sua giacca - era il maresciallo Ernesto Mari di Civitavecchia - con il nome della sartoria di Civitavecchia. Da questo particolare capirono che si trattava di lui.
Chi viene a Trieste può vedere nell'atrio del carcere i nomi di tutte le guardie carcerarie scomparse tutte nei primi giorni del maggio 1945 quando i titini entrarono a Trieste. La stessa cosa avviene entrando nell'atrio della questura di Trieste dove furono prelevate tutte le ottanta guardie di pubblica sicurezza che finirono nelle foibe di Basovizza. Così accadde per novantasette finanzieri.
Penso che possa bastare. Perché ho raccontato tutte queste storie? Forse semplicemente perché volevo che rimanessero nelle pagine degli atti parlamentari e perché questi uomini e queste donne non hanno mai avuto dall'Italia un ricordo e allora modestamente, per quanto mi è stato possibile, ho voluto regalarglielo io questa sera. Il rappresentante del Governo appare molto «scocciato» da ciò che dico e mi dispiace per lui; anzi, non mi dispiace affatto, ritengo di aver fatto una cosa giusta. Lo ripeto, ho fatto questo per dare prima di tutto delle testimonianze, anche se poi qualcuno dirà che in fin dei conti ricostruire la storia vuol dire capire che quelle atrocità, quelle efferatezze erano quasi la giusta punizione di uomini e di donne che non avevano alcuna colpa se non quella di essere italiani.
Se l'Italia per cinquant'anni non ha avuto il coraggio di ricordarli e di dare loro una testimonianza, un riconoscimento, ritengo di avere fatto bene ad averne parlato. Gli imbarazzi della sinistra in questa vicenda sono pluridecennali ma è stato molto bello che, per esempio, il Presidente della Camera Violante (non dubito che egli mi darà modo e possibilità o lo darà al Parlamento di esaminare questo provvedimento non mettendolo al ventesimo posto nell'ordine del giorno di domani, ma in una posizione più avanzata se davvero ritiene giusto e doveroso che l'Italia a più di cinquant'anni da questi fatti dia un riconoscimento a quegli uomini e a quelle donne) abbia dichiarato: «Nella storia scritta dai vincitori una particolare condiscendenza fu usata per Tito. Le foibe furono un genocidio ma dovevano scomparire». Il senatore Pellegrino, sempre dei DS, nel 1997 dichiarò davanti alla Commissione stragi: «Le foibe sono eccidi di incredibile ferocia, non possono dividerci tra destra e sinistra. Con la verità bisogna fare i conti sempre».
Non dubito che a tutte queste belle cose seguano i fatti e quindi mi auguro che nelle poche settimane che rimangono prima della fine della legislatura questa proposta di legge diventi legge. È anche l'auspicio che mi ha fatto qualche settimana fa il Presidente del Consiglio e che mi ha fatto estremamente piacere.
Vogliamo dire qualche cosa di più, per esempio, sulla tragica contabilità dei morti delle foibe?
Ho fatto dei casi ma erano pochi. È difficile stabilire un numero, ma è vero che c'è una letteratura in gran parte - lo


