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PAOLO BAMPO. Chiedo di parlare sull'ordine dei lavori.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
PAOLO BAMPO. Signor Presidente, dicevo precedentemente che nei giorni scorsi sono stato raggiunto da una telefonata di un ufficiale della Guardia di finanza, che mi annunciava la visita presso i miei uffici, a Roma, nell'ambito di un'indagine connessa al reato di diffamazione. Alla richiesta di spiegazioni, mi è stato risposto che si tratta di una conseguenza della mia denuncia su quella che i giornali hanno definito la «compravendita» - diciamolo tra virgolette - dei parlamentari. Ciò era stato già oggetto di un giudizio del giurì d'onore in Parlamento, che ha avuto modo di attestare la mia perfetta buona fede. Il paradosso, signor Presidente, è che oggi vengo chiamato contemporaneamente sia nella veste di persona informata dei fatti sia in quella di indagato per il reato collegato di diffamazione. La conseguenza, quindi, di aver svelato quell'osceno mercato è stata ricevere la visita della Guardia di finanza, accompagnata dall'invito a trovarmi un legale di fiducia che mi assista in quella circostanza. Oltretutto, questo fatto si presterebbe con estrema facilità ad essere interpretato come un avviso indiretto ad assumere comportamenti omertosi per il futuro. D'altronde, in un paese che concede uno stipendio a Brusca, ritenuto colpevole di una lunga serie di omicidi, non mi stupisce che chi denuncia un malcostume politico debba presentarsi accompagnato dall'avvocato. Forse hanno ragione quelli che non vedono, non sentono e non parlano.
PRESIDENTE. Onorevole Bampo, non sono in grado di esprimere un giudizio su quanto da lei esposto. La magistratura è un potere indipendente e, se vi sono state irregolarità procedurali, lei potrà farle
valere nella sede idonea. Prendo comunque atto della sua dichiarazione.
Ciò che mi amareggia maggiormente, signor Presidente, ciò che dovrebbe apparire sconcertante ad ogni collega che siede in quest'aula è il fatto che vi sia un magistrato che mi ha indagato e che ha ritenuto di avvisare un suo collega che conduce un'indagine parallela, ma, allo stesso tempo, non mi ritiene degno nemmeno di una telefonata per avvisarmi dei fatti. È paradossale: vengo chiamato come testimone in un'indagine e solo grazie a tale chiamata, in cui mi si avverte di presentarmi con il mio legale, perché le mie dichiarazioni dovrebbero far parte del pacchetto probatorio dell'altro processo, vengo a conoscenza - quindi in maniera indiretta - dell'accusa nei miei confronti.
Pertanto, colleghi, i casi sono due: o esiste un'arroganza del potere che considera semidei i magistrati e semplici numeri i cittadini, e pertanto non è necessario che essi vengano messi al corrente di quanto li riguarda personalmente, privandoli perciò dei diritti elementari e della dignità personale, oppure siamo al cospetto di una magistratura incapace di organizzarsi e pasticciona che omette o dimentica passaggi fondamentali. Queste due ipotesi, colleghi, rientrerebbero nell'ordine normale delle cose se si fosse verificata l'ipotesi in base alla quale il soggetto querelante nell'indagine a mio carico per diffamazione abbia mantenuto in essere l'accusa nei miei confronti (rischiando, peraltro, di prendere un'altra botta sui denti come quella ricevuta grazie al responso del giurì). Nel caso invece in cui tale denuncia sia stata ritirata, e quindi non esista più l'accusa nei miei confronti, si tratterebbe di un'ingiustificata azione della magistratura, tendente ad aggirare ostacoli istituzionali e mettere a disagio un parlamentare e l'istituzione di cui fa parte. È questo l'aspetto che offro alla vostra attenzione.
Signor Presidente, non sono imbarazzato: ho denunciato un malcostume e non ho mai negato la mia disponibilità ad un confronto anche con la magistratura, come ho fatto con il Parlamento nel caso del gran giurì. Semmai mi sento leso in qualità di cittadino prima ancora che di rappresentante della volontà popolare.