![]() |
![]() |
![]() |
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione nelle linee generali.
SERGIO SABATTINI, Relatore. Il provvedimento al nostro esame è di grande importanza, concernendo la riforma della legge n. 142 del 1990, ed è molto atteso dalle migliaia di nostri amministratori che fanno funzionare i comuni, le province e gli enti locali del nostro paese.
L'opinione del relatore è che, nonostante la permanenza di alcune incertezze - peraltro trasversali a tutto il Parlamento, quindi non attribuibili a questa o quella parte della maggioranza o dell'opposizione - si debba procedere decisamente nell'attribuzione di poteri, di risorse e di responsabilità per esercitarli secondo una logica del più ampio decentramento.
dare corpo ad un'idea, che già è presente nella realtà italiana. Per poter rispondere sempre meglio alle esigenze di una società in movimento, differenziata e con bisogni diversi, vi è la necessità di uno strumento flessibile, capace di razionalizzare le risorse, di ottimizzare il rapporto tra le risorse disponibili e gli obiettivi. Infatti, se i comuni non sono aziende, o meglio sono aziende che erogano particolari servizi all'utenza, questi servizi hanno dei costi e richiedono un'organizzazione, che deve essere sempre più rivolta a rispondere ad esigenze diverse. Peraltro, la dimensione delle esigenze talvolta può essere ottima dal punto di vista della razionalità delle spese e talvolta no e, quindi, produrre dispersione e sprechi.
non debba essere decisa dal legislatore nazionale; infatti, poiché gran parte dei comuni italiani, in molte zone del paese, predispone il proprio bilancio in modo indipendente dai trasferimenti dello Stato, per una percentuale che va dal 60 all'80 per cento degli stanziamenti - è questo il dato reale -, non capisco perché, almeno in quella parte del paese, qualcuno debba dettare norme relative al numero degli assessori. Il relatore pensa che la soluzione migliore sia lasciare tale decisione all'ente, in sede di approvazione del proprio statuto.
l'indennità del sindaco e naturalmente del presidente della provincia non può essere inferiore allo stipendio base del segretario comunale dell'ente. Ricordo che in questi anni ci siamo trovati di fronte a vere e proprie distorsioni, non accettabili sotto questo profilo.
cittadini, che ad essi devono rispondere come ciascuno di noi deve rispondere in campagna elettorale agli elettori del proprio collegio.
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il sottosegretario di Stato per l'interno.
ADRIANA VIGNERI, Sottosegretario di Stato per l'interno. Signor Presidente, desidero innanzitutto esprimere soddisfazione per il fatto che un disegno di legge presentato nell'autunno 1996 arriva finalmente all'esame di questo ramo del Parlamento per concludere un iter che, nel corso dei lavori parlamentari di questa legislatura, ha visto la frantumazione in tre parti del disegno originario.
provinciali, che è in ogni caso garantita da servizi, attrezzature e risorse conferiti all'ente comune dal consiglio comunale e all'ente provincia dal consiglio provinciale: essi decideranno quindi autonomamente l'utilizzazione di tali risorse. Fra queste ultime rientrano anche, in base alle previsioni del testo all'esame dell'Assemblea, autonome strutture dei consigli comunali e, di dimensioni maggiori, dei consigli provinciali. Significativa, sempre dal punto di vista del riconoscimento del ruolo dei consigli, è la previsione di una presidenza autonoma del consiglio, in luogo della presidenza da parte del sindaco o del presidente della provincia.
che essa ha alle spalle non solo le posizioni, talvolta conflittuali, delle istituzioni coinvolte, ma, soprattutto, il fallimento del capo sesto della legge n. 142. Tale legge prevedeva che le regioni procedessero alla delimitazione territoriale di ciascuna area metropolitana, ne individuassero le funzioni, riordinassero le circoscrizioni comunali interne all'area e, infine, proponessero al Governo la costituzione della città metropolitana. Esso prevedeva, inoltre, che il Governo, in mancanza della proposta regionale, provvedesse direttamente.
Gli elementi fondamentali sono dunque affidati ad un atto di autonomia che resterà di grande rilevanza, anche se destinato ad essere sottoposto al vaglio della legge statale che dovrà approvare la costituzione del nuovo ente.
PRESIDENTE. Il primo iscritto a parlare è l'onorevole Valducci. Ne ha facoltà.
MARIO VALDUCCI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il disegno di legge al nostro esame è nato nell'ambito di un progetto di legge più complesso, suddiviso in tre parti: una in materia di ordinamento degli enti locali, oggi al nostro esame una elettorale, che ci auguriamo venga approvata contestualmente a quella in discussione ed una relativa alla riforma dei servizi pubblici locali.
Conseguentemente, il disegno di legge al nostro esame non può non risentire di questo complesso ambito di riforme ordinarie e costituzionali; pertanto, la redazione del testo unico in materia di ordinamento degli enti locali - compito delegato al Governo dall'articolo 29 - sarà sicuramente di grande importanza e rilevanza.
Ritengo che questo disegno di legge continui il percorso intrapreso, ripeto, dalle leggi n. 142 e n. 81, che penso siano state tra le più apprezzate dai cittadini.
tra l'altro, che ai sindaci possono essere conferiti solo due mandati: pertanto non vorrei che ci trovassimo di fronte a persone che abbandonano uno status particolare legato alla loro carica e che, allo scadere dei due mandati, vadano ad incrementare la classe politica.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Stucchi. Ne ha facoltà.
GIACOMO STUCCHI. Ringrazio l'onorevole Sabattini per la relazione che ha svolto stamane e il rappresentante del Governo per ciò che ci ha detto, penso però che, per comprendere il contenuto vero di questo disegno di legge, sia necessario partire non solo dalle parole del collega Sabattini e da quanto ha detto il rappresentante del Governo, onorevole Vigneri, secondo la quale questa riforma sarebbe un po' la continuazione delle cosiddette leggi Bassanini e favorirebbe una maggiore responsabilizzazione degli enti locali.
un nuovo articolo che inizia con le parole: «Le comunità locali, ordinate in comuni e province, sono autonome (...)», ma in effetti sappiamo che esse non sono completamente autonome ma possono fare soltanto ciò che noi deleghiamo loro; il che vuol dire che facciamo un discorso - non vorrei utilizzare un termine troppo forte - probabilmente anche ipocrita. Diciamo: «siete autonomi» ma, nella sostanza, siamo ancora noi a dettare cosa debbano fare. Riconosciamo l'autonomia ma non la radice della vera autonomia, che è l'autonomia finanziaria. Solo questa è veramente essenziale, mentre gli altri tipi di autonomia interessano relativamente: il fatto che il consiglio comunale possa essere chiamato a stabilire le procedure per la decadenza di un consigliere può essere anche interessante, ma è più importante per un amministratore pubblico sapere che esiste l'autonomia finanziaria, piuttosto che accontentarsi dell'autonomia di funzionamento del consiglio comunale. Si tratta, a mio avviso, di questioni fondamentali che, per forza di cose, devono essere messe in risalto.
previsione di cui al punto 1, lettera a), dell'articolo 26-bis (esercizio associato delle funzioni) della legge n. 142. Si tratta di favorire l'integrazione tra i comuni, graduando la corresponsione dei benefici in relazione al livello di unificazione e soprattutto di prevedere (punto 2) «in ogni caso una maggiorazione dei contributi nelle ipotesi di fusione e di unione, rispetto alle altre forme di gestione sovraccomunale». Ciò che voglio dire è che lo Stato - in questo caso le regioni - dovrebbe tutelare allo stesso modo tutti gli enti locali, mentre si prendono gli amministratori locali quasi per i capelli dicendo loro «guardate che voi adesso fate fatica ad andare avanti, ma se vi fondete o fate l'unione con il comune vicino, noi non vi erogheremo soltanto il trasferimento tot per il comune A e il trasferimento tot per il comune B, ma di più». Vi è quindi una sorta di ricatto economico - definiamolo così - che in alcuni casi può essere positivo, ma che in altri potrebbe portare ad un'unione che non sarebbe sicuramente volontaria ma, forzata, perché si andrebbe in quella direzione per forza di cose, dovendosi reperire entrate finanziarie.
dispone, in un comune con meno di 15 mila abitanti, del 66 per cento dei consiglieri e, in un comune con più di 15 mila abitanti, del 60 per cento dei consiglieri; conseguentemente, con la norma in esame la maggioranza consiliare potrebbe approvare un regolamento di funzionamento a propria misura, il che, a parere nostro, non rappresenta il massimo della correttezza, soprattutto nei rapporti con le diverse forze di opposizione.
SERGIO SABATTINI, Relatore. L'emendamento lo ha presentato il collega Massa, perché io non potevo farlo. In ogni caso, poi si vedrà in sede di Comitato dei nove.
GIACOMO STUCCHI. Va bene.
Per quanto riguarda l'articolo 12 ci pare che esso sia un po' superato dai fatti, nel senso che la discussione in Commissione era coincisa con i primi fatti cruenti e travagliati del 1999 verificatisi a Milano; ed allora, si era deciso di trovare questa soluzione in base alla quale il sindaco partecipava alle riunioni previste dalla legge del 1 aprile 1981, n. 121, che riguardano il comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica. Si era deciso di seguire questa strada che ora risulta però essere superata. Infatti, nei giorni scorsi è successo di tutto: si è verificato ad esempio che taluni personaggi, trovati a rubare nelle abitazioni di singoli cittadini, siano stati presi a revolverate. I cittadini sono quindi passati all'autodifesa, perché si sentono abbandonati dallo Stato!
PRESIDENTE. Onorevole Stucchi, ha ancora un minuto.
GIACOMO STUCCHI. Signor Presidente, mi avvio alla conclusione: svolte queste considerazioni sullo stato attuale degli amministratori locali e sulle previsioni del progetto di legge in esame, riteniamo che il contenuto di quest'ultimo contenga sicuramente delle innovazioni migliorative. Tuttavia, a nostro avviso, esso deve essere perfezionato in alcune sue parti. In ogni modo, si danno maggiori possibilità agli amministratori locali, che vengono più garantiti per quanto riguarda l'aspetto economico e con riferimento alla questione delle aspettative: si tratta, in sostanza, di consentire agli amministratori di poter svolgere in modo sufficientemente sereno e tranquillo la propria funzione, sapendo di avere a disposizione il tempo necessario e di non dover sottrarre energie lavorative ad un'altra fonte di reddito, spesso quella primaria nel caso di persone impegnate nell'amministrazione locale che però non possano considerarsi professionisti della politica.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Garra. Ne ha facoltà.
GIACOMO GARRA. Signor Presidente, nell'intervenire a nome del gruppo di forza Italia, dico subito che mi soffermerò in particolare sul capo I del provvedimento, che attiene alla revisione dell'ordinamento delle autonomie locali. Le considerazioni che svolgerò sono sicuramente noiose ma spero in qualche misura utili alla migliore veste giuridico-formale della proposta al nostro esame. Non a caso, peraltro, la legislazione comunale e provinciale è stata sovente ritenuta l'archetipo del diritto pubblico. All'articolo 1, merita una sottolineatura il comma aggiunto dalla Commissione al testo approvato dal Senato: l'articolo 4 della legge n. 142, al comma 2, stabiliva le materie disciplinate dagli statuti dei singoli enti locali. Il comma 1 dell'articolo 1 amplia il novero delle predette materie statuendo che anche la previsione delle forme di garanzia e di partecipazione della minoranza costituisce oggetto disciplinato dagli statuti. Si badi bene che si parla di partecipazione della «minoranza» e non già di partecipazione «delle minoranze»; se si tratta di un lapsus è, a mio giudizio, un lapsus freudiano: alla locuzione adoperata è sottesa la visione bipolare della vita politica nella quale esistono una maggioranza legittimata ad amministrare ed una minoranza alla quale devono
essere garantite non solo le possibilità di controllo efficace sul ruolo svolto dalla maggioranza, ma, in taluni ambiti stabiliti dagli statuti, anche la partecipazione all'attività svolta dall'ente locale.
in vigore dello statuto avrà luogo non più nel trentesimo giorno dalla sua pubblicazione nel bollettino ufficiale della regione, bensì decorsi trenta giorni dalla sua affissione all'albo pretorio dell'ente.
culturale ed artistico nei soli casi nei quali non ne derivi danno alla conservazione dei beni medesimi.
popolare, ho comunque presentato un emendamento volto ad evitare che in sede interpretativa la locuzione «ciascun elettore» possa essere ampliata ed ho specificato che la facoltà di agire compete a ciascun elettore comunale a tutela dei diritti e degli interessi, la cui titolarità compete al comune. È un emendamento sul quale mi permetto di richiamare l'attenzione del relatore Sabattini.
interno del consiglio comunale che - secondo l'emendamento approvato dalla Commissione - va approvato a maggioranza assoluta.
l'articolo 15 del testo approvato dalla Commissione, dopo aver dettato la definizione di area metropolitana, attribuisce al Governo centrale poteri sostitutivi nei confronti delle regioni inadempienti. Merita di essere sottolineato un aspetto, che nel testo dell'articolo 17 della legge n. 142 novellato dal Senato non era stato affrontato. La Commissione ha aggiunto a tale articolo 17 un comma 3 che fa salve le città metropolitane e le aree metropolitane disciplinate da leggi delle regioni a statuto speciale, come è il caso della regione siciliana, che ha a suo tempo previsto l'istituzione delle aree metropolitane di Palermo, Catania e Messina. Lo stesso articolo 15 del testo in esame ha riscritto l'articolo 18 della legge n. 142 sulle cosiddette città metropolitane. Giova sottolineare che il comma 6 di tale articolo 18, novellato dal Senato, prevede che nel caso di città metropolitane non coincidenti con le attuali province si possa dar vita ad una nuova provincia comprendente i territori dei comuni interessati facenti parte del territorio provinciale e che verrebbero esclusi da quello della città metropolitana. Orbene, la Commissione affari costituzionali della Camera ha integrato all'unanimità il testo dello stesso comma approvato dal Senato nel senso di prevedere che le regioni a statuto speciale uniformino la loro legislazione ai dettami del predetto comma 6 dell'articolo 18.
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Nardini. Ne ha facoltà.
MARIA CELESTE NARDINI. Signor Presidente, le domande e le richieste rivolte dai cittadini e dalle comunità amministrate ai comuni ed all'intero sistema delle autonomie locali diventano sempre più pressanti, numerose e specifiche. La capacità di risposta, al di là della stessa buona o cattiva amministrazione, è sempre più deludente ed inadeguata. Ciò perché a quell'aumento di domanda fanno riscontro una situazione ed una condizione degli enti locali assai confuse relativamente ai compiti, alle funzioni ed alla disponibilità in risorse umane ed economiche degli stessi.
locali (naturalmente, nelle loro funzioni): un'operazione che conduce allo stravolgimento dello status quo a cominciare dal rapporto Stato-autonomie locali.
essi la «voglia di impegnarsi», affinché, insomma, ci siano certezze da parte di tutti su cosa si può fare, su cosa si deve fare, su cosa ci si può aspettare.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Nuccio Carrara. Ne ha facoltà.
