Resoconto stenografico dell'Assemblea
Seduta n. 823 dell'11/12/2000
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(Discussione sulle linee generali - Doc. XVI-ter, n. 1)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Ha facoltà di parlare il relatore per la maggioranza, onorevole Soave.

SERGIO SOAVE, Relatore per la maggioranza. Signor Presidente, il programma quinquennale di attuazione della riforma dei cicli di istruzione, trasmesso dal Governo alle Camere il 17 novembre 2000, costituisce la prima fase del processo di attuazione progressiva dei nuovi cicli di istruzione ed avviene in ottemperanza delle modalità del tutto particolari dettate dall'articolo 6 della legge n. 30 del 2000.
Secondo quanto previsto dalla legge, il programma deve indicare la scansione temporale e le modalità di attuazione della legge stessa; contenere un progetto generale di riqualificazione del personale docente secondo criteri già individuati (valorizzazione delle specifiche professionalità maturate o riconversione); individuare i criteri generali per la formazione degli organici di istituto; definire i criteri generali per la riorganizzazione dei curricoli; definire un piano di adeguamento delle infrastrutture; contenere una relazione di fattibilità in relazione a eventuali maggiori oneri finanziari o economie; indicare i criteri e le modalità di riutilizzazione delle economie di spesa.
Il programma presentato dal Governo contiene valutazioni e risposte sui singoli punti, anche se in molte parti preferisce ipotizzare differenti soluzioni per le quali richiede il giudizio delle Camere, rispettando in tal modo lo spirito dell'articolo 6 della legge n. 30 del 2000 e cogliendo, in particolare, le indicazioni della speciale procedura approvata dal Parlamento, preoccupato del fatto che la complessa e graduale procedura di attuazione potesse sembrare delegata, una volta per tutte, al solo Governo. Da qui il carattere in qualche misura anomalo del documento e la necessità che la risoluzione finale sia molto precisa nella definizione degli indirizzi


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cui il Governo dovrà attenersi, in modo da bilanciare l'impressione di una certa genericità che la lettura di un testo così difforme dall'ordinaria produzione normativa può legittimamente suscitare.
Non bisognerà comunque dimenticare, nell'avvicinarsi al testo, che si tratta di un primo programma, il quale non deve e non può presentare la soluzione di tutti gli innumerevoli problemi connessi all'attuazione di una riforma generale così complessa, ma può solo indicare indirizzi e fattibilità legati alla prima fase di applicazione, certo decisiva ma non esaustiva. Come si sa, del resto, la legge prevede la possibilità di continue misure correttive del programma stesso che possono essere emanate anche nel corso dell'attuazione, ove se ne rilevi la necessità. Si presta, pertanto, una particolare attenzione al rapporto Governo-Parlamento ed alla necessità di seguire una procedura graduale e prudente.
Il programma di attuazione si articola in sette capitoli: i primi due riguardano le finalità, le ragioni, le condizioni ed i soggetti della riforma, gli altri affrontano punto per punto le tematiche contenute nell'articolo 6 della legge n. 30 del 2000.
I primi due capitoli introduttivi, pur non contenendo norme di attuazione, costituiscono un'utile premessa. Da più parti, infatti, nel tentativo di arrestare il cammino della legge di riforma, si opera una singolare rimozione delle ragioni che hanno indotto il Parlamento, dopo quasi trent'anni di discussioni e di vani tentativi, ad approvare il testo di riordino. A leggere, anzi, alcuni appassionati critici, sembra che la presunta «follia distruttiva» - così è stata definita - della legge si abbatta su una scuola perfetta, che abbisogna al più di qualche ritocco marginale. È curioso che questa rappresentazione venga fatta anche da chi, nei decenni precedenti, ha sempre rivendicato l'assoluta necessità di un radicale cambiamento.
Ora, se è comprensibile che, arrivati al dunque, cioè al momento della prima attuazione, si tenda ad enfatizzare la bontà di ciò che si lascia e, per converso, ad amplificare i rischi e le difficoltà inevitabili del nuovo cammino, non si dovrà diventare prigionieri di un pur naturale e comprensibile riflesso psicologico. Il legislatore sa che le riforme, anche quelle per le quali più si è combattuto, recano con sé, nella fase iniziale, una resistenza inevitabile al nuovo e ciò gli consiglia di essere prudente nell'innovazione e graduale nell'applicazione. Ma prudenza non può voler dire immobilità e gradualità non può essere sinonimo di rinvio.
A chi, dunque, voglia confrontarsi davvero con le finalità e le ragioni della legge, i primi due capitoli del programma ricordano opportunamente che le finalità sono riassumibili: in primo luogo, nel dare piena attuazione ai principi costituzionali in materia di uguaglianza e diritto allo studio e nel considerare la centralità della persona che apprende come fondamento dell'intero ordinamento; in secondo luogo, nel coordinare l'offerta di formazione con le trasformazioni sociali in atto nel paese, riconoscendo valore e dignità alle diverse tradizioni culturali esistenti; in terzo luogo, nell'adeguare la preparazione dei giovani al contesto internazionale e, soprattutto, alle esigenze della nuova casa europea che è in costruzione; infine, nel rinnovare l'identità delle istituzioni scolastiche, recuperando il meglio della tradizione culturale della scuola.
Quanto alle ragioni di un riassetto complessivo che hanno spinto il Parlamento ad agire, esse possono essere riassunte molto chiaramente nei seguenti punti: in primo luogo, la discontinuità tra i vari livelli di scuola e l'eccessiva e non funzionale differenziazione dei vari indirizzi della scuola superiore, limiti che la legge si propone di superare; in secondo luogo, il mancato o difficile raccordo con il sistema universitario, con la formazione professionale e con il mondo del lavoro; in terzo luogo, il carattere parziale e poco risolutivo delle riforme fin qui effettuate che hanno finito per incidere debolmente su nodi quali l'insuccesso scolastico e la dispersione; in quarto luogo, le nuove emergenze, quelle derivanti dall'analfabetismo


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di ritorno e dal problema dell'immigrazione; in quinto luogo, la necessità di superare la gestione centralizzata e autoreferenziale della scuola.
Se si vanno ad esaminare queste ragioni e questi principi, non vi è chi non veda come si tratti di argomentazioni largamente condivisibili e che, infatti, fino ad un certo punto della discussione parlamentare per la predisposizione della legge, sono stati condivisi da una vasta maggioranza. Poi, quel clima di confronto costruttivo si è in qualche modo incrinato per ragioni che, a parere del relatore per la maggioranza, erano estranee alla legge e più individuabili in un clima generale di opposizione dura tra le forze di maggioranza e quelle dell'opposizione. Per tale motivo, anche il recente dibattito ha fatto emergere spesso posizioni perlopiù «demolitorie», mentre qui si tratta piuttosto di discutere se la legge e il programma siano più o meno coerenti con i principi appena esposti.
Passiamo ora all'analisi dei capitoli veri e propri all'interno dei quali il programma deve affrontare le richieste e dare le risposte previste dall'articolo 6.
Mi soffermerò innanzitutto sui criteri generali per la riorganizzazione dei curricoli. Al riguardo credo siano condivisibili le osservazioni del programma di attuazione relative ai principi informatori che dovranno sottostare alla nuova formulazione dei curricoli. Mi riferisco innanzitutto alla necessità che essi rispondano ai bisogni formativi degli alunni; alle istanze territoriali di riferimento nella prospettiva di bilanciare unitarietà del sistema e pluralismo culturale; al fatto che essi siano formulati esaltando l'essenzialità, la storicità e la problematicità del sapere (e qui vi è una risposta significativa a chi parla superficialmente di svilimento nella riforma della qualità della scuola); al fatto che tengano conto del carattere progressivo e graduale dei percorsi, in antitesi con l'attuale ripetersi degli stessi contenuti nelle fasi successive (questa è un'indicazione che farà - credo - lavorare - lo spero - fecondamente e proficuamente, ma in maniera molto impegnativa, chi dovrà affrontare la stesura e la tematica dei nuovi curricoli); al fatto che si rafforzino tra le competenze essenziali quelle linguistiche e matematiche, nonché la capacità di impiego delle tecnologie informatiche.
In secondo luogo, i criteri generali per la riorganizzazione dei curricoli non possono non affrontare la questione dei tempi e, cioè, il monte ore annuale a cui fare riferimento. Qui viene «scandito» il monte orario complessivo: dalle 1.150 alle 1.300 ore per la scuola dell'infanzia, forte dei suoi ordinamenti e, per la prima volta, parte integrante del sistema di istruzione e di educazione sotto la diretta responsabilità del dirigente scolastico. Faccio questa sottolineatura semplicemente perché pare strano, nonostante tutto, che si sia alimentata in queste settimane l'idea - farei meglio a definirla la «leggenda metropolitana» - che in questa riforma la scuola dell'infanzia venga posta in un'area marginale, quando invece proprio da un'area marginale viene sottratta per essere collocata pienamente dentro il sistema di istruzione e di educazione, diventandone parte integrante!
Naturalmente, la realizzazione di tale obiettivo (1.150 ore e 1.300 ore annuali) implica in particolare la riconversione delle sezioni, ancora funzionanti a tempo ridotto, nella prospettiva di una progressiva generalizzazione della scuola dell'infanzia. Questo è un altro tema che cozza direttamente contro le «fantasie» sulla marginalità! Vengono poi definiti i «monte ore». Per la scuola di base è previsto un monte ore di circa mille ore annuali (cioè trenta ore settimanali per trentatré settimane), con una quota riservata alle istituzioni scolastiche attorno al 25 per cento; per la scuola secondaria si stabilisce un monte ore di mille ore annuali con una soglia autonoma del 20 per cento incrementabile con una quota fino al 10 per cento per i primi due anni, per le attività di recupero e di orientamento (che abbiamo già detto essere indispensabili per favorire il passaggio da aree e indirizzi diversi qualora le vocazioni degli alunni non siano abbastanza sicure), e un


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altro 20 per cento per l'articolazione interna agli indirizzi mediante l'insegnamento di discipline scelte dalle scuole sulla base di un repertorio di opzioni definite a livello nazionale, in modo trasparente, per venire incontro a quell'articolazione che dovrà essere prevista pur dentro la compressione in soli sei indirizzi dei cento e più che erano presenti nell'area tecnica e tecnologica.
I curricoli della scuola secondaria dovranno tenere conto della nuova definizione per aree e indirizzi. Il programma chiarisce quello che nel dibattito parlamentare precedente non era stato precisato. È prevista un'area classico-umanistica, con due indirizzi (lingue e letterature classiche e lingue e letterature moderne); un'area scientifica, con due indirizzi (scienze matematiche e sperimentali e scienze sociali); un'area tecnica e tecnologica con sei indirizzi (gestione e servizi per la produzione di beni, gestione e servizi per l'economia, gestione e servizi per l'ambiente e il territorio, gestione e servizi per le risorse naturali e agro-industriali, gestione e servizi alla persona e alla collettività, gestione e servizi relativi al turismo - questa mi pare sia la risposta da dare ad un interrogativo che era stato posto nel programma -); infine l'area artistica e musicale, con almeno due indirizzi.
Su questi punti credo saranno necessarie alcune avvertenze. Esse troveranno posto anche nella risoluzione a cui darà luogo il programma.
Innanzitutto bisogna tenere conto dello sviluppo progressivo dell'intero percorso settennale nel definire in maniera compiuta per il settembre del 2001, così come si vuole, i curricoli dei primi due anni della scuola di base.
Per quanto attiene all'articolazione della scuola di base, occorre impegnare il Governo a considerare la soluzione che viene prospettata nel programma (il famoso 2+3+2) come ipotesi di lavoro valida soprattutto per le implicazioni metodologiche e organizzative, ma da realizzare nell'ambito dell'autonomia didattica e organizzativa e da verificare a conclusione del primo triennio. In questo caso credo che il Parlamento debba suggerire cautela - a parere nostro - per uno sbilanciamento significativo della relazione.
Per quanto riguarda il curricolo dei primi due anni della scuola secondaria, credo che il programma debba attenersi più rigorosamente al comma 3 dell'articolo 4 della legge n. 30 del 2000, per cui la possibilità di passare da un modulo ad un altro, anche di indirizzi diversi, non può in alcun modo deprimere la caratterizzazione specifica dell'indirizzo e l'obbligo di un rigoroso svolgimento del relativo curricolo, visto nella sequenza quinquennale, anche se da svolgersi in anni di obbligo scolastico. In tal senso - e soltanto in tal senso - andrà valutato anche l'equilibrio da realizzarsi tra le materie di indirizzo e quelle di equivalenza disciplinare.
Per quanto riguarda poi i curricoli in generale della scuola secondaria, e cioè dei cinque anni, credo che occorra precisare, rispetto ai suggerimenti del programma governativo, che in particolare per l'area tecnica e tecnologica, nonché evidentemente per quella artistica e musicale, il rafforzamento della dimensione culturale non ostacoli l'apprendimento di specifiche professionalità già spendibili al termine del quinquennio sia sul mercato del lavoro, sia per l'accesso alla formazione tecnica superiore o all'università. Per la calibratura degli stessi curricoli dovrà naturalmente tenersi conto dei previsti raccordi con il mondo della formazione professionale e dell'apprendistato, già previsti in altre leggi (qui il programma è abbastanza esplicito). Un ultimo punto che vorrei raccomandare, più difficile da tradurre in norma, ma rintracciabile sia nel dibattito precedente che si è svolto per la formulazione della legge, sia nel dibattito successivo, è quello di attenersi agli aspetti innovativi della legge nella formazione dei curricoli. Essa, mentre sottolinea la necessità dell'incontro, variamente modulato nelle diverse aree e nei vari indirizzi, con la cultura classica e con un approccio di tipo storico-filosofico (ciò al fine della piena valorizzazione


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della persona umana, così fortemente richiamata nell'articolo 1 della legge), fa esplicitamente cenno - vedi il comma 6 dell'articolo 4 - all'arricchimento derivante dal periodo di alternanza scuola-lavoro-professioni, che deve diventare esperienza estesa a tutte le aree della scuola secondaria. Queste sono le cinque raccomandazioni che, a mio avviso, dovranno essere espresse anche nella risoluzione, ad integrazione e correzione di quanto scritto nel programma governativo.
Per quanto attiene al capitolo IV, quindi alla valorizzazione delle specifiche professionalità maturate dal personale docente ed alla sua eventuale riqualificazione e riconversione, il programma, con osservazioni condivisibili, precisa che il progetto generale di formazione in servizio dovrà, naturalmente nella necessaria concertazione con le forze associative e sindacali presenti nella scuola (perché questa è una delle prevalenti tematiche della concertazione), affrontare i problemi specifici connessi ai diversi cicli, in particolare la convivenza nella scuola di base dei docenti delle ex scuole elementare e media, dove situare tale convivenza, come formularla e come attuare la sperimentazione. Bisognerà inoltre privilegiare le attività formative, da realizzare anche mediante la formazione a distanza, ma nelle scuole ed in altri ambienti integrati rispetti ai tradizionali corsi di aggiornamento; agevolare l'autoformazione mediante borse di studio, periodi sabbatici ed un sistema di crediti cumulabili nel tempo; prevedere strumenti per agevolare l'acquisizione di crediti universitari, specializzazioni universitarie, dottorati di ricerca disciplinare e master orientati alla didattica, nuovi crediti in materie affini a quelle di titolarità. Questo sarà possibile, naturalmente, se appunto, per la fase dell'autoformazione, saranno messe a bilancio risorse sufficienti per affrontare tematiche così ponderose.
Infine, sempre con riferimento alle questioni condivisibili, il progetto prevede che l'amministrazione dovrà strutturare una rete permanente di servizi a supporto delle istituzioni scolastiche, proprio al fine della formazione in servizio.
Vi è poi un punto sul quale si richiede una nuova disciplina giuridica, anche sul piano della normazione secondaria, sostitutiva del testo unico, per la quale si rimanda alla necessaria procedura: a tale riguardo si richiama, innanzitutto, la formazione dei docenti, sia iniziale sia in servizio, la possibilità di articolazione in carriera con l'eventuale definizione dei diversi gradi di docenza e di un'anagrafe delle competenze e delle professionalità dei docenti (particolarmente importante); la necessità di definire i criteri di valutazione e di certificazione (è la materia più delicata e spinosa, oggetto di un appassionato dibattito dei soggetti valutatori); infine, la questione dei ruoli del personale con la revisione del rapporto d'impiego e la riarticolazione del sistema delle classi di concorso per ambiti disciplinari.
Su tutti questi punti, le raccomandazione, le osservazioni, le condizioni che il relatore per la maggioranza si sente di rivolgere al Governo riguardano l'esigenza, con riferimento alla formazione iniziale dei docenti, di ripensare gli attuali percorsi universitari in modo da integrare con lo studio delle scienze della formazione l'approfondimento disciplinare, nonché di prefigurare vere forme di partenariato tra scuola e università e di stabilire comunque, nella formulazione del regolamento (che ci viene esplicitamente richiesto al comma 8 dell'articolo 6 della legge n. 30), relativamente ai titoli universitari richiesti per il reclutamento degli insegnanti della scuola di base, la necessità di una laurea, integrata da una fase di approfondimento pedagogico e didattico che contenga esperienze di tirocinio, anche al fine del tendenziale raggiungimento del ruolo unico.
È poi convinzione personale del relatore per la maggioranza che tale esigenza sarebbe da considerare anche per la scuola dell'infanzia, sia pure con peculiari e specifiche modalità...


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PRESIDENTE. Il tempo a sua disposizione è scaduto, dovrebbe concludere.

SERGIO SOAVE, Relatore per la maggioranza. Signor Presidente, non avevo a disposizione trenta minuti?

PRESIDENTE. Quando si discute di cose importanti, il tempo passa rapidamente.

SERGIO SOAVE, Relatore per la maggioranza. Mi sembrava di avere iniziato solo venti minuti fa, però posso sbagliarmi.

