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ANNA MARIA SERAFINI. Fin dalla Conferenza delle donne a Pechino, dalle ultime iniziative dell'ONU a quelle europee, emerge una più matura elaborazione del fenomeno della violenza e una più forte assunzione di responsabilità. Il filo conduttore è dato dall'innervarsi di una nuova cultura dei diritti umani, inclusiva di quelli delle donne, delle bambine e dei bambini. Lo sguardo alla violenza diviene allora sempre più uno sguardo alla violazione dei loro diritti. La stessa concreta solidarietà a chi incontra la violenza, perché non rimanga - anche se è importante in sé - fenomeno momentaneo e isolato, sollecita una più moderna concezione dei rapporti tra donne e uomini, una più elevata visione dell'infanzia e dell'adolescenza.
Mehr Khan, direttore del centro di ricerca Innocenti dell'Unicef, nell'editoriale di presentazione dell'ultimo studio che ha per titolo «Violenza intrafamiliare contro le donne e le bambine», scrive: «Le donne ed i bambini spesso corrono grandi pericoli proprio nel luogo in cui dovrebbero essere più al sicuro: nelle loro famiglie. Per molte e molti di loro, la casa è dominata da un regime di terrore e violenza per mano di qualcuno che è a loro molto vicino, qualcuno nel quale dovrebbero poter avere fiducia. Le vittime soffrono fisicamente e psicologicamente. Non sono in grado di prendere le decisioni che le riguardano, dar voce alle loro opinioni o proteggere loro stesse ed i bambini per paura delle ulteriori ripercussioni. I loro diritti umani vengono calpestati, e le loro vite vengono annientate dalla costante minaccia della violenza».
cui sono connessi privilegi e soprattutto di un ruolo gerarchicamente dominante. La violenza diventa quindi uno strumento usato contro la donna che non vuol riconoscere questo potere, questa gerarchia nei rapporti, così come ci è stata consegnata dal passato. Forse per questo la violenza non si ferma neanche di fronte alla gravidanza. Le donne che subiscono violenza e spesso i loro figli, in virtù degli attacchi subiti, appaiono deboli, svuotati, «senza sogni» come è scritto in un bel documento del centro di Udine.
per le case ed i centri delle donne» attua i principi dell'inviolabilità, della dignità e della libertà della persona di cui agli articoli 2, 3, 13 e 41 della Costituzione.
e la PTSD (sindrome post-traumatica depressiva), l'abuso di alcol e droga, le complicanze prenatali, i tentativi di suicidio e altri disturbi cronici fisici e psichici.
solo centro antiviolenza abbiano fatto risparmiare alle autorità locali preposte alle strutture di alloggio 13,4 milioni di corone danesi (1,8 milioni di Ecu) in dieci anni. Questi risparmi, ripartiti su tutta l'Unione europea, comporterebbero un risparmio formidabile per le casse pubbliche (Eriksson, 1997/18).
e delle case delle donne dipende solo dalla sensibilità degli enti locali, dalla loro buona volontà. Il nostro impegno, oggi, può sostenere i centri - e le donne ed i minori che con essi rivendicano i più elementari diritti di cittadinanza - riequilibrando gli scompensi tra regione e regione, e garantendo così, con un fondo di cofinanziamento nazionale per le case ed i centri delle donne, a tutte le cittadine ed a tutti i cittadini minori la stessa tutela e la stessa dignità.
Queste stesse considerazioni e questi stessi dati sono confermati dalla recente indagine commissionata dall'Istat a Linda Laura Sabbadini. Dalla ricerca emerge un panorama inquietante di un fenomeno in gran parte ancora sommerso, soprattutto quando la violenza è - come nella stragrande parte dei casi è - domestica. Nei mesi scorsi abbiamo appreso che metà delle donne uccise lo sono per mano del loro marito o partner: Ma questa è purtroppo solo una minima parte delle violenze. I centri di ascolto e le case delle donne ci dicono, infatti, che i dati sono sempre in difetto rispetto alle realtà.
Nei maltrattamenti e negli abusi intrafamiliari una percentuale molto alta (la gran parte) non viene denunciata all'autorità giudiziaria oppure la denuncia segue a periodi così lunghi di violenza morale che poi (in particolare per violenze non di tipo sessuale) è molto difficile procedere.
Sappiamo che negli ultimi anni, in Italia, le denunce di violenza sessuale e di maltrattamenti fisici e psicologici nell'ambito familiare sono praticamente raddoppiate. Eppure, ancora, moltissimi incidenti con lesioni gravi, denunciati come incidenti domestici, riguardano violenze e maltrattamenti nell'ambito familiare, come riconosce anche l'ultimo piano sanitario nazionale.