NUCCIO CARRARA. Vorrei innanzitutto iniziare con alcune considerazioni di carattere generale, osservando che mentre il Senato ha fatto un buon lavoro eliminando un po' di materiale spurio dal provvedimento in esame, la Camera non ha fatto altrettanto, anzi ha eliminato del materiale molto utile contenuto nel provvedimento.
aggiunti a quelli già esistenti. Nel provvedimento al nostro esame altri se ne aggiungono quali, ad esempio, le comunità isolane, e assumono ancora più forza e concretezza organismi prima considerati minori che diventano più visibili rischiando di appesantire la macchina dell'ordinamento complessivo dell'amministrazione locale. Mi riferisco ai municipi, alle circoscrizioni e ad altre forme di decentramento per i comuni che hanno oltre 300 mila abitanti.
regolamenti interni, operazione questa forse encomiabile sotto il profilo del federalismo.
bisogna essere molto prudenti. Se da una parte vogliamo ampliare - per la verità non ritengo che ciò sia sbagliato in linea di principio - l'autonomia degli enti locali, dall'altra parte è giusto anche porre dei paletti nell'interesse del cittadino contribuente. Molto spesso poi dimentichiamo che gli enti locali non sono tutti uguali in ordine alla popolazione e soprattutto alle risorse, perché non tutti gli enti locali sono uguali in termini territoriali, economici e via dicendo; non possiamo quindi applicare la stessa filosofia, come è avvenuto fino ad oggi, per i comuni di piccole dimensioni e per quelli di grandi dimensioni. Nella realtà dell'amministrazione, infatti, esistono taluni comuni il cui bilancio deriva prevalentemente da trasferimenti statali o regionali; detto «in soldoni», quel bilancio viene costituito attraverso i soldi prodotti dai cittadini non residenti in quel comune e quindi - se la vogliamo dire tutta - sottratti ai contribuenti residenti in altri comuni. Nel passato la legge si era giustamente fatta carico di evitare distorsioni e aggravi di spesa, affidando però con troppa leggerezza tutto alla discrezionalità dell'amministratore. Non solo, ma essa aveva previsto pure che certe operazioni di ordine finanziario potessero essere effettuate solo se ed in quanto i comuni non erano strutturalmente deficitari o in condizioni di dissesto finanziario. Credo che questo sia un principio molto sano, perché i soldi si possono spendere - lo dico tra virgolette - magari con una certa «leggerezza» se la finanza comunale, provinciale o dell'ente locale è solida e robusta; se l'ente locale, invece, si dibatte in difficoltà finanziarie, ha il dovere di rispettare dei parametri.
federalismo non sarà pienamente realizzato, anzi esso si presterà a distorsioni in considerazione delle differenze - di cui parlavo poc'anzi - tra comuni piccoli e grandi e tra comuni poveri e comuni ricchi. In questa fase, se si vuole andare verso un federalismo serio, bisogna porre dei paletti alla spesa perché non possiamo imporre al cittadino non residente di pagare in via surrettizia l'assessore o l'aumento del gettone di presenza di un amministratore di un comune non suo. In termini elementari, accettando questa norma, noi andremmo contro il principio del federalismo poiché ognuno deve pagarsi i propri amministratori con i propri soldi e non con quelli degli altri cittadini.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Pistelli. Ne ha facoltà.
LAPO PISTELLI. Signor Presidente, colleghi, amico relatore, vorrei svolgere poche e brevi considerazioni di carattere complessivo, ritenendo che la discussione generale sia la sede nella quale, più che entrare nel dettaglio degli articoli (cosa che faremo poi nel corso dell'esame del provvedimento), si esprimono alcune considerazioni di carattere politico: a questo tipo di impianto logico mi atterrò.
Infatti, se oggi, nel 1999, andiamo a confrontare l'attuale situazione delle autonomie locali con quella dell'inizio di questo decennio, ci troviamo di fronte ad un cambiamento profondo, che ha investito innanzitutto il principio (sacrosanto, costituzionalmente parlando) di differenziazione tra comuni che erano stati considerati, fino all'avvento della legge n. 142, tutti identici, da Roma a Moncenisio, i quali hanno invece recuperato la pienezza della loro dimensione autonoma. Ci troviamo altresì di fronte ad un profondo cambiamento della ripartizione dei poteri tra organismo esecutivo tipico (sindaco e giunta) e consiglio comunale, ad un mutamento profondo nella legittimazione elettorale del primo cittadino, con l'introduzione dell'elezione diretta, ed infine al capovolgimento delle proporzioni delle cifre che esprimono la capacità di finanza propria e finanza derivata che oggi compongono i bilanci dei comuni; più o meno potremmo dire che siamo al 70 e 30 per cento o al 65 e 35 per cento, avendo rovesciato completamente il rapporto, evidentemente nella direzione della capacità finanziaria propria.
quello che ha viaggiato più lentamente, anche perché la revisione della parte ordinamentale è quella sulla quale è lecito nutrire il paradigma più differenziato di opinioni.
un motivo o per l'altro, la carenza di risorse, che veniva lamentata come motivo principale di denuncia di una scarsa attenzione da parte del Governo, è stata sanata. Aggiungo che l'elezione diretta dei sindaci di quelle aree ha conferito loro un potere di dialogo nei confronti del Governo assolutamente superiore - e, dunque, imparagonabile - rispetto alla carenza di dialogo che aveva generato la domanda di aree metropolitane.
attività costituisce, a mio parere, la ricucitura di una ferita politica che avevamo - noi, con i nostri comportamenti, facendoci carico collettivamente della vicenda di tangentopoli - generato nell'opinione pubblica del paese.
piacimento come una diligenza: perderebbe la coerenza di un testo faticosamente elaborato e, soprattutto, si perderebbe in termini di rapidità dell'esame dell'Assemblea.
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Moroni. Ne ha facoltà.
ROSANNA MORONI. Signor Presidente, anche se il testo al nostro esame si presterebbe a sviluppare valutazioni interessanti di carattere generale sull'importanza delle autonomie locali e sulla loro funzione in termini di democrazia, mi limiterò ad alcune sintetiche osservazioni sul merito, riservandomi di approfondire in seguito alcuni aspetti.
privatizzazione e mercantilizzazione dei servizi e, conseguentemente, dei diritti.
PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.
Informo che il presidente del gruppo parlamentare forza Italia ne ha chiesto l'ampliamento senza limitazione nelle iscrizioni a parlare, ai sensi del comma 2 dell'articolo 38 del regolamento.
Avverto altresì che la I Commissione (Affari costituzionali) si intende autorizzata a riferire oralmente.
Il relatore, onorevole Sabattini, ha facoltà di svolgere la sua relazione.
Sono relatore di questo provvedimento anche se debbo ricordare che, all'inizio, il relatore era il collega Paolo Corsini, poi cessato dall'incarico perché, dopo essersi impegnato nello scorso ottobre in una campagna elettorale, è stato eletto sindaco di Brescia. Dunque, io ho ereditato una parte del lavoro svolto da Paolo Corsini, in qualità di relatore.
Come stavo dicendo, si tratta di un provvedimento di grande importanza, molto atteso per ragioni intrinseche e oggettive perché interviene con le norme comprese nei suoi tre capi sull'ordinamento delle autonomie locali, sull'assetto delle aree e città metropolitane, ed infine sulla disciplina dello status degli amministratori.
È un provvedimento atteso anche perché rappresenta un ulteriore tassello, direi assai importante, nel mosaico della riforma dello Stato e della pubblica amministrazione, purtroppo a Costituzione invariata, che il Parlamento ha messo in atto negli ultimi tre anni, in gran parte su sollecitazione del Governo.
In altri termini questo provvedimento rientra nel quadro politico ed istituzionale definito dalle cosiddette leggi Bassanini e da tutti gli interventi finora messi in atto dalle Camere su questa materia.
Negli ultimi tre anni le Camere hanno compiuto un notevole lavoro riformatore su questi argomenti; forse perché alla base c'era un confronto assai approfondito ed ampio, da cui emergevano anche posizioni ed opinioni diverse, il dibattito, ancorché troppo lungo sia al Senato sia alla Camera, ha vissuto momenti costruttivi, collaborativi e di confronto, da parte di tutti i gruppi parlamentari. In ogni caso ciò è quanto si è verificato in seno alla Commissione affari costituzionali.
Ritengo che ciò possa far ben sperare per un positivo risultato da parte dell'Assemblea su questo argomento. Naturalmente vi sono e vi saranno opinioni diverse su questo o su quell'aspetto del provvedimento, sul quale peraltro, lo stesso relatore nutre ancora alcune perplessità, ma complessivamente la materia di cui qui ci stiamo occupando è stata portata avanti con un lavoro comune e concorde da parte dei diversi gruppi parlamentari.
Vi è anzitutto uno scopo comune, ossia quello di approvare il provvedimento in oggetto in tempi molto brevi al fine di trasmetterlo rapidamente al Senato per la terza lettura. Questo ci consentirà di affrontare, altrettanto rapidamente, l'esame qui alla Camera del disegno di legge n. 5828, approvato dal Senato il 17 marzo scorso e riguardante un'altra parte della riforma degli enti locali: le disposizioni in materia di elezione degli enti locali e di durata del mandato amministrativo.
Tra i diversi gruppi parlamentari era stato raggiunto un accordo su questo punto per poter cadenzare in una qualche misura i tempi, fare un timing del lavoro affinché prima della scadenza delle prossime elezioni amministrative diventino leggi dello Stato le nuove norme relative all'autonomia degli enti locali, alla durata del mandato amministrativo, alla stabilità delle maggioranze scelte dagli elettori e ad un nuovo status degli amministratori locali.
Il testo, comunque, al di là di queste incertezze, ha raggiunto in Commissione un buon equilibrio. Credo che - a parte alcune correzioni ed emendamenti sui quali abbiamo già convenuto nel corso dei lavori in Commissione e che discuteremo nuovamente questa sera in sede di Comitato dei nove - il testo possa essere considerato un'ottima base per svolgere un buon lavoro legislativo.
Come detto, il provvedimento si articola in tre capi e indicherò, per ognuno di essi, alcuni princìpi che considero fondamentali.
Il primo capo riguarda la revisione dell'ordinamento delle autonomie locali. In esso si opera una scelta volta ad implementare in modo sensibile il principio di autonomia statutaria e regolamentare degli enti locali, nonché il principio di responsabilità degli amministratori nei confronti dei cittadini. Si pensi, da un lato, all'ulteriore trasferimento di funzioni e poteri agli statuti e ai regolamenti e, dall'altro, alla possibilità di accesso alle informazioni e ai poteri di controllo da parte dei cittadini. A questo proposito si fa un passo in avanti molto significativo.
Nel primo capo sono inoltre indicati i criteri operativi ed attuativi del principio di sussidiarietà che sarà oggetto di discussione tra i diversi gruppi e che dovrà essere sviluppato dalla dinamica parlamentare. Sono altresì affrontati due punti, sostanzialmente riducibili ad uno: le unioni di comuni, argomento che ha riflessi sull'attuale stato delle comunità montane. Il relatore considera questo punto trattato negli articoli 6 e 7 tra i più importanti di tutto il provvedimento. Il legislatore sceglie gli enti locali come soggetti fondanti di tutta l'articolazione amministrativa e come soggetti portatori di funzioni, ruoli e competenze che possono essere sì trasferite ma che lì sono incardinate e riconoscibili. Vi è una sostanziale modifica della legge n. 142 del 1990 nella quale si pensava che le unioni intercomunali fossero la condizione per procedere ad una fusione dei comuni, tanto è vero che si sosteneva che si poteva procedere ad unioni intercomunali, purché entro un decennio si desse vita alla fusione dei comuni.
Questo spirito, che era positivo nella testa del vecchio legislatore - uso l'espressione «vecchio», ma in realtà mi riferisco solo a dieci anni fa - è stato però contraddetto dalla realtà: permangono, infatti, tendenze municipalistiche che non sono disponibili ad essere superate ed è difficile pensare in termini di ingegneria istituzionale, eliminando realtà culturali, sociali ed economiche relative ad interessi difficilmente cancellabili con un tratto di legge o con un tratto di penna.
Oggi operiamo una scelta più ragionevole o più corrispondente al dato della realtà: sosteniamo che si deve incentivare l'unione dei comuni per gestire unitariamente i servizi e svolgere le funzioni, ma non poniamo l'obbligo della fusione. Pensiamo che essa debba costituire un processo cui si giunge per consapevolezza reciproca da parte di diversi soggetti istituzionali, nell'esigenza di rispondere sempre meglio alle richieste di quei particolari utenti che sono i cittadini. Cosa vuol dire unione? Unione per gestire insieme servizi amministrativi? Per chi? Per la società, per i cittadini, per tutti. Unione per gestire insieme piani regolatori, la polizia municipale, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, tutta una serie di funzioni che sono sempre state di grande importanza ma tanto più lo sono oggi.
Nell'articolo 6, dunque, si prevede la possibilità per i comuni di associarsi e di dotare questa unione di uno statuto. In quella disposizione si stabilisce inoltre che l'unione deve avere organi rappresentativi il cui presidente deve essere uno dei sindaci dei comuni che danno vita all'unione e perché, in sostanza, si vuole
Il principio che attribuisce ai singoli comuni la possibilità di dar vita ad un ente locale, che ne sia l'unione, che sia dotato di autonomia statutaria e che possa meglio realizzare ed attuare servizi, ha effetti anche - e qui vengo all'articolo 7 - sull'attuale disposizione relativa alle comunità montane.
Come tutti sanno, le comunità montane sono enti di secondo grado (uso un'espressione semplificata) che svolgono funzioni nelle zone montane riguardanti l'agricoltura, il territorio, l'assetto idrogeologico, il sostegno e lo sviluppo dell'economia, particolarmente dopo la legge n. 97, che riguardava proprio lo sviluppo della montagna.
La tesi che proponiamo con il provvedimento è che le comunità montane diventino unioni montane - definizione questa non solo nominativa -, che abbiano il compito di svolgere le funzioni che già esercitano - quindi senza toccare nulla delle prerogative finanziarie ed istituzionali trasferite dalla legge alle comunità montane attuali - sulla base, però, del conferimento da parte dei comuni che sono, come ho detto prima, i soggetti fondamentali dell'assetto istituzionale sul piano territoriale.
In base all'articolo 7, quindi, nel momento in cui si desse vita ad un'unione di comuni che coincide con una comunità montana, quest'ultima come tale scomparirebbe.
Questa materia ha suscitato qualche discussione, soprattutto tra chi vive nelle realtà montane e tra gli amministratori di quelle realtà. Si tratta peraltro di una materia che noi pensiamo di aver affrontato bene in questa direzione, tenendo fermo, in sostanza, un principio, ossia che, se si vuole decidere quale sia il punto di partenza, bisogna essere chiari. Ebbene, il punto di partenza di tutto l'assetto istituzionale, sul piano dei territori, è il comune e quindi non vi possono essere enti, diciamo così, di secondo grado, che non siano eletti direttamente e che siano portatori di funzioni proprie, non derivate dall'ente che, invece, è fondante, ossia il comune.
Questo principio contiene anche elementi di semplificazione. Nel nostro paese - mi sia consentito affermarlo - vi è una inflazione legislativa alla quale corrisponde un'inflazione di personale politico-amministrativo; tale processo, che non deve essere interpretato in modo punitivo nei confronti di alcuno, ha bisogno di correzioni razionali, di buonsenso, senza meccanismi autoritativi decisionistici. Crediamo di essere andati in tale direzione; spetterà poi all'Assemblea giudicare se la soluzione scelta sia giusta, se dovrà essere corretta o attenuata. È questo, ad ogni modo, il dato più significativo.