PRESIDENTE. Lei dispone di trenta minuti per l'illustrazione e la replica; se li utilizza tutti adesso, non potrà replicare.

SERGIO SOAVE, Relatore per la maggioranza. Vorrà dire che non replicherò.

PRESIDENTE. Prego, continui pure.

SERGIO SOAVE, Relatore per la maggioranza. Per quanto riguarda i criteri generali per la formazione degli organici di istituto, condividendo in generale i princìpi e le osservazioni contenuti nel programma, ritengo che la Camera debba prevedere l'estensione alla scuola secondaria dell'organico funzionale e l'attuazione di un programma di superamento delle attuali rigidità che caratterizzano, appunto, la formazione degli organici di istituto.
Per quanto attiene al capitolo relativo ai tempi e alle modalità di attuazione, a mio avviso, il Governo deve assumere preliminarmente alcuni impegni che sono contemplati tra le varie ipotesi delineate nel programma di attuazione. Occorre premettere che, senza dubbio, al di là delle posizioni interessate o enfatizzate delle opposizioni, che sostengono un rinvio puro e semplice della riforma, si tratta di valutare effettivamente la necessità di tempi distesi a causa della complessità della materia. In una prima fase di attuazione, ritengo si debbano considerare le ipotesi che permettono condizioni minime di fattibilità. Tra queste ultime, in particolare, quella che prevede l'inizio della riforma nell'anno scolastico 2001-2002, limitatamente alle prime due classi della scuola di base. Per la scuola superiore si tratta, da un lato, di confermare le disposizioni emanate con il decreto ministeriale del 26 giugno 2000 e, dall'altro, di consentire che le istituzioni scolastiche, nell'esercizio dei poteri dell'autonomia, possano modificare - senza incidere sulla finalità formativa degli indirizzi - i quadri orari dei vigenti piani di studio superiori alle 32 ore settimanali, riducendoli non oltre tale limite, e adottare, in coerenza con gli indirizzi funzionanti in ciascun istituto, i programmi di studio avviati nell'anno scolastico 1997-1998, ai fini della sperimentazione dell'autonomia didattica e organizzativa nei primi due anni della scuola secondaria superiore. Naturalmente si dovrà utilizzare il tempo per approntare, entro il dicembre del 2001, i curricoli relativi ai cinque anni del ciclo, al fine di iniziare compiutamente la riforma della scuola secondaria nell'anno scolastico 2002-2003.
Vi è, infine, il problema più delicato: riducendo di un anno il tempo-scuola complessivo, confluiranno, ad un certo punto, due leve di alunni nello stesso anno scolastico. Rispetto alle ipotesi prospettate nel programma, alla cosiddetta «onda anomala» e al suo possibile impatto sulle istituzioni scolastiche, credo che occorra scegliere l'ipotesi della cosiddetta «onda anomala frantumata» con l'avvertenza che, al riguardo, è necessaria una speciale, continua verifica del suo andamento.
Vi è, in conclusione il problema dell'adeguamento delle strutture edilizie e delle infrastrutture tecnologiche, rispetto al quale va precisato che il programma si fonda su una ricognizione regionale delle strutture edilizie esistenti, con la relativa valutazione delle possibili conseguenze del riordino sull'utilizzazione degli edifici scolastici attuali.
Per la scuola di base non si prevedono al riguardo grandi problemi, se non per quel 3 per cento delle classi (ma 26 per


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cento dei comuni) situate in quei piccoli comuni che ora dispongono della scuola elementare, per il quale mi pare utile suggerire il completamento in loco degli spazi utilizzando spazi disponibili anche fuori del plesso, normalmente largamente presenti nei comuni, e solo eccezionalmente ricorrendo all'utilizzo di aule anche nei comuni viciniori.
Per la scuola secondaria non vi dovrebbero essere grandi problemi, se non in relazione alla cosiddetta «onda anomala», per la quale come extrema ratio, secondo quanto suggerisce il programma, è ipotizzabile anche l'utilizzazione di quelle aule degli istituti scolastici di livello inferiore che naturalmente saranno rese disponibili nella contrazione temporale.
Su questo aspetto credo siano tre gli impegni che dobbiamo chiedere al Governo: in primo luogo, occorre considerare la diversificazione di plesso non solo negativamente, ma come opportunità da valutare per risolvere le questioni di compresenza, giudicate problematiche, tra gli alunni dei primissimi anni del settennio e quelli ormai prossimi all'adolescenza o per recuperare presenze periferiche nei piccoli comuni. In secondo luogo, bisogna adottare specifiche soluzioni per favorire l'applicazione della riforma nelle scuole parificate che non abbiano riuniti i corsi delle attuali elementari e medie in uno stesso istituto. Infine, occorre iniziare una fase concertativa molto serrata con gli enti locali competenti per sostenere la ricerca di soluzioni idonee rispetto ai problemi piuttosto complessi che essi dovranno affrontare.
Per quanto riguarda la relazione di fattibilità, dato il poco tempo a disposizione, dirò soltanto che le ipotesi qui avanzate ed argomentate, in regime di «onda anomala frantumata» e con la possibile riduzione dell'orario dalle ventidue alle diciotto ore, sembrano in effetti permettere dei risparmi. Credo si debba impegnare il Governo ad adottare le soluzioni già precisate, relative all'avvio della riforma con la variante dell'onda anomala frantumata, che prevede economie di spesa oscillanti tra i 19 mila miliardi circa, con orario invariato, e i 6 mila miliardi circa, con un orario di diciotto ore settimanali per tutti i docenti, e ad avviare con le organizzazioni a ciò deputate una contrattazione collettiva che affronti il problema di tali oscillazioni, sembrando più praticabile la riduzione graduale dell'orario attraverso una fase intermedia di venti ore e con la conclusione finale al momento del consolidamento definitivo della riforma.
Il programma di attuazione mette a disposizione un gran numero di allegati volti a fornire le fonti delle argomentazioni addotte. Una volta dipanato il filo del ragionamento e raggiunta l'essenza della proposta, il programma pare al relatore un'utile strumento non solo per la definizione della normativa, ma anche per la comprensione del compito, ad un tempo arduo ed affascinante, che attende la scuola italiana nel prossimo decennio di primo assestamento.
Il clima politico in cui si sono collocate sia l'approvazione della legge n. 30 sia il primo programma di attuazione, del quale dobbiamo occuparci in questa fase, ha impedito purtroppo che si sviluppasse un dibattito rigoroso e sereno sulle ragioni della riforma e sulle soluzioni da confrontare. Dopo una primissima fase di utile comparazione delle varie proposte, come ho ricordato, il dibattito ha fatto piuttosto emergere le argomentazioni appassionate sul significato della legge, che si credevano già esaurite all'inizio dell'anno con il varo della legge stessa.
Leggendo alcuni interventi sembra quasi di essere di fronte ad un Governo e ad una maggioranza che illuministicamente abbiano imposto una riforma non voluta e mai discussa ad una scuola felice di procedere lungo i tradizionali itinerari. Sarà dunque bene ricordare che a queste prime conclusioni si è arrivati dopo un dibattito serrato durato trent'anni e va detto piuttosto che, di fronte alle varie ipotesi di revisione dell'architettura istituzionale e di innovazione contenutistica di questa legge, il legislatore ha agito con prudenza cercando e trovando la soluzione che, pur operando una inevitabile


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discontinuità con il passato, ha dichiarato il proposito di recuperare quanto di meglio la tradizione della scuola ci ha consegnato.
La fattibilità, pur nelle inevitabili difficoltà del piano, conferma la bontà del cammino fin qui percorso; molto più difficile sarebbe operare oggi se si fossero seguite altre strade (la proposta 6+6 iniziale del Governo oppure il progetto 4+4+4 delle opposizioni) ritenute più radicalmente innovative.

VALENTINA APREA, Relatore di minoranza. Come fai a dirlo, questo?

SERGIO SOAVE, Relatore per la maggioranza. Fra l'altro l'attuazione prevede un tempo lungo...

PRESIDENTE. Come lei...

SERGIO SOAVE, Relatore per la maggioranza... in questo tempo essenziale potrà essere il contributo del mondo della cultura, del sindacato, del ricco e fiorente associazionismo professionale in modo che si possa procedere senza i traumi che la percezione generale del percorso potrebbe oggi indurre qualcuno a paventare (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, cui si associa il ministro della pubblica istruzione, professor De Mauro).

PRESIDENTE. Onorevole Soave, mi scuso con lei, ma devo rispettare il regolamento e sono accusato in altra sede di non farlo quasi mai, ma dovrei essere in parte aiutato anche da voi.
Ha facoltà di parlare il relatore di minoranza, onorevole Napoli. Le ricordo che ha ventuno minuti.

ANGELA NAPOLI, Relatore di minoranza. Signor Presidente, dopo gli applausi del ministro De Mauro al relatore per la maggioranza, diventa un po' difficile parlare ed esprimere le proprie perplessità.

SERGIO SOAVE, Relatore di maggioranza. Applaudirà anche te perché è un gentiluomo.

ANGELA NAPOLI, Relatore per la minoranza. Sono certa che non lo farà perché partiamo da posizioni diversificate.

VALENTINA APREA, Relatore di minoranza. Il ministro De Mauro è naïf.

ANGELA NAPOLI, Relatore di minoranza. Onorevoli colleghi, il Governo ci ha trasmesso, ai sensi dell'articolo 6 della legge n. 30 del 2000 sul riordino dei cicli scolastici, il programma di attuazione della riforma e la relazione di fattibilità. Evidenziamo subito che per Alleanza nazionale questo rappresenta l'ulteriore, e senza dubbio decisivo, passo che porterà alla demolizione del nostro sistema di istruzione. Oggi lo diciamo con maggior vigore e convincimento di quando abbiamo espresso il nostro dissenso alla legge n. 30, perché oggi finalmente sono i docenti, le famiglie, gli studenti e le organizzazioni sindacali ad esprimere le loro preoccupazioni e quindi la loro condanna.
Abbiamo motivato il nostro dissenso alla legge perché ritenevamo allora, come oggi, che varare una riforma globale non dovesse significare abbattimento dell'intera architettura attuale né cancellare di colpo ogni varietà di formazione e di preparazione per sacrificare, in nome di un assurdo egualitarismo, le attitudini, le capacità, i progetti delle nuove generazioni.
Abbiamo espresso allora, come oggi, il nostro dissenso perché coscienti che la scuola rappresenta la struttura portante della società nazionale e pertanto essa, nei contenuti e nelle strutture, deve risultare funzionale ad un disegno politico concretamente realizzabile attraverso una istituzione educativa che stimoli e favorisca la partecipazione di tutte le componenti, in maniera organica, secondo la natura dei valori, delle dignità e delle funzioni che volitivamente affermano i meriti e l'intelligenza.
Oggi il coro delle proteste si leva più alto perché le osservazioni, le interrogazioni parlamentari, gli emendamenti, le proposte di legge che via via si sono


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accumulati senza trovare il minimo riscontro nell'atteggiamento governativo, hanno assunto forza esplosiva, come avviene al magma incandescente compresso all'interno di un vulcano. A far salire la temperatura, a riscaldare gli animi, ha poi concorso anche l'aver toccato con mano i sacrifici inutili, anzi dannosi alla scuola, cui tutta la normativa berlingueriana ha chiamato le componenti scolastiche, non offrendo contropartite di alcun genere, se non il caos annunciato e già vissuto.
Durante la discussione della nuova legge sul riordino dei cicli scolastici, Alleanza nazionale fu presente, non solo per esprimere il proprio no, ma per contrapporre a quelle della maggioranza una proposta di legge che, a nostro avviso, aveva il merito di ridare coerenza ed organicità al sistema; una proposta che cercava di costruire un progetto strategico unitario per dare per davvero un futuro alla nostra scuola.
Alleanza nazionale si proponeva di disciplinare in maniera dettagliata l'ordinamento di una nuova scuola, ma con un disegno che, a differenza della legge n. 30 del 2000, ne fissava i principi informatori e le linee portanti. La legge che ne è venuta fuori si è limitata, invece, a trasformare la struttura in 7 + 2 + 3 che non può che essere definita struttura ingegneristica, struttura vuota, i cui contenuti ancora oggi non è dato conoscere. Ancora oggi il programma di attuazione presentatoci dimostra come si sia voluto partire dall'architettura senza discutere i contenuti.
Quali saranno i curricula, i programmi scolastici? Non si sa! Ci viene solo detto che il 75 per cento dei programmi sarà nazionale ed il 25 per cento verrà riservato ai singoli istituti. E pensare che il lavoro di una commissione formata da più di trecento esperti è durato oltre tre mesi, anche se solo con una forzatura si può dire che il programma proposto è il risultato della commissione. Se tanti docenti, genitori, professionisti, politici e sindacalisti si dichiarano contrari a questa legge, ci saranno certamente dubbi sulla sua validità pratica e sorgeranno numerosi interrogativi circa il rispetto delle norme costituzionali.
Onorevole relatore, Alleanza nazionale si è battuta contro la legge n. 30 del 2000, non per partito preso, non per fare il bastian contrario, non per dimostrare a tutti i costi di essere una forza riformatrice, ma solo perché ne riteneva profondamente errato l'impianto complessivo. La scuola di base prevista ha la durata di sette anni. Il comma 2 dell'articolo 33 della nostra Costituzione afferma: «La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi». Le parole «ordini e gradi» vengono riprese anche al comma 5 dello stesso articolo. La legge n. 30 del 2000, abolendo la scuola media di primo grado, in pratica annulla i gradi.
L'articolo 34 della Costituzione italiana recita al comma 2: «L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita». La Costituzione italiana viene calpestata dalla legge n. 30 del 2000 e dal suo programma di attuazione, pur se la nostra Carta viene richiamata nel primo periodo del capo I. Infatti, tradendo la Costituzione italiana, nasce la scuola di base della durata di sette anni, dai 6 ai 13 anni di età, ridotti in un unico contenitore con la distruzione contemporanea di due scuole, quella elementare e quella media, nella quale la media si «elementarizza» e l'elementare si «secondarizza». Si demolisce la scuola elementare da tutti giudicata la migliore in Europa e si abolisce la figura del caro maestro. Appare evidente, quindi, come alla base della riforma vi sia un criterio ideologico. Alle elementari i bambini si formano, si educano alla lettura, alla scrittura e al calcolo, incominciano a capire che appartengono ad un mondo che comunica attraverso un linguaggio condiviso, che misura la quantità attraverso regole prestabilite. Tale processo formativo è diverso dall'apprendimento che avviene attraverso l'istruzione, cioè attraverso l'insegnamento di nozioni di storia, di letteratura e di altro. Senza una base formativa, le nozioni dell'istruzione


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risultano indottrinamenti. La preoccupazione dovrebbe essere quella di preparare i bambini e poi gli adolescenti ad una conoscenza critica, non ad una semplice accumulazione di conoscenze da spendere sul mercato del lavoro.
Ed allora, a cosa serve la soppressione degli otto anni complessivi delle medie e delle elementari e la loro sostituzione con i sette dell'indistinta scuola di base? La motivazione addotta del risparmio di un anno si rivela inconsistente nel momento in cui, per ovviare alle carenze di formazione dei diplomati, si inventano un'infinità di corsi pluriennali successivi al diploma. Creare un migliore collegamento tra elementari e medie con la doppia abolizione ha il sapore dell'originalità e della pretestuosità, dal momento che sono in vigore da anni meccanismi di incontro, di colloquio, di progettualità comune tra le componenti scolastiche dei due ordini e la via della cancellazione non è certo quella che crea nuovi contatti. Si vuole, in realtà, dar vita ad un'entità diversa: una sorta di elementare dilatata.
Il programma di attuazione lo esplicita: il primo biennio della scuola di base, affidato ai maestri, avrà l'obiettivo di curare l'alfabetizzazione in funzione dell'apprendimento. Nei tre anni successivi maestri e professori lavoreranno gomito a gomito integrando le loro conoscenze. L'ultimo biennio sarà poi appannaggio, almeno nei primi anni della riforma, dei professori delle attuali medie.
Per la scuola di base nascerà un ruolo unico e quindi un'anagrafe professionale dei docenti divisa per ambiti disciplinari e non solo per materie.
Tra l'altro apprendiamo dello scontro in atto tra il ministro della pubblica istruzione ed il ministro dell'università su questa istituzione del ruolo unico. La pubblica istruzione, nel suo piano quinquennale inviatoci, sostiene ripetutamente la necessità di un ruolo docente unico per tutto il settore, eccettuata la scuola materna.
In particolare l'unicità del ruolo, per il momento, è prevista per la scuola di base, ma non è escluso anche il coinvolgimento della scuola superiore, visto che vengono annunciati percorsi che tendono a facilitare accorpamenti in questo ambito. Nel piano, quindi, a noi proposto si privilegia la strada che conduce ad una figura di insegnante polivalente adatta a numerose situazioni ed in grado di inserirsi efficacemente nell'organico funzionale. Praticamente questa è una visione del sistema scuola che può essere definita gestionale e che non riconosce la professionalità conseguita dal singolo docente, ma che vede nel personale solo il dipendente a cui assegnare le mansioni che di volta in volta si rendono necessarie.
Il Ministero dell'università ha espresso il proprio dissenso rispetto a tale valutazione, e noi concordiamo con quest'ultimo. Riteniamo anche noi, infatti, che sia impensabile dare vita ad una sola figura di docente che vada bene dal primo anno della scuola di base all'ultimo della scuola superiore. Non v'è dubbio che sarebbe utile pensare a figure di docenti che sappiano rispettare le diverse fasi evolutive dell'alunno. Inserire maestri e professori, con le loro formazioni così differenziate, in una docenza unica significa rendere difficile se non impossibile l'educazione.
A monte di questa deformazione della scuola c'è una pedagogia del vuoto, materialista e debole, insensibile alla formazione e alla criticità degli alunni.
Come amalgamare le due professionalità e le due logiche d'insegnamento degli attuali maestri elementari e dei professori della media inferiore? Cosa insegneranno? Come verrà deciso il loro impiego? Saranno certamente cancellate ogni differenza ed ogni specificità. Poi, ammesso e non concesso che fisicamente gli operatori degli attuali diversi gradi dell'istruzione potranno convivere, dove trovare le risorse culturali ed intellettuali per armonizzare l'impegno? Inutile far finta di niente: venti, trent'anni di abitudine professionale non scompaiono d'incanto.
L'educazione dei bambini è, ed a nostro avviso deve restare, cosa diversa dall'istruzione dell'adolescente e del ragazzo. Diluire l'insegnamento elementare