La violenza contro le donne rimane un fenomeno ancora completamente sommerso. Perché? Nel dopoguerra si è venuta affermando sempre più una concezione dei diritti umani inclusiva dei diritti delle donne e dei diritti dei bambini e delle bambine quali diritti fondamentali dell'umanità. È negli anni '90, tuttavia, che la rottura rispetto al passato si fa più evidente: il cuore di questa rottura è dato dal perdere di centralità, almeno come modello univoco, della famiglia come modello statico, gerarchico, nel quale donne e bambini avevano un ruolo rigidamente sottoposto. Questo processo è ancora in corso. E non procede - e non potrebbe essere altrimenti - in modo unilineare.
La violenza contro le donne e sui minori va considerata - quindi - anche nella sua dimensione sociale, nel suo legame con i processi di cambiamento culturale e di mutamento sociale che riguardano il ruolo delle donne, la cultura dell'infanzia, la vita concreta delle famiglie. La violenza sulle donne e sui bambini non appartiene ad un mondo residuale, ma l'abuso, che secondo gli ultimi dati CENSIS si consuma nel 90 per cento in famiglia, va considerato anche come un vero attacco al cambiamento: a come le donne vivono, oggi, il loro ruolo, a come i bambini affermano i loro diritti, a come l'intero progresso economico, sociale e culturale spinge a rapporti più liberi, meno gerarchici, più attenti alla personalità di ognuno.
Molti studi dicono che la violenza sulle donne non è mai reazione ad un torto, e non è neanche soltanto lo sfogo maschile a proprie insoddisfazioni, frustrazioni. E molto di più e richiama un livello qualitativamente diverso. Attiene a profonde motivazioni culturali: ai modelli del rapporto tra i generi, tra le persone. Per questo la violenza oggi non è, purtroppo, frutto di arcaismi. La violenza sia quella morale, psicologica e fisica, economica, sessuale, da parte del partner è piuttosto un modo per riappropriarsi di un ruolo
Secondo una ricerca condotta nel 2000 dai Centri antiviolenza di Roma (dottoressa Baldry), risulta che il 90 per cento delle donne maltrattate subisce violenza anche in gravidanza. La violenza, anzi, nel 24 per cento dei casi inizia in gravidanza, spesso purtroppo ancora in relazione alla notizia che la donna aspetta una bambina. Nel 26 per cento dei casi la violenza aumenta durante la gravidanza e nel 39 per cento dei casi resta inalterata. Nel 75 per cento dei casi si tratta di una violenza fisica gravissima, che, oltre ai danni fisici e psicologici sulla donna, ha anche conseguenze dirette sul feto: minacce d'aborto (16 per cento dei casi), parti prematuri (14 per cento dei casi), malattie del feto (7 per cento dei casi) ed interruzione di gravidanza (5 per cento dei casi). Nel 65 per cento dei casi la violenza in gravidanza ha condizionato negativamente l'atteggiamento verso gravidanze successive: il 67 per cento delle donne che hanno subito violenza anche durante la gravidanza ha paura di rimanere nuovamente incinta, il 35 per cento fa maggior uso di contraccettivi, il 23 per cento ricorre all'aborto, il 37 per cento tenta di evitare rapporti sessuali.
Se la gravidanza non costituisce un fattore di protezione dalla violenza domestica, nemmeno la nascita garantisce a tutti i bambini un'accoglienza affettuosa. Secondo la recentissima ricerca della dottoressa Marchueta, inoltre, risulta che anche l'essere soltanto testimoni di violenza comporta, per i bambini e le bambine, traumi gravissimi, che, come i traumi da violenza diretta, condizionano non soltanto il rendimento scolastico, ma anche e soprattutto la salute psico-fisica e la crescita relazionale. Costretti a vivere in un ambiente violento, i maschi tendono a diventare aggressivi e distruttivi (rispettivamente nel 57 per cento e nel 71 per cento dei casi), le bambine si abituano ad una figura di donna impotente e si rifugiano nella depressione. Le più recenti statistiche statunitensi rivelano che l'80 per cento degli uomini violenti ed il 50 per cento delle donne che subiscono violenza sono stati da piccoli esposti a violenza.
Alla luce di questi dati il nostro impegno deve essere chiaro e coraggioso: diritti dell'infanzia non possono essere altro che quei diritti che consentono ad ogni bambina e bambino di poter aver fiducia nel mondo, di potersi misurare con il mondo, sulla base delle proprie forze. Per le bambine e i bambini il fatto di essere testimoni e vittime di violenza costituisce la più radicale opposizione ad una seria cultura dei diritti dei minori proprio perché li sottopone a prove più grandi di loro.