Un altro punto del primo capo - passerò poi agli altri due per poi concludere rapidamente -, riguardante la revisione dell'ordinamento delle autonomie locali, che ha suscitato discussioni, concerne l'attribuzione agli statuti degli enti del compito di determinare il numero dei componenti la giunta; il provvedimento prevede, poi, che comunque tale numero non può essere superiore ad un terzo di quello dei componenti il consiglio comunale.
Con tale disposizione abbiamo raggiunto un punto di equilibrio tra chi sostiene che tale numero sia troppo alto, chi ritiene che esso sia troppo basso e chi, come il relatore, pensa che tale questione
Come dicevo, abbiamo raggiunto un punto di equilibrio dettando una norma che credo saggia e quindi da mantenere.
Il secondo capo del provvedimento riguarda le aree e le città metropolitane. Nel testo vengono confermate le aree e le città metropolitane già definite dalla legge n. 142 del 1990. Che novità introduciamo con il provvedimento in esame su questo tema, piuttosto complicato, considerate le difficoltà di attuazione della legge n. 142? Ricordo comunque che alcune regioni (ad esempio, l'Emilia Romagna e - credo - la stessa Toscana) hanno approvato la legge prevista. Si tende ad accentuare il principio di autodeterminazione del comune capoluogo di provincia e dei comuni interessati a dar vita alla città metropolitana; tale città verrà istituita per legge, ma i soggetti coinvolti saranno ovviamente i comuni capoluogo di provincia, la provincia stessa e i comuni interessati.
Considerata la necessità di una legge istitutiva, vengono poi previsti un termine ed una funzione sovraordinata del Governo in caso di ritardo nell'approvazione, da parte della regione, della legge attuativa, in modo da consentire ai comuni, agli enti locali e alle province che vogliono l'istituzione della città metropolitana, e che rientrano nelle previsioni della legge n. 142, di poterlo fare. È inutile insistere sul fatto che le città metropolitane, così come in piccolo le unioni di comuni, assumono funzioni utili a governare meglio territori che presentano grandi problemi legati alla loro complessità.
Infine, il terzo capo riguarda lo status degli amministratori. Si tratta di un oggetto che può esser visto con un certo sospetto; credo, però, che il Parlamento e l'opinione pubblica sbaglierebbero a farlo. Desidero ricordare, al riguardo, un solo dato: il sindaco di un comune fino a tremila abitanti riceve una indennità di 1 milione e 171 mila lire lorde per dodici mensilità. Questo è il dato più recente di cui disponiamo. Il che significa che quel sindaco con quella indennità ha la responsabilità di gestire patrimoni dai sei agli otto miliardi, nel caso in cui si tratti di un comune di tremila abitanti; è naturale, poi, che più aumentano gli abitanti e più aumentano le risorse e i bilanci.
Poiché queste non sono condizioni dignitose, abbiamo lavorato sulla seguente ipotesi: che, fatte salve le situazioni di bilanci in dissesto, per qualsiasi comune che non abbia un bilancio in dissesto si fissa un nuovo parametro per l'erogazione delle indennità. Tutto ciò viene realizzato con una delega al Governo, individuando alcuni criteri fondamentali, quali le fasce e il numero degli abitanti, come avviene oggi anche se cambiando la situazione vigente.
Come è noto, nel caso di specie interveniamo soprattutto sulla legge n. 816 del 1985, relativa allo status degli amministratori; ricordo che la legge precedente prevedeva, oltre al requisito del numero di diecimila abitanti, che un sindaco potesse chiedere di essere messo in aspettativa e di godere del raddoppio dell'indennità.
Oggi, l'indennità viene modificata, nel senso che sarà unica per tutti i lavoratori dipendenti ed autonomi e verrà dimezzata se chi ha il diritto di chiedere di essere messo in aspettativa non lo eserciterà. Pensiamo che questa sia una misura più equa poiché garantisce a chiunque di svolgere, con pari dignità, il lavoro amministrativo.
Con questa delega si introduce inoltre il principio - peraltro, ve ne sono molti altri, ma io sottolineerò solo quelli più importanti - in base al quale nei comuni della fascia superiore ai diecimila abitanti
Nella fascia inferiore, cioè tra zero e diecimila abitanti, la determinazione dovrà essere comunque stabilita in riferimento allo stipendio fondamentale del segretario comunale.
Viene poi introdotta una indennità di uscita dall'esperienza amministrativa. Ricordo che ciò ha a che fare con dei fatti concreti: quando ciascun cittadino viene eletto ad una carica amministrativa, se gode dell'aspettativa, ad esempio, perde gli scatti automatici e contrattuali di avanzamento professionale; perde quindi pure degli scatti pensionistici per il periodo del suo mandato. Vi sono, per esempio, dei lavoratori autonomi che svolgono lavori professionali i quali non sono incentivati a svolgere funzioni amministrative, perché è più ciò che perdono che quello che guadagnano dal punto di vista della redditività della loro vita lavorativa. Abbiamo tentato quindi di affrontare anche tale questione. Dicevo che vi è un'indennità di buona uscita, che rappresenta una sorta di trattamento di fine rapporto (mi scuso per la «volgarità» dell'espressione, ma di questo si tratta), che viene conteggiata come si fa attualmente con il TFR, cioè attraverso la moltiplicazione di un'indennità mensile per il numero di anni nei quali si è svolta la funzione amministrativa stessa. Tutto ciò sarà attuato per i lavoratori autonomi, riguardo ai quali, anche per quanto riguarda il contributo pensionistico, si procederà con una valutazione forfettaria, di cui alla delega contenuta nel comma 9 dell'articolo 22, da conferire da parte dell'amministrazione. Naturalmente, vengono anche rivisti i criteri per i gettoni per le presenze ai consigli e alle commissioni. In sostanza, il quadro complessivo di questa parte garantisce dignità - di ciò si parla - mantenendo una indennità e non prevedendo uno stipendio, poiché la funzione amministrativa non è un lavoro ma è una funzione che si svolge su delega dei cittadini - perché si è eletti - non per sempre e in modo che sia garantito l'esercizio della democrazia, così che non sia possibile che solo ai più abbienti o a chi può fare a meno di lavorare sia consentito di svolgere funzioni amministrative.
In questo contesto il relatore ritiene che le soluzioni previste siano effettivamente migliori di quelle del passato. Il tutto non è a carico del bilancio dello Stato - voglio chiarirlo perché il punto è stato oggetto di discussione nella Commissione bilancio che ha dovuto esprimere i propri pareri -, ma è a carico dei bilanci dei comuni con l'unico vincolo del bilancio non in dissesto.
A questo proposito voglio ricordare che al Parlamento competono giustamente tutte le funzioni di verifica del controllo e della coerenza del bilancio, ma dobbiamo tutti attenerci ad un principio. È vero che - come è avvenuto in occasione delle recenti finanziarie - si parla di bilancio allargato dello Stato e quindi ci si riferisce a tutto il complesso degli organismi che danno vita alla pubblica amministrazione e all'assetto dello Stato; è anche vero che, fissati i trasferimenti, in modo che non aumentino nell'ambito delle proprie prerogative, l'autonomia degli enti deve essere salvaguardata.
Vi è una questione di coerenza rispetto al patto per sostenere la crescita e lo sviluppo, introdotto da passate finanziarie, ma, nell'ambito di questo patto e delle risorse già definite, è evidente che in un comune che non abbia il bilancio in dissesto compete agli amministratori decidere come vengono attuate le spese. Non vi può essere - ad avviso del relatore - un intervento sovraordinato, ad esempio del Parlamento, che detti come si devono spendere quelle risorse perché, altrimenti, vi sarebbe una democrazia a struttura gerarchica e a diverso grado di responsabilità. Credo che il Parlamento sbaglierebbe se pensasse di essere il babbo o la mamma di amministratori e di sindaci che sono stati eletti direttamente dai
In conclusione, signor Presidente, mi sono soffermato sul complesso del provvedimento e sulle questioni di maggiore rilevanza. Io ritengo che il lungo lavoro (poiché, purtroppo, i lavori del Parlamento sono faticosi e gli appuntamenti sono molteplici) sia stato comune e sia stato svolto abbastanza positivamente. Mi auguro che riusciremo a risolvere i nodi che possono essere ancora aperti e che potremo mantenere l'impegno di offrire alla Camera, al Senato ma, in primo luogo, ai cittadini italiani e, poi, agli amministratori che essi si sono scelti un nuovo assetto, prima delle elezioni amministrative, che possa funzionare a regime poiché questo sarebbe un fatto molto importante (Applausi dei deputati del gruppo dei democratici di sinistra-l'Ulivo).
Ricordo, infatti, che stiamo affrontando la materia degli enti locali in tre distinti disegni di legge: quello oggi in esame, che ne costituisce la parte generale; quello sulle norme di carattere elettorale, che prevede una revisione della legge n. 81 del 1993, attualmente all'esame della Commissione affari costituzionali della Camera; quello, infine, in materia di servizi pubblici locali, ancora all'esame del Senato, sul quale il Governo presenterà fra breve un emendamento complessivo. Mi auguro quindi non solo un'approvazione rapida del testo in esame, ma anche un'approvazione pressoché contemporanea della parte relativa alle norme di carattere elettorale, che potrebbe giungere, io credo, all'esame di questa Assemblea già nella prossima settimana, in modo che i due provvedimenti si possano esaminare, in sostanza, contestualmente.
Per quanto riguarda il provvedimento in esame, esso si divide sostanzialmente in tre parti: la prima relativa alla revisione dell'ordinamento delle autonomie locali, che comprende gli articoli da 1 a 14; la seconda relativa alle aree metropolitane; la terza relativa alla disciplina dello status degli amministratori. Vi sono infine alcune altre norme, cui mi riferirò poi brevemente, tra le quali è da segnalare la delega al Governo per la redazione di un testo unico.
Svolgerò ora alcune considerazioni sulla prima parte, cioè sulla revisione dell'ordinamento delle autonomie locali, che ritengo si possa sintetizzare in poche linee direttrici. La prima mira a dare maggiore autonomia ai comuni e alle province, per esempio riconoscendo maggiore libertà di previsione all'interno delle disponibilità di bilancio e disciplinando i rapporti tra le fonti su comuni e province che devono stabilire le norme fondamentali e le fonti di autonomia (statuti e regolamenti). Fra l'altro, l'entrata in vigore degli statuti comunali non è questione secondaria: essa è subordinata non più alla pubblicazione, che naturalmente rimane come notizia, nel bollettino ufficiale della regione, ma alla pubblicazione nell'albo stesso del comune e della provincia.
Rientra sempre nell'applicazione del principio di autonomia la previsione che gli statuti trattino anche il tema, molto importante ma sul quale si è deciso di non intervenire con legge dello Stato, delle forme di garanzia e di partecipazione delle minoranze. Espressione di un più definito contenuto delle autonomie è anche la previsione con valore di principio dell'autonomia impositiva accanto all'autonomia finanziaria. Un aspetto particolare ma significativo è la nuova rilevanza data all'autonomia dei consigli comunali e
Detto questo sul riconoscimento dell'autonomia, resta la definizione con legge nazionale del sistema elettorale, della forma di governo, delle funzioni fondamentali ed anche del contenuto dell'autonomia impositiva e finanziaria. In questo senso comuni e province, e in futuro città metropolitane, restano modelli definiti dalla Costituzione e dalla legge. Per contro, il secondo principio a cui la prima parte del testo in esame si ispira è quello di non precostituire modelli definiti per tutte le altre forme di derivazione dai comuni e dalle province, ad esempio per le unioni dei comuni o per i municipi. Le unioni dei comuni, infatti, non sono affatto modelli precostituiti dal legislatore nazionale, ma forme associative affidate interamente, sia per il sistema elettorale, sia per l'organizzazione interna, nonché per le funzioni, all'autonoma decisione dei comuni che si associano. Ugualmente, per quanto riguarda i municipi, che sono forma subcomunale, si rimette interamente alla decisione statutaria la definizione dell'organizzazione interna da tutti i punti di vista, diversamente da quanto stabilito oggi dalla legge n. 142.
Questi sono i due principi fondamentali della filosofia - per usare un termine importante - contenuta nella prima parte del provvedimento, che ho ritenuto opportuno evidenziare.
Per quanto riguarda l'unione dei comuni, non aggiungo nulla alle considerazioni svolte dal relatore; mi pare evidente che il testo in esame punti molto sull'incentivazione della costituzione di unioni di comuni, cioè sulla creazione di strutture associative, senza abbandonare l'ipotesi che i comuni decidano liberamente di fondersi quando ne ravvisino l'utilità. Tuttavia, si è scelto di incentivare particolarmente l'esercizio associato delle funzioni, anche per rispondere alle esigenze che la stessa legge n. 59 ed il decreto legislativo n. 112 hanno posto, cioè esigenze di funzionalità, di capacità di assolvere alle nuove funzioni che attualmente vengono attribuite ai comuni e ancor più lo saranno in futuro.
Da questo punto di vista, il Governo si assume il compito di dare attuazione ad una delega specifica, al fine di predisporre con norme più dettagliate - che naturalmente sono sottoposte ai pareri della Conferenza Stato-città ed autonomie locali o della Conferenza unificata, oltre a quelli delle Commissioni competenti - alcuni incentivi di carattere finanziario, che dovranno dare effettivo impulso alla realizzazione delle unioni.
La scelta di apparentare le comunità montane alle unioni di comuni, che il Governo condivide, va nella direzione di incardinare in modo più netto le comunità montane nell'ordinamento degli enti locali rispetto all'ordinamento regionale. Tale soluzione trae origine dal fatto che le comunità montane che hanno dato migliore prova di sé, e che sono state più utili, sono proprio quelle che hanno ricevuto più deleghe dai comuni che vi partecipano e che, quindi, hanno effettivamente già svolto una funzione di associazione degli enti locali, oltre alle funzioni statali e regionali che sono state loro attribuite. Nulla impedisce, tuttavia, che, nella logica del decreto legislativo n. 112, le suddette funzioni e l'uso dei fondi comunitari vengano affidati precisamente a strutture associative di enti locali. Questa soluzione comporta anche una benefica semplificazione del sistema degli enti locali all'interno della regione. La seconda parte del testo concerne le aree e le città metropolitane ed è stata, in un certo senso, la più sofferta, perché è evidente
Nessuna città metropolitana è stata costituita e pochissime regioni hanno avviato quella procedura. Le cause sono molteplici e differenziate da regione a regione: tra di esse, certamente, vi è stata la pretesa di dare una soluzione uniforme a situazioni profondamente diverse tra loro e di fissare tempi e scadenze uguali per ogni parte d'Italia, sia per le regioni, sia per il Governo, nel presupposto che l'intero processo si concludesse entro 24 mesi dall'entrata in vigore della legge.
Va, inoltre, sottolineato che già nel 1993 il capo sesto della legge citata è stato svuotato della sua originaria logica istituzionale dalla legge n. 436, la quale ha sostituito l'obbligo regionale di procedere alla delimitazione dell'area metropolitana con una semplice facoltà e, conseguentemente, ha soppresso l'intervento sostitutivo del Governo. Ci si era così assicurati - con una cautela, per la verità, superflua - che la procedura non potesse decollare senza la volontà positiva della regione: la logica originaria veniva insomma svuotata, ma non sostituita con un'altra.