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compromette l'apprendimento, perché impartito al di là dell'età per la quale era stato pensato, in equilibrio tra lo sviluppo fisico, la crescita mentale e gli sforzi richiesti al bambino-scolaro. Ne potrebbe risultare falsato tutto il processo adolescenziale e la stessa disponibilità ad apprendere, sommersa dalla noia di insegnamenti non adatti all'età. Potremo, cioè, veder crescere ragazzi eternamente infantili, demotivati e sicuramente meno dotati di spirito critico e di autonomia di giudizio rispetto anche ai pur tanto bistrattati giovani di oggi. È facile indovinare a chi farebbero comodo generazioni così passive, prive degli stessi strumenti intellettuali della ribellione.
Non va sottovalutata poi la necessità di rivisitare l'architettura degli attuali edifici scolastici: la scuola di base dovrà essere collocata in un unico edificio, un progetto non semplice considerato che in molti casi le scuole elementari attuali sono pensate in funzione di bambini piccoli. Il problema oggi sembra sia risolvibile solo per il 43 per cento delle scuole di base.
Che cosa sia realmente la nuova scuola voluta dalla legge n. 30 del 2000 lo si comprende dalle stesse dichiarazioni di colui che è stato l'artefice di tutta l'innovazione, l'ex ministro della pubblica istruzione, onorevole Luigi Berlinguer. Questi in un'intervista pubblicata sul quotidiano La Repubblica del 30 ottobre 2000, alla domanda: «Perché avete voluto un cambiamento così radicale?», ha risposto: «La verità è che la vecchia scuola era diventata un ostacolo all'espansione dell'istruzione e alle sue novità. Il grande fenomeno sociale contemporaneo è la generalizzazione della scuola secondaria, vale a dire un diploma per tutti». E proseguiva: «L'impianto di ieri non lo favoriva, perché fondato su un modello unico e perché contrapponeva la qualità alla quantità». È vero, aggiungo io, ma proprio questo è il punto: la nuova riforma ha abbattuto la qualità del nostro sistema di istruzione, puntando sulla quantità.
Questa riforma comporterà decisamente un abbassamento delle competenze sia dei docenti sia degli studenti. I contenuti formativi non potranno che essere livellati verso il basso: come si riuscirà, infatti, a conciliare l'obiettivo di aumentare la qualità degli apprendimenti in un tempo di formazione minore?
Prendiamo ad esempio lo studio della storia del novecento, modificato non con l'obiettivo di fornire maggiori e puntuali conoscenze del periodo, ma con quello di frantumare, lasciando buchi neri, lo studio della storia antica. Insomma la scuola che ne verrà fuori aumenterà l'obbligatorietà, ma non punterà sulla qualità, non potrà più far perno sulla selezione e sul merito. Ed a nostro avviso questa scuola non potrà, quindi, mantenere la funzione di far crescere i giovani, di farli diventare cittadini e di preparare le classi dirigenti del domani.
La nuova scuola aumenterà l'obbligatorietà con la creazione di un biennio della scuola superiore che, di fatto, diverrà unico e che relegherà la preparazione propedeutica agli studi universitari nei soli ultimi tre anni. La riforma, infatti, consentendo nel biennio delle superiori il passaggio tra indirizzi diversi, dovrà avere programmi poco differenziati.
La garanzia per la mobilità dello studente è prevista anche nel triennio della scuola superiore, il che non consentirà l'acquisizione e la definizione delle competenze e delle conoscenze.
La riforma dei cicli aggraverà la situazione, dequalificando anche i licei, ultima isola del sistema educativo italiano sopravvissuta alla demolizione del glorioso impianto gentiliano.
È prevista inoltre la partenza per i primi due anni della scuola di base - confermata questa sera dallo stesso relatore, onorevole Soave - e forse per il primo anno del biennio, ma con quali programmi? Cosa accadrà ai programmi della scuola superiore? Tutto evasivo! Non importa, i nodi si risolveranno man mano!
Passiamo a quella che viene definito «l'onda anomala». Secondo l'ipotesi prevista dal ministro in relazione al programma quinquennale di progressiva attuazione


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della legge n. 30 del 2000 di riordino dei cicli d'istruzione, nell'anno scolastico 2007-2008 e per i quattro anni successivi, si verificherà una situazione critica per il concomitante ingresso nella prima classe delle superiori sia dell'ultimo anno del vecchio ordinamento sia di quello del nuovo ordinamento. Non v'è dubbio che le soluzioni proposte dal Ministero della pubblica istruzione risultano difficilmente praticabili.
Per governare «l'onda di piena», secondo i tecnici del Ministero stesso, occorrerà un fabbisogno straordinario di insegnanti che però, dopo soli 5 anni, non sarebbero più necessari. Tra le proposte d'intervento per agevolare l'impatto dell'onda ci sarebbe addirittura la riduzione di un anno del percorso scolastico per tutti quelli che le scuole riterranno in condizioni di farlo o per le classi che potranno essere coinvolte in queste prove di anticipazione. Ci sembra sia in atto una pura distruzione, pur di partire!
Non possiamo nascondere, tantomeno sottovalutare, il fatto che, nonostante le affermazione contrarie del ministro De Mauro, l'attuazione della nuova riforma comporterà un massiccio ridimensionamento degli organici, con conseguente riduzione dei posti di lavoro. La stessa relazione di fattibilità, predisposta in aggiunta al programma di attuazione, ipotizza un decremento di circa 40 mila unità di personale: riduzione di posti di lavoro che produrrebbero un risparmio economico utile a finanziare l'attuazione della stessa legge.
L'attuazione del riordino rappresenterà, insomma, un ciclone travestito da cicli che si abbatterà sulle nostre istituzioni scolastiche: un ciclone purtroppo voluto a colpi di maggioranza politica.
Il programma di attuazione e la relazione di fattibilità non presentano, complessivamente, linee definite ed anzi evidenziano nodi di difficile soluzione e, pertanto, stando con i piedi per terra, non pongono le condizioni, seppur minime, di attuazione, tanto meno dal 1o settembre 2001.
La legge è stata voluta dall'ex ministro Berlinguer, poi, siccome ci si è accorti che era sbagliata, è avvenuta la sostituzione con un uomo definito di cultura, il professor De Mauro, il quale ha ritenuto di non dover approvare alcuna modifica, ma anzi di accelerare l'attuazione della riforma. Ma proprio l'aver posto alla guida del dicastero un uomo di cultura è valso a marcare la «rivoluzione culturale» e la «struttura ideologica» che stanno dietro questa riforma.
Oggi, forse, il mondo della scuola e la società tutta si stanno accorgendo di ciò che si vorrebbe tentare di modificare, quello che si sarebbe dovuto fare in tempo utile. Allora, un paese normale, un paese degno di rispetto, pur di far bene, si fermerebbe un attimo, se non altro per considerare con maggiore rispetto i docenti, gli studenti ed i genitori. La prova di forza che si vorrebbe porre in essere sarebbe un attacco alla scuola, istituzione fondamentale per la società.
Una riforma si costruisce innanzitutto con il più largo e convinto consenso possibile, non a tavolino. Occorre il convincimento, senza rompere tutto; non si può immaginare una tanto complessa e articolata riforma come soluzione imposta dall'alto, di fronte alla quale bisogna tacere.
Occorre capire quale sia la missione della scuola: una comunità nella quale nascono la ricerca del sapere ed il bisogno della conoscenza. E per una scuola di questa portata non serve certamente uno studio di saggi trasformato in legge.
Un ripensamento va fatto: bisognerebbe essere ciechi e sordi per non capire che, in nome di un falso rinnovamento, si sta per gettare in mare il nostro grande passato per calarci in un futuro estremamente caotico e preoccupante per l'apprendimento delle nuove generazioni. L'istruzione, lo ho già detto anche in altri interventi, è la radice della nostra identità e proprio per tale motivo non può subire colpi da questa o quella coalizione di Governo. Occorrono prudenza, valutazione e tempi, ma soprattutto occorre un


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grande progetto per l'Italia per una scuola di cultura, altrimenti a pagarne le spese sarà l'intera società.

PRESIDENTE. Constato l'assenza degli onorevoli Giovanardi e Bianchi Clerici, relatori di minoranza: s'intende che abbiano rinunziato a svolgere le rispettive relazioni.
Ha facoltà di parlare l'onorevole Lenti, relatore di minoranza. Dopo, dulcis in fundo, interverrà l'onorevole Aprea.

GENNARO MALGIERI. È sul dulcis che avremmo qualche perplessità (Si ride)!

MARIA LENTI, Relatore di minoranza. Presidente, signor ministro professor Tullio De Mauro, signor sottosegretario, onorevoli colleghi, Rifondazione comunista si vede costretta a presentare sulla riforma del riordino dei cicli una seconda relazione di minoranza. Se, al momento dell'approvazione della legge n. 30 del 2000, avevamo espresso tutte le nostre contrarietà su un testo scarno e quindi di delega, ma con punti «fermi» già prefiguranti cancellazioni di diritti e di uguaglianze e introduzioni di parzialità e di riduzioni culturali per privilegiare la società dei mercati globali, la presentazione del programma quinquennale di attuazione della legge rafforza il nostro convincimento che questo progetto di riforme è inaccettabile.
Noi, come Rifondazione comunista, svolgeremo ogni argomentazione e metteremo in atto ogni azione parlamentare che possa impedirne l'attuazione. Non eravamo contrari ad una riforma; chi ha insegnato a scuola - come me, per esempio - i miei colleghi e la mia parte politica sapevamo bene che una riforma sarebbe stata necessaria.
Non taccio anche quella che ci appare una contraddizione non di poco conto. Qualche settimana fa il ministro De Mauro ha dichiarato che la riforma dei cicli sarebbe potuta anche slittare, se il Parlamento lo avesse voluto: ciò significava che prioritaria era la soluzione di altri problemi relativi alla scuola e al personale insegnante. Ma il Governo ha insistito e la maggioranza anche: se si è trattato di una discussione tutta interna al Governo, ha vinto - credo - la parte meno sensibile ai problemi della scuola e più vicina, invece, alle forze economiche che occupano e vogliono occupare ogni spazio culturale, ogni possibilità di intervenire con strumenti e conoscenze meno assorbenti ed ubbidienti nel nostro presente. Ha vinto, insomma, chi non vuole intervenire per costruire diversamente il futuro. Così si arriva a questo programma quinquennale, a scapito anche dell'intelligenza della situazione politica e culturale che lei, ministro De Mauro, aveva messo bene sul tappeto, quando disse che la riforma poteva aspettare. Credo che la sua fosse l'intelligenza della situazione politica, perché sappiamo bene cosa abbiano significato i suoi scritti per tutti noi che già trenta o trentacinque anni fa cercavamo, all'inizio della nostra carriera scolastica, un punto di riferimento, suggerimenti, idee e spinte per una nuova didattica e per contenuti non formali. Questo, ministro, gliel'ho riconosciuto anche in Commissione.
E oggi? Mutatis mutandis, oggi la scuola necessita di un irrobustimento culturale e di presenze, di strutture e di innovazioni, di personale preparato, di laboratori, di palestre, di biblioteche con operatori in grado di rivitalizzare il contatto con la cultura e con la lettura, con la critica, con la riflessione, con la lente critica sul mondo, sulle cose, su noi stessi, sulla società, sulla propria collocazione all'interno e all'esterno di tutto ciò che deve avvenire, però, con cognizione di causa e con la consapevolezza del proprio vivere, operare e lavorare.
Parole campate in aria? Non credo: proprio il 7 dicembre - giorno in cui la Commissione cultura ha concluso l'esame del programma - docenti e non docenti d'Italia e facenti riferimento a sindacati di base o ad associazioni che difendono la scuola pubblica e la sua valorizzazione erano in sciopero, così come lo erano docenti e non docenti che si richiamano ai


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confederali e agli autonomi. Un ventaglio di richieste e di rivendicazioni non solo salariali: molti degli scioperanti chiedono la cancellazione della legge sul riordino dei cicli. Contrarietà, opposizione, forti perplessità sono anche dei soggetti sindacali e sociali che hanno depositato le loro memorie nella Commissione cultura sia durante le audizioni dello scorso anno sia in questi giorni; è stato anche depositato un ricorso per incostituzionalità.
Un'altra non piccola particolarità è la seguente: appena è stato reso noto il documento della commissione dei saggi, si è formata un'altra commissione di saggi - naturalmente una commissione ombra, con nomi e cognomi di studiosi noti, alcuni dei quali si riconoscono nell'area della sinistra di Governo - che ritiene che il documento della commissione ufficiale proponga una dequalificazione culturale della nuova scuola e sia troppo incentrato sull'informatica; questa commissione si è messa al lavoro per elaborare un'altra proposta. Una larga parte del mondo che si interessa della scuola (i sondaggi dicono all'incirca il 50 per cento) non è d'accordo con tale riforma, anzi, a parere mio, a parere nostro, con tale «controriforma», se la parola vale a significare la restaurazione di uno status quo ante, almeno nella sua sostanza. Questa è una scuola di classe, che seleziona a priori, che non riconosce le uguaglianze dei diritti sanciti dalla Costituzione.
Come chiamare diversamente il disegno tracciato da questo programma di attuazione? La scuola dell'infanzia, che entra a far parte del sistema di istruzione, è nominata come tale, ma non si investe su di essa, lasciandola nelle mani dei privati o di chi vorrà occuparsene con una legge sulla parità, giudicata - questa davvero - incostituzionale.
La scuola dell'obbligo diventa unica, di sette anni, ignorando le differenze psicologiche e di apprendimento e le scale intellettive che fanno dell'infanzia e dell'adolescenza due età diverse, richiedenti dunque diversi insegnanti, differenti contenuti e metodologie didattiche. Si presuppone addirittura che per due o tre anni vi sia la presenza di maestri e di professori: non è possibile, nessun bambino può tollerare psicologicamente un ventaglio di riferimenti diversi.
Il biennio appare più un gradino di orientamento che un momento di approfondimento, sì che il processo di istruzione e di acquisizione viene sempre più spostato e rimandato, tant'è vero che l'obbligo può essere espletato anche in centri di formazione professionale: evviva l'uguaglianza! A quindici anni, quindi, si farà la scelta: o triennio o formazione professionale (un'apertura enorme ai centri privati e a quelli degli enti regionali, che assorbono energie finanziarie senza fondo in cambio di poche garanzie) o apprendistato; dunque, l'istruzione di base si conclude con un obbligo che continua in strutture anche industriali.
Come avverranno queste scelte? Sulla base di quali fattori? Forti dei dati e dei risultati del passato, ormai studiati come capisaldi delle tendenze sociali (non certo da me ma da chi ha gli strumenti per farlo), non possiamo non supporre che le scelte verranno determinate ancora una volta, come sempre, dal censo, dallo stato sociale, dai luoghi di abitazione, dallo status della famiglia, magari dal sesso, forse da altro, contrastando il tutto con l'articolo 3 della Costituzione, che ci fa uguali, lo ripetiamo, nei diritti per lo sviluppo della persona umana e del cittadino. A priori, si formerà dalla scuola l'élite e, per così dire, la manovalanza.
Si sostiene che questa è una riforma che accelera l'entrata nel mondo del lavoro: da un lato, ciò è vero per i meno fortunati; dall'altro, invece, tale riforma non darà alla fine del triennio un diploma che immetta in una professione (saranno necessari altri due anni di università per conseguire la laurea breve). Mi chiedo allora: sparirà il valore legale del diploma?
A mio parere, a nostro parere, questo non è un riordino della scuola, ma un riordino della società che passa attraverso il riordino della scuola, una scuola modellata su tale società che, a sua volta, è già stabilita, strutturata, fissata, ingabbiata,


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alla quale si vuole adattare una scuola su misura, tant'è vero che all'autonomia già avviata, che sta «frantumando» l'unitarietà della nostra scuola, si aggiunge con questo riordino la possibilità che il 25 per cento dei contenuti e delle materie, degli studi e delle attività scolastiche possa essere scelto dalle singole realtà. Mi va bene l'opzionalità, ma su che cosa? Lo stesso ex ministro Luigi Berlinguer, con altre parole, lo ha ripetuto anche in Commissione: le «grandi» innovazioni del disegno contenuto nella legge n. 30 del 2000 - ripeto le parole usate dall'ex ministro - consistono nella «flessibilità curriculare» e nella «fluidificazione del percorso interno».
Oltre a favorire delle spinte localistiche, tutto questo prefigura un'architettura d'idee che non sembrano avere sbocchi «oltre»: davvero tutto è come è e sarà come è e dovrà essere solo intensificazione di ciò che è? Ma, davvero, il sapere consiste nel rincorrere l'esistente, nell'imparare solo a fini pratici? E dove va a finire il sapere che ha un valore in sé, stabilito che si va a scuola anche, ma non solo, per imparare e vivere dentro e nel nostro tempo, dentro e nel nostro lavoro anche - ma non solo - per vivere dentro e nella nostra società?
Il programma di attuazione del riordino dei cicli non dà risposte agli interrogativi e agli obiettivi di lungo periodo, quelli che vanno oltre l'oggi. Ma non dice neppure né stabilisce finanziamenti, per esempio, per l'edilizia scolastica: della quale si sa di situazioni ottimali, ma anche di plessi scolastici cadenti in varie regioni d'Italia (lo stesso Ministero ha effettuato un'indagine sull'edilizia scolastica in base alla quale quest'ultima è risultata «non promossa» almeno per il 50 per cento), di plessi (abbiamo avuto i dati l'anno scorso) non adeguati alle esigenze di oggi, di plessi addirittura invivibili perché ubicati in edifici vecchi, adattati nei primi anni del novecento e non più «ritoccati», in tutti questi anni...