Il nostro impegno deve andare sicuramente nella direzione della prevenzione della violenza, ma dobbiamo anche garantire, a chi subisce violenza, la possibilità di ricostruire la propria dignità - come persone - e la propria vita, liberi e libere dalla violenza. Per questo è importante che anche in questa legge si faccia riferimento ai centri antiviolenza. Perché senza le case ed i centri delle donne, che hanno maturato culturalmente e metodologicamente una consapevolezza sulle cause e le conseguenze della violenza, sviluppando metodologie raffinate nella stessa accoglienza, la violenza potrebbe essere trattata in modo inappropriato. Questa competenza è stata maturata attraverso l'accoglienza concreta di tantissime donne e il lavoro e le competenze di prim'ordine delle operatrici dei centri antiviolenza, di psicologhe, assistenti sociali, psicoanaliste, avvocate, insegnanti e magistrate.
Proprio per questo il disegno di legge «Istituzione del fondo di cofinanziamento
Certo, serve un'azione rapida di tutela, e per questo abbiamo pensato e oggi supportiamo il disegno di legge per l'allontanamento del coniuge o del convivente violento. Ma allontanare il coniuge o il convivente violento, purtroppo, ancora non basta. È necessario impegnarsi per cambiare la cultura e per garantire i diritti minimi di cittadinanza ai soggetti che già sono esposti alla violenza, affinché - donne o minori che siano - riescano a recuperare forza e dignità, affinché possano tornare a fidarsi delle istituzioni e della società fino a parteciparvi da soggetti attivi.
In questi ultimi decenni non solo sono stati compiuti atti decisivi nel riconoscere la violenza come intollerabile attacco alla persona - in Italia sono state veramente un momento alto della storia delle donne e di una moderna cultura sull'infanzia l'approvazione della legge contro la violenza sessuale e contro la prostituzione minorile concepita come nuova forma di riduzione in schiavitù - ma si sono anche compiuti passi in avanti nella consapevolezza di una precisa responsabilità della comunità, sia della società civile che dello Stato, nel prevenire e curare i danni della violenza contro le donne ed i bambini. In effetti, come si evince da uno studio del CNEL, il primo grado di comprensione del fenomeno parte da una presa di distanza dall'indifferenza, definita da Robustelli dell'Istituto di psicologia del Consiglio nazionale delle ricerche, come violenza indiretta «perché l'indifferenza, in quanto permette la violenza diretta, non la contrasta, non la combatte, non tenta di eliminare o diminuire le sofferenze di coloro su cui essa esercitata» e quindi «non può non essere considerata a sua volta una forma di autentica violenza».
Sono questi i concetti che si ritrovano in un recentissimo articolo di Radhika Coomaraswamy, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne: «In base alla normativa internazionale dei diritti dell'uomo, gli Stati hanno un duplice dovere: non solo devono astenersi dal commettere violazioni dei diritti dell'uomo, ma hanno anche l'obbligo di prevenirle e dare una risposta efficace alla violenza. In passato la tutela dei diritti dell'uomo era interpretata in senso restrittivo, e la mancanza di iniziativa da parte di uno Stato nel prevenire e punire le violazioni non veniva considerata come una omissione del suo dovere di tutela. Oggi il concetto di responsabilità dello Stato ha subito un'evoluzione: si ritiene che sugli Stati incomba anche l'obbligo di adottare misure preventive e punitive a fronte di violazioni dei diritti od opere dei privati cittadini».
Serve dunque un lavoro di prevenzione; e dunque serve il nostro impegno a garantire il funzionamento delle associazioni che, operando in sintonia con gli enti locali, con lo Stato, stanno animando la ricerca, la cura, la prevenzione ed il contrasto alla violenza.
È poi necessario accompagnare le donne ed i minori vittime di violenza intrafamiliare nel percorso di recupero della propria dignità di persone, cercando per quanto possibile di attenuare le conseguenze profondissime che la violenza ha comportato alla loro salute psico-fisica.
Secondo una ricerca sui costi sociali della violenza contro le donne realizzata nel 1997 per il Parlamento europeo, emerge che nei soli Paesi Bassi tali costi ammontano ad una cifra superiore ai 145 milioni di ecu, pari a 700 miliardi di lire.
Come evidenzia la ricerca condotta dalla dottoressa Ercoli, vi sono dati che indicano le conseguenze sociali e i costi che accompagnano la violenza. Straus (1986) stima che gli omicidi agiti dai partners sulle donne costino un miliardo e 700 milioni di dollari l'anno. Meyer (1992) ha calcolato che i costi medici e la perdita di produttività lavorativa imputabili alla violenza domestica siano compresi fra i 5 ed i 10 miliardi di dollari l'anno. Al di fuori del pronto soccorso, non vi sono praticamente informazioni su una miriade di costi sanitari collegati alla violenza domestica, come le terapie per la depressione
Le stime del numero di donne senza tetto a causa dei maltrattamenti variano dal 27 per cento (Knickman - Weitzman, 1989) al 41 per cento (D'Ercole - Struening, 1990). Senza contare che la violenza contro le donne costituisce un impegno sempre più gravoso per la giustizia. Le ricercatrici ed i ricercatori, inoltre, stanno appena cominciando a considerare i costi indiretti della violenza delle donne. Sono costi che non derivano dall'utilizzazione di servizi ma dalla ridotta produttività e dai cambiamenti nella qualità della vita.
Uno studio condotto a New York ha scoperto che il 56 per cento delle donne occupate vittime di violenza ha perso il lavoro come risultato diretto della violenza, e che il 75 per cento aveva subito violenza dal partner anche sul luogo di lavoro (Friedam - Couper, 1987).
I costi correlati direttamente e indirettamente alla violenza contro le donne sono molti e agiscono non solo sul piano personale, quindi privato, ma anche su quello pubblico. Negli Stati Uniti d'America il 73 per cento degli uomini violenti continua a perseguitare la moglie dopo la separazione e purtroppo questa percentuale è confermata anche dai dati raccolti dai centri antiviolenza in Italia. La persecuzione dopo la separazione è un fenomeno frequente che comporta conseguenze gravissime, sia psico-fisiche che materiali sia per la donna che per i figli (perdita del lavoro, impossibilità di uscire di casa, di recarsi a scuola, dal medico, eccetera).
È proprio per questo che, oltre che per il problema della violenza prima dell'eventuale separazione, il disegno di legge «Misure contro la violenza nelle relazioni familiari» insiste (articolo 1, terzo comma) sull'esigenza di tutela dell'incolumità della persona offesa o dei suoi prossimi congiunti e quindi prevede che il giudice possa prescrivere all'imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati ovvero ai locali abitualmente frequentati dalla persona offesa, in particolare il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti.
L'articolo 2, inoltre, al comma 4 stabilisce che in caso di urgenza il giudice, assunte ove occorra sommarie informazioni, può adottare immediatamente l'ordine di protezione. In particolare, il giudice può: ordinare la cessazione della condotta pregiudizievole; ordinare l'allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del convivente che ha tenuto la condotta pregiudizievole; autorizzare l'istante che ne fa richiesta ad allontanarsi dal domicilio coniugale; disporre l'intervento dei servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione familiare; ordinare, ove occorra, il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto dei provvedimenti di cui alle lettere b) e c), rimangano prive di mezzi adeguati, fissando modalità e termini di versamento e prescrivendo, se del caso, che la somma sia versata direttamente all'avente diritto dal datore di lavoro dell'obbligato, detraendola dalla retribuzione allo stesso spettante.
Sebbene anche il Parlamento europeo inizi a considerare gli alti costi della violenza nei confronti delle donne, i centri antiviolenza, le case-rifugio e le linee telefoniche preposte a questo problema incontrano a tutt'oggi, quale più arduo ostacolo, la questione dei finanziamenti. È assolutamente necessario - spiega Eriksson nella sua relazione al Parlamento europeo - ricalcolare i costi della violenza: queste strutture debbono essere considerate non soltanto in termini di costi supplementari, ma anche sotto il profilo dei risparmi che essi fanno realizzare ai bilanci dei servizi sanitari, delle strutture di alloggio, dei servizi sociali, delle strutture giudiziarie e penitenziarie e delle assicurazioni.
Questo punto è stato sollevato da molte associazioni di donne contro la violenza e inizia a essere discusso da alcuni governi nazionali. Solo per fare un esempio, un calcolo concreto dei risparmi fatti in Danimarca dimostra che le strutture di un
Oltre al risparmio che i centri antiviolenza, per la loro efficienza e funzionalità, possono far realizzare allo Stato, è però assolutamente necessario considerare l'investimento che i centri costituiscono in termini non soltanto di prevenzione della violenza e di sensibilizzazione della società civile, ma anche di formazione professionale e specifica per gli operatori socio-sanitari, le forze dell'ordine e gli operatori di giustizia. Il fatto che sempre più donne si rivolgono ai centri significa che questi costituiscono uno strumento privilegiato di acquisizione di cittadinanza, oltre che la possibilità di porre fine a situazioni di violenza e sopraffazione e quindi di iniziare quel percorso di riconquista della stima di sé e della fiducia nel mondo che consente - in tempi brevissimi rispetto alle donne che non hanno la possibilità di rivolgersi ai centri - di ricostruirsi una vita.
Inoltre, dalle operatrici dei centri antiviolenza - tra le quali prestano la loro opera anche numerose avvocate - la donna ha modo di conoscere il meccanismo burocratico delle istituzioni (comune, regione, provincia, tribunale civile, penale e minori) per rimuovere gli ostacoli e ottenere risposte sempre più articolate e innovative che riconoscano la gravità e la peculiarità della violenza sulle donne. Sono inoltre agevolati i rapporti con i servizi territoriali (scuole, ospedali, consultori, eccetera) per facilitare l'avvio delle procedure necessarie. Nelle situazioni di maggiore rischio, le donne vengono ospitate, assieme agli eventuali figli minori, per un periodo che non supera i tre mesi. In questo lasso di tempo, le donne debbono elaborare un proprio personale progetto per riuscire a ricostruire la propria vita nell'autonomia e nel rispetto di sé. Tappe fondamentali per questa conquista sono il raggiungimento di un lavoro e di una casa propri. Il centro è un luogo dove sperimentare la fiducia, il riconoscimento, la solidarietà di altre donne, e dove poter riacquistare ed esprimere forza, autonomia e libertà.
Di fatto il 98 per cento delle donne che si rivolge ai centri antiviolenza - dalle vittime del racket della prostituzione alle donne che subiscono maltrattamenti in famiglia - riesce a determinare, spesso per la prima volta, la propria vita.
Ai centri antiviolenza delle maggiori città italiane (Roma, Milano, Bologna, Firenze, Venezia, solo per citare degli esempi) si rivolgono ogni anno più di cinquecento donne. Così a Roma, dove sono attivi tre centri antiviolenza, si rivolgono ogni anno più di 1.500 donne.
Delle donne che si rivolgono ai centri antiviolenza l'89 per cento è vittima di violenza intrafamiliare, maltrattamenti cui sono costretti ad assistere anche i minori e cui le donne non riescono a sottrarsi con una denuncia; violenza che addirittura peggiora quando la donna decide di rivolgersi alle autorità. E tutto questo perché, dopo aver denunciato, la donna deve tornare a casa, dove il marito o il convivente l'aspetta.
Di sicuro una legge per l'allontanamento del coniuge o del convivente violento supporterebbe le donne che vogliono denunciare e quindi offrirebbe la speranza di un futuro libero dalla violenza per sé e per i figli. Ma purtroppo allontanare non basta, occorre anche accogliere, sostenere, ridare forza alle donne ed ai minori che sono stati vittime di violenza. Questo è il lavoro che svolgono i centri antiviolenza, ma purtroppo in Italia siamo lontani da un'uniforme distribuzione di questo servizio sul territorio. Solo in Emilia Romagna ce ne sono più di venticinque, mentre in Friuli-Venezia Giulia è attivo solo un centro, come del resto in Campania, mentre in Calabria non ce n'è ancora nessuno, in Sicilia ce ne sono solo tre ed in Sardegna si sono attivati quattro centri (due in questi ultimi mesi). E questo perché? Perché fino ad ora il finanziamento dei centri antiviolenza
Fino a qualche tempo fa in Italia esistevano solo alcune decine di centri, e al massimo si poteva parlare di una rete nazionale. Ma oggi la vitalità culturale e la politicità delle donne sempre più si è concentrata intorno a questi luoghi. Considerate che se ne sono aperti oltre 140, e che intorno ad ognuno ruotano decine di operatrici, decine e decine di volontarie e centinaia di donne che vi si recano per un sostegno o addirittura per esservi ospitate perché in fuga da gravi episodi di violenza. Si tratta, nel complesso, di migliaia di donne e perciò si può parlare addirittura di un nuovo movimento. Un movimento di donne che conta nelle istituzioni, che nelle istituzioni unite nutre aspettative, che sa che le istituzioni possono rendere quei luoghi, i centri antiviolenza, luoghi definitivamente certi e sicuri per loro.
Alla società la violenza contro le donne costa, costa prezzi altissimi. Rispetto a questi costi, incalcolabili quando sono psicologici e soprattutto quando li pagano i bambini, i costi monetari che devono sostenere i centri antiviolenza per funzionare sono non solo infinitesimali, ma costituiscono un vero e proprio investimento, un'opportunità di crescita e di innovazione per la società tutta, a partire dalle istituzioni.