Il testo che viene ora sottoposto alla valutazione dell'Assemblea, molto simile a quello approvato dal Senato, è frutto dell'esperienza maturata e mira, appunto, a sostituire la logica originaria, che ha avuto la breve vita di due anni, con un'altra, che sinteticamente potremmo definire della differenziazione delle soluzioni e del necessario consenso di almeno due soggetti, cioè gli enti locali interessati e la regione: senza il consenso degli enti locali nulla può procedere; senza la proposta della regione non può darsi la legge istitutiva della città metropolitana.
Si dà, inoltre, per acquisito che ciascuna città metropolitana possa avere un ordinamento differenziato - così come, tra l'altro, prevedeva la proposta di riforma della Costituzione approvata dalla Commissione bicamerale - e che il processo di unificazione possa fermarsi allo stadio dell'area metropolitana oppure giungere fino a quello della città metropolitana, in base ad una decisione autonoma degli enti locali interessati.
Resta, invece, secondo il disegno originario, l'equivalenza istituzionale della città metropolitana con la provincia, con la conseguenza che dove vi sarà città metropolitana non vi sarà anche la provincia.
In questo disegno resta necessariamente in ombra il ruolo del Governo, che non può essere delegato all'istituzione della singola città metropolitana per l'incertezza del dies a quo di una eventuale delega, dies che sarebbe incertus an e incertus quando. Il Governo svolgerà un ruolo sostitutivo dell'inerzia regionale, ai fini della delimitazione dell'area metropolitana, soltanto nel caso in cui vi sia la proposta degli enti locali interessati e la regione non vi dia seguito, mentre, essendo la città metropolitana istituibile soltanto con legge statale, a norma dell'articolo 133 della Costituzione, ogni altro tema, a cominciare da quello delle funzioni e dei relativi trasferimenti regionali, dovrà essere necessariamente risolto in quella sede.
Naturalmente, se, come ci auguriamo, il testo di riforma costituzionale presentato dal Governo avrà un seguito, la città metropolitana verrà istituita con legge regionale e non più statale.
Fermo restando che l'area della città metropolitana costituisce il territorio di una nuova provincia, gli ulteriori elementi - quali la forma di governo, il sistema elettorale, l'organizzazione, l'articolazione interna e le funzioni - sono rimessi ad uno statuto adottato dall'assemblea dei rappresentanti degli enti locali interessati.
Sinteticamente può dirsi che, stante la rilevanza della formazione in ambito regionale della città metropolitana che incide sull'assetto di comuni e province e, in misura minore, anche della regione, si è ritenuto di consentirne la formazione sulla base di una consonanza di interessi che prenda le mosse necessariamente dalla proposta degli enti locali interessati. Si intende così dare la possibilità di riprendere il percorso costitutivo delle aree città metropolitane ancor prima della riforma costituzionale in senso federale, di cui si sottolinea anche in questa occasione l'urgenza.
Va peraltro aggiunto che il testo di legge che l'Assemblea sta per esaminare consente di affrontare, sia pure in misura minore, i problemi di gestione delle funzioni per aree fortemente integrate o interconnesse tra loro mediante lo strumento dell'unione dei comuni. Naturalmente l'unione incontra il limite dell'impossibilità di incidere sulle competenze provinciali (e questo è un limite serio), ma per il resto, come dicevo prima, all'unione è riconosciuta ampia autonomia e quindi non si può escludere che vi siano situazioni in cui il ricorso all'unione possa consentire di risolvere il problema di governo di determinate aree.
Non mi soffermo, signor Presidente, sulla parte che riguarda la disciplina dello status degli amministratori sia per la sua complessità sia per il suo carattere sia perché il relatore l'ha già ampiamente illustrata. Come i colleghi potranno notare, il testo di questa parte conferma la possibilità di aspettative in caso di nomina elettiva, di ruoli elettivi per tutti gli ordini e i gradi, cioè per tutti i consiglieri comunali e provinciali, restando così nel solco di quanto previsto dalla legge n. 300 del 1970 e confermato dalla legge n. 816 del 1985. Credo che si sia fatto bene a rimanere su quella strada ed a confermare quel principio che nel nostro ordinamento ha carattere generale. Ritengo anche che si debba sperimentare se, in questa fase politica, l'applicazione di quella norma avrà una portata diversa da quella che ha avuto finora, cioè quasi nulla.
Avviamo una fase di sperimentazione e poi eventualmente vedremo se la linea che abbiamo ritenuto di confermare debba essere modificata o meno.
Infine, voglio fare riferimento ad un importante articolo del testo, l'articolo 29, che affida al Governo la redazione di un testo unico in materia di ordinamento e, per quanto possibile, di funzioni dei comuni e delle province. L'esigenza di un testo unico è fortemente sentita, anche se da un certo punto di vista ci auguriamo che la vigenza dello stesso sia limitata nel tempo se la Carta costituzionale verrà rinnovata, come ci auguriamo fortemente che sia. È un impegno che il Governo assolve volentieri anche nella previsione di un breve periodo di vigenza del testo unico, perché non c'è dubbio che nell'immediato esso sia fortemente desiderato ed apprezzato nella pratica (Applausi).
Il disegno di legge al nostro esame nasceva in un'epoca in cui era in discussione il progetto di riforma della Carta costituzionale ad opera della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali; esso viene, altresì, discusso nel momento in cui sono divenute legge i due provvedimenti Bassanini - la legge n. 59 e la legge n. 127 - che regolamentano il decentramento amministrativo a Carta costituzionale invariata.
Ho voluto richiamare le leggi Bassanini perché ritengo che sia ancora aperta la discussione su quale ruolo, in termini di decentramento, si profilerà per le province, con l'applicazione di quei provvedimenti; si tratta di un decentramento che dovrebbe far ricadere le funzioni dei ministeri sulle regioni, sulle province ed sui comuni.
Lo spostamento di risorse umane e finanziarie previsto dalle leggi Bassanini per il passaggio di funzioni e compiti - secondo un corretto principio di sussidiarietà - agli enti istituzionali più vicini ai cittadini rappresenta sicuramente un procedimento complesso: se dopo aver redatto leggi del genere non ne seguiamo l'applicazione con particolare attenzione, rischiamo di provocare un aumento dello stato di burocraticità del nostro paese.
Un'altra problematica importante, che non viene risolta dal disegno di legge al nostro esame, è la seguente: la nostra legislazione si differenzia troppo poco quando riguarda i piccoli, medi e grandi comuni. In un paese come il nostro, dove 7.500 comuni circa hanno meno di 15 mila abitanti e dove circa 5 mila comuni hanno meno di 5 mila abitanti, il complesso delle leggi attualmente in vigore non assicura la necessaria in termini di funzioni, compiti, legislazioni e procedure. Il disegno di legge che stiamo discutendo non riesce a risolvere completamente tale problematica. In tal senso, l'unione di comuni può essere utile a far sì che siano resi servizi in forma associata ai cittadini di un certo comprensorio, ma non può certamente realizzare un'unione di tutti quei comuni che oggi versano in condizioni critiche rispetto ai compiti e alle funzioni che dovrebbero svolgere; comuni che si trovano, cioè, molto al di sotto di quello che, in termini aziendali, si definisce il punto di pareggio di una corretta gestione dal punto di vista economico.
Nel disegno di legge si parla anche del principio della sussidiarietà: ovviamente, non ne possiamo parlare così diffusamente come si è fatto quando si è discusso della riforma della seconda parte della Costituzione; il disegno di legge al nostro esame va, comunque, nella direzione di una più corretta applicazione del principio di sussidiarietà. Peraltro, il capo II innova rispetto all'impostazione originaria della legge n. 142 del 1990 soprattutto per il fatto che in questo caso il processo di costruzione della città o dell'area metropolitana non nasce da un'azione regionale, bensì comunale e provinciale, quindi deriva dalle comunità più vicine ai cittadini e più interessate alla questione, le quali dovrebbero pertanto avere maggiore sensibilità nei confronti della creazione di questi nuovi enti territoriali. Le città e le aree metropolitane sono enti importanti, ma sono anche così diversificate tra loro, rispetto alla determinazione raggiunta negli anni novanta in merito al numero di città, che difficilmente si può ritenere applicabile uno stesso regolamento o comunque una stessa impostazione a città come Genova, Firenze, Bologna, Napoli, Milano o Roma, che hanno caratteristiche di natura sociale, economica, ambientale e di viabilità completamente diverse tra loro.
Ricordo che il capo II fu stralciato in una determinata fase dell'esame del progetto di legge, quando sembrava che il percorso della riforma costituzionale fosse avviato positivamente, per poi essere ripreso in considerazione quando venne meno il lavoro della bicamerale.
Penso che questo progetto di legge prosegua positivamente il cammino tracciato dalle leggi n. 142 del 1990 e n. 81 del 1993, che io considero una delle innovazioni più importanti del nostro sistema negli anni novanta: mi riferisco al rapporto diretto tra cittadini e sindaci ed alla disgiunzione del potere politico rispetto a quello amministrativo, sottolineata ancora di più con le leggi Bassanini.
Si è molto discusso e ancora si parla molto dell'eccessivo disequilibrio tra il ruolo, le funzioni ed i compiti del sindaco e del presidente della giunta regionale e quelli degli organismi assembleari: sicuramente questo disegno di legge non risolve appieno tale problema di equilibri tra il cosiddetto potere esecutivo e quello assembleare, tuttavia sono convinto che il testo in esame sia da considerare positivamente in quanto prosegue, come ho già detto, un percorso che, pur avendo indubbiamente portato eccessive divaricazioni tra il potere del sindaco e quello assembleare, è stato comunque accolto molto positivamente dai cittadini.
Credo che l'articolo 11, comma 4, favorisca senz'altro l'attribuzione alle assemblee comunali e provinciali di un ruolo strategico importante nell'indirizzare la politica amministrativa. Sono convinto che aver inserito in questo disegno di legge il riferimento al ruolo dei presidenti dei consigli provinciali e comunali - per quanto riguarda i comuni sopra i 15 mila abitanti - ed aver attribuito loro una certa autonomia organizzativa e finanziaria sia un fatto importante, perché in tal modo si conferisce senz'altro agli organismi assembleari la possibilità di svolgere un'azione di indirizzo politico nei confronti del sindaco molto più incisiva di quanto sia stata finora. Analogamente, considero con grande favore la maggiore autonomia attribuita agli statuti comunali. Infatti, al comma 5 dell'articolo 11 - se non ricordo male - si stabilisce che gli statuti comunali possono prevedere anche l'eventuale decadenza dalla carica dei consiglieri in caso di mancata presenza degli stessi negli organismi assembleari.
Ritengo che, grazie a questi strumenti, non si possa ritornare a creare assemblee che gestiscono i comuni: questa è la volontà di tutti noi. Si tornerà sicuramente, invece, a stimolare un maggior dialogo tra il ruolo politico svolto dal sindaco e quello svolto dalle assemblee.
Con la discussione del presente provvedimento e con la sua approvazione, che spero avvenga al più presto, noi approviamo norme che consentono agli amministratori locali di fare in modo che il dialogo tra sindaci ed assemblee sia migliore rispetto a quanto avveniva in passato.
La stessa cosa si può dire avuto riguardo alle opposizioni all'interno delle assemblee. Infatti, quando si conferisce un maggiore ruolo alle assemblee nel loro complesso, si attribuisce una maggiore possibilità di dialogo alle opposizioni. Anche da questo punto di vista, il presente provvedimento favorisce quel riequilibrio che ritengo importantissimo e che noi legislatori abbiamo il dovere di portare avanti.
Il capo III disciplina lo status degli amministratori locali. Anche in questi articoli rilevo elementi di grande positività visto che viene ad essere riequilibrato il ruolo politico rispetto a quello amministrativo-burocratico, anch'esso importante, che si rifletteva negativamente sul lavoro degli amministratori locali e degli organi burocratici. Ho un solo dubbio: non vorrei che, per quanto riguarda i comuni più piccoli, i principi contenuti in queste norme, che dovranno riflettersi anche sul trattamento economico degli amministratori con un decreto governativo da emanarsi sentita la Conferenza Stato-città ed autonomie locali, non tengano conto della grandezza e dell'importanza dei vari comuni. Mi riferisco, ad esempio, alla differenza tra le aree metropolitane e le località turistiche che assistono anche alla decuplicazione della loro popolazione in determinate stagioni.
Quello che mi preoccupa, e che forse necessita di un ulteriore approfondimento, è l'eccessiva professionalizzazione dell'attività del sindaco, specialmente nei piccoli e medi comuni. Infatti, in tali comuni i sindaci svolgono la loro attività spinti da un forte senso civico, ma nel momento in cui si conferisce un giusto riconoscimento al loro operato non vorrei che si creassero figure eccessivamente professionali nel campo della politica. Non dimentichiamoci,
Penso che il provvedimento al nostro esame debba essere valutato positivamente. Attribuisco una grande importanza, altresì, al provvedimento che è all'esame della Commissione, l'atto Camera n. 5828, concernente la riforma del sistema elettorale degli enti locali. Mi auguro che tali provvedimenti possano essere approvati diciamo contemporaneamente. Sicuramente andrà rivisto qualche aspetto del progetto di legge n. 5828 (speravo che ciò non dovesse avvenire qui alla Camera), perché è evidente che, se la previsione di un election day va vista positivamente (parlo della possibilità dei cittadini di andare a votare una volta all'anno), il fatto di consentire ad un vicesindaco, ad un vicepresidente della provincia di poter amministrare per troppo tempo un comune necessita certamente di una riflessione.
Diverso sarebbe il caso in cui il nome del vicesindaco fosse inserito almeno nella scheda elettorale, ma così non è e non sarà, e quindi penso che tale argomento debba essere trattato nel modo più circoscritto affinché la normativa sia trasmessa al Senato il più rapidamente possibile. Diversamente, il 14 giugno ci troveremo con le amministrazioni comunali e provinciali che durano ancora quattro anni; quindi fra un paio d'anni dovremo discutere sulla retroattività o meno di queste norme.
Il lavoro svolto in Commissione è stato sicuramente positivo e mi auguro che nei prossimi giorni il provvedimento possa essere trasmesso all'altro ramo del Parlamento.
Se è vero che la logica che sta alla base di questo disegno di legge è la stessa che stava alla base delle cosiddette leggi Bassanini, è altrettanto vero che dobbiamo dire in quest'aula che quanto abbiamo fatto è utile ma insufficiente. A nostro avviso, infatti, non è possibile che il Parlamento si possa accontentare di quanto sta approvando; in particolare pensiamo che non saranno soddisfatti i nostri amministratori locali di questa sorta di autonomia dimezzata prevista con questa normativa di riforma della legge n. 142.
A nostro avviso, dunque, questo è un provvedimento che dovrebbe avere una portata ben superiore; certo non manchiamo di sottolineare come in alcuni commi e in alcuni articoli siano affrontati aspetti importanti, avremmo però preferito che vi fosse molto di più.
Da una lettura anche veloce degli articoli di questo provvedimento, ci possiamo rendere conto che su di esso, pur essendo rimasto all'attenzione della Commissione competente per un anno (e sul quale spesso il sottoscritto, insieme ad altri componenti della lega, ha richiamato l'attenzione dello stesso presidente della Commissione, l'onorevole Jervolino Russo, che oggi ricopre la carica di ministro, sottolineando anche la necessità di velocizzarne l'approvazione) occorre compiere una ulteriore riflessione per cercare di capire quale siano i veri obiettivi che si vogliono raggiungere.