PRESIDENTE. Onorevole Lenti, deve concludere.

MARIA LENTI, Relatore di minoranza. Cerco di concludere, Presidente. La ringrazio se mi concede ancora qualche minuto...

PRESIDENTE. No, «qualche» minuto no!

MARIA LENTI, Relatore di minoranza. Facevo riferimento ad edifici vecchi non più «ritoccati», in tutti questi anni, in mezzo al traffico estremamente caotico delle città, senza palestre, senza laboratori, con biblioteche chiuse nonostante il patrimonio in esse contenuto. Era su questo, io credo, che noi dovevamo lavorare e molto!
Certamente il «capitolo» dei finanziamenti o degli impegni finanziari è il più sconcertante, ministro. La legge fissava una riforma a costo zero. La lettura attenta del programma di attuazione parla addirittura di una possibilità di risparmio di oltre 21 mila miliardi oppure di un impegno di spesa all'incirca di 5 mila miliardi. Come è possibile una variazione così grande, addirittura enorme tra risparmio e spesa? Perché vi sono i pensionamenti? Perché diminuiranno di 60-70 mila le unità lavorative nella scuola? Perché dipenderà dalla contrattazione sindacale, come ci ha fatto sapere il sottosegretario? L'interrogativo, che appare tutto sospeso e in verità anche molto inquietante, lascia sospeso anche tutto il contenzioso con gli insegnanti e i lavoratori della scuola.
Avviandomi alla conclusione, vorrei ricordare che Rifondazione comunista aveva presentato, con la relazione di minoranza, un proprio progetto alternativo a quello del Governo e della maggioranza.
Che cosa chiediamo oggi? Chiediamo l'abrogazione di questa legge, avendone visto e vedendone un disegno ridotto e appiattito sull'esistente ed eterodiretto a salvaguardare priorità e interessi per così dire confindustriali ed economici forti...

PRESIDENTE. Onorevole Lenti, lei ha superato di quattro minuti il tempo a sua


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disposizione! Lei mi mette in imbarazzo, con me stesso e non con lei.

MARIA LENTI, Relatore di minoranza. Arrivo al punto, Presidente: va bene? Si tratta di un disegno che, a priori, stabilisce frequenze e soggetti, premi (anche ai docenti, che invece li hanno rifiutati in questa forma) e rifiuti sulla base di un calcolo meramente economicistico rintracciabile senza fatica nelle evidenze degli stessi termini e delle modalità gestionali imposti nella scuola: successo formativo, crediti e debiti formativi, studenti che diventano clienti, una logica aziendalistica e i presidi e i direttori che diventano dirigenti.

PRESIDENTE. Onorevole Lenti, se crede, può chiedere di allegare il testo della restante parte della sua relazione in calce al resoconto stenografico della seduta odierna, dato che ha svolto così bene tutto il resto delle sue argomentazioni...

MARIA LENTI, Relatore di minoranza. Concludo, Presidente, e la ringrazio.
Credo che andrebbero coinvolti in questo progetto tutto il mondo della scuola e gli enti locali: il mondo della scuola perché non è vero che è stato consultato su questo progetto; sono stati consultati i dirigenti, i capi d'istituto, ma non le singole scuole! Gli enti locali devono essere vincolati alla predisposizione delle strutture edilizie che sono per legge di loro competenza. I rappresentanti di questi ultimi si pongono però il seguente interrogativo: con quali fondi se il Governo e le finanziarie tagliano i fondi (Applausi dei deputati del gruppo misto-Rifondazione comunista-progressisti).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il relatore di minoranza, onorevole Aprea, alla quale ricordo che dispone di venti minuti di tempo.

VALENTINA APREA, Relatore di minoranza. Presidente, ministro, colleghi, ci vediamo costretti a presentare una nuova relazione di minoranza: Forza Italia non ha votato la legge n. 30 del 2000 di riforma dei cicli scolastici, votata in solitudine da una maggioranza risicata ma, per quanto riguarda l'articolo 6 della legge, che prevedeva la presentazione da parte del Governo di un programma quinquennale di attuazione della riforma dei cicli, noi ci adoperammo allora alla scrittura di quell'articolo. Noi presentammo diverse proposte, che in parte furono anche accolte, proprio perché intendevamo allora prevedere con questo articolo 6 una sorta di clausola di salvaguardia dell'applicazione della riforma. Invece, questo momento è arrivato. Il Governo ha presentato il primo programma quinquennale di attuazione dei cicli scolastici e noi ci troviamo ad esprimere ancora una volta un giudizio estremamente negativo su questo programma. Cercherò brevemente, nel tempo che mi è concesso, di giustificare questa nostra valutazione.
Innanzitutto, per quanto riguarda il metodo seguito dal Governo per la predisposizione del programma, va detto che, per adempiere al dettato normativo che prevede le modalità di attuazione del riordino dei cicli il Governo, ha adottato un metodo che non si è discostato da quello seguito nelle aule parlamentari. Tale metodo è stato definito da noi illuministico o, meglio, dispotico. Infatti, nel lungo iter della legge in Parlamento, il Governo e la maggioranza, alla fine, hanno imposto al Parlamento, alla scuola e alla società, un modello inedito di ordinamento degli studi che cancella la tradizione scolastica e con essa le figure istituzionali dei docenti, ma anche i programmi, gli obiettivi formativi e le finalità dei diversi percorsi di studio, senza peraltro chiarire i nuovi orizzonti culturali e formativi. Il Governo si è limitato a ridisegnare - dal nostro punto di vista anche in modo maldestro - l'ingegneria curricolare e, quando si è trattato di sostanziare le scelte contenute nella legge quadro, esso non ha esitato a prediligere un metodo inaccettabile sul piano democratico e istituzionale.


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Come è noto, il Governo, costretto dai tempi limitati, resi ancora più stretti da una crisi di governo che ha addirittura portato alla sostituzione del ministro Berlinguer (che questa riforma dei cicli aveva fortemente voluto), per non rinunciare a portare a casa l'avvio della riforma prima della conclusione della legislatura, ha deliberatamente e colpevolmente eluso - come hanno denunciato in questi giorni le organizzazioni sindacali più rappresentative della scuola - qualsiasi forma di informazione e di confronto diretto tra le componenti della comunità scolastica, docenti, studenti e famiglie, limitandosi a istituire gruppi di lavoro molto numerosi (circa 300 persone) nei quali sono state impegnate in ipotesi ed elaborazioni fattuali, accanto ai soliti noti vicini all'attuale maggioranza, varie umanità (giusto per non etichettare in modo marcato le composizioni dei gruppi). In ogni caso, all'epoca noi abbiamo mosso delle critiche a questo tipo di procedura.
Quello che vogliamo qui denunciare è che il programma quinquennale presentato dal Governo presenta soluzioni mai discusse né in Commissione plenaria né nei gruppi di lavoro. Comunque, al di là del rapporto con la Commissione, ha prevalso quello che noi chiamiamo il «modello giacobino», tanto caro alla sinistra italiana, cioè quel modello che impone riforme senza tenere conto di niente e di nessuno, tradendo i principi più elementari della democrazia partecipata e impedendo qualsiasi apertura ad ipotesi di applicazione del principio di sussidiarietà. Il programma porta invece la netta impronta dell'amministrazione ministeriale e delle preferenze dei consiglieri scelti dal ministro per redigerlo. Questo metodo ha generato un diffuso sentimento di estraneità agli indirizzi contenuti nel programma che si stanno man mano traducendo in un'ulteriore riduzione di consenso intorno alla riforma.
Insomma, il Governo che, come ho ricordato all'inizio del mio intervento, aveva ricevuto una delega ad attuare la riforma da una maggioranza risicata nel Parlamento e nel paese, nel momento in cui dovrebbe ricercare maggiori consensi per far partire la riforma sotto i migliori auspici, impone una linea dura di attuazione della riforma che si fonda esclusivamente sull'ansia politica di prevederne l'avvio in tempi stretti, magari per il timore che, nel caso più che probabile di una alternanza di Governo, l'impronta possa non essere la stessa, ma anzi ricondotta verso scenari culturali, pedagogici e istituzionali più coerenti con la tradizione scolastica italiana, che la sinistra vuole invece a tutti i costi irrimediabilmente cancellare.
Nonostante tutto ciò, il programma De Mauro non presenta affatto, sui numerosi problemi da risolvere per l'attuazione della riforma, soluzioni che possano definirsi chiare, uniche ed univoche. Come è stato anche in questo caso denunciato apertamente dalle organizzazioni sindacali, dalle associazioni dei genitori, dei docenti e degli stessi studenti, ma soprattutto dalla scuola militante, che ha fatto sentire la propria voce anche in piazza, il programma appare confuso, equivoco, interlocutorio. Insomma, sembra più un documento istruttorio che un piano che dia certezza del diritto e garanzia sul piano dell'efficacia educativa.
Se questo è il sentire comune sulle proposte De Mauro, noi membri del Parlamento dobbiamo avvertire un'altra responsabilità, che non mi sembra sia stata avvertita dalla maggioranza: quella legata alla non piena conformità ai contenuti della legge quadro. Il programma, infatti, su molti punti non indica soluzioni, ma elenca problemi e molteplicità di alternative contraddittorie le une con le altre. Così è, in primo luogo, sul punto assolutamente nevralgico del tipo di formazione da dare ai nuovi insegnanti. È perciò difficile che il Parlamento esprima ragionate opinioni di consenso e di dissenso, salvo poter e dover redigere altri studi di fattibilità che né il Parlamento, né, tanto meno, la scuola e l'opinione pubblica sono nelle condizioni di predisporre in pochi mesi: a noi, addirittura, sarebbe stato


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chiesto, considerata la natura di quel programma, di provvedervi in poche ore o in pochi giorni.
Alla luce di tali considerazioni, noi di Forza Italia, unitamente alle altre forze della Casa delle libertà, abbiamo chiesto al Governo in Commissione, prima ancora di esprimere un giudizio di merito sulle scelte indicate nel piano, di ritirare lo stesso e di ritornare alle Camere con proposte di attuazione che siano chiare e fattibili, a partire dall'asse culturale che si intende prediligere per finire a scelte organizzative in grado di sorreggere l'impianto su basi non intuitive o «illuministiche», ma reali perché supportate da interventi di riqualificazione del personale (che devono essere effettuati prima e non dopo l'attuazione dei cicli), ma anche e soprattutto da una chiara informazione ai cittadini sui nuovi obiettivi formativi e sul senso, se esiste e se è conosciuto da chi ha voluto questa scuola, dei nuovi cicli scolastici.
In assenza di questi elementi, non si può e non si deve dare impulso a questa riforma, come invece, comprensibilmente, ha chiesto l'onorevole Berlinguer, proprio perché il Parlamento assumerebbe un atteggiamento pilatesco nei confronti della scuola italiana ma soprattutto delle nuove generazioni, assolutamente pericoloso ed indesiderabile, in un momento in cui alla classe politica si chiede di essere responsabile rispetto alle decisioni che vengono a maturazione nelle aule parlamentari.
Se queste sono le nostre riserve sul metodo, molte altre ne abbiamo sul merito, rispetto al primo ed al secondo ciclo. Quanto alla scuola dell'infanzia, pur non essendo direttamente interessata da ipotesi di riforma, il programma De Mauro getta ombre anche sul destino futuro di questo segmento educativo: infatti, sembra sospingerla verso un'area socio-assistenziale, indebolendone il progetto culturale e facendo solo un rapido cenno alla legge sulla parità scolastica, pur sostenuta da questo Governo, che ha istituito il sistema pubblico integrato a livello di scuola dell'infanzia. Vi è questo timore, onorevole Soave, quando si fa riferimento alla formazione dei docenti e si lasciano completamente fuori dalle proposte di formazione i docenti della scuola dell'infanzia: inoltre, si ricava tale tipo di giudizio dalla lettura complessiva del piano. Quindi, dovete essere in grado di smentire adesso questa impressione e soprattutto di cancellare dal piano tutti i punti che potrebbero sospingere la scuola dell'infanzia nella direzione di un'area socio-assistenziale. Inoltre, è per noi inaccettabile la scelta di valutare in modo separato da tutti gli altri livelli la dimensione professionale dei docenti di questo tipo di scuola.
Passando alla scuola di base, signor ministro, al riguardo richiamo davvero la sua attenzione: chissà cosa avranno pensato gli esperti del sottogruppo di lavoro n. 7B, coordinato dall'ispettore Alberto Alberti, quando hanno letto per la prima volta il suo piano relativamente alla scuola di base e precisamente la parte che si riferisce all'articolazione del settennio. Che le ipotesi potessero essere numerose era stato dichiarato anche dal gruppo di lavoro richiamato. L'aspetto inquietante è che, come si deduce dai documenti allegati prodotti da questo gruppo di lavoro, il dibattito sull'articolazione del settennio, all'interno del gruppo, si è svolto su numerose altre ipotesi, ma mai si è discusso proprio di quest'unico modello, 2 + 3 + 2, prescelto dal ministro nel piano presentato alle Camere e che, come apprendiamo questa sera dalla relazione dell'onorevole Soave, è un problema da digerire anche per la maggioranza, un'ipotesi da trattare con le pinze, per così dire. Il piano non dice, signor ministro, come lei sia arrivato a questo modello, ma soprattutto il piano non giustifica questa scelta, né a livello culturale né a livello pedagogico. Al contrario, mentre delegittima pesantemente gli esperti da lei invitati al Ministero a studiare tale articolazione, presenta uno scenario organizzativo della futura scuola di base che sembra fatto apposta per far fallire tanto gli obiettivi educativi e formativi che questa scuola si darà quanto qualsiasi ipotesi di sensato


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utilizzo dei docenti delle due scuole che dovranno convergere nella istituenda scuola di base.
Complimenti signor ministro! Forza Italia non ha mai condiviso la scelta del Governo e della maggioranza di far ricadere sulle due uniche scuole riformate nel corso dei decenni precedenti il peso del riordino dei cicli. Le ragioni sono note ed affidate al lungo dibattito parlamentare e alle proposte di legge alternative depositate nel corso della legislatura. A quelle ragioni se ne aggiungono oggi di nuove e più forti: la proposta contenuta nel suo piano, ministro De Mauro, infatti, riuscirà allo stesso tempo a produrre un'elementarizzazione dei contenuti, trascinati per sette anni di un unico ed indistinto ciclo, ma anche una secondarizzazione precoce del ciclo, dal momento che già dalla terza classe lavoreranno nello stesso team docente, gomito a gomito, senza che sia intervenuta nessuna riqualificazione professionale, insegnanti generalisti (i docenti della scuola elementare) e insegnanti della scuola media che sono stati formati per essere docenti delle singole discipline.
Come ha risolto il piano questo problema? In modo davvero originale, che fa però rabbrividire e preoccupare non poco gli epistemologi e i pedagogisti del mondo accademico. Il punto chiaro è che si distrugge lo specifico della scuola elementare, ciò che le ha dato fino ad ora la forza che tutti le riconoscono, il fatto cioè che gli insegnanti della scuola elementari non sono insegnanti disciplinari, quindi preoccupati in primo luogo dell'insegnamento di una disciplina, ma insegnanti «del fanciullo», preoccupati della sua formazione complessiva in quest'ambito, funzionalmente a questo obiettivo, insegnanti degli elementi disciplinari di base. Questo rimarrebbe solo per i primi due anni, anzi, si dice che non solo i futuri docenti - tutti i futuri docenti - saranno formati sulla base disciplinare, ma che anche gli attuali maestri elementari saranno inseriti nel ruolo unico per ambiti disciplinari. In più, il piano, mentre ribadisce che il primo biennio propone un'alfabetizzazione che sia funzionale al successivo orientamento nel quadro dei saperi e dunque prefigura un insegnamento organizzato per ambiti disciplinari e che l'ultimo biennio deve porsi in continuità con i primi due anni della scuola secondaria, nel triennio di mezzo si fa riferimento a nuclei disciplinari. Si avrebbe cioè un passaggio dagli ambiti non alle discipline, ma a epistemologicamente inediti nuclei disciplinari.
Lei è autorevole professore, professore di linguistica, peraltro: ci dica che cosa sono questi nuclei disciplinari rispetto agli ambiti che conosciamo e che avevano interessato la scuola elementare e le discipline. L'accademia se lo chiede, signor ministro, strano che lei non se lo sia chiesto quando ha presentato il piano. Che cosa si insegnerà realmente dalla terza alla quinta classe e, soprattutto, chi e con quali competenze non solo non è scritto nel piano, ma la previsione di partire con una mescolanza ancora più inedita di insegnanti elementari e insegnanti di scuola media rende tutto più inquietante ed inaccettabile. E poi, chi deciderà quale insegnante delle medie potrà o dovrà o anche solo vorrà insegnare non più a ragazzi di dodici anni, ma a bambini di otto-nove anni? O la soluzione sarà ricercata semplicemente utilizzando, in questi tre anni di primo ciclo, gli attuali soprannumerari della scuola media e quindi i professori di educazione fisica, lingua straniera, educazione tecnica ed educazione artistica, come già è avvenuto nelle pagine peggiori della scuola italiana? Non solo, ma vogliamo sapere, perché in nessun punto né del piano né degli allegati si dice, se, sul piano organizzativo, l'insistenza dei professori sul triennio intermedio avverrà aggiungendosi agli attuali moduli dei maestri elementari oppure entrandovi a far parte.
Non è una questione di poco conto, ma soprattutto non lo è per la nostra parte politica che vuole continuare a privilegiare nei primi anni di scolarità il rapporto educativo rispetto alla frammentazione curricolare, che inevitabilmente porterebbe a fare aumentare il numero dei docenti nelle singole classi.