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dico tra virgolette - «underground» di uomini che hanno dedicato una vita intera a ricostruire quei fatti. È il caso, per esempio, di Luigi Papo: ho con me un poderoso volume che raccoglie diciassettemila nomi ed ha il titolo L'Albo d'oro della Venezia Giulia e della Dalmazia. Luigi Papo, che è stato prigioniero degli jugoslavi, nell'introduzione scrive: «Erano i giorni della mia prigionia nel campo di Prestrane. Feci a me stesso una promessa solenne: se fossi uscito vivo, avrei continuato a lottare per l'italianità delle nostre terre e dedicato ogni mio minuto libero al ricordo dei caduti. Ho mantenuto la promessa». A Luigi Papo mi legano anche sentimenti di amicizia e di affetto, perché ha veramente dedicato la sua vita a mantenere viva la testimonianza e a ricostruire la memoria.
Signor Presidente, mi spaventa vedere da vicino uomini e donne, esuli dall'Istria, che si portano dietro quelle vicende dolorose. Non credo che si debba vivere perennemente con il ricordo del dolore, ma non è neppure giusto che di tutto questo non resti nulla. Mi opprime e mi rattrista vedere che passano gli anni e le generazioni e, piano piano, scompaiono tasselli di storia. In tal modo scompaiono le storie tragiche che vi ho raccontato, anche se sono testimonianze e memorie che contengono una spiritualità che fa spavento: sono storie e memoria che debbono tornare a far parte dei miti unificanti della nazione.
Mi spaventa vedere che pian piano il vecchio dialetto di coloro che venivano da Cherso, da Lussino, da Pola e da Capodistria sta scomparendo; scompaiono le vecchie tradizioni e le storie e di tutto ciò all'Italia non resta quasi più nulla; eppure, quegli uomini e quelle donne hanno dato tanto e il loro sacrificio è stato, prima di tutto, un sacrificio di italianità.
Con la proposta di legge di mia iniziativa non chiedo nulla di più e nulla di meno di una semplice medaglietta: ovvero, il riconoscimento, a cinquant'anni di distanza, da parte dell'Italia (la loro patria) al loro sacrificio. Non si chiedono benefici economici o assegni; non si chiede nulla del genere, ma si chiede una semplice medaglietta che dimostri che l'Italia li ricorda. Quelle famiglie e quella gente non chiedono nulla di più.
Come dicevo, mi spaventa constatare che nell'Italia di oggi nessuno più conosce i nomi di quelle città o la storia di quelle terre. Come diceva il collega Niccolini, è normale leggere che con la fine della guerra l'Italia restituì l'Istria alla Jugoslavia: è una cosa inaudita! Non solo la Jugoslavia prima non esisteva (basterebbe aver studiato un po' di storia per saperlo), ma in quelle terre vi è stata una tradizione e una lingua italiana per secoli e millenni.
A proposito del numero delle vittime, vorrei precisare che il solo comando del Governo militare alleato di Trieste (come sapete, la città di Trieste fu amministrata dal Governo militare angloamericano fino al 1954) affermò di aver ricevuto 4.768 richieste in ordine a persone scomparse dopo il 1o maggio 1945: in particolare, 2.210 a Trieste, 1.160 a Gorizia e 998 a Pola. Radio Londra affermava che nel mese di maggio 1945 sono state deportati e non hanno fatto più ritorno a Trieste 2.600 civili. Il Comitato di liberazione nazionale inviò alla Conferenza di Parigi un memoriale nel quale si affermava che circa 12 mila giuliani furono prelevati e deportati.
Il sindaco di Trieste Gianni Bartoli, nel suo Martirologio delle genti adriatiche, riportò un elenco nominativo dei civili e militari scomparsi e uccisi a Trieste e nella Venezia Giulia. Erano 4.122 nomi, c'erano 21 ripetizioni, ne furono aggiunti poi altri 260. In totale, solo lì furono elencate 4.361 vittime: civili 2.916, guardia di finanza 242, polizia 309, carabinieri 94, guardie civiche, volontari della libertà e membri del CLN 51. È notorio, a questo proposito, che nelle foibe finirono anche parecchi uomini del Comitato di liberazione nazionale, perché le stragi delle foibe furono un disegno preordinato teso ad eliminare la componente italiana. Quello che è apparso inequivocabilmente sotto gli occhi di tutti in questi ultimi anni a proposito della macelleria balcanica che


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si è scatenata nelle terre della ex Jugoslavia è stato il principio della pulizia etnica, che gli italiani furono i primi a subire, circa cinquant'anni fa.
Non c'è dubbio che le stragi delle foibe che funestarono le terre giuliane dal 1943 al 1945 ed anche a guerra finita non furono, come afferma certa storiografia - partigiana in tutti i sensi -, la reazione, in fin dei conti giustificabile, delle popolazioni slave alle vessazioni subite dall'Italia e in particolare dal regime fascista. Le foibe furono invece la realizzazione brutale di un piano di snazionalizzazione, di pulizia etnica, di cultura italiana, di arte italiana, di lingua italiana, di tradizione italiana. Non è un caso, infatti, che in questo piano di sterminio della componente italiana la prima fase fu quella della scelta deliberata di massacrare tutto quello che poteva rappresentare istituzione o classe dirigente e quindi, in questo senso, Guardia di finanza, carabinieri, tutti quelli che avevano una divisa che in qualche modo rappresentasse l'Italia. Poi vi fu la caccia fanatica al professionista, al laureato, al maestro, al dirigente, che venivano regolarmente accusati di essere fascisti o borghesi o qualcosa del genere. A questa prima fase seguì quella del terrore generalizzato, che portò alla seconda fase, che fu devastante e drammatica; oltre, cioè, ai 12, 15, 17 o 20 mila morti infoibati, come dice Papo, vi fu l'esodo dei 350 o 380 mila italiani dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia. Scrive il Pitamitz: «Città grandi e piccole, paesi e borghi si svuotarono letteralmente. Vi rimasero solo gli slavi, dove erano minoranza, e talvolta nemmeno loro. Furono infatti circa 10 mila gli istriani e croati che si trasferirono nella penisola conservando la cittadinanza italiana, mentre altri 40 mila emigrarono all'estero. Fiume italiana contava 66 mila abitanti, se ne andarono in 58 mila. Pola ne contava 40 mila, partirono in 36 mila. Più di 380 mila persone abbandonarono le loro case, la quasi totalità, anche se si continua a dire che se ne andarono solo quelli che avevano qualcosa da perdere, cioè i capitalisti, i borghesi, i fascisti: e come tali in Italia gli esuli furono accolti dai comunisti e dalla loro stampa, che li definì "criminali fascisti sfuggiti al giusto castigo". A Venezia, per i primi profughi da Pola, che arrivarono su una nave, ci furono sputi e fischi». È notorio, infatti, che quando Pola nell'arco di un mese si svuotò totalmente e fu portato via anche il feretro di Nazario Sauro, questo fu accolto dagli sputi a Venezia. È famosa, per esempio, la vicenda del treno dei profughi ai quali la Croce rossa doveva dare, alla stazione di Bologna, un po' di acqua e un po' di latte, che non fu fatto fermare.
Queste vicende fanno parte della storia, ma mi fermo qui, altrimenti andremmo magari a finire a parlare di qualcosa che non rientra in quello che ci siamo ripromessi di discutere questa sera.
Ripeto: tutti loro non hanno avuto un riconoscimento dall'Italia. Penso, anche se abbiamo poco tempo nel corso di questa legislatura, che abbiamo la possibilità «storica» di sanare questa grande ingiustizia. A questa gente che ha fatto un grande sacrificio, che ha subito un vero e proprio grande martirio di italianità e di libertà, l'Italia ha il dovere di dare un riconoscimento: una medaglietta che non costa nulla e che rappresenta, però, un grande e profondo significato morale e nazionale che non dubito vorremmo dare, a 50 e più anni da quei fatti, con il consenso e l'assenso di tutte le forze parlamentari, di tutti gli italiani di buona volontà.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Moroni. Ne ha facoltà.

ROSANNA MORONI. Il dibattito sulle foibe è stato condizionato, nel corso degli anni, da evidenti sedimentazioni ideologiche, innestatesi sulle sofferenze e sui rancori dei diretti protagonisti di quella storia. Una storia terribile e dolorosa come molte delle vicende di quel periodo, terribilmente dolorosa, ma che non può consentire comunque, neppure in nome della sofferenza fisica e psichica delle vittime, neppure in ricordo delle atrocità, di


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ignorare l'insieme delle vicende che si sono intersecate e aggrovigliate, il complesso di barbarie e di orrori che si sono succeduti, l'uno innescando l'altro. Una storia che dobbiamo tentare di leggere con gli strumenti dell'equilibrio e dell'equità, senza facili ma deleterie semplificazioni, avendo la forza di distinguere la verità della storia dalla compassione per i singoli.
In questi ultimi anni, l'argomento è stato ripreso in più occasioni dalla destra come elemento speculare da contrapporre ai crimini dei nazi-fascisti, nel tentativo di convincere - e, forse, di convincersi - che nella più grande tragedia di questo secolo tutti i soggetti in campo hanno commesso tragici errori è che è meglio, quindi, stendere una coltre a sopire ogni soprassalto della memoria, meglio dimenticare e riprendere il corso della storia senza indagare oltre sulla sua pagina più buia e sciagurata. Credo che questo sia nello stesso tempo immorale e sbagliato, credo che la comprensione profonda della genesi di ideologie aberranti, come quella che ha segnato drammaticamente il Novecento, rappresenti un debito morale nei confronti delle vittime e sia necessaria ad imparare e radicare, proprio grazie alla conoscenza di quella barbarie, i valori della pace, della solidarietà e del fondamentale rispetto della vita umana, utile ad evitare in futuro il ripetersi di simili atrocità.
Il dibattito odierno è molto difficile anche per queste ragioni, ma, se vogliamo affrontarlo con serietà e rispetto, non possiamo ignorare il contesto storico nel quale certi episodi, gravissimi e dolorosi, sono collocati. Sento e comprendo la partecipazione, la compassione di Menia al dolore di tanti: è la stessa che ho provato io leggendo le testimonianze dei superstiti della strage di Sant'Anna di Stazzema. Il dolore umano è lo stesso ma le radici sono profondamente diverse. Vorrei ricordare al collega Menia tanti altri dolori, tanti altri orrori, milioni di dolori e di orrori che chiedono a noi il rispetto di un'analisi storica che non colga solo alcuni singoli aspetti ma che indaghi sulle relazioni tra di essi.
Questo territorio del confine nord orientale ha subito sconquassi a partire dalla prima guerra mondiale: una vera e propria bonifica etnica, teorizzata e praticata dal fascismo; l'italianizzazione forzata; il massiccio licenziamento o il trasferimento di tantissimi funzionari statali, sostituiti forzosamente con «popolazione italiana» (è scritto così, testualmente, nella lettera del generale Roatta, comandante, fino al 1942, della seconda armata Slovenia Dalmazia, al comando supremo), e la requisizione del loro patrimonio; lo scioglimento delle organizzazioni e delle istituzioni slovene e croate; la soppressione delle scuole della minoranza; la proibizione dell'uso della lingua materna persino al clero sloveno e croato nell'esercizio delle funzioni religiose, l'espulsione dei contadini slavi dalle loro terre.
Sloveni e croati furono perseguitati ben prima dell'introduzione delle leggi razziali e fu una vera e propria guerra contro lo slavismo, dettato dalla volontà di cancellare l'identità culturale e linguistica di quelle popolazioni; popolazioni, lo ricordo, che parlavano un'altra lingua ma erano italiane.
Vi furono incendi, razzie, esecuzioni sommarie e deportazioni. Nel luglio del 1942 erano 202 i campi di concentramento per sloveni e croati sparsi in tutta Italia. Vi furono deportate 30 mila persone. A migliaia, donne, bambini, anziani, colpevoli di essere jugoslavi ed ebrei, vi morirono di stenti. Questi venti anni di oppressione e violenza, di sofferenze ed umiliazioni, di deportazioni e di eccidi, sia nella Venezia Giulia che nella Jugoslavia, aggredita e smembrata, furono le premesse della sollevazione improvvisa e violenta, della resa dei conti anche selvaggia ed indiscriminata successiva all'8 settembre in Istria.
L'odio e la reazione trovarono la loro ragione di fondo e la loro motivazione oggettiva in ciò che fu il fascismo in quelle terre, nelle violenze squadristiche, nelle vessazioni, nelle uccisioni, nei villaggi sloveni


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e croati incendiati, in quell'odio antislavo che fu componente anche degli stermini della risiera di San Sabba in cui furono uccise migliaia di persone con le mazze prima che con il gas; non ebrei, lì di passaggio per andare a morire altrove, ma croati, sloveni, oppositori politici.
Come in tutta Italia ed in Europa vi furono anche episodi di giustizia sommaria dopo l'8 settembre; vendette personali, azioni di criminalità comune che colpirono persone innocenti, nessuno lo nega, nessuno l'ha mai negato!
Era diffusa l'equazione italiani-padroni, italiani-fascisti. Così dilagarono ondate di denunce spesso generiche, spesso sommarie e furono vittime di persecuzioni ed uccisioni anche persone che avevano ricoperto cariche secondarie nelle organizzazioni di regime, prese a simbolo del potere dominante italiano. Su questo concordo con l'onorevole Menia.
Lo stravolgimento dei valori, l'imbestialimento dei costumi, e i rapporti prodotti da fascismo e nazismo, non avevano lasciato indenni neppure gli oppressi. «L'abisso scava l'abisso», aveva ragione Salvemini.
Lo storico Raoul Pupo scrive: «È una spirale di rancori che altrove in Italia genera rapide ondate di violenza politica e catene di delitti e che, nella Venezia Giulia, alimentandosi del ricordo bruciante delle sopraffazioni compiute dal fascismo nei confronti delle popolazioni slave e della spietatezza della repressione antipartigiana, travolge chi torti ha compiuto, chi avrebbe potuto compierne, talvolta chi, semplicemente, ne richiamava la memoria».
Questo non significa ignorare un altro aspetto, significativamente presente nel 1945, l'assunzione del potere in Jugoslavia da parte del movimento partigiano a guida comunista, che avviene per via rivoluzionaria, attraverso una guerra di liberazione, che è anche una guerra civile.
I comportamenti assunti nella Venezia Giulia dall'esercito popolare di liberazione jugoslavo furono rivolti a smantellare le strutture del precedente regime e ad evitare preventivamente il coagularsi di nuclei di opposizione, a neutralizzare tutti gli avversari del nuovo Stato comunista jugoslavo.
Se vogliamo ragionare delle foibe non possiamo ignorare queste premesse, questi aspetti che s'intrecciano e si sovrappongono.
La proposta di legge Menia si caratterizza invece per l'assoluta e, direi, voluta assenza d'analisi e approfondimento sul contesto storico che ha generato le foibe. Ignora completamente le responsabilità enormi del regime fascista. Prende avvio da affermazioni, presenti nella relazione alla legge, intollerabili storicamente e moralmente: in primo luogo la rivalutazione delle «armi tedesche e di quelle della RSI»; l'accusa rivolta ai partigiani di occultamento dei dati; quella di colpevole silenzio rivolta al Ministero degli esteri e al partito comunista italiano e contraddetta dallo stesso Menia, che anche in Commissione ha rammentato la targa in ricordo di una vittima, della studentessa Norma Cassetto (di cui ci ha raccontato la terribile vicenda), voluta all'università di Padova dal comunista Concetto Marchesi.
Inaccettabile l'esclusione dal riconoscimento degli antifascisti, già sottolineato dal primo relatore del provvedimento, l'onorevole Paolo Corsini, ma c'è anche un'altra precisazione che vorrei fare a proposito del termine «infoibati».
È vero che, in alcuni casi, le vittime sono state soppresse nel modo bestiale di cui ci ha parlato Niccolini, ma questo è, grazie a Dio, un'eccezione. Le foibe sono state soprattutto una modalità di inumazione delle vittime, una modalità barbara...

ROBERTO MENIA. Ma dai, vergogna!

PAOLO ARMAROLI. Ma dai!

ROSANNA MORONI. ...ma di seppellimento, non di uccisione.

ROBERTO MENIA. Vergogna!

ROSANNA MORONI. Gli aspetti più esageratamente strumentali sono le esagerazioni


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rispetto al numero degli infoibati e l'affermazione «soppressi perché italiani».
Il numero delle vittime è un aspetto importante per capire il fenomeno foibe, anche se non cambia nulla riguardo alla gravità degli episodi, alla crudeltà o all'orrore. Secondo gli storici più accreditati, la sollevazione popolare contro il fascismo avvenuta nel 1943, durante l'interregno tra la dissoluzione dell'esercito italiano e l'annessione nazista, provocò l'esecuzione sommaria e l'infoibamento di 500-600 persone italiane, ma non solo. Più numerose furono le vittime nel 1945, nei quaranta giorni di occupazione dell'esercito iugoslavo di Trieste, Gorizia e di altre località della Venezia Giulia. Secondo i calcoli più recenti, tra il 1943 e il 1945 sparirono tra le 4 mila e le 6 mila persone tra civili e militari; addirittura, la Commissione italo-slovena ha concluso i suoi lavori - mi chiedo perché non siano stati ancora pubblicati - accreditando un numero di vittime non superiore a 2 mila. Il dato di 17 mila infoibati sostenuto nella relazione e largamente superiore a quello considerato verosimile non solo da eminenti storici, ma anche dalla Croce rossa italiana, è funzionale alla tesi del genocidio programmato, dello sterminio etnico finalizzato all'estirpazione della presenza italiana nelle regioni; si tratta di una tesi che le ricerche di storici come De Castro, Apih, Pupo hanno dimostrato priva di qualsiasi fondamento.
Nei documenti trovati la terminologia accusatoria usata nel 1945 dagli organi politici, militari e di polizia sloveni era quella di «fascista» e di «reazionario». Le direttive prescrivevano di «epurare subito, non sulla base della nazionalità, bensì su quella del fascismo». I nemici da eliminare non erano gli italiani in quanto tali, ma i reazionari ed erano considerati tali sia quelli che venivano identificati, anche sommariamente, come simbolo del ventennio di sopraffazioni e di violenze, sia quanti non accettavano le posizioni politiche riconducibili al fronte di liberazione iugoslavo. Furono colpiti, infatti, appartenenti alla guardia civile, alla guardia di finanza, ai carabinieri, ma anche antifascisti, componenti del comitato di liberazione nazionale di Trieste e di Gorizia, esponenti della resistenza e del movimento autonomistico di Fiume.

ROBERTO MENIA. Perché erano italiani!

ROSANNA MORONI. Per questi eccessi, nel maggio del 1945 lo stesso esercito partigiano iugoslavo condannò a morte e fucilò alcuni dei suoi appartenenti e membri della guardia del popolo e li gettò nella foiba di Basovizza. Altri processi furono fatti durante l'amministrazione alleata.
Questo è, in forma rozza e schematica, il quadro disegnato da storici autorevoli e imparziali; un quadro terribile, atroce, che comprende il dolore di tante vittime incolpevoli e dei loro familiari, ma non è quello che emerge dalla relazione alla proposta di legge o dagli interventi del collega Menia. Egli dà una lettura ben diversa delle vicende giuliane ed omette grande parte della vicenda storica di quelle zone, omette le tragedie della risiera di San Sabba, di Gonars, di Arbe e di altri campi di concentramento, omette l'oppressione antislava, la deportazione. Vuole tributare un riconoscimento indistinto a tutte le vittime delle violenze, ma sembra dimenticare che tra i morti inumati nelle foibe c'erano sì tanti innocenti, ma anche ex squadristi, spie, aguzzini...

GUALBERTO NICCOLINI. E allora, era giusto buttarli nelle foibe?

ROSANNA MORONI. ... responsabili di rappresaglie contro i partigiani e le popolazioni civili, complici dei nazisti efferati autori di violenze di sopraffazioni ventennali, per i quali posso capire la pietà umana, ma non il riconoscimento da parte dello Stato italiano nato dalla lotta di liberazione, non il riconoscimento da parte di una Repubblica democratica e libera conquistata dai partigiani e dall'antifascismo.


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ROBERTO MENIA. Comunista di merda, vergogna, fate veramente schifo!

PAOLO ARMAROLI. È la prova che il comunismo non è morto!

PRESIDENTE. Per cortesia!

ROSANNA MORONI. Tutte le vittime meritano compassione per il loro tributo di sofferenza e tutti i carnefici di ogni parte meritano condanna, ma tutto questo non consente di ignorare le condizioni sociali, politiche e storiche che hanno determinato o codeterminato particolari eventi né, tanto meno, come si vorrebbe fare, di criminalizzare complessivamente il movimento partigiano italiano e sloveno, di sostenere la tesi del nazionalismo sloveno per giungere alla conclusione che tutti sono uguali.
L'orrore delle foibe è, in larga parte, figlio del fascismo e delle sue nefandezze e la condanna delle atrocità non può e non deve servire a legittimare operazioni politiche e culturali che mirano a ribaltare la verità storica, a riscrivere, alterandoli, gli avvenimenti che hanno portato alla nascita della Repubblica, a manipolare la memoria collettiva, ad imporre un nuovo senso comune che occulti gli orrori del nazifascismo e ne attenui le responsabilità, a far apparire tutti uguali, fascisti e antifascisti, repubblichini e partigiani. Questo è quello che da tempo la destra postfascista tenta di fare, come conferma l'ultimo inquietante episodio che ha visto protagonisti Storace ed il suo tentativo di censura dei libri di testo: ...

ROBERTO MENIA. Ma parlate voi!

GUALBERTO NICCOLINI. Parla delle foibe!

ROSANNA MORONI. ... negare le differenze che hanno caratterizzato le parti avverse nel conflitto più aspro e tragico di questo secolo, utilizzando ogni mezzo, anche quello di mettere foibe ed Olocausto sullo stesso piano, nonostante la storia ci confermi l'unicità, l'incomparabilità della Shoah.

GUALBERTO NICCOLINI. Gli assassini sono assassini, comunque! Qui parliamo di assassini, non di storia.

PRESIDENTE. Onorevole Niccolini, per cortesia.

ROSANNA MORONI. Sì, gli assassini sono assassini, ma la storia non si occupa solo dei singoli. Come hanno ricordato Aldo Agosti ed altri settantaquattro storici, «i fascisti difendevano un sistema che aveva prodotto la camera a gas e i forni crematori, ...

ROBERTO MENIA. Cosa c'entrano gli infoibati? Spiegamelo!

PRESIDENTE. Onorevole Menia, per cortesia.

ROSANNA MORONI. ... gli antifascisti volevano cancellarli dalla faccia della terra».
Non è ammissibile equiparare la lotta di liberazione ed i drammi che ogni guerra porta con sé...

PAOLO ARMAROLI. I comunisti hanno fatto 100 milioni di morti!

ROSANNA MORONI. ... con il progetto d'annientamento scientifico di un intero popolo. Risiera e foibe sono due fatti assolutamente incomparabili tra loro: la prima è il frutto scientifico dell'ideologia nazista che ha prodotto anche Auschwitz e Mauthausen, le seconde sono, in larga parte, la risposta crudele e irrazionale alla persecuzione e alla repressione violenta e sistematica dello Stato fascista nei confronti delle popolazioni slovene e croate.

GUALBERTO NICCOLINI. Quindi da giustificare!

ROSANNA MORONI. Noi comunisti siamo disponibili a riconoscere e a condannare


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la turpitudine delle violenze, delle crudeltà, da chiunque perpetrate: non lo siamo né lo saremo a falsare la storia. Non ce lo consente il rispetto per le donne e per gli uomini che si sono battuti, anche a prezzo della loro vita, per affermare in questo paese i valori della libertà e della democrazia.
Accettare, in nome di una malintesa pacificazione nazionale, di porre sullo stesso piano la resistenza ed il fascismo - questo è ciò che si vuole ottenere, anche con la proposta di legge al nostro esame - sarebbe un'offesa imperdonabile ai fautori del nostro ordinamento democratico, della nostra Costituzione, delle stesse libertà di cui oggi beneficiamo, ma sarebbe anche una dolorosa mancanza di rispetto per gli innocenti inumati nelle foibe equipararli agli squadristi, ai carnefici, a tutti coloro che hanno contribuito alla genesi di quella tragedia.

ROBERTO MENIA. Comunista di merda!

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

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