Ribadisco la necessità di dare una vera autonomia agli enti locali. Nell'articolo 2 del provvedimento si dice che l'articolo 2 della legge n. 142 del 1990 è sostituito da
Tralascio l'articolo 3 e passo all'articolo 5, che appare uno dei pochi pienamente condivisibile per il suo contenuto molto ristretto che riguarda le isole e gli arcipelaghi, ad eccezione della Sicilia e della Sardegna. Si riconosce a queste comunità locali la possibilità di costituire comunità isolane o dell'arcipelago, in modo da aiutarsi vicendevolmente, se lo vogliono. Ciò è fondamentale e sottolineo la mia espressione «se lo vogliono» perché all'articolo 6, purtroppo, riscontriamo nuovamente la logica sbagliata dell'incentivazione alla fusione dei comuni. In alcuni casi essa è sicuramente necessaria per garantire un livello di servizi comunali adeguato alle aspettative dei pochi cittadini che vivono in queste microrealtà comunali ma, in altre realtà, eliminando il limite dei 5 mila abitanti per i comuni che si devono fondere, non si opera probabilmente una scelta giusta perché si aggregano e si fondono comuni che hanno già una loro ben precisa identità e una macchina amministrativa che permette di soddisfare le esigenze dei cittadini. Abito in un comune che ha poco più di 6 mila abitanti e che, pur avendo solo 27 dipendenti comunali, riesce a gestire con un bilancio di 10 o 12 miliardi le esigenze dei cittadini. Si deve solamente trovare il metodo di lavoro e credo che a nessuno dei miei concittadini possa venire in mente di fondersi con il comune vicino che ha altrettanti abitanti perché, nel momento in cui si perdesse il tipo di realtà comunale attualmente vigente, gli svantaggi sarebbero probabilmente superiori ai vantaggi.
Sempre all'interno dell'articolo 6, non approviamo l'impostazione della modifica dell'articolo 26 - concernente le unioni di comuni - della legge n. 142 del 1990. Il primo comma prevede, infatti, che gli enti locali debbano essere «di norma contermini», espressione che deve essere riferita all'unione di tre o più comuni non necessariamente tutti contermini tra loro. Ma si tratta di un'interpretazione dubbiosa perché contiene la locuzione «di norma» che, purtroppo, per esperienze passate, abbiamo verificato essere utilizzata e interpretata in modi stranissimi. Riteniamo anche (relativamente al comma 2 sempre dell'articolo 26 della legge n. 142) che vi sia una formulazione troppo debole per quanto riguarda la richiesta di approvazione dell'atto costitutivo dello statuto dell'unione. Si stabilisce che l'approvazione debba avvenire con la procedura prevista dallo statuto (quindi, una prima votazione con certe modalità oppure due votazioni successive a maggioranza assoluta). Considerato che si tratta di una scelta importante, riteniamo debba essere mantenuto il requisito dei tre quarti dei voti favorevoli del consiglio comunale almeno fino alla terza votazione, per procedere poi ad una votazione successiva. Trattandosi di scelte di non poco peso e di non poco conto, crediamo sia opportuno cercare di coinvolgere anche le opposizioni in queste scelte e far capire loro che, magari, quella che si sta sostenendo non è la scelta giusta.
La dimostrazione del fatto che l'articolo 6 non funziona sta anche nella
Il giudizio del mio gruppo sull'articolo 7 è sospeso nell'attesa di verificare se saranno accettate alcune modifiche relativamente alla questione delle comunità montane. Vorrei però chiedere un chiarimento. Quando al comma 3 si prevede che «il presidente della comunità montana è scelto fra i membri dei consigli dei comuni partecipanti e può cumulare la carica di presidente con quella di sindaco di uno dei comuni partecipanti», l'espressione «è scelto» sta a significare che è eletto, è nominato, che c'è un metodo che dovrebbe portare alla scelta di questo soggetto? Inoltre, se il metodo è quello dell'elezione, qual è il sistema che si utilizzerebbe e che si ritiene più giusto? È quello di considerare all'interno dell'assemblea il voto del rappresentante di un comune di 200-250 abitanti come avente lo stesso peso di quello del rappresentante di un comune, ad esempio, di 8 mila abitanti, oppure quello, di tipo diverso, che si segue per l'elezione dei rappresentanti dei comuni all'interno delle ASL, secondo il quale si utilizzano tagliandi che esprimono, in base al numero degli abitanti dei comuni interessati, il peso popolare del voto che, di solito, viene manifestato dal sindaco o dall'assessore delegato?
Per quanto riguarda l'articolo 8, il contenuto del primo comma è condivisibile, mentre si dovrebbe meditare sulla necessità o meno di mantenere il secondo comma.
Per quanto riguarda l'articolo 9, esprimiamo un rammarico. Condividiamo il contenuto del primo comma, mentre riteniamo che il secondo comma, previsto nel testo approvato dal Senato e soppresso dalla Commissione, poteva tranquillamente essere mantenuto, trattandosi di una delle disposizioni positive del provvedimento in esame; esso riguardava la possibilità di situare in ogni comune della Repubblica gli uffici centrali delle amministrazioni dello Stato. Ricordo che il comma 1 concerne gli uffici periferici delle dette amministrazioni, che possono essere situate anche in comuni diversi dal capoluogo di provincia. Con la soppressione del comma 2, ripeto, si è fatto un passo indietro.
Per quanto concerne l'articolo 10, le previsioni in esso contenute, relative alle notificazioni degli atti delle pubbliche amministrazioni, sono sicuramente interessanti e positive; forse arrivano un po' in ritardo, ma dobbiamo ammettere che risolveranno non pochi problemi esistenti nelle amministrazioni locali.
Con l'articolo 11 affrontiamo le questioni, forse più interessanti, di funzionamento degli organi collegiali degli enti locali. Al riguardo, non possiamo non rimarcare come, a parere nostro, la previsione della semplice maggioranza assoluta per l'approvazione del regolamento di funzionamento dei consigli comunali e provinciali sia insufficiente; se veramente vogliamo garantire le opposizioni, dobbiamo prevedere un quorum diverso per l'approvazione di tali strumenti. Del resto, tutti sanno benissimo che la maggioranza
Quando ero presidente della commissione della provincia di Bergamo - anche ora sono consigliere provinciale - che si occupava di questioni regolamentari e statutarie, abbiamo dibattuto diverse volte su tale questione. Credo sia importante, allora, elevare il detto quorum portandolo, per la prima o per le prime due votazioni, almeno a due terzi, perché in tal modo si riuscirebbe a coinvolgere maggiormente le opposizioni, recependo le loro istanze; si tratta, in sostanza, di una questione di democrazia.
Sempre con riferimento all'articolo 11, sottopongo all'Assemblea un dubbio che mi è sorto e che non mi è stato fugato dalle persone alle quali lo ho già prospettato. Infatti, il comma 6 di tale articolo, nel prevedere che «il presidente del consiglio comunale o provinciale assicura un'adeguata e preventiva informazione ai gruppi consiliari e ai singoli consiglieri sulle questioni sottoposte al consiglio», contiene una disposizione che appare fumosa e ambigua. Innanzitutto perché non si riesce a capire se questa informazione preventiva debba essere fornita in sede di conferenza dei presidenti di gruppo, dove a volte si discute anche dell'ordine del giorno e dei calendari dei lavori dei vari consigli, oppure se questa informazione preventiva ai gruppi ed ai consiglieri debba essere data anche soltanto prima della votazione finale. Si tratta di una questione che a mio avviso andrebbe chiarita.
Ricordo che in Commissione, soffermandomi sul testo del comma 7, avevo fatto presente che la questione del numero degli assessori non si risolveva - almeno per quanto riguarda le realtà locali abbastanza piccole - dando la possibilità di avere un assessore in più. Si era allora detto che si sarebbe dovuto specificare alla fine del primo capoverso e che si sarebbero tenuti in considerazione il sindaco e il presidente della provincia. Una previsione, questa, che non abbiamo però trovato nel testo in esame.
Al riguardo, però mi tranquillizza il relatore...
Per quanto riguarda il comma 13 dell'articolo 11, in Commissione ho già più volte sottolineato come questa disposizione - la quale era stata richiesta dall'UPI, che voleva dare un distintivo uniforme a tutti i presidenti delle provincie - sia estremamente limitante rispetto alle volontà stesse di questa proposta di riforma della legge n. 142 del 1990. Negli statuti di alcune province si prevede già di che colore debba essere la fascia del presidente della provincia; in questi casi si è fatto riferimento ai colori storici della provincia stessa. Noi, oggi, facciamo loro un discorso di questo genere: signori, dovete modificare ciò che avete liberamente deciso perché, pur avendovi dato la facoltà di deliberare sui colori dello stemma del presidente della provincia, da domani sarà di colore azzurro. Non verrà quindi data la facoltà - lo ripeto - di mantenere il colore prescelto negli statuti. Questa può sembrare una questione marginale, ma non lo è, perché rappresenta effettivamente il «succo» del disegno di legge al nostro esame: con esso, infatti, si sbandiera una sorta di autonomia, ma, nella sostanza, si fanno interventi che vanno nella direzione di eliminare quel poco di autonomia che era stata concessa in precedenza. Questa è la contraddizione di fondo con lo spirito che invece dovrebbe essere alla base del provvedimento al nostro esame.
A tale riguardo vorrei precisare che, quando verrà approvata la normativa in esame, le disposizioni dell'articolo 12 non saranno sufficienti a tranquillizzare i cittadini; probabilmente, li lasceranno - spero - indifferenti, senza che la convinzione di essere abbandonati dallo Stato faccia loro assumere atteggiamenti peggiori.
Passo ad un altro punto che riguarda l'articolo 14. Noi siamo convinti che la composizione del collegio dei revisori dei conti nei comuni debba essere disciplinata autonomamente dallo statuto o dal regolamento di contabilità dell'ente. Si detti la disposizione che preveda comunque un revisore dei conti ma si lasci al comune stesso la possibilità di stabilire se il revisore dei conti debba essere un singolo soggetto oppure un collegio composto da due o più soggetti. In sostanza, si tratta di garantire ai cittadini, con l'intervento e la consulenza di questi professionisti, che la pubblica amministrazione spenda i soldi dei cittadini stessi seguendo e rispettando le disposizioni vigenti in materia e con la certificazione che le operazioni effettuate dagli amministratori sono legittime. Ritengo dunque necessario dare facoltà ai consigli comunali di approvare, all'interno dello statuto, una disposizione riguardante il numero dei componenti il collegio dei sindaci o l'individuazione di un solo revisore nelle realtà più piccole, come già attualmente accade. La previsione della consulenza di un solo revisore potrebbe essere estesa ai comuni fino ai 10 mila o 15 mila abitanti, lasciando però la facoltà di incrementare il numero qualora l'ente ritenesse necessario farlo.
Una questione importante è affrontata nell'articolo 15, che riguarda le aree metropolitane. Noi siamo fortemente contrari a questi articoli e non esprimeremo su di essi un voto favorevole. Vi è una incredibile sovrapposizione di ruoli che, a nostro parere, saranno sicuramente ingestibili così come lo saranno alcune fasi di passaggio, qualora si dovesse approvare questa legge che consente la formazione delle aree metropolitane. Se la strada intrapresa è quella di creare agglomerati amministrativi che sommano il potere di diversi enti locali, forse occorrerebbe compiere uno sforzo ulteriore per introdurre le città-Stato, almeno così ci libereremmo di tutto il resto, compreso il peso di uno Stato centralista che opprime chi - come me - fa anche l'amministratore locale.
Le ultime osservazioni riguardano il capo III sulla disciplina e lo status degli amministratori locali. Ritengo sia necessario fare un discorso unico e generale. Noi riteniamo giusto che si riveda l'intera disciplina dello status, delle funzioni e delle competenze attribuite (mi riferisco alle indennità) ai vari componenti dei consigli, delle giunte, degli IACP (questo punto meno pertinente è stato aggiunto in Commissione), nonché quella dei permessi e dell'aspettativa, perché si tratta di aspetti importanti per chi effettivamente vuole svolgere il proprio ruolo di amministratore al servizio dei cittadini. Purtroppo noi conosciamo, soprattutto nelle piccole realtà, l'esperienza di tanti sindaci o assessori che svolgono le loro funzioni il sabato mattina, il venerdì sera o il lunedì sera. Del resto, le 850 mila lire nette al mese percepite dal sindaco del mio comune di 6 mila e 200 abitanti sicuramente non gli consentono di fare il sindaco a tempo pieno.
Queste, purtroppo, sono realtà che incidono e contano, perché, quando si ricopre la carica di amministratore pubblico, ci si rende conto di avere a che fare con i soldi dei cittadini; pertanto diviene difficile perfino raddoppiare l'indennità, facoltà concessa dalla legge. Noi abbiamo un'amministrazione comunale nella quale, dal 1993 (anno in cui è stata approvata la legge che prevede la possibilità di raddoppiare l'indennità) ad oggi, non si è mai provveduto al raddoppio dell'indennità appunto perché si è ritenuto che fosse altamente impopolare. Quindi, il sindaco di un comune con 6.200 abitanti prende 850 mila lire al mese: contento lui!
Riteniamo che sia necessario dare una giusta ricompensa a tutte le persone che accettano di impegnarsi nelle amministrazioni locali, perché fare amministrazione significa avere tantissimi oneri e problemi da affrontare. A volte si hanno anche onori e soddisfazioni, per esempio se si riesce a risolvere un problema; forse è questa la ragione per cui l'aspetto economico dell'indennità corrisposta passa in secondo piano, almeno per chi crede che fare amministrazione oggi abbia ancora un certo tipo di significato, quello di aiutare i propri concittadini a cercare di risolvere i problemi locali.
Sostanzialmente, per quanto riguarda il giudizio complessivo sul provvedimento, staremo a vedere quali saranno gli emendamenti approvati dall'Assemblea durante l'esame dei vari articoli ed esprimeremo, articolo per articolo, la nostra posizione favorevole o meno (Applausi dei deputati del gruppo della lega nord per l'indipendenza della Padania).
Sul piano delle fonti del diritto, a mio giudizio, l'emendamento al comma 2 dell'articolo 1 ha creato e creerà problemi interpretativi ed attuativi; esso è stato approvato dalla Commissione ed aggiunge al testo approvato dal Senato della Repubblica un'apposita disposizione del seguente tenore: «La legislazione in materia di ordinamento degli enti locali e di disciplina dell'esercizio delle funzioni ad essi conferite enuncia espressamente i princìpi che costituiscono il limite inderogabile per l'autonomia normativa degli enti locali».
Sul tenore della disposizione in parola non sollevo obiezioni, ma non riesco a comprendere come tale emendamento, approvato in Commissione, si possa conciliare con il testo della parte prima del comma 2. Se esiste un limite inderogabile per l'autonomia normativa degli enti locali, infatti, non si riesce a comprendere come le disposizioni statutarie precedentemente in vigore possano restarlo per 120 giorni, così come risulta dal testo approvato dalla Commissione affari costituzionali. Per uscire dal vicolo cieco nel quale verrà a trovarsi l'interprete, occorre evidenziare che il tenore del testo approvato dal Senato confligge con quello approvato dalla suddetta Commissione; a questo punto l'unica via di uscita, a mio avviso, è quella che ho indicato in un emendamento che ho presentato. Mi esimo dal leggere il testo di quest'ultimo, ma non dal pregare il relatore, onorevole Sabattini, di prestare ad esso attenzione perché credo che altrimenti l'antiteticità della prima parte del testo rispetto alla seconda non potrà non creare complicazioni nell'applicazione della legge. Essendo le disposizioni statutarie degli enti locali fonti secondarie del diritto, è fuor di dubbio che il sopravvenire di leggi statali, che pongano limiti inderogabili per l'autonomia statutaria, renda illegittime le disposizioni statutarie incompatibili con la legge statale sopravvenuta. Il testo dell'articolo 1, comma 1, che proviene dal Senato, invece, fa obbligo a comuni e province di adeguare entro 90 giorni le norme dei propri statuti alle leggi generali della Repubblica, che modificano i princìpi di cui al comma 2 dell'articolo 4 della legge n. 142 del 1990; nel contempo, però, il testo emendato dalla Commissione lascia in vigore per 120 giorni le disposizioni statutarie divenute incompatibili con la legislazione sopravvenuta. Evitiamo una soluzione così palesemente pasticciata e che non trova un valido correttivo nel testo all'esame dell'Assemblea.
Sul punto desidero richiamare l'attenzione del relatore perché, nel caso di impugnativa di disposizioni statutarie viziate da illegittimità sopravvenuta, il ricorrente avrebbe buon gioco e l'ente locale si troverebbe esposto da parte del giudice amministrativo a pronunce di annullamento delle disposizioni statutarie o di quelle divenute incompatibili con le leggi della Repubblica sopravvenute, specie ove queste abbiano posto limiti inderogabili alla potestà statutaria dell'ente locale.
A prescindere dal contenzioso, il prevedere che determinate norme statutarie vengano a trovarsi per un arco temporale di 120 giorni in una sorta di limbo ripugna sul piano logico, ancor prima che sul piano giuridico.
Mi sono soffermato su alcuni aspetti della questione in argomento per l'importanza che essa riveste nell'ambito di una ordinata collocazione ed armonizzazione fra fonti primarie e secondarie del diritto.
Passando ad un'altra disposizione, la Commissione affari costituzionali - credo giustamente - ha condiviso la scelta del Senato in tema di condizione di esecutività degli statuti. Secondo il testo vigente dell'articolo 4, comma 4, della legge n. 142, gli statuti vanno pubblicati sia nell'albo pretorio dell'ente, sia nel bollettino ufficiale della regione, oltre che trasmessi al Ministero dell'interno per essere inseriti nella raccolta ufficiale degli statuti. In base al comma 3 dell'articolo 1 approvato dalla Commissione, invece, l'entrata
È senz'altro utile che l'entrata in vigore dello statuto non sia più condizionata alla sua pubblicazione nel bollettino della regione, che può tardare anche di parecchio, ma soltanto al decorso di trenta giorni dalla sua pubblicazione nell'albo pretorio. Al riguardo nessun nocumento ne deriverà all'affidamento dei terzi, tenuto presente che la pubblicazione nel bollettino rimane obbligatoria, ancorché non più condizionante, e che, comunque, la conoscibilità dello statuto è garantita sia dal suo inserimento nella raccolta ufficiale tenuta dal Ministero dell'interno, sia dalle disposizioni cogenti di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241.
Infine, l'ultimo comma dell'articolo 1 apporta un piccolo, ma importante ritocco al testo dell'articolo 6, comma 4, della legge n. 142, secondo il quale le consultazioni relative ai referendum previsti dallo stesso articolo 6 devono riguardare materie di «esclusiva» competenza locale e non possono aver luogo in coincidenza con altre operazioni di voto. Forse sarebbe stato preferibile sostituire l'intero testo del comma 4 dello stesso articolo 6, nel senso sia di eliminare la locuzione «esclusiva» - su ciò siamo d'accordo -, sia di aggiungere, alla fine dello stesso comma, le parole: «salvo si tratti di referendum di interesse comunale o provinciale». Comunque, alla formulazione del comma 5 dell'articolo 1 non abbiamo presentato proposte emendative: sarebbe stata possibile una più razionale collocazione, ma, nella sostanza, il problema è risolto.
Passo ora all'articolo 2 del testo approvato in Commissione, che reca la significativa rubrica: «Ampliamento dell'autonomia degli enti locali».
Il comma 1 dell'articolo 2 sostituisce il testo dell'articolo 2 della legge n. 142 non solo con l'affermazione solenne, secondo la quale le comunità locali - ossia i comuni e le province - sono autonome, ma anche nel senso della ridefinizione dell'ente comune (vedasi il comma 2 dell'alinea) e dell'ente provincia (vedasi il comma 3 dell'alinea).
Al comma 4 dell'alinea è ribadita l'autonomia statutaria, normativa, organizzativa ed amministrativa, nonché l'autonomia impositiva e finanziaria degli stessi enti, sempre nell'ambito delle leggi di coordinamento della finanza pubblica.
Rilevanti sono poi le affermazioni relative ai principi di sussidiarietà istituzionale e sociale che si rinvengono, rispettivamente, nel primo e nel secondo periodo del testo del comma 5 dell'alinea. Pur condividendo nella sostanza l'innovazione di cui all'ultimo comma dell'articolo 2 della legge n. 142 del 1990, come sostituito dal comma 1 dell'articolo 2 del testo al nostro esame, ho presentato un apposito emendamento che riscrive il testo del medesimo comma, tenuto presente che, nella sovrapposizione dell'aggiunta apportata dalla Commissione al testo più stringato approvato dal Senato, il lessico che ne è scaturito - e non solo quello, naturalmente - presenta, a mio parere, qualche disarmonia. Ritengo al riguardo utile che il concetto di sussidiarietà nella sua accezione verticale venga sostituito dalla locuzione «sussidiarietà istituzionale»; è altresì utile che lo stesso termine polisenso «sussidiarietà» venga sostituito dalla locuzione «sussidiarietà sociale», allorché si intende mettere a fuoco il rapporto tra il comune e i corpi sociali operanti nell'ambito del suo territorio.
Ciò posto, mi permetto di richiamare ancora una volta la cortese attenzione del relatore sull'opportunità che il mio emendamento al riguardo possa trovare accoglimento.
Qualche problema di ordine sostanziale pone, invece, la scelta del relatore favorevole alla soppressione della lettera d) del comma 2 dell'articolo 2 approvato dal Senato. Nel testo del Senato figura, infatti, la lettera d), che, dopo il comma 7 dell'articolo 3 della legge n. 142, ha aggiunto un comma 7-bis, volto a consentire l'alienabilità dei beni di interesse storico,
Essendo in disaccordo con la soluzione soppressiva della ricordata lettera d), ho presentato un emendamento che consente l'alienazione dei beni storici ed artistici (ho eliminato il riferimento ai beni culturali perché mi sembra che le categorie fondamentali siano quelle relative ai beni storici ed artistici) di comuni e province quando non ne derivi danno alla conservazione dei beni culturali in parola. Si pensi al trasferimento di un immobile storico dall'ente locale ad una fondazione pubblica o privata: in quel caso non avremmo alcuna preoccupazione che la conservazione sia assicurata.
Passando all'articolo 3 approvato dalla Commissione, dico subito che dal testo dell'articolo 6 della legge n. 142 si poteva evincere che solamente i comuni, e non anche le province, erano i destinatari delle relative disposizioni sulla partecipazione popolare. Senonché dalla lettera d) del comma 1 dello stesso articolo 3, come approvato dal Senato ed emendato dalla Commissione affari costituzionali, si evince che i referendum possono essere non solo di interesse comunale ma anche provinciale. Ciò posto, ho presentato un emendamento sostitutivo della lettera a) del comma 1 a seguito del quale al comma 1 dell'articolo 6 della legge n. 142 si aggiungono alle parole «i comuni» le parole «e le province», oltre che sostituire le parole «dei cittadini» con la parola «popolare», come si legge alla lettera c) del comma 1 dell'articolo 6, nel testo approvato dal Senato.
Con riferimento all'articolo 3, va ribadito che la lettera d) del comma 1, nel testo votato dal Senato, aveva previsto la possibilità che i referendum degli enti locali avessero luogo in concomitanza con altre votazioni referendarie. Il testo votato dalla Commissione affari costituzionali - si veda la nuova formulazione della lettera d) - ha invece limitato la possibilità di indizione di referendum localistici solo in concomitanza con altri referendum di interesse comunale o provinciale.
Evidentemente - al riguardo chiedo chiarimenti al relatore - non è sembrato opportuno che, nella stessa giornata nella quale il corpo elettorale è chiamato a referendum di interesse nazionale o anche regionale, gli elettori di un comune o di una provincia siano chiamati a votare anche per referendum di interesse localistico; questa è la conclusione cui devo giungere.
Intendo proseguire l'analisi così particolareggiata delle disposizioni del capo I anche in riferimento all'articolo 4, avente per oggetto l'azione popolare, i diritti di accesso e di informazione dei cittadini. Non mi occuperò invece dell'articolo 5 recante interventi per lo sviluppo delle isole minori, dell'articolo 6 che disciplina ex novo la fusione dei comuni, dei municipi nonché l'unione di comuni (poiché ne ha già parlato il collega Valducci) né mi occuperò delle comunità montane la cui nuova disciplina è dettata dall'articolo 7. Quanto al decentramento subcomunale, mi limito ad evidenziare per brevità che il testo dell'articolo 8 all'esame dell'Assemblea è quello già votato dal Senato. Analogamente non mi soffermerò sul testo dell'articolo 11 introdotto dalla Commissione e che non era compreso nel testo approvato dal Senato. Esso ha attinenza con la notificazione degli atti delle diverse pubbliche amministrazioni.
Tornando all'articolo 4 del testo all'esame dell'Assemblea, va subito evidenziato che il Senato ha corretto e migliorato, alla lettera a) del comma 1, il testo del comma 1 dell'articolo 7 della legge n. 142 del 1990, che aveva limitato l'ambito di operatività dell'azione popolare ai soli giudizi da attivare avanti al giudice amministrativo (ossia avanti al TAR ed al Consiglio di Stato). Invero il testo novellato consente che ciascun elettore possa far valere in giudizio le azioni ed i ricorsi che spettano all'ente locale, sia che si tratti di agire avanti al giudice amministrativo sia che si tratti di azionare un giudizio avanti all'autorità giudiziaria ordinaria.
Pur condividendo la scelta nel senso dell'ampliamento degli ambiti dell'azione
Giova evidenziare che l'attore popolare non si configura come un sostituto processuale, figura questa prevista dall'articolo 81 del codice di procedura civile, che però viene consentita dal codice di rito nei soli casi espressamente previsti dalla legge. Si precisa infatti che l'attore popolare, il quisque de populo della tradizione romanistica, è un soggetto che si avvale di un istituto di democrazia diretta ed esercita l'azione popolare e con ciò agisce in difesa di un interesse suo proprio.
La lettera b) del comma 1 attenua il grave principio posto dal comma 2 dell'articolo 7 della legge n. 142 del 1990, secondo il quale le spese del giudizio dovrebbero essere, in ogni caso, a carico di chi ha proposto l'azione popolare; nel testo novellato, il rigore di detto principio viene attenuato nel caso in cui il comune abbia aderito all'azione o ai ricorsi proposti dall'attore popolare, ipotesi questa nella quale la condanna alle spese di causa può essere posta a carico del comune interventore.
Dal testo del comma 1 dell'articolo 4 votato dal Senato, la Commissione affari costituzionali della Camera ha giustamente espunto la lettera c), che aveva posto a carico dell'attore popolare l'onere di un deposito forfettario di lire 100 mila, da effettuarsi al momento dell'iscrizione al ruolo del ricorso o della citazione del quisque de populo: in un certo senso l'onere creava una sorta di solve et repete che avrebbe appesantito l'esercizio dell'azione popolare; concordiamo, quindi, con la scelta della Commissione.
L'articolo 4, al comma 2, prevede il diritto di acceso nei confronti delle pubbliche amministrazioni; diritto che viene esteso nei confronti delle autorità di garanzia e vigilanza, ma che dovrà essere esercitato secondo l'ordinamento di ogni singola autorità di garanzia e vigilanza.
Importanza rilevante assume, infine, il comma 3 dell'articolo 4 del testo al nostro esame: va premesso che la legge 8 luglio 1986, n. 349, individua le associazioni di protezione ambientale abilitate anche ad intervenire davanti al giudice nei giudizi per danno ambientale; attribuisce, però, alle medesime associazioni la potestà di ricorrere soltanto avanti al giudice amministrativo per l'annullamento di atti amministrativi illegittimi in materia ambientale.
Adesso l'articolo 4, comma 3, estende la potestà di tali associazioni di protezione ambientale ad agire in giudizio avanti al giudice ordinario per il risarcimento del danno arrecato per fatto ambientale alle pubbliche amministrazioni interessate.
Signor relatore, forse un miglior coordinamento del testo del comma 3 dell'articolo 4 (che consente l'azione di risarcimento a prescindere dall'inerzia del comune o della provincia danneggiata) con gli articoli 33, 34 e 35 del recente decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, e del recentissimo decreto legislativo correttivo 29 ottobre 1998, n. 387, non sarebbe stato un fuor d'opera, tenuto presente che per il danno ambientale provocato dalle attività urbanistiche ed edilizie è adesso prevista la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e la competenza di detto giudice a disporre anche il risarcimento del danno ingiusto. Non ho presentato al riguardo un emendamento: valuti il relatore se intenda attivare la propria potestà emendativa per meglio rapportare questa disposizione con quelle del decreto legislativo n. 80 e del decreto legislativo correttivo n. 387.
Una volta vagliate le tematiche di cui all'articolo 4 del testo all'esame dell'Assemblea, passo all'articolo 11. Detto articolo, corrispondente all'articolo 10 del testo votato dal Senato, ribadisce quanto già previsto dall'articolo 31, comma 1, della legge n. 142 del 1990 circa l'ambito della disciplina dettata dal regolamento
L'articolo 31 citato viene, altresì, integrato con l'aggiunta di un comma 1-bis, che prevede l'autonomia funzionale ed organizzativa del consiglio comunale e di quello provinciale; autonomia che dovrà trovare la propria disciplina nel regolamento interno che ogni consiglio vorrà darsi, con l'attribuzione all'organo assembleare di proprie risorse.
Il comma 2 dell'articolo 11 del testo all'esame dell'Assemblea prevede, poi, per la presidenza dei consigli comunali dei comuni con oltre 15 mila abitanti, che essi abbiano un proprio presidente e che a presiedere non sia più il sindaco. L'attribuzione della presidenza ad un presidente diverso dal sindaco può, tuttavia, essere espressamente prevista dagli statuti dei comuni al di sotto di 15 mila abitanti.
Quanto al comma 7 dello stesso articolo 11, vi si prevede un numero di assessori che non può superare il terzo dei consiglieri assegnati al comune. Ho presentato l'emendamento volto a ridurre il massimale del numero degli assessori. Esprimo al riguardo il parere che esso sia elevato (ricordiamoci il noto aforisma todos caballeros), ritenendo che il numero ordinario degli assessori stabilito in sede statutaria sarà verosimilmente fissato nella predetta misura massima: è questo il mio timore, manifestato d'altronde durante i lavori della commissione anche dal sottosegretario Vigneri.
Quanto, poi, al comma 5 dell'articolo 11, reputo corretto che la possibilità di richiedere la convocazione dei consigli, attribuita alla minoranza consiliare ed al sindaco, non riguardi soltanto i consigli comunali, ma sia estesa anche a quelli provinciali.