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Della soluzione poi di ridurre l'orario di servizio dalle attuali ventiquattro ore alle diciotto per i docenti elementari, ministro, pensiamo tutto il male possibile, perché il tentativo di affrontare un problema reale (la differenza delle prestazioni tra i diversi ordini di scuola) nasconde l'inevitabile riduzione dei posti di lavoro in questi nuovi cicli e fa invece ventilare l'ipotesi di nuove - e non è detto augurabili - assunzioni.
La sciagurata politica del personale condotta in questi cinquant'anni e, con buona pace delle innovazioni, anche dai Governi di questa legislatura ha compromesso finora un trattamento giuridico ed economico dei docenti degno del prestigio della professione insegnante e delle responsabilità ad essa collegate: lei dovrebbe ormai saperne qualcosa.
Signor ministro, con annunci del tipo: «manterremo il numero dei docenti nelle scuole riducendo l'orario di servizio», mentre si fa una scelta dannosa in primo luogo sul piano pedagogico e didattico, si fa solo demagogia, perché è ancora da stabilire se, come e quando ciò potrà avvenire, e certamente si continua ad arrecare un grave danno di immagine alla classe docente. Infatti, il messaggio che passa nel paese è che le riforme consentiranno ai docenti di lavorare meno, ma anche che gli organici alla fine siano solo un problema da risolvere su un piano quantitativo e non invece, e soprattutto, sul piano qualitativo. Di queste scelte porterete la responsabilità.
La scuola secondaria, che apparentemente sembra non subire modifiche rispetto alla scuola secondaria attuale, è al contrario quella che viene maggiormente compromessa sul piano culturale e perfino curricolare. Quando lo dicevamo al relatore per la maggioranza, onorevole Soave, egli sosteneva che avevamo il fumo davanti agli occhi e stavamo leggendo qualcosa che non era scritto. Oggi sentiamo nelle sue parole le stesse riserve che noi allora abbiamo mosso alla legge.
Forza Italia non ha condiviso e non condivide l'idea di un unico sbocco dopo il primo ciclo, che diventa addirittura liceale per tutti, anche per coloro che dopo il primo biennio decidano di approdare all'istruzione professionale. Noi abbiamo sostenuto e sosteniamo l'esigenza di un doppio canale di formazione che possa prevedere l'esistenza anche nel nostro paese di un'istruzione professionale iniziale di pari dignità, ma alternativa al canale scolastico. Al contrario il Governo e la maggioranza, ma ancor più gli estensori di questo piano, reduci dal biennio unico-unitario, ragionano ancora con l'ormai logora ed anacronistica logica dell'obbligo scolastico e per questo enfatizzano come crinale decisivo il quindicesimo anno di età.
Questo modo di ragionare era forse spiegabile e, per così dire, «di sinistra» negli anni settanta. Oggi è un'inerzia ingiustificata e addirittura regressiva. Il crinale del futuro, quello sul quale progettare i percorsi curricolari di istruzione e di formazione è quello dei diciotto anni.
Il rispetto della rigidità formale dei percorsi - tutti per forza a scuola fino a quindici anni - non può essere garanzia dell'acquisizione sostanziale dei traguardi stabiliti. Succede così che il piano, non avendo assunto un'impostazione che si liberi dallo scolasticismo imperante, finisca per spostare l'attenzione dai risultati attesi ai modi con cui raggiungerli e con il giustificare l'esistenza del primo biennio non più e non tanto in virtù di quello che ci sarà dopo - il triennio di indirizzo o l'obbligo formativo -, ma in virtù della trasversalità delle conoscenze che in esso si possono acquisire. Credo che a tale riguardo vi sia rassegnazione da parte dell'onorevole Soave, che sicuramente domani nella risoluzione specificherà che questo biennio non deve essere orientativo, ma, se la sinistra governerà ancora questo processo, dovrà assistere invece al mancato rispetto di questa indicazione che, come egli ha ricordato, è davvero prevista nella legge.
È chiaro, insomma, che il primo biennio delle superiori avrà una valenza molto più orientativa (e si è già all'ottavo e al nono anno di scolarità) che non formativa rispetto agli indirizzi della scuola secondaria.


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Si è posto dunque come primo obiettivo del biennio quello di consentire il cambio di indirizzo, annacquando così il vero e proprio carattere formativo del biennio, mentre il problema è semmai l'opposto, quello di caratterizzare con forza i diversi percorsi sin dal loro inizio, prevedendo forme efficaci di sostegno per gli studenti che decidano di cambiare indirizzo.
C'è poi tutta una parte interessante, che non svolgerò in questo momento, ma che verrà ripresa nella risoluzione che la Casa delle libertà presenterà domani relativamente alla formazione iniziale e in servizio dei docenti, soprattutto per quanto riguarda le risorse e i tempi di attuazione.

PRESIDENTE. Con lei devo essere più severo.

VALENTINA APREA, Relatore di minoranza. Non c'è l'onorevole Melograni e quindi utilizzo parte del tempo a lui assegnato, Presidente.

PRESIDENTE. Non sono consentite le addizioni, tanto meno le sottrazioni, onorevole Aprea.

VALENTINA APREA, Relatore di minoranza. Mi avvio alla conclusione. Il piano, nei suoi diversi punti destruttura l'organizzazione complessiva degli studi e, come si è detto, in modo molto confuso prefigura una nuova organizzazione del lavoro dei docenti e dello studio degli alunni. Bene, il Governo e la coalizione di maggioranza sono del parere che tutto questo possa avvenire a costo zero. Anzi, che la riforma possa autofinanziarsi attraverso le economie pur previste. E così poco importa se queste economie ci saranno, ma poi non è detto che potranno davvero esserci tra dieci-dodici anni; l'avvio della riforma viene previsto addirittura nel prossimo settembre con gli ordinari finanziamenti pubblici, già oggi palesemente insufficienti a dare gambe ad altre riforme approvate dai Governi di questa legislatura.
Per non parlare poi dell'onda anomala...

PRESIDENTE. Non parliamone!

VALENTINA APREA, Relatore di minoranza. Concludo, Presidente. Forza Italia, per le ragioni esposte nel mio intervento e contenute nella relazione di minoranza, ribadisce la propria contrarietà alle scelte effettuate dal Governo soprattutto dopo aver valutato le proposte del programma di attuazione presentate dal ministro De Mauro. E, valutate le numerose questioni aperte, che non danno le doverose e pur richieste garanzie, avanza con forza la richiesta al Governo di un rinvio dell'attuazione della riforma.
Se il Governo dovesse tuttavia decidere di ribadire la propria volontà di avvio della riforma, Forza Italia chiederebbe al ministro di riformulare nuovamente il piano prima che il Parlamento si esprima, altrimenti non sarà una cosa seria, sarà l'ennesima farsa a cui quest'Assemblea avrà assistito nel corso della legislatura (Applausi dei deputati dei gruppi di Forza Italia e di Alleanza nazionale).

PRESIDENTE. Il ministro della pubblica istruzione, professor De Mauro, ha facoltà di parlare.

TULLIO DE MAURO, Ministro della pubblica istruzione. Il Governo si riserva di intervenire in sede di replica.

PRESIDENTE. Il primo iscritto a parlare è l'onorevole Malgieri. Ne ha facoltà.

GENNARO MALGIERI. Signor Presidente, signor ministro, onorevoli colleghi, raramente su un provvedimento legislativo si sono abbattute tante critiche come sul riordino dei cicli scolastici e sul suo successivo programma di attuazione; critiche dai docenti, dagli studenti, dai genitori, dalle organizzazioni sindacali che hanno posto in evidenza non soltanto le contraddizioni della riforma ma anche le pericolose velleità della stessa che, a detta


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di tutti tranne delle parti politiche che l'hanno favorita, sembra fatta apposta per seminare tensioni ed acuire incomprensioni all'interno di una scuola diventata nel tempo sempre più fragile ed esposta alle intemperie.
È appena il caso di notare come la legge di riforma nasca da valutazioni e considerazioni che sono portato a definire ideologiche, nel senso di una palese derivazione da una cultura pedagogica, egalitarista e tecnocratica al tempo stesso e non da necessità profondamente avvertite da coloro che saranno costretti a subirla. Se così non fosse, i responsabili della pubblica istruzione avrebbero tenuto conto delle controindicazioni maturate nel corso della gestazione del provvedimento dall'opposizione di centrodestra, alla quale - come si ricorderà - non fu minimamente permesso di apportare miglioramenti alla normativa, perché il disegno governativo era e doveva rimanere «blindato». Così, quando sono maturate le condizioni per l'attuazione della legge, con la presentazione del programma quinquennale, tutti hanno scoperto l'inadeguatezza della stessa ed hanno lamentato le incongruenze in essa contenute. Inadeguatezza ed incongruenze che un anno fa, nel disinteresse pressoché generale, il Polo delle libertà denunciò proponendo nel contempo un complessivo ripensamento da parte del ministro il quale naturalmente difese la sua riforma, sostenuto da una maggioranza che non si rendeva conto dei guasti che avrebbe prodotto nell'ordinamento degli studi.
Di una certa resipiscenza dobbiamo dare atto al ministro De Mauro, perché, di fronte all'assordante coro di critiche che ha investito la legge, è arrivato ad ipotizzare lo slittamento della riforma: ciò accadeva nella prima decade di novembre, nei giorni caldi delle polemiche; poi non se ne è fatto più nulla, tanto che oggi siamo qui a sottolineare una volta di più i preoccupanti effetti di una riforma che viene imposta dall'alto al mondo della scuola e che tale mondo respinge fermamente senza concessioni, come attesta la vasta pubblicistica degli ultimi mesi.
Siamo di fronte ad una riforma il cui programma di attuazione è complesso sino ad apparire incomprensibile, come risulta tra l'altro dall'arzigogolata relazione che abbiamo ascoltato dall'onorevole Soave. Questa riforma, per di più, non fa entrare la scuola italiana nel club europeo, come con enfasi viene detto dai suoi sostenitori. I sistemi educativi vigenti in Inghilterra, in Germania e in Francia - solo per restare ai più noti - sono profondamente diversi tra di essi.
Signor ministro, il modello che ci viene proposto è quanto di meno europeo si possa immaginare, dal momento che si ispira al modello statunitense, del quale riproduce lo scheletro, ma non introduce quella competitività tra istituti e tra docenti che costituisce la caratteristica del sistema educativo americano. Il modello ispiratore potrebbe funzionare se fossero rispettati tutti i suoi parametri. Al contrario, il riordino dei cicli, così come è stato proposto anche attraverso il piano di attuazione, introduce modifiche al modello americano che finiscono per cancellare quegli elementi sui quali esso si fonda: vale a dire - come ha rilevato uno studioso attento e pacato, il professor Stefano Zecchi - la connessione vitale tra formazione del bambino e sviluppo critico dell'adolescente, che è alla base di una società che crede nella libertà dell'individuo e non nel suo indottrinamento ideologico.
Questa legge, nei suoi principi e nella sua attuazione, lede innanzitutto le tradizionali strutture formative, a cominciare dalla scuola materna, per puntare decisamente al livellamento culturale attraverso la cosiddetta scuola di base: mi riferisco al ciclo primario destinato a sostituire - come è noto, distruggendole - le elementari e le medie. Assecondando la tendenza all'ingegneria pedagogica (come l'ha definita l'italianista Giulio Ferroni), la legge sui cicli finisce per dissolvere in schemi astratti differenze reali connesse all'età degli studenti ed alle loro attitudini. La riforma, inoltre, produce un prolungamento delle elementari nelle medie e porta ad un'inevitabile confusione di ruoli


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e competenze tra maestri e professori, i quali certamente (da qui nascono le preoccupazioni espresse dagli interessati) non sapranno come articolare il loro insegnamento, posto che le rispettive formazioni sono molto diverse.
Con la nascita della scuola di base di sette anni - ha osservato Angelo Panebianco - rischia di realizzarsi una radicale secondarizzazione delle elementari, che completa ed estremizza un processo iniziato con la riforma del 1990. Il bambino si troverà di fronte a specialisti di singole materie e non più ad educatori-maestri: signor ministro, questa è una prospettiva assai inquietante che (sempre a giudizio di Panebianco) pone le basi per una vera e propria catastrofe antropologica che coinvolge studenti e docenti, ma anche le famiglie; è una catastrofe i cui effetti non potranno non farsi sentire sulla società italiana nel suo complesso. Sorge il dubbio, per come l'insegnamento risulta congegnato dal programma di attuazione, che si sia di fronte ad una sorta di supermercato culturale nel quale, indipendentemente dagli elementi reali che dovrebbero motivare le scelte formative, si offre un po' di tutto e a tutte le età. È un'astrattezza, come astratte sono molte delle proposizioni, oltretutto stilisticamente tutt'altro che ineccepibili (mi permetto di farlo rilevare a lei, signor ministro, che è un italianista di vaglia), che si possono leggere nel programma di attuazione della legge di riordino dei cicli. Mi permetto di richiamare l'attenzione su qualche scampolo. «L'attuale momento storico» - è scritto nell'introduzione - «richiede soluzioni capaci di coinvolgere le nuove generazioni in scelte personali e collettive che filtrino la complessità della domanda sociale e rispondano ai bisogni reali. Aiutare le giovani e i giovani a collocarsi in un mondo in rapida trasformazione, rendendoli consapevoli dei processi oggettivi e soggettivi già avvenuti e fornendoli degli strumenti per governare quelli aperti: sarà questo il compito della nuova scuola». Che cosa significa? Che cosa nasconde questo pasticcio, signor ministro, di burocratese e di fumoso sociologismo?

TULLIO DE MAURO, Ministro della pubblica istruzione. Glielo spiego domani!

GENNARO MALGIERI. Sarò lieto, naturalmente, di apprendere la versione corretta di queste parole. Io ritengo che dietro vi si nasconda il nulla o, più verosimilmente, la giustificazione ideologica del progetto della «nuova scuola» la quale, con tutta evidenza, non «aiuterà» i giovani a collocarsi «in un mondo in rapida trasformazione», perché, invece di offrire loro cultura e formazione, tende a farne dei soggetti alla perenne e disperata ricerca di un impiego, che, non presupponendo una preparazione specifica, difficilmente troveranno.
La cultura, l'attivazione dello spirito critico mettono in condizione i giovani di percorrere la strada della realizzazione, come è sempre stato, anche se, secondo i tardoilluministi nelle vesti dei riformatori del Ministero della pubblica istruzione, non dovrebbe più essere così, in ossequio ad un pedagogismo minimalista e confuso che li porta a «sostenere» - così si legge nel documento in esame - «la rinnovata professionalità dei docenti quali professionisti promotori delle dinamiche di apprendimento e valutatori dei loro esiti»: se questo non è astrattismo allo stato puro, non so come lo si possa definire. Meglio, comunque, di ciò che immediatamente segue. «In questo quadro è importante che i docenti, a tutti i livelli di scolarità, aiutino le allieve e gli allievi a farsi consapevoli del significato vitale, decisivo per il loro esistere, di ciò che imparano»: una «catalanata» pura, come si direbbe dal nome del noto maestro del pensiero che con le sue banalità animava il programma televisivo Quelli della notte di Renzo Arbore, alcuni anni fa.
È sconfortante, signor ministro, pensare che questi sono i fondamenti teorici della nuova scuola, così come è deprimente leggere di «rinnovata professionalità dei docenti» quando si attua una


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tragica confusione proprio nel corpo docente della scuola di base. La professionalità si intende salvaguardarla falcidiando gli organici? C'è un sovrappiù di incoerenza, in questo documento, a dir poco imbarazzante.
Di astrattezza in astrattezza, ci imbattiamo poi nella limitazione al triennio finale di studi del tempo della formazione specifica. Non è troppo poco, non è un tempo inadeguato ad una preparazione che dovrebbe segnare le scelte successive?
Per quanto ancora indeterminati gli indirizzi di studio - ed anche questo aspetto mi sembra degno di qualche considerazione -, non è difficile prevedere che gli istituti tecnico-scientifici, impropriamente nella riforma denominati «licei», difficilmente riusciranno a formare personale adeguato ai bisogni; ma è facile prevedere soprattutto la morte del liceo classico, sia pure camuffato nell'indirizzo umanistico, non potendo la nuova struttura colmare soddisfacentemente l'esigenza di una formazione classica complessiva. Al liceo, infatti, per come lo abbiamo conosciuto, non si acquisisce un patrimonio di competenze professionali immediatamente spendibili, ma un abito mentale, una coscienza critica, un'attitudine allo studio ed alla conoscenza che non possono essere differiti negli anni universitari, nei quali lo studente deve applicare alle più diverse discipline il metodo di lavoro appreso sui banchi di scuola.
La riforma del classico, ridotto ad un mero indirizzo, mette a rischio di estinzione il latino ed il greco: e a chi sostiene che la cultura umanistica continuerà ad esistere mi permetto di far osservare che senza lo studio delle lingue non sarà possibile. Come dice Massimo Cacciari, uomo politicamente non certo vicino a me, «pensiero e linguaggio non sono separabili». In altri termini, studiare la storia della letteratura greca e latina non è lo stesso che studiare il greco ed il latino: chissà se ai burocrati ed ai «saggi» del Ministero della pubblica istruzione qualcuno ha provveduto a spiegare questa elementare differenza. Certo, senza queste lingue il mondo andrà avanti lo stesso, signor ministro, ma quanto sarebbe più ricco, meno elementare, forse addirittura meno stupido, se fosse contagiato dalla humanitas greco-romana! Forse sarebbe perfino meno volgare.
Con la riforma ciò che sopravviverà del liceo nell'indirizzo umanistico certamente non assumerà, come l'onorevole Berlinguer stesso scrisse in un documento del gennaio 1997, e che ho ricordato in altre occasioni, «una connotazione professionalizzante nella direzione di offrire agli studenti metodi di studio e capacità operative di ricerca, di analisi, di sintesi, tali da stimolare lo sviluppo di competenze ed abilità definite che possono fondare livelli di responsabilità e di autonomia individuali». Tutto ciò sarebbe possibile se il liceo, nelle sue strutture, nelle materie di insegnamento, nel livello dei docenti, tornasse ad essere quel bacino di formazione dell'identità nazionale attraverso il quale è passata buona parte della classe dirigente del novecento. Per ironia della sorte in Italia si decreta la sostanziale soppressione degli studi classici, mentre università di tradizione scientifica ed economica di molti paesi europei annunciano l'apertura di facoltà di filosofia, mentre molti manager della new economy si interessano al mondo antico, mentre le librerie traboccano di classici con testo a fronte, mentre in nazioni lontane, con ascendenze culturali profondamente diverse dalle nostre, la comunità degli studiosi dell'humanitas greco-romana diventa sempre più consistente, a conferma di un'elementare certezza, vale a dire che la cultura tradizionale può convivere con la modernità senza farsi travolgere, anzi può offrire alla modernità quella misura su cui fondare un avvenire nel quale i valori morali e spirituali non sono in contraddizione con le autostrade telematiche, ma possono raggiungere attraverso di esse un pubblico sempre più vasto e magari incredulo di fronte alla loro sopravvivenza, nel tempo del relativismo etico e dell'indifferentismo sociale.
Del resto, è una qualità dei grandi popoli e delle grandi nazioni saper coniugare


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la tradizione con la modernità. Con il provvedimento al nostro esame, sul quale siamo chiamati ad esprimere un parere, la tradizione della cultura pedagogica italiana viene soppressa per inseguire utopistici schemi che non si intitolano alla modernizzazione del sistema educativo per il semplice fatto che sono estranei alle forme scolastiche innervate nella storia del nostro paese e, dunque, sono semplicemente eccentriche rispetto ad un modo ampiamente condiviso di concepire la formazione.
È una scuola, quindi, senz'anima quella che viene fuori dalla riforma dei cicli e da altre riforme attuate in questa legislatura; una palestra di disagio intellettuale caratterizzata da un egualitarismo insopportabile e fondata su un criterio quantitativo e non qualitativo come era la scuola di ieri, la scuola di Gentile la cui riforma, come è stato riconosciuto da tutti, anche dallo stesso ex ministro Berlinguer, armonizzava il riordino dei cicli di studi, i programmi ed il ruolo di educatori assegnato ai docenti.
Questa riforma, ancor più dopo aver conosciuto il suo piano di attuazione, si conferma dannosa per la scuola italiana: la sola cosa da fare è abrogarla affinché non produca i danni irreversibili che promette (Applausi dei deputati dei gruppi di Alleanza nazionale e di Forza Italia - Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Vignali. Ne ha facoltà.
Onorevole Vignali, le ricordo che ha venti minuti a sua disposizione.

ADRIANO VIGNALI. Signor Presidente, colleghi, ministro, di fronte al tipo di polemica che le opposizioni fanno su questa riforma - polemica piena di alcune false ovvietà culturali e pedagogiche e insieme di molte e strumentali deformazioni politiche - mi viene in mente un vecchio slogan di trent'anni fa, che censurerò un po', per rispettare la dignità di questa istituzione: cari colleghi, come è possibile volere un ghetto d'oro in un mondo di...?
Di fronte a professori come Angelo Panebianco, Stefano Zecchi e Giulio Ferroni - citati poco fa dal collega Malgieri - mi viene in mente, invece, quanto scritto e poco tempo fa ripubblicato da Raffaele Simone ne «L'università dei tre tradimenti» in cui si dice che molti editorialisti di giornali di fama forse farebbero cosa più utile alla cosa pubblica italiana e alle università se frequentassero maggiormente le aule universitarie e se parlassero di ciò che conoscono, perché sono tali e tante le falsità e le deformazioni contenute nei loro articoli che un invito a leggere attentamente le proposte e le leggi approvate dal Parlamento italiano, con le relative relazioni, sarebbe certamente cosa utile e importante.
Credo invece, colleghi e signor ministro, che questa riforma sia paragonabile a quella istitutiva della scuola media unica del 1962, perché, come quella, questa riforma segnala il rapporto inscindibile tra l'avanzamento del diritto all'istruzione e la crescita e lo sviluppo della democrazia sostanziale. Infatti, al contrario di quanto diceva poc'anzi la collega Lenti, la scuola di oggi è ancora una scuola di classe perché ancora discrimina. Il fenomeno della dispersione scolastica è ancora troppo vasto; si ha una diversità di accesso e di risultato a seconda delle classi sociali e delle zone del paese. Mentre la riforma dell'Ulivo, la riforma voluta da Berlinguer e continuata dal professor De Mauro è una riforma centrale che combatte questa scuola di classe, questa scuola della discriminazione che ancora oggi in alcune aree del paese dà le stesse percentuali di bocciatura del 1967, di quando fu pubblicato «Lettera a una professoressa».
Da questo punto di vista, il carattere fondamentale di questa riforma è il carattere unitario della scuola di base. Secondo i dati che abbiamo il picco più alto della dispersione scolastica lo si registra nel passaggio tra la scuola media e il biennio della scuola superiore; già in quinta elementare si registrano delle discriminazioni che riguardano il 20-25 per cento degli studenti.


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Ed allora la generalizzazione della scuola dell'infanzia, l'unitarietà della scuola di base, l'obbligo scolastico e l'obbligo formativo sono la piattaforma, il dato non solo di ordinamento ma anche il dato pedagogico e culturale che ci serve davvero. La collega Napoli imputa tutto ciò a demerito del ministro Berlinguer, io invece ritengo che l'obiettivo di fondo della riforma sia quello di dare a tutti non soltanto il diritto all'accesso, come dice la Costituzione, ma anche il diritto al successo, senza il quale il primo diritto viene vanificato. Questa è la riforma portata avanti dall'Ulivo, questa è la riforma del centrosinistra, questo è il tassello decisivo che dà il segno democratico a questa riforma.
Da questo punto di vista nessuno sfascio ma anche nessuna morte del liceo classico, caro collega Malgieri, anche se Lucio Russo sostiene che noi siamo per la scuola dei bastoncini e non dei segmenti; questo semplicemente perché lui non ha ancora capito bene le differenze tra gli Stati Uniti e l'Italia; comunque se va a visitare le scuole italiane forse lo capirà anche lui.
Da tale punto di vista, la riforma non distrugge ma potenzia e generalizza le esperienze migliori della scuola italiana, quelle maturate nella scuola di base e quelle fatte attraverso le sperimentazioni garantite dai decreti delegati del 1974-1975, anche con riferimento alla scuola secondaria superiore.
Dunque, non slittamento, non rinvii! Mi spiace che il relatore sia stato in qualche modo accusato di pentimenti o di aver cambiato opinione; egli infatti ha evidenziato con molta chiarezza e trasparenza i punti problematici in ordine all'applicazione della legge, indicando degli obiettivi molto precisi.
Naturalmente, tutto ciò riguarda l'opera del ministro, quella del Governo e più in generale anche la responsabilità del Parlamento perché sembra che in un certo qual modo quest'ultimo non abbia avuto delle responsabilità. Si è invece discusso a lungo, prima in Commissione e poi in aula; ormai alle spalle di questa legge c'è un anno di storia. Il Corriere della Sera è intervenuto e ha aperto un fuoco di sbarramento in questi 10-11 mesi; ma non mi pare che l'opinione pubblica sia stata così travolta dallo sfascio della scuola italiana. Sappiamo bene da quale parte «pende» il Corriere della sera con riferimento al futuro della scuola!
Ci sono elementi decisivi riguardanti l'applicazione della riforma. Di alcuni si parla nella relazione ma indubbiamente debbono essere ancora sottolineati. Il primo punto - è chiaro - riguarda le risorse necessarie a valorizzare la professionalità degli insegnanti e i progetti delle singole scuole.
Quando si esalta la scuola attuale e si critica quest'ipotesi di riforma, si dimentica la cosa fondamentale: per anni ci siamo lamentati che le riforme provvisorie come quelle dell'esame di maturità siano poi diventate definitive per ventotto anni e che di riforma passino molti decenni.
Questa riforma contiene al suo proprio interno meccanismi di autoverifica e di autocorrezione e per questo dovrebbe essere apprezzata. Non siamo noi, Malgieri, ad avere il velo ideologico: voi fate una battaglia ideologica, ma non sapete muovervi rispetto alla complessità dei problemi.
L'onorevole Malgieri accennava alle differenze europee, ma proprio con questa riforma diventiamo europei perché, in passato, le riforme parziali duravano ventotto anni, mentre ora, in corso di avanzamento, vi saranno diversi momenti di verifica da parte del Parlamento e di altri soggetti.
Il secondo elemento della riforma è il coinvolgimento. Una volta approvata la risoluzione, andremo nelle oltre diecimila scuole italiane per un confronto sulle questioni e sull'applicazione della riforma. Il coinvolgimento riguarderà in primis il mondo degli insegnanti, degli studenti, delle famiglie e delle comunità locali. Anche su questo dobbiamo intenderci bene: in questi anni, nell'autonomia dei suoi regolamenti o decreti attuativi, la scuola italiana è stata, in qualche modo,


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coinvolta. Che una parte della scuola italiana sia resistente a questa riforma, che vi sia una sorta di zona grigia rispetto all'intervento diretto in suo favore, di questa riforma, non deve essere confuso con il fatto che, anche relativamente a riforme precedenti, vi sia stata una difficoltà di collegamento tra ciò che nelle scuole o sul territorio si produceva, in termini di idee e di proposte, e il recepimento a livello di regolamenti e di decreti. Bisognerà continuare in questo lavoro di confronto, nella consapevolezza che vi sono differenze precise. I decreti delegati del 1975 prevedevano alcune cose che sono state realizzate in parte del territorio con spirito di iniziativa e in altre parti no.
Si è preferito vivere alla giornata o, comunque, applicare la politica del quieta non movere. Chiediamo al Governo di lanciare una grande campagna di comunicazione e di coinvolgimento che permetta alla scuola di partecipare appieno a questo processo di riforma.
Sono chiari i motivi per cui il centrodestra critica fortemente le ragioni di questa riforma. Da un lato, essa propugnerebbe un assurdo egualitarismo, provocherebbe la morte del liceo classico ed eliminerebbe la selettività e la meritocrazia. Quando mai la scuola italiana, negli ultimi anni, ha risposto a criteri che raccogliessero il meglio? Manchiamo di riforme da tanti anni, ma il problema vero è che non possiamo procedere con lo sguardo rivolto al passato. La scuola elementare e la scuola media sono state riformate e qui non si dice di buttare a mare i cambiamenti. Anzi, il processo di osmosi e fluidificazione dei passaggi da un livello scolastico ad un altro vuole mettere insieme il meglio delle iniziative. Certamente, la campagna di destabilizzazione condotta dalla destra punta allo sfascio perché è nostalgica della scuola selettiva e di classe del passato. Del resto, ciò è stato esplicitamente affermato dalla collega Aprea quando ha parlato del doppio canale con il quale si intende reintrodurre la scuola media con il latino e l'avviamento professionale.

VALENTINA APREA, Relatore di minoranza. È il complesso gentiliano della sinistra!

ADRIANO VIGNALI. In quest'impostazione la linea di classe è molto precisa, come voluto dal gruppo di Forza Italia. Tra un momento la collega Sestini difenderà la centralità della persona facendo riferimento alla scuola-azienda ed avendo un modello ben preciso in testa. Questa posizione è piena di contraddizioni molto esplicite al suo interno: ad esempio, vi è la contraddizione tra l'affermare che questa ipotesi di riforma non privilegia il valore professionale degli insegnanti della scuola materna ed il sostenere che bisogna tenere molto separati i diversi livelli. In precedenza, il collega Malgieri ha detto che ci troveremmo di fronte ad un'ipotesi statunitense, ma sostanzialmente non competitiva. Che cosa vuole Alleanza nazionale? Vuole un modello statunitense, un modello competitivo o, in realtà, è fedele ad un ruolo educativo che, certamente, non può essere più quello di Giovanni Gentile, che peraltro, in relazione all'applicazione della sua riforma, quanto a democraticità non può essere maestro di nessuno?
Come si fa a parlare di morte del liceo classico se, volendo sottolineare che tutte le scuole devono avere un alto contenuto formativo, le abbiamo tutte chiamate «licei» e, pertanto, in qualche modo le abbiamo valorizzate? I licei di oggi, però, non possono essere quelli della nostra adolescenza, non possono essere i licei di una scuola che, in fondo, demandava al liceo classico la formazione di un ceto dirigente prevalentemente burocratico, amministrativo o di altro genere. In qualche modo, la scuola superiore veniva frammentata nei licei, che riguardavano una fetta molto ristretta di classe dirigente, e negli istituti tecnici, che formavano i quadri intermedi; vi erano, poi, le scuole professionali, che formavano gli operai che riuscivano ad arrivare fino a quel livello di studi. Da questo punto di vista, il segno passatista delle critiche avanzate dalla destra è molto evidente.


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Ciò che francamente mi dispiace, invece, e che non appartiene alla cultura ed alla storia della sinistra e che non è plausibile politicamente nella critica di Rifondazione comunista, è il ragionamento secondo il quale la scuola verrebbe affidata al mercato. Questa non è la nostra proposta, ma la proposta di Forza Italia, del Polo: vanno in tale direzione il «buono scuola», le iniziative di Formigoni e della Lombardia.
L'opposizione al Governo di Rifondazione comunista è frontale e, pertanto, la critica è naturale, ma essa deve entrare nel merito e dare risposte ai nodi fondamentali della riforma in esame; non basta l'opposizione per fare chiarezza. Ad esempio, relativamente alla questione europea, si afferma di essere favorevoli all'Europa e, contestualmente, si portano in piazza i centri sociali ed i gruppi francesi lepenisti. Non è possibile ipotizzare che, in termini di opposizione politica, possano stare insieme chi è favorevole all'egualitarismo e chi, in qualche modo, è favorevole alla scuola del passato, come la destra.
Nell'opposizione di Rifondazione comunista vi è una ragione antagonistica: ma dove sarebbe il mercato in una scuola, in una proposta di riforma che vuole combattere il fenomeno della dispersione e che vuole comunque trovare le risorse necessarie, che certamente non saranno le 500 mila lire al mese chieste da Rifondazione comunista in occasione dell'esame del disegno di legge finanziaria? Nell'ambito di un aumento delle risorse disponibili, si devono fare scelte di priorità e, in qualche modo, si deve trovare una soluzione.
Su tale questione mi sono soffermato altre volte. Devo dire chiaramente, signor ministro, che ero convinto, relativamente al problema degli aumenti, che lo si potesse benissimo risolvere in sede di esame del disegno di legge finanziaria alla Camera. Mi auguro che si concluda presto al Senato! Mi auguro che si concluda presto anche perché, diversamente da quello che pensa Rifondazione comunista, il rischio che i sindacati (Commenti del deputato Lenti), che vengono favoriti anche rispetto a questa onda (Interruzione del deputato Lenti)... Poi, naturalmente, il 17 misureremo, dopo il voto delle RSU, le rappresentanze sindacali unitarie, come saranno i pesi percentuali dei sindacati...

MARIA LENTI, Relatore di minoranza. I sindacati di base non hanno neppure la possibilità di fare l'assemblea, perché non vi è stato il tempo! Questo è uno scandalo...

ADRIANO VIGNALI. Da questo punto di vista, dicevo che voi rischiate di lavorare per il «Re di Prussia», cioè, non certo per i COBAS, che anche Malgieri poco fa ha citato, ma per altri sindacati di altra razza e di altro colore politico...

MARIA LENTI, Relatore di minoranza. Anche questo è lo scandalo! Trent'anni fa avremmo rivoluzionato la scuola per questi divieti!

ADRIANO VIGNALI. Però, da questo punto di vista, entrando nel merito, ritengo che l'idea che questa sia una scuola di mercato è un'idea assolutamente inesistente: non esistono basi né nel progetto di legge, né nella fattibilità. Vi sono dei problemi rispetto ai quali si può anche dialogare costruttivamente: penso che sia legittimo che una forza di opposizione faccia delle critiche, ma devono essere critiche che riguardino il merito e le prospettive, senza scambiare il centrosinistra con Forza Italia o con forze che vogliono privatizzare la scuola pubblica italiana!
Signor ministro, mi auguro che alla scuola pubblica vada il massimo di risorse possibile in questa finanziaria e nelle prossime. Essa deve essere chiamata sul terreno del massimo protagonismo a contribuire, ovviamente, alla buona riuscita ed al risultato positivo di questa riforma (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Sestini, alla quale ricordo che dispone di 21 minuti di tempo. Ne ha facoltà.


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GRAZIA SESTINI. Signor ministro, onorevoli colleghi, io non deluderò le aspettative del collega Vignali che, con un atto di preveggenza, dono di solito attribuito ai profeti, ha previsto il contenuto del mio intervento. Non lo deluderò perché è vero, l'ho già detto in Commissione, che non posso non esprimere delle perplessità riguardo all'impianto generale di questo piano, soprattutto per le ambiguità che contiene riguardo al concetto di persona. Spesso se ne parla, ma altrettanto spesso si trovano accentuazioni contrarie: si dice che il compito della nuova scuola è definito in maniera funzionale alla società, senza appunto fare riferimento alla persona; e, poi, nello stesso capoverso, si parla di differenze, ma la persona è citata solo e in quanto portatrice di diritti. Si mescolano espressioni come «la persona umana, il futuro del cittadino e il futuro lavoratore».
Il ministro, rifacendosi alla Costituzione, sottolinea «l'impegno della scuola a garantire il pieno sviluppo della persona umana» ma poi questo principio nell'ultimo biennio del settennato si dice che «verrà realizzato attraverso il rafforzamento dei saperi necessari all'esercizio della cittadinanza», con una chiara riduzione della persona umana al suo essere cittadino. Questa è una riduzione che ci preoccupa perché ci rendiamo conto che, allora, l'impianto generale assume un fattore dell'esigenza degli studenti, quello che spesso negli istituti si è definito in questi anni «lo star bene a scuola; lo star bene nelle istituzioni», la giusta esigenza di collocarsi in un mondo in rapida trasformazione, e lo assume come unica prospettiva della formazione.
Noi siamo per un'idea di educazione e di formazione che innanzitutto, prima ancora del cittadino o del lavoratore, guardi alla persona umana nelle sue esigenze originarie! Questa è una cosa a cui io tengo particolarmente per il passato da insegnante, per il presente come rappresentante nelle istituzioni di un mondo che comunque, di fronte alle grandi sfide, non potrà mai fare a meno della prima grande risorsa che è quella umana e che non può essere lasciata o delegata soltanto alla difesa che ne fanno, per esempio, le categorie economiche perché, quando nel mercato, si dice che la prima risorsa è l'uomo, lo si fa perché esso rappresenta anche la prima grande risorsa della formazione.
Vi è un secondo punto - l'ho già detto in Commissione - che mi preoccupa: la riduzione che si opera rispetto al principio della sussidiarietà, descritta come capacità di definire un rapporto positivo con il territorio e di instaurare uno stretto rapporto tra le scuole autonome e le altre autonomie. Il principio della sussidiarietà diviene così sinonimo di integrazione territoriale, cioè un modo che non ha niente a che vedere con la concezione classica della sussidiarietà, ma che è un pericoloso passo indietro anche rispetto a quanto è detto nella legge n. 59. D'altronde, dalla legge sull'assistenza in poi noi abbiamo imparato che questo Governo sta tornando indietro rispetto a ciò che all'inizio della legislatura aveva annunciato sul principio di sussidiarietà. Questa ne è una testimonianza.
In Commissione avevo già parlato del pericolo della marginalizzazione della scuola dell'infanzia (non è una fantasia né una leggenda metropolitana come ha sostenuto poco fa il relatore). Nello stralcio del programma che a questa si riferisce viene sostenuta la necessità, per questo segmento, di attivare un rapporto interattivo con asili nido e servizi sociali territoriali, in diretta connessione con la legge n. 285 del 1997 che si occupa di assistenza e beneficenza pubblica. Così facendo, però, di fatto la si proietta verso il mondo tipicamente assistenziale, in aperto contrasto con la legge n. 30 che all'articolo 2, comma 3, parla dell'autonomia e unitarietà didattica e pedagogica della scuola dell'infanzia.
Nel contesto del riordino generale del sistema dell'istruzione - lo ripetiamo e vorremmo che i nostri dubbi fossero fugati - la scuola dell'infanzia viene marginalizzata e collocata di fatto all'interno del sistema socio-assistenziale. Signor ministro, su questo punto aspettiamo da


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parte sua - non soltanto noi, ma anche il mondo degli operatori, degli insegnanti e delle famiglie - una parola chiara sulla vera collocazione della scuola dell'infanzia all'interno del nuovo sistema formativo.
Nel documento si parla di aggregazione degli insegnanti in più aree disciplinari. È il passaggio al ruolo unico, anche per la scuola secondaria, abbattendo le diversità che esistono nella scuola secondaria, tra materie teoriche e materie pratiche. In sostanza, si dice che d'ora in poi tutti potranno insegnare tutto. Anche in questo caso, vorrei che il ministro fugasse un grande dubbio. Leggo questa previsione come una riduzione del ruolo dell'insegnante ad accompagnatore e vigilatrice di educandato, un ruolo che comunque marginalizzi e mortifichi la propria professione di docente. Su questo bisogna essere chiari. Gli insegnanti sono dei professionisti. Per questo motivo devono essere pagati bene, devono avere un percorso formativo definito e deve essere loro riconosciuto - nella legge o in provvedimenti come questo - il loro vero ruolo.
Il compito di un insegnante in una scuola è quello di accompagnare la crescita degli alunni e di accompagnare e di istruire la loro formazione, non quello di badare che non rompano i vetri della scuola. In questo provvedimento vi è un pericoloso scivolamento verso un insegnante «vigilatrice». Infatti, nella prima parte del documento, il ministro sottolinea che i docenti, insieme ai dirigenti, agli studenti e alle famiglie, sono i soggetti della riforma, promotori - si legge - delle dinamiche di apprendimento e valutatori dei loro esiti, ma poi, quando si definisce la struttura della scuola del futuro, li si definisce - e questa dizione è molto pericolosa - risorsa strategica ai fini del miglioramento della qualità del sistema. Allora, l'insegnante non è più un professionista, ma un funzionario che ha come obbligo quello di far funzionare bene il sistema. Il massimo a cui si arriva è quello di definirne le caratteristiche psicologico-morali: colto, riflessivo, competente, capace di lavorare in équipe. Questo è, a nostro avviso, segno dell'incapacità di considerare l'insegnante come soggetto che ha un compito: quello di rispondere con il suo lavoro al bisogno di educazione e di istruzione. Per noi, l'insegnante è innanzitutto questo e ci saremmo aspettati che il documento in esame fosse più chiaro anche su tale punto.
Sulla scuola secondaria, mi piace ricordare, signor ministro, quanto lei dichiarò in un'intervista dell'11 marzo scorso al Corriere della Sera, più volte evocato stasera in quest'aula. Con frasi sconsolate ed allarmanti sulla situazione della nostra scuola superiore, lei diceva: «La scuola media superiore è arrivata a punti di stallo totale, con aspetti di destrutturazione psicosomatica» - sono parole sue, signor ministro - «I miei studenti all'università non sanno dove siano la Bulgaria e il Portogallo, non sanno mettere in ordine cronologico Giulio Cesare, Carlo Magno e Napoleone». Questa è la realtà sconfortante, grazie a Dio non di tutta ma di buona parte della nostra scuola superiore, per anni di abbandono, di proliferazione di sperimentazioni, che non si sapeva da dove partissero e dove portassero, anche se, di fatto, si sapeva cosa stessero provocando: un abbassamento generale della qualità dell'insegnamento e dell'apprendimento.
Mi sembra che nel documento in esame la scuola secondaria sia disegnata rispondendo soprattutto a preoccupazioni sociali e di orientamento, senza mettere a tema, invece, il bisogno di conoscenza dei giovani. Anche il relatore, in modo più deciso in Commissione, un po' più sfumato stasera, ha più volte sottolineato il rischio che il biennio unico della scuola superiore, di fatto, non sia né orientativo né iniziale di un nuovo corso, ma una struttura che accoglie i ragazzi e non li educa, non li istruisce: in sostanza, mi si passi il termine, una sorta di parcheggio prima di finire l'obbligo scolastico o prima - almeno speriamo - di mettersi veramente a studiare nel triennio della scuola secondaria.
Questa idea della generalizzazione del biennio è svelata da una frase che apparentemente non è appropriata al contesto,


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ma in realtà, come vedremo, lo è: a pagina 22 del documento, si auspica l'attivazione di istituti polivalenti che potrebbero ulteriormente favorire il carattere unitario della scuola superiore. Ci si dica, allora, a cosa realmente deve educare e preparare la scuola superiore: se deve essere un'area di parcheggio o deve essere propedeutica rispetto a qualcos'altro; ed allora confessatelo che a studiare si comincia all'università...

SERGIO SOAVE, Relatore per la maggioranza. Dopo ancora!

GRAZIA SESTINI. ...e che il triennio iniziale dell'università sostituisce il triennio finale dei nostri licei, oppure definite meglio quali siano gli obiettivi e i contenuti, quale sia l'articolazione vera della scuola superiore. Non possiamo permettere una proliferazione d'ignoranza tra i nostri giovani!
Ho l'impressione che la scuola debba difendersi dalla sinistra: tutte le vostre riforme sono andate nel senso della burocratizzazione, della riduzione della libertà e dell'imposizione di un falso egualitarismo, che ha diminuito professionalità e competenze...

SERGIO SOAVE, Relatore per la maggioranza. Dell'autonomia!

GRAZIA SESTINI. A questo punto l'unica cosa seria che un Governo può fare è prendere atto del grave ritardo in cui si trova. Il piano viene presentato in ritardo, in realtà non conosciamo i contenuti veri e in quattro mesi dovreste preparare i programmi della scuola di base - a meno che non li abbiate già pronti - e farli conoscere al mondo della scuola.
Intanto i genitori che iscriveranno i figli al primo anno della scuola di base, in barba a tutti i POF di questo mondo, non sapranno cosa verrà insegnato ai loro figli, a meno che il ministro non decida, come ha fatto per le vacanze estive, di lavorare anche durante quelle natalizie, al 31 gennaio 2001, quando scadranno le iscrizioni al primo anno della scuola di base, i genitori non sapranno in quale scuola andranno a finire i loro figli. Vi chiediamo di ripensarci, di aspettare un anno e di preparare un progetto vero perché si possa dare, comunque, una risposta vera alla domanda di novità della scuola. Non accetto quanto affermato dall'onorevole Vignali perché noi non siamo contrari a tutta la riforma della scuola, non siamo nostalgici della scuola del passato, siamo gente che vive in questa realtà, ma siamo contrari a questa riforma con questa articolazione priva di qualunque contenuto.
Concludo, se i colleghi della sinistra me lo consentono, con una frase di don Milani - di cui l'onorevole Veltroni e la sinistra spero non si considerino gli unici depositari - che diceva: «Bisogna rimettere la scuola in mano di altri, di gente che abbia il motivo ideale per farlo». Il nostro vero programma elettorale e di governo sulla scuola, con buona pace dell'onorevole Vignali, riparte esattamente da qui: autonomia sì, ma accompagnata alla qualità e alla libertà (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia).

MARIA LENTI, Relatore di minoranza. Si rivolterebbe nella tomba don Milani!

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Bracco. Ne ha facoltà.

FABRIZIO FELICE BRACCO. Signor Presidente, signor ministro, colleghi, che dalla qualità dell'istruzione dipenda in gran parte il futuro del paese e che, di conseguenza, dall'attenzione che si pone al sistema formativo, dalla sua qualificazione al suo sviluppo, si misuri l'investimento di una comunità su se stessa sembra che ormai tutti siano convinti. Sono considerazioni universalmente accolte, quasi dei luoghi comuni nel dibattito politico e culturale, ma mi piace ricordarle ora che stiamo facendo scelte importanti per la scuola e dunque per l'intero paese. Così come mi piace ricordare che per noi, per i democratici di


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sinistra, l'istruzione e la formazione sono fattori decisivi del welfare inclusivo e di promozione che vogliamo costruire.

MARIA LENTI, Relatore di minoranza. E lo state distruggendo!

FABRIZIO FELICE BRACCO. Un welfare capace di conciliare e di collegare la creazione di ricchezza con l'uguaglianza modernamente intesa come estensione dei diritti di cittadinanza ed equa distribuzione di risorse e di opportunità. Lo sviluppo, inteso come un processo di espansione delle libertà reali godute dagli esseri umani, di cui il progresso industriale e tecnologico, la modernizzazione sociale e anche la crescita dei redditi individuali sono strumenti fondamentali, ha come presupposto necessario la moltiplicazione di occasioni di formazione. Una conformazione configurata come processo di crescita continua che accompagni gli individui in tutto l'arco della loro vita. Da qui le nostre scelte di questi anni ed il nostro impegno per la riforma dell'intero sistema formativo, dalla scuola dell'infanzia all'università, dall'istruzione artistica alla formazione professionale, tutti gli aspetti costitutivi del sistema formativo sono stati toccati in questi anni, ma secondo una visione gradualistica e processuale che ha cercato di far maturare all'interno della società le spinte e le sollecitazioni al cambiamento. Altro che giacobinismo, di cui spesso si è accusati o di cui spesso si è accusato il ministro Berlinguer e, adesso, anche il ministro De Mauro, ma l'opposto del giacobinismo.
Non a caso il processo riformatore è iniziato con l'avvio dell'autonomia scolastica - e la valorizzazione dell'autonomia è appunto l'opposto del giacobinismo - ed è stato accompagnato da verifiche sulle sperimentazioni fatte in questi anni e sulle nuove sperimentazioni curriculari, che ci consentono oggi di non partire da zero, ma da una scuola che è già in fase di trasformazione.
Autonomia per noi vuol dire scuola aperta, flessibile e libera, una scuola che sia capace di adeguarsi ai bisogni formativi degli alunni e alla domanda di formazione presente nella società, non una scuola rigida e centralistica, alla quale ragazzi e ragazze si devono adattare, pena l'emarginazione e l'espulsione, ma una scuola aperta, appunto, una scuola che attraverso la formazione permanente e ricorrente accompagni i cittadini in tutto l'arco della loro vita. È questa la scuola dell'autonomia e in questo nuovo sistema formativo, fondato sulla scuola dell'autonomia, per noi si inserisce il riordino dei cicli, così come si sono inseriti l'innalzamento dell'obbligo scolastico e formativo e le altre riforme che hanno contrassegnato questi anni.
Il piano di attuazione è dunque una tappa fondamentale in questo processo e i documenti presentati dal Governo rappresentano a mio parere una buona base di lavoro per il Parlamento, a cui spetta fornire ora indicazioni precise per l'attuazione dei principi contenuti nella legge sia riguardo alle specifiche articolazioni ordinamentali sia riguardo all'individuazione degli strumenti e dei mezzi necessari al raggiungimento delle finalità della riforma.
La prevista verifica triennale consentirà di valutare in itinere gli effetti della prima fase di attuazione e di prospettare eventuali correttivi da apportare al suo ulteriore svolgimento. Mi pare che questi elementi facciano giustizia delle tante critiche che denunciano un presunto esproprio delle prerogative del Parlamento.
Gli stessi critici che, da una parte, accusano il Governo di dirigismo, centralismo e giacobinismo, dall'altra, lo rimproverano per aver presentato soluzioni non univoche, dunque chiuse. Noi condividiamo, invece, la scelta del Governo di aver presentato materiali aperti che consentano un approfondimento del dibattito in Parlamento ed anche di compiere scelte fondate e condivise. Ma quegli stessi critici oggi si accorgono della bontà della nostra scuola elementare e della bravura dei nostri maestri e paventano la distruzione della scuola elementare e della scuola media, non riconoscendo che proprio dal


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l'esperienza della scuola elementare riformata nel 1990 - molti di questi critici parlano ancora della scuola precedente alla riforma del 1990 - e dalle sperimentazioni avviate nella scuola media, fino agli istituti comprensivi esistenti ormai da anni, è maturata l'idea del nuovo ciclo di base in grado di risolvere il problema posto dalla discontinuità tra elementari e medie.
Molti di questi critici citano lo studio dell'OCSE, che viene utilizzato per valutare la bontà della nostra scuola media riformata, ma quello stesso studio segnala tra i limiti della nostra scuola la discontinuità, le fratture tra i diversi ordini di scuola. Con la riforma che abbiamo avviato e, quindi, con l'ipotesi prospettata nel piano di attuazione pensiamo proprio di superare queste fratture rispettando i diversi ritmi di apprendimento e le fasi di maturazione nelle diverse età. La scuola di base non è la somma di due vecchie scuole, magari accorciate di un anno, ma è una nuova scuola.
In realtà questi critici non sono tanto interessati agli aspetti intrinseci della riforma, ma a quelli estrinseci: essi individuano nella devolution e nel buono-scuola gli strumenti per cambiare radicalmente il sistema dell'istruzione.
Il collega Malgieri ci ha rimproverati di esserci ispirati al modello statunitense, ma egli sa dove è nata l'idea del buono-scuola e quali ne sono stati i teorici? Proprio gli ultraliberisti conservatori statunitensi, coloro che ritengono che la competizione aumenti la qualità sia nella vita che nella scuola, curandosi poco del fatto che poi nella vita, come nella scuola, una società democratica deve invece offrire chance a tutti, al massimo livello possibile. Neppure negli Stati Uniti i teorici del bonus scuola, gli strateghi dell'ultra liberismo, sono stati capaci di fare molti proseliti, se si escludono alcuni settori della destra repubblicana. E l'argomento che viene utilizzato dai democratici americani per respingere l'idea del bonus scuola è proprio che dietro questa ipotesi ci sarebbero la disgregazione del sistema di istruzione pubblico e l'introduzione di profonde spaccature nella società; inoltre verrebbero alimentate sostanziali diseguaglianze tra i cittadini.
Mi rivolgo anche alla collega Sestini, la quale qui ci ha parlato della persona e di come l'ipotesi prospettata dal Governo sia lontana da quella visione personalista a cui lei si ispira. La collega Sestini mi dovrà spiegare come possa conciliare questa sua visione personalista con le tre «i» che riassumono il programma elettorale del suo partito sui temi della scuola. Come si fa a conciliare il personalismo cristiano ispirato a Monnier con l'idea che la scuola sintetizzi nell'espressione «inglese, impresa, internet». Queste sono le idee che maturano nella nostra opposizione, la quale deve guardare non alla confusione che c'è nella maggioranza, dove peraltro non c'è confusione ma c'è - come abbiamo dimostrato in questi anni - un percorso lineare e chiaro con obiettivi e finalità precisi. La confusione - e anche gli interventi di questa sera lo dimostrano - è proprio nel campo della destra, dove vi sono visioni conservatrici del collega Malgieri che si sposano con il «confusionarismo» modernista della collega Aprea.
Per noi la libertà di scelta, il pluralismo, le aperture della scuola al contesto significano libertà, pluralismo nella scuola pubblica come condizione di una società democratica, pluralista e aperta. Ma contro le riforme, oltre che il centrodestra - che non ha una chiara prospettiva -, si schierano anche settori che hanno storie e finalità molto diverse dalla destra. Questi ultimi nella contestazione contro questa riforma finiscono per fare il gioco della destra e per difendere la scuola così com'è, sostanzialmente ancorati come sono allo schema gentiliano e incapaci di vedere la necessità di una rottura dello schema, della scuola fondata sulla chiusura, sul centralismo, sull'autoreferenzialità. Una scuola che, come ricordava prima di me il collega Vignali, è profondamente classista, una scuola che ancora oggi seleziona i ragazzi e le ragazze sulla base degli stessi principi che venivano denunciati trentadue anni fa da quel don Milani evocato in quest'aula dalla collega


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Sestini. Le finalità della scuola che noi vogliamo sono, per riprendere una formula di Montaigne riproposta recentemente da Edgard Morain, non una scuola che riempia le teste ma una scuola che faccia delle buone teste dove per teste ben fatte significa dare una preparazione capace di dare un'attitudine generale a porre e a trattare problemi e principi che permettano di organizzare le conoscenze e i saperi e di sviluppare competenze.
Noi stiamo cambiando la scuola a partire dalla centralità nello Stato democratico del sistema pubblico dell'istruzione; noi stiamo cambiando la scuola non da un'idea debole del modello scolastico che prospettiamo ma da un'idea forte di una scuola pluralista aperta e democratica, una scuola nella quale avviamo con il piano di attuazione che mi auguro venga approvato il processo di realizzazione. È una scuola in cui assume particolare rilievo l'ipotesi di curricoli definiti in modo diverso da quanto finora avvenuto, non più un dato a priori a cui le scuole sono tenute ad uniformarsi ma il risultato della capacità progettuale delle istituzioni scolastiche, sintesi unitaria di esigenze diverse, capace di garantire il carattere unitario dell'istruzione e di valorizzare il pluralismo culturale e territoriale, di tenere conto dei bisogni formativi degli alunni concretamente rilevati e delle esigenze e delle attese delle famiglie e della società, di tener conto della domanda e delle attese espresse dai contesti sociali, culturali, economici e territoriali.
È questa una scuola dove, ben lungi dall'essere svilita la funzione docente, essa appare esaltata nella sua specificità, nel suo contenuto di professionalità, di competenze e di cultura. Proprio i docenti dovranno essere i protagonisti della scuola, quei docenti ai quali vogliamo assegnare il compito di costruire una scuola flessibile, aperta e dinamica. Ad essi dobbiamo, dunque, rivolgere un'attenzione particolare anche in termini di formazione. Molto si è dibattuto sulla formazione del personale docente e credo sia giusto muoversi in direzione di una tendenziale unicità del personale docente. Credo, altresì, che sia giusto muoversi nella direzione di un ruolo docente che sia articolato in diversi gradi di docenza e che veda valorizzate le proprie competenze e le professionalità acquisite ed abbia - in buona sostanza - uno sviluppo di carriera. Ciò deve valere per i docenti della scuola dell'infanzia, della scuola di base e del secondo ciclo.
Per tutti costoro ipotizziamo una formazione di tipo universitario; una formazione di alto livello che li allinei alle professionalità più elevate del nostro paese; una formazione mirata all'accrescimento delle competenze specifiche nelle diverse discipline e all'acquisizione delle competenze professionali proprie della docenza (scienza della formazione, psicologia dell'età evolutiva e quant'altro). Per costoro ipotizziamo un percorso almeno quinquennale di formazione, che possa essere diversamente valorizzato usando gli strumenti offerti dalla riforma dell'università: mi riferisco all'ampia utilizzazione dei crediti formativi per consentire quella flessibilità, quella formazione in servizio e quell'autoformazione che possono fare della funzione docente non più un ruolo esecutivo, ma quell'altissima professionalità a cui vogliamo consegnare la scuola dell'autonomia. Colleghi, autonomia si combina con responsabilità e la prima responsabilità nella scuola dell'autonomia spetterà a coloro che vi opereranno.
Infine, vorrei sollevare un aspetto che mi sembra rilevante; per il resto, esprimo una sostanziale condivisione della relazione dell'onorevole Soave; mi sembra che in quella relazione tutti i punti siano stati trattati con competenza e con grande capacità; pertanto, rinvio a quelle scelte perché sono da noi condivise. L'aspetto che vorrei rilevare riguarda le risorse: per costruire il nuovo modello di scuola abbiamo bisogno di risorse per l'effettiva valorizzazione della figura docente; l'abbiamo già sostenuto nel corso del dibattito sul disegno di legge finanziaria, ma vogliamo ripeterlo oggi, auspicando che si concluda rapidamente il rinnovo del contratto degli insegnanti che costituisce un completamento importante del processo


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riformatore. Abbiamo, altresì, bisogno di risorse affinché sia avviato e rafforzato il programma di sviluppo della strumentazione didattica nelle scuole.
Signor ministro, ci auguriamo che dal 1o settembre 2001 possa partire - come previsto nel piano di attuazione - la nuova scuola di base; auspichiamo, altresì, che nell'anno successivo possa avviarsi il nuovo ciclo secondario della scuola. Teniamo conto, però, che si potrebbe intervenire sulla scuola secondaria sin da adesso, anticipando alcuni importanti elementi della riforma: ad esempio, rivedendo sin da ora l'orario di insegnamento frontale settimanale e favorendo la sperimentazione e la diffusione dei nuovi curricula. Ciò consentirebbe di accentuare l'aspetto processuale della riforma; ogni rinvio significherebbe introdurre un elemento di paralisi in una macchina che è già in movimento. La riforma è in cammino: crediamo in questa riforma e chiediamo al Governo, a questo punto, di attuarla (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).

PRESIDENTE. Constato l'assenza dell'onorevole Melograni, iscritto a parlare: s'intende che vi abbia rinunziato.
È iscritto a parlare l'onorevole Rodeghiero. Ne ha facoltà.

FLAVIO RODEGHIERO. Signor Presidente, il documento oggi al nostro esame, relativo al programma di attuazione del riordino dei cicli scolastici, è stato predisposto ai sensi dell'articolo 6 della legge n. 30 del 2000, il quale prevedeva che entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge il Governo avrebbe dovuto presentare al Parlamento un programma quinquennale di progressiva attuazione della riforma.
Già in sede di discussione di quella legge abbiamo evidenziato le contraddizioni della proposta di riforma. Oggi vogliamo innanzitutto sottolineare che anche in questo caso, come per la legge di riforma dell'articolo 5 della Costituzione - detta dal Governo legge sul federalismo -, ci scontriamo con il prevalere dell'ideologia sull'interesse della collettività, sul bene comune. Anche qui, come là, siamo di fronte ad una riforma dirigistica che parte dal centro, che non ha tenuto conto delle indicazioni dei soggetti coinvolti, che viene accelerata nei tempi di attuazione più per le esigenze di un Governo arrivato al capolinea che per i tempi necessari alla sua attuazione.
Ogni riforma va costruita, invece, attorno ai soggetti titolari dei diritti coinvolti e, nel caso della scuola, attorno ai soggetti titolari della libertà di apprendimento - gli alunni - e del diritto di educazione e di istruzione dei figli - i genitori -: in sintesi, la persona e la famiglia; ciò significa collocare al centro del progetto il ragazzo e il suo sviluppo evolutivo, la sua educazione ed istruzione per l'inserimento sociale e lavorativo, coinvolgendo la struttura primaria responsabile della sua crescita, ossia la famiglia.
Correlate, ma non primarie, sono le esigenze dei docenti e della struttura scolastica. Dobbiamo partire da qui per analizzare la capacità di questo documento di rispondere al bene comune, cui dovrebbe mirare. Partiamo dal primo capitolo, in cui si afferma la centralità delle persone che apprendono: ma questa non risulta, nei fatti, nient'altro che un'affermazione di principio. Gli alunni, infatti, non sembrano essere al centro del pensiero riformatore: la generazione dai cinque agli undici anni è diversa, in termini psicologici, da quella dei preadolescenti; il sistema dell'apprendimento si basa fondamentalmente sull'istruzione, non sulla formazione: alle elementari i bambini si formano, vengono educati ad un linguaggio condiviso e questo processo è diverso dall'apprendimento che avviene attraverso l'istruzione. I genitori, poi, sarebbero costretti a scegliere - stante quanto è stato proposto in termini temporali per l'applicazione della riforma - entro il 31 gennaio scuole di cui non possono conoscere né la struttura né il quadro orario né, tanto meno, i contenuti di insegnamento: non si può avviare la riforma con informazioni meramente giornalistiche.


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Nel secondo capitolo viene sottolineato il collegamento tra la legge di riordino dei cicli e le altre riforme realizzate nel corso della legislatura. Occorre evidenziare che il collegamento con la legge n. 9 del 1999 sull'innalzamento dell'obbligo scolastico mostra la contraddizione della nuova impostazione. Dobbiamo ricordare che l'elevamento dell'obbligo era stato fissato a sedici anni e solo in via transitoria a quindici, mentre la riforma dei cicli prende in considerazione in via definitiva quella che avrebbe dovuto essere una soluzione solo provvisoria. A questo proposito voglio ricordare un'osservazione che ci è stata fatta pervenire dalla Confartigianato, la quale ci ha segnalato un problema non indifferente emerso nel corso di questo primo anno di applicazione transitoria della legge n. 9 del 1999, che ha innalzato, appunto, l'obbligo scolastico a quindici anni. Molti giovani che nel 1999 hanno compiuto quindici anni e terminato l'ultimo anno del vecchio ciclo della scuola dell'obbligo, non avendo compreso la portata delle nuove disposizioni di legge non si sono iscritti all'anno aggiuntivo di scuola superiore.
Il risultato è che adesso questi giovani si trovano a non poter accedere al mondo del lavoro e, nello stesso tempo, a non poter scegliere tra nessuno dei tre canali attraverso i quali adempiere l'obbligo formativo fino a diciotto anni, previsto dall'articolo 68 della legge n. 144 del 1999; ciò, a meno che non frequentino quell'ultimo anno di scuola superiore, con il rischio di dover fare i conti con problemi di inserimento e di adattamento in una realtà che avevano già deciso di mettere da parte, perché lontana dalle proprie aspirazioni professionali e personali.
Il capitolo III del documento al nostro esame tratta della scuola dell'infanzia, della scuola di base e della scuola secondaria. I primi due anni del ciclo di base saranno le attuali elementari, mentre gli ultimi due anni le medie, ma per gli anni intermedi siamo in una situazione di limbo: forse la situazione migliore sarebbe lasciare alle singole scuole la scelta della scansione interna dei sette anni di scuola di base, puntando sul percorso formativo.
Per quanto concerne invece la scuola dell'infanzia, vogliamo sottolineare il fatto che il nostro gruppo, nel corso dell'iter di approvazione della legge di riordino dei cicli scolastici, si era fortemente battuto affinché fosse garantita la non obbligatorietà della stessa e l'inizio della scuola di base non prima dei sei anni. Nel programma di attuazione, invece, si tende a uniformare la scuola dell'infanzia, penalizzando la varietà dell'attuale sistema di scuole comunali e miste, come appare confermato dal fatto che si impone una quota nazionale delle attività da praticare pari al 70 per cento del monte ore. Tutto ciò sembra precludere alla realizzazione di una vera e propria statalizzazione di tale scuola, con inevitabili ripercussioni, soprattutto a scapito dei soggetti che ne fruiscono.
Con riferimento alla scuola di base, se l'intento era quello di garantirne l'unitarietà, in realtà è evidente l'esistenza di nette ripartizioni. I sette anni della scuola di base hanno determinato una sostanziale soppressione della scuola elementare con le sue specificità, mescolando alla rinfusa maestri e professori di scuola media nella più assoluta indifferenza per le esigenze degli alunni. Di fatto, la scuola elementare in senso proprio si ridurrebbe a due anni: nei tre anni successivi, infatti, professori di scuola media, professionalmente preparati per insegnare agli adolescenti, si troverebbero ad impartire saperi a bambini di 8-9 anni, senza averne né la competenza né la vocazione.
Con la nascita della scuola di base si rischia di realizzare una radicale secondarizzazione della scuola elementare, perché il bambino si troverà di fronte a specialisti di singole materie e non più ad educatori-maestri, mentre l'educazione dei bambini è e deve restare cosa diversa dall'istruzione dell'adolescente e del ragazzo. Inoltre, anche nella scuola di base appare eccessivo imporre una quota nazionale delle attività da praticare pari al 75 per cento del monte ore, considerato, tra l'altro, che la quota riservata alle


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istituzioni scolastiche per metà deve realizzarsi nell'ambito di materie opzionali indicate a livello nazionale. Si arriva dunque alla scuola secondaria, che si presenta particolarmente confusionaria anche per l'individuazione di indirizzi troppo generici. Il tempo della formazione specifica, in sostanza, viene limitato al triennio finale. Di conseguenza, gli istituti tecnici, ad esempio, difficilmente riusciranno a formare ragionieri, geometri e periti, vista anche la moltiplicazione delle competenze richieste.
Per quanto concerne invece il monte orario, l'attribuzione della quota riservata alla programmazione delle scuole deve comunque avvenire sulla base di una rosa di opzioni definita sempre a livello nazionale. Inoltre, la dislocazione territoriale, che prevede come soluzione ottimale la contemporanea presenza di più aree o più indirizzi nella stessa sede, appare alquanto difficile da realizzare.
Il capitolo IV, relativo al personale docente, evidenzia altre lacune e problemi: la formazione del personale, già caratterizzata dalla ristrettezza dei fondi, non è neppure presa in considerazione dalla relazione ministeriale a livello di investimento o di utilizzo dei risparmi. Ci chiediamo: come si pagherà la formazione necessaria di 70 mila persone? Inoltre, che tipo di formazione dare ai futuri insegnanti della scuola di base e della scuola superiore? Una vera riforma deve abbinarsi ad una valorizzazione della professione insegnante, costruendo un rapporto significativo tra ruolo docente e nuove responsabilità - come è stato detto, l'autonomia si abbina alla responsabilità -, formazione iniziale e in servizio, riconoscimento sociale e livelli retributivi.
Per quanto riguarda i problemi alle strutture edilizie, è da notare che non si capisce come si sia voluto, già sapendo di prevedere una riforma di questo tipo, il feroce taglio sul numero degli edifici e delle sedi scolastiche, atteso che saranno i piccoli comuni ad avere maggiori problemi e vi è il concreto rischio che gli enti locali, che già si sono assunti gli oneri relativi alle ristrutturazioni, si vedano gravati ulteriormente degli oneri relativi all'edilizia scolastica. Tra l'altro, solo il 57 per cento dei comuni possiedono già oggi una struttura tale da poter accogliere, nello stesso stabile, come previsto, i 7 anni di corso previsti dalla nuova scuola di base. Tutti gli altri si dovranno adeguare, e di certo ciò non sarà facile e soprattutto non potrà avvenire in breve tempo. D'altra parte, i problemi relativi all'edilizia della scuola di base sono particolarmente evidenti, non solo per quanto riguarda gli arredi, ma anche per il fatto che si inseriscono nella medesima struttura alunni di età troppo diversa, il cui stretto contatto potrebbe essere negativo soprattutto per i più piccoli.
Infine, per quanto riguarda i tempi e le modalità di attuazione della riforma, vogliamo ricordare che il regolamento attuativo dell'autonomia delle istituzioni scolastiche è stato perfezionato, nonostante le previsioni di pochi mesi, solo dopo tre anni e mezzo dall'approvazione della legge n. 59 del 1997, tempo dedicato alla formazione dei capi di istituto e di almeno una parte degli insegnanti e ad una sperimentazione sempre più diffusa. Peraltro si vuole anche disporre il nuovo sistema con precedenza rispetto ad una rivisitazione e aggiornamento dell'impianto e dei contenuti programmatici che sono il fondamento dell'attività educativa, metodologica e didattica nelle scuole; senza contare che c'è la necessità di avere anche testi adatti, i quali hanno bisogno di un tempo sufficiente per essere realizzati proprio secondo i non ancora definiti obiettivi e i curricoli dell'intera scuola di base e della riorganizzazione degli indirizzi della scuola secondaria. E vogliamo pure ricordare i problemi per le scuole non statali, soprattutto le scuole elementari non parificate, che in situazione di totale incertezza stanno affrontando le iscrizioni già iniziate per il prossimo anno scolastico. Non appare poi chiaro come saranno introdotti nei nuovi cicli gli alunni che attualmente frequentano la prima elementare e non è stata inoltre espressamente affrontata la questione relativa


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alla sorte degli studenti che risultino respinti nel corso dei vecchi curricoli ad esaurimento.
Altri aspetti problematici li sottolineeremo in sede di votazione del provvedimento o, meglio, degli indirizzi che siamo chiamati a dare sul provvedimento. Diciamo oggi soprattutto che la riforma della scuola elementare e media non può passare attraverso la contrapposizione tra maggioranza e minoranza e nemmeno attraverso la contrapposizione tra Governo e parti sociali né tanto meno la contrapposizione tra esecutivo e paese nel quale questo non ha più la maggioranza politica per approntare in modo ideologico le proprie riforme, visto che le elezioni sono vicine e i risultati delle recenti elezioni amministrative hanno dato un risultato assolutamente diverso alle politiche.
Su questo tema ci deve essere un ampio consenso secondo un metodo che esige tempi e modi diversi da quelli finora attuati dal ministro.
Dobbiamo discutere su proposte chiare e convincenti con le famiglie e il mondo della scuola; devono essere proposte normative chiare e concrete alla positiva attenzione dell'opinione pubblica attorno al ruolo della scuola e della formazione come risorsa decisiva del paese. Per questo chiediamo che venga sospesa l'attuazione dei cicli scolastici prevista da questo articolato per il 1o settembre 2001. Adottare oggi una deliberazione contenente indirizzi specificamente riferiti alle singole parti del programma significherebbe infatti riscriverlo completamente. È meglio allora cominciare quel dialogo con le componenti della comunità scolastica - studenti, famiglie, docenti, scuola statale e non statale - che è mancato completamente, se non sotto forma di mere informazioni, nell'approntare questa riforma.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare, pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.
Avverto che il relatore per la maggioranza e i relatori di minoranza hanno esaurito il tempo a loro disposizione.
Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire nel prosieguo del dibattito. Il seguito del dibattito è rinviato alla seduta di domani.
Sospendo brevemente la seduta.

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