Faccio appena un cenno al comma 6 dell'articolo 11, che demanda agli statuti ed ai regolamenti la disciplina dell'attività di controllo che compete ai consigli sull'attuazione degli obiettivi programmatici, sull'efficienza della gestione, sull'organizzazione dei servizi e sulla contabilità relativa alla gestione delle entrate e delle spese. L'ultimo comma dello stesso articolo 11 conferisce infine ai sindaci, per casi di emergenza, la possibilità non solo di modificare gli orari di apertura dei pubblici esercizi, ma persino di stabilire gli orari di apertura al pubblico di uffici pubblici diversi da quelli comunali, ubicati nel territorio del comune.
Uno dei punti di maggiore contrasto emersi in Commissione tra maggioranza ed opposizione ha riguardato l'inserimento o meno nel testo delle modifiche alla vigente disciplina di disposizioni novelle in tema di composizione e di funzionamento del comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica, organismo previsto dall'articolo 20 della legge 1 aprile 1981, n. 121, il quale ha natura consultiva ed è presieduto dal prefetto. Il testo dell'attuale articolo 12, che modifica il corrispondente articolo 11 dell'atto Senato, non ci appare appagante: abbiamo pertanto proposto alla Commissione un testo alternativo, che questa ha respinto e che ripresentiamo all'esame dell'Assemblea, nel quale si prevede che ai comitati in argomento partecipino non solo i sindaci dei comuni capoluogo, ma anche i presidenti di provincia. Fin d'ora chiediamo al relatore, onorevole Sabattini, di voler riesaminare la sua posizione contraria su tale nuova formulazione dell'articolo 12 da noi proposta: è questo uno dei punti decisivi ai fini dell'atteggiamento che il gruppo di forza Italia terrà in sede di voto finale sul testo in esame. Riteniamo che nel quadro dell'azione sinergica dello Stato e dei comuni capoluogo contro le attività malavitose i sindaci di detti comuni, e quelli delle grandi città in particolare, debbano svolgere un ruolo importante, mentre finora esso è stato del tutto secondario.
Tralascio di affrontare le tematiche relative all'autonomia organizzativa ed all'ordinamento del personale, la cui disciplina è dettata dall'articolo 13; tralascio altresì di analizzare l'articolo 14, relativo ai contratti.
Quanto al capo II del disegno di legge in esame, recante modifiche alla legge n. 142 in materia di aree e città metropolitane,
Ulteriori disposizioni dell'articolo 15 attengono poi alla riformulazione dell'articolo 19 della legge n. 142. Chiudono il capo II le disposizione transitorie inserite nell'articolo 16 del testo in esame. Ho riproposto all'Assemblea un mio emendamento respinto dalla Commissione, che si riferisce all'articolo 16 e non più all'articolo 17, in ordine al quale mi riservo di intervenire nel prosieguo dei lavori, allorquando verranno esaminati dall'Assemblea i singoli emendamenti.
In conclusione, non intendo affrontare le tematiche di cui al capo III che sono state oggetto dell'intervento del collega Valducci. Preannuncio fin da adesso la posizione di attesa del gruppo di forza Italia interessato a vedere se il relatore prima ed il Governo poi intendano accogliere le proposte delle opposizioni. Mi riferisco in particolare a quelle relative al tema del ruolo dei sindaci dei comuni capoluogo in seno ai comitati provinciali per l'ordine e la sicurezza pubblica.
Noi attendiamo fiduciosi, anche se devo dare atto al relatore, onorevole Sabattini, che lo spirito mi sembra sia di collaborazione.
Tutto ciò comporta, naturalmente, scarsissima chiarezza sugli obiettivi, sulle modalità e sulle possibilità operative, confusione grandissima e limiti operativi e gestionali, al di là di strumentalizzazioni e di posizioni in qualche caso non solo non condivisibili, ma addirittura preoccupanti (mi riferisco, ad esempio, alla ventilata questione del mantenimento dell'ordine pubblico attraverso l'attività dei sindaci).
A tutto ciò si è arrivati perché, negli ultimi 15-20 anni, abbiamo assistito ad un decentramento di poteri e di funzioni di carattere politico a cui ha, però, fatto riscontro un accentramento di carattere finanziario ed una politica di trasferimenti sempre più restrittiva ed inadeguata alle esigenze, anche minime, che bisognava e bisogna soddisfare. Vi è quindi una non rinviabile necessità di definizione e di individuazione di interventi, anche radicali, che mutino alle radici e trasformino l'intero sistema delle autonomie
Il presente provvedimento non risponde a questa esigenza ed è, a nostro parere, un provvedimento senz'anima. Non servono assolutamente a nulla operazioni di ingegneria istituzionale quale, ad esempio, l'accorpamento dei comuni visto come un grimaldello importante per la semplificazione politico-economica della vita amministrativa. Forse non ci si rende conto che, ad esempio, con una misura quale quella cui abbiamo accennato - così com'è - i problemi diventano ancora più grossi: vi è la quasi certezza che i piccoli comuni vengano fagocitati e annullati dai più grandi, che si calpestino, con conseguenze gravi, tradizioni e culture radicate e vive.
Sappiamo perfettamente che il problema esiste, ma è necessario intervenire, per avviarlo a soluzione, su altre e più complesse questioni: sul terreno politico-culturale; sulla riqualificazione dei servizi, sulle opportunità amministrative nuove; sulla capacità e sulla facilitazione di politiche di investimento e di riqualificazione della vita amministrativa. Quindi, c'è da ridefinire e riqualificare il ruolo stesso dei comuni e delle municipalità intese non in senso amministrativistico, ma politico, sociale e civile.
Stessa logica c'è, per esempio, nella parte del provvedimento che concerne le comunità montane, che - lo sanno tutti - andrebbero interamente reinventate e reindividuate prima che sia assegnato loro un qualsiasi ruolo, in molti casi doppione di altri enti o di altri livelli di sistema della autonomie; oppure in quella riguardante i consorzi di comuni, sui quali manca una pur minima chiarezza e che, stando così le cose, sono oggettivamente destinati a restare lettera morta, nuova araba fenice da invocare di fronte a nuovi ed ulteriori difficoltà e ritardi. Fino ad arrivare al capo riguardante le aree metropolitane: una storia veramente infinita, alcune volte inaccettabile. In questi anni c'è stata una legge istitutiva assolutamente e colpevolmente inapplicata; vi sono state pressioni per accelerare o decelerare o bloccare, contropressioni, petizioni astratte di principio, emendamenti e dibattito anche nell'ultima Commissione bicamerale per la riforma della Costituzione, fino al valzer grottesco e ridicolo di questo disegno di legge in discussione: prima c'è, poi non c'è, poi ritorna, poi sparisce e adesso ricompare, ma domani che sarà?
Quindi noi teniamo alle aree metropolitane e diciamo che ci devono essere anche, se non altro, per rispondere ad un'esigenza giusta e reale del movimento autonomistico. E quando diciamo questo, nello stesso momento vogliamo dire che bisogna rapidamente applicare la legge obbligare, in qualche modo, coloro che devono applicare la legge a farlo: a cominciare dalle regioni (e in qualche modo anche dal Governo), alle quali non possono più essere concessi alibi, anche introducendo veri e cogenti poteri sostitutivi; bisogna definire con assoluta chiarezza modalità, tempi e soprattutto funzioni (non solo e non prioritariamente, al limite, relativamente a quelle del sindaco-capo) con la più assoluta consapevolezza e disponibilità culturale e materiale a ridefinire i rapporti tra i vari livelli istituzionali (Stato-regioni-comuni) con tutto ciò che questo può comportare a cominciare dal ruolo (al di là del merito su cui non vogliamo adesso entrare) dello stesso ente-provincia anche in rapporto ad altri elementi di valutazione e di definizione, a cominciare dalla grande questione del federalismo fiscale.
C'è un problema decisivo e centrale che non può essere affrontato - o non affrontato - come è in questo disegno di legge: la funzionalità dei comuni, delle province e dell'intero sistema delle autonomie locali, affinché non siano ridotti a puri «assessorifici», ma sappiano e abbiano fino in fondo certezza di poteri, di competenze, di diritti e di doveri. Questo sia «a salire» nei confronti dello Stato, sia «a scendere» verso i cittadini, gli amministratori, le loro forme di aggregazione e di associazione per restituire ad
Diamo atto che nel disegno di legge c'è un passo avanti relativo allo status degli amministratori locali ai quali, a tutti i livelli, viene non garantita, ma, per lo meno, realmente prevista con fermezza (non nel senso del diritto costituzionale, naturalmente, già esistente) la possibilità di svolgere in modo migliore rispetto ad oggi il proprio lavoro di amministratore pubblico. Ma è solo un primo timido passo a fronte dei tanti altri che è necessario fare con la massima urgenza.
Vi è, infine, la parte riguardante l'anagrafe degli amministratori locali. Se l'intento è quello di tentare di colpire e impedire la corruzione e gli aspetti degenerativi - che pure ci sono - del modo di amministrare e governare da parte di alcuni, ci sembra che la normativa proposta sia molto al di sotto dei bisogni e delle necessità reali. Una normativa, quella proposta, assai vaga, piena di buchi, quasi un muro di gomma. La cogenza delle norme è tutt'altra cosa, ed è ad essa che sempre e in qualsiasi caso bisogna fare riferimento.
Cercherò di essere più chiaro al riguardo. Il Senato, ad esempio, ha ritenuto che il provvedimento, nella sua versione originaria, fosse un po' appesantito da norme che avrebbero potuto trovare una migliore collocazione altrove; ha quindi eliminato tutto ciò che riguardava la regolamentazione dell'esercizio dei servizi pubblici locali, le norme sulle aziende pubbliche locali, le modifiche alla disciplina per l'elezioni dei sindaci, le norme riguardanti la durata degli organi elettivi comunali e provinciali e le norme relative alle modifiche sullo svolgimento delle elezioni amministrative. Da questo punto di vista credo che il Senato abbia fatto un buon lavoro.
Tuttavia, nella versione oggi al nostro esame, il provvedimento non ha i caratteri dell'organicità. Se poi lo si volesse inserire in un più ampio processo iniziato dall'allora ministro Bassanini, tendente a semplificare le norme in materia di amministrazione locale, anziché di fronte ad una semplificazione ci troveremmo di fronte ad una complicazione.
Per il resto, se ci si mette nei panni di un sindaco che deve realmente amministrare una comunità al di là della fumosità e della genericità delle norme e dei buoni princìpi talvolta espressi nelle norme stesse, alla fine ci si accorge che gli amministratori non hanno in realtà più poteri di quelli che avevano nel passato, né più risorse di quelle di cui disponevano e che tutto il sistema delle amministrazioni locali risulta più complesso e appesantito.
Il punto di riferimento normativo di partenza è, ovviamente, la legge n. 142 del 1990: una buona legge, soprattutto rispetto a quella oggi al nostro esame. Essa conteneva sicuramente aspetti problematici che hanno avviato l'appesantimento della pubblica amministraziona divenuta via via più complessa, ma aveva il vantaggio di essere chiara e di individuare e di perimetrare i meccanismi della gestione amministrativa. Insomma, da un lato rendeva più complessa l'intera macchina amministrativa, dall'altro era molto puntuale nell'indicare norme e soluzioni a problemi concreti che si sarebbero in seguito posti. Entriamo nello specifico: una volta si era di fronte ad istituti che sono ormai nella coscienza di tutti quali la regione, la provincia e i comuni; dopo l'approvazione della legge n. 142 il sistema non è stato più così semplice. Sono nate le comunità montane, le aree metropolitane, le unioni dei comuni ed altri organismi si sono
A questo punto è giusto che io svolga una considerazione di carattere più generale: personalmente non sono innamorato dei sistemi semplici anche perché è evidente che procediamo verso sistemi sempre più complessi in cui interagiscono più soggetti. Ma i sistemi complessi hanno più bisogno rispetto ai sistemi semplici di norme chiare ed efficaci che li mettano in grado di funzionare. Ad esempio, il provvedimento al nostro esame non dirime i dubbi circa la sovrapposizione dei poteri e il sottosegretario Vigneri l'ha sottolineato quando ha giustamente detto che le aree metropolitane - anzi, se non vado errato, il riferimento era alle unioni dei comuni - rischiano di avere poteri e funzioni sovrapponibili a quelle della provincia.
La stessa cosa può dirsi - lo abbiamo già visto - per l'unione dei comuni.
Un'altra osservazione da fare, partendo da un diverso punto di vista, è che l'obiettivo della norma che mirava e mira, nello spirito della legge n. 142, ad accorpare i comuni semplificando il sistema di finanza locale e, quindi, creando risparmi con ovvie e positive ricadute sugli utenti, non è stato raggiunto. Questo perché si cambia la forma e, quindi, si creano dei «contenitori» che raccolgono più comunità, ma queste al loro interno hanno una propria autonomia e continuano a sopravvivere. Ci si deve allora chiedere se, oltre alla sovrapposizione di competenze, non si vada incontro ad un aggravio di spese. Dunque, se queste operazioni avvenissero a costo zero, sarebbero auspicabili ed andrebbero incontro anche alle esigenze di tutti i cittadini. Se però questo costo zero non dovesse realizzarsi, si tratterebbe di operazioni che sarebbe meglio evitare. Penso, ad esempio, al caso di fusioni in cui sopravvivano municipi con propri organismi (tra l'altro oggi non definiti mentre erano ben delineati nella legge n. 142).
A proposito dei municipi voglio leggere, caro Sabattini, la norma come era stata formulata: «Lo statuto del comune regola l'elezione, contestualmente al consiglio comunale, di un prosindaco e di due consultori da parte dei cittadini residenti nel municipio sulla base di liste (...)». Si danno quindi anche indicazioni sull'elezione e sugli organi che compongono i municipi. Si stabilisce poi che sono organi dell'unione il consiglio, la giunta ed il presidente: quindi organismi che, sostanzialmente, continuano a vivere di vita propria e che hanno i costi che già avevano. Non mi pare dunque che si vada verso la semplificazione e verso il risparmio. Anche questo, pertanto, ritengo sia un obiettivo mancato. Si potrebbe scendere ancor più nei particolari, ma preferirei scorrere le norme al nostro esame.
Abbiamo visto che, tutto sommato, la fusione cambia molto poco anche in termini di costi e di efficienza dell'attività amministrativa. Altro aspetto collaterale - che, per la verità, a noi sembra preoccupante - è che laddove la legge n. 142 introduceva comunque norme chiare, oggi ci troviamo di fronte a previsioni fortemente generiche. Mi riferisco, ad esempio, all'elezione degli organi assembleari o di gestione. Non c'è un principio ispiratore che orienti tutta la normativa nel suo procedere. Il presidente della comunità montana, ad esempio, è scelto tra i membri dei consigli che partecipano a quella stessa comunità; il presidente dell'area metropolitana - se non vado errato - viene nominato con altri criteri e il presidente dell'unione è scelto tra i sindaci e non tra i consiglieri. Abbiamo dunque una completa diversità ed una farraginosità di procedure; non c'è un unico criterio di base che possa ispirare la formazione degli organi elettivi, ma si demanda sempre tutto allo statuto ed ai
Non credo però che i cittadini possano trarne vantaggio perché si rischia lo stato confusionale e di non avere procedure omogenee. Inoltre, non sempre è previsto che si debba procedere ad elezioni a suffragio universale perché possono addirittura aversi elezioni indirette, come in qualche caso è stabilito, togliendo quindi al cittadino elettore la possibilità di esprimere gli organi di vertice degli enti che si costituiscono attraverso la fusione di altre comunità di dimensioni più piccole.
L'altro punto che mi sembra preoccupante - vengo così alle osservazioni svolte inizialmente al Senato e alla Camera - è che il Senato aveva previsto meccanismi di tutela per le opposizioni all'interno delle amministrazioni locali, meccanismi che sono letteralmente crollati.
Riteniamo che, quando si approvano norme di questo tipo, non bisogna pensare soltanto alla gestione pura e semplice della cosa pubblica, ma anche al fatto che la gestione è preceduta da un momento politico e si deve basare sul consenso, che non è mai totale né può essere totalitario; occorre anche verificare la quantità del consenso e del dissenso. A coloro i quali non gestiscono direttamente la cosa pubblica devono essere forniti gli strumenti per controllare come la cosa pubblica viene gestita e amministrata. Ad esempio, l'articolo 12 del testo approvato dal Senato, ora soppresso, già nel titolo recitava: «Materie regolate dagli statuti degli enti locali»; alla lettera b), poi, tale articolo prevedeva «la designazione, da parte delle opposizioni, della presidenza delle commissioni consiliari aventi funzioni di controllo o di garanzia», un principio, credo, ampiamente condiviso all'interno delle due Camere.
Tale principio, però, è stato cassato, come quello successivo contenuto nella lettera c) dello stesso articolo 12, dove si faceva riferimento al «potere di informazione dei consiglieri anche mediante la nomina di una rappresentanza dei gruppi di minoranza negli organi collegiali degli enti»; anche in questo caso, quindi, si è dimostrata insensibilità verso i diritti delle opposizioni. Avevamo chiesto che venissero quanto meno enunciati i principi per poter elaborare lo statuto delle opposizioni, ma ci accorgiamo che non vi è la volontà della maggioranza di procedere in tale direzione.
L'altro punto che dimostra la validità del mio assunto concerne l'articolo 14, che è stato soppresso. Tale articolo riguardava la composizione del collegio dei sindaci revisori e prevedeva «la presenza di un rappresentante dei gruppi di minoranza»; detto principio a parole era condiviso dall'intero Parlamento ma, al momento della sua applicazione, il Senato ha avuto il buonsenso di introdurlo, mentre la Camera lo ha soppresso.
Riteniamo che ciò rappresenti un calo di attenzione verso i diritti dell'opposizione e che non faccia onore ai principi della democrazia. Nel momento in cui abbiamo voluto - e abbiamo fatto bene - rafforzare i poteri di chi amministra (il sindaco e la giunta), contemporaneamente avremmo dovuto rafforzare i poteri di controllo, in maniera tale che il potere di gestione venisse esercitato alla luce del sole, sotto i riflettori, nell'interesse dell'intera collettività e non di una parte politica; chi governa, infatti, è comunque espressione di una parte politica che si contrappone ad una o più altre parti che hanno perso le elezioni. Non è scritto da nessuna parte che chi amministra venga poi «folgorato sulla via di Damasco» e immediatamente diventi interprete e possa rappresentare tutta la collettività; se è giusto che chi governa abbia più poteri, è altrettanto opportuno che vi siano altri organismi (i consigli e le assemblee, per esempio) dotati di forti poteri di controllo, in grado di incidere sulla correttezza dell'esercizio della gestione amministrativa.
Un'ultima notazione. È ovvio - e credo che venga dettato dal buon senso - che quando si approvano norme, soprattutto norme che hanno degli effetti sulle tasche dei contribuenti (diciamolo così, ricorrendo ad un'espressione un po' popolare),
Sottolineo peraltro come tali parametri siano del tutto saltati con la formulazione delle nuove norme. Ad esempio, in ordine all'eventuale incremento delle piante organiche, è stato eliminato l'obbligo di attenersi ai parametri dettati - se non ricordo male - dal decreto legislativo n. 504, che fissava appunto le regole per l'individuazione del deficit strutturale o del dissesto finanziario. Non si fa quindi più riferimento - ed è un fatto assai grave - a tale parametro perché non si vincolano più i comuni al rispetto di principi di carattere generale che vanno nell'interesse dell'intera collettività nazionale.
Anche in ordine ai gettoni di presenza dati agli amministratori non vengono fissati dei paletti, che sarebbero stati invece necessari. Ci rendiamo conto che l'attuale provvedimento non cambia sostanzialmente molto rispetto alla legge n. 816, che riguardava lo status degli amministratori; esso, tutto sommato, non fa altro che aggiornare la norma alle esigenze dell'attualità. Tuttavia, credo che bisognerebbe essere sinceri sino in fondo: da una parte, non si può sostenere che è il Governo, in particolare il ministro dell'interno, con un proprio decreto a stabilire la misura minima delle indennità (come recita il comma 9 dell'articolo 21), e dall'altra parte, al comma 11, sostenere che le indennità e i gettoni di presenza possano essere incrementati o diminuiti con delibera rispettivamente della giunta e del consiglio. Si introdurrebbe altrimenti contemporaneamente una deroga senza prevedere alcun obbligo, neppure quello di verificare se il comune sia in deficit strutturale, perché è prevista soltanto l'ipotesi del dissesto finanziario.
Poiché sappiamo che non vi è una grande differenza tra il deficit strutturale ed il dissesto, a nostro avviso la possibilità di incrementare le indennità va assegnata ai comuni solo se ed in quanto possono dimostrare che le proprie finanze godono di buona salute e quindi se possono dimostrare di non trovarsi nelle condizioni di deficit strutturale (cosa che al momento non avviene, poiché viene affidato tutto all'ampia discrezionalità degli amministratori). Non credo che con questa norma noi rendiamo un buon servizio ai nostri cittadini contribuenti. Infatti, un altro principio che dovrebbe essere chiaro a tutti - e che, per la verità, a parole è sempre stato chiaro - è che, se ci deve essere il federalismo, è ovvio che ciò deve accompagnarsi ad una autonoma capacità di spesa. Fino a quando non ci sarà una totale e autonoma capacità di spesa, il
A conclusione di questo discorso, vorrei far notare una cosa che a me è sembrata abnorme che riguarda le aree metropolitane e il previsto referendum per l'istituzione delle stesse. Su tale questione il Senato aveva svolto un buon lavoro ma la Camera, purtroppo, almeno in sede di esame in Commissione, non ha dimostrato uguale sensibilità. Infatti, sulle aree metropolitane, al comma 3, era previsto che sarebbe stata approvata con referendum non solo la perimetrazione dell'area stessa ma anche il relativo statuto. Adesso, però, con il testo al nostro esame, il referendum dovrebbe decidere solo della perimetrazione e non di una questione fondamentale: le regole del gioco poste alla base della vita democratica dell'area metropolitana medesima. Perché sottrarre questo fattore vitale e indispensabile per la democrazia alla valutazione dei cittadini per rimetterla alla valutazione degli organi interni, che oggettivamente non potrebbero rappresentare, anche se si sforzassero, l'intera collettività, ma che rappresenteranno sempre e comunque una parte politica? Non ritengo giusto sottrarre questa materia al vaglio, al voto e al parere dei cittadini.
Mi rendo conto di essere stato un po' disordinato nella mia esposizione delle osservazioni sul provvedimento in esame, ma credo di essere stato chiaro sui seguenti punti: in primo luogo, va eliminato l'ingorgo istituzionale delimitando poteri e funzioni di ogni nuovo organismo per evitare nella legge (e non negli statuti o nei regolamenti) le sovrapposizioni che, alla fine, comportano costi non sottoposti ad alcuna verifica; in secondo luogo, è giusto dare voce e visibilità alle opposizioni attraverso la elaborazione di principi che possono rientrare nel cosiddetto statuto delle opposizioni; infine, se federalismo deve essere, esso deve essere attuato con risorse proprie e non con quelle di altre collettività. È dunque giusto che il Parlamento intervenga per porre dei paletti laddove si evincesse che determinate scelte andrebbero a gravare sulla finanza pubblica trasformandosi, alla fine dei conti, in un appesantimento dell'imposizione fiscale per il contribuente che consente di mantenere in piedi la macchina dello Stato.
Se dovessi, per così dire, raccontare ad un fratello minore quali sono stati i tre fenomeni politico-legislativi tipici di questo decennio che si concluderà fra poco, non avrei dubbi ad individuare i seguenti filoni: la transizione dal sistema proporzionale al sistema maggioritario sul piano politico, con tutte le accelerazioni e le frenate che a tutt'oggi comporta; il processo di risanamento economico e finanziario del bilancio del paese, che tramite l'imponente macchina delle privatizzazioni ci ha condotto nel maggio scorso al raggiungimento del traguardo dell'euro; infine, il combinato disposto della riforma del sistema delle autonomie locali e del processo di decentramento di poteri verso la periferia.
Credo che questo spieghi come mai nel 1996, quando il centro-sinistra ha chiesto i voti per governare questo paese, quello delle autonomie locali sia stato uno dei temi cardine, insieme a quelli dell'Europa e della scuola: erano tre punti qualificanti di quel programma. Ci rendevamo conto, credo, che nella transizione ancora incompiuta (lo è oggi, lo era a maggior ragione tre anni fa) i sindaci stavano diventando un punto di riferimento importante ed in generale i poteri locali rappresentavano, e credo rappresentino tuttora, una delle speranze di rinnovamento possibile della politica. Il secondo elemento era che tutti avevamo ben presente che il centralismo burocratico era, in qualche modo, una delle malattie mortali del sistema da sconfiggere, una delle motivazioni che spiegavano il cattivo funzionamento in genere della macchina statale.
Voglio aggiungere anche un punto politico molto di parte: la campagna elettorale del 1995 (siamo alla vigilia del rinnovo di quel mandato il 13 giugno) fu il primo banco di prova, informale ma nella realtà molto vero, del centro-sinistra, nel quale quest'ultimo riportò un significativo successo. Credo dunque che legittimamente la coalizione che sostiene questo Governo abbia immaginato, nel corso del periodo 1995-1996, di fondare sul radicamento territoriale e su un rapporto speciale con le autonomie locali uno degli strumenti per poter battere il centro-destra nelle elezioni del 1996, vincendo questa scommessa. Dal 1996 ad oggi la maggioranza ha tentato di fare una revisione dell'architettura alta del sistema, a livello costituzionale, e sappiamo come è andata a finire. Da parte nostra, come popolari apprezziamo il fatto che il Governo stia cercando di salvare dal naufragio della bicamerale alcuni pezzi della nave, consegnandoli all'attenzione del Parlamento e speriamo che su uno di questi punti - almeno sulla revisione dell'ordinamento su base federale dello Stato - si possa recuperare quella serenità di dibattito che consenta di concludere la legislatura modificando, ripeto, l'architettura alta del sistema.
Il secondo punto dell'impegno del Governo ha riguardato il radicale e coraggioso conferimento di funzioni amministrative - quella che comunemente chiamiamo riforma Bassanini - che oggi vive la sua fase più delicata. Siamo tutti consapevoli del fatto che, una volta conferiti i poteri in via generale, diventa difficile scegliere le risorse, i beni strumentali e le persone perché le resistenze riaffiorano ed esplodono.
Il terzo punto dell'impegno è stato rappresentato dalla revisione della normativa che disciplina complessivamente l'architettura bassa degli enti locali, quella delineata dalla legge n. 142, dalla legge n. 81 e da altri provvedimenti. Contrariamente alla scelta fatta dal ministro Berlinguer, che ha spezzettato fin dall'inizio i vagoni della riforma scolastica, il treno è partito tutto insieme, ma sta arrivando in stazione in ordine sparso. Ci stiamo occupando di uno dei vagoni più importanti,
Fatta questa panoramica, che permetterà di capire almeno al fratello minore che citavo all'inizio a che punto del processo siamo, di cosa ci stiamo occupando, desidero innanzitutto esprimere sinteticamente tre giudizi sui capi del provvedimento che oggi si discute in aula, in secondo luogo, manifestare due difficoltà e, infine, formulare un auspicio.
Per quanto riguarda i giudizi, in riferimento al capo primo, ritengo che esso fornisca una rilettura equilibrata della legge n. 142, dove l'enfasi è sull'aggettivo «equilibrata» e spiegherò perché. Teniamo conto della variegata attuazione della legge n. 142 e di come in modo variegato il paese abbia vissuto da nord a sud l'esperienza dell'autonomia; prendiamo atto di alcune difficoltà di funzionamento, ma devo dire che diamo una risposta, magari non radicalmente innovativa, ma che finalmente tiene conto del dialogo che si è instaurato fra Parlamento e amministratori locali. Apro una parentesi per dire che, forse, una delle novità che ha permesso di instaurare un miglior rapporto fra Parlamento e amministrazioni locali - spero che anche gli storici daranno una valutazione positiva - è l'aumento della percentuale di parlamentari che hanno alle proprie spalle un'esperienza nei comuni, nelle province e nelle regioni e, dunque, hanno vissuto, spesso per molti anni, quella sorta di trincea rappresentata dal governo del territorio e dall'amministrazione locale che oggi permette di guardare con maggiore simpatia e solidarietà alle difficoltà che vivono sindaci, assessori e consiglieri comunali.
Su alcuni punti, nella fattispecie agli articoli 6 e 7, non nascondo che si è osato di più; quindi si avranno alcune difficoltà, in particolare sull'articolo 7, ma complessivamente il mio gruppo ed io diamo un giudizio positivo del capo primo.
Promuovo con riserva il capo secondo, dato che non ho cambiato idea dal dibattito avvenuto in Commissione e vorrei che la memoria storica della Camera, cioè i suoi atti formali, ne recassero traccia. Ritengo che sulle aree metropolitane il Parlamento subisca, oggi, una pressione delle grandi aree e, soprattutto, degli amministratori delle stesse, ma che partorisca un testo che non elimina i problemi che i nove anni di mancata attuazione del capo sesto della legge n. 142 avevano lasciato non casualmente in sospeso.
Quando fu partorito il capo VI della legge n. 142, il legislatore dell'epoca aveva in mente l'obiettivo di dotare il mondo delle autonomie locali di uno strumento di governo dei processi di area vasta, nella consapevolezza che molti di tali processi non trovavano più nelle dotazioni strumentali e politiche di comuni e province una risposta efficace e all'altezza dei problemi che tali aree generavano.
In Parlamento - credo non sia una mia malizia personale - si aggiunse la speranza, prima che partisse il famoso processo di riforma della finanza locale - e, dunque, in un momento in cui la finanza derivata, cioè quella trasferita dal centro alla periferia, pesava molto sui bilanci locali -, che, essendo inseriti nella categoria delle aree metropolitane, si diventasse destinatari di finanziamenti speciali, di canali privilegiati di attenzione da parte del Governo.
La conferma della mia supposizione è nel fatto che nessuno potrebbe oggi obiettare che le aree metropolitane vere del nostro paese sono tre, Roma, Milano e Napoli; invece, sono molte di più, oltre il triplo, quelle che la legge n. 142 prevedeva e che noi oggi confermiamo.
Ma qualcosa è cambiato in questi otto anni e si tratta, sostanzialmente, di due aspetti che non mi sembrano secondari rispetto al giudizio politico che dobbiamo esprimere. In primo luogo, tutte le aree metropolitane che la legge n. 142 aveva individuato sono divenute, per un motivo o per l'altro, oggetto di attenzione speciale da parte dei Governi che via via si sono succeduti: per il G7, per un vertice, per le Olimpiadi o per il Giubileo. Insomma, per
Ma vi è anche una seconda considerazione da fare: in questi anni varie leggi dello Stato hanno inventato per molti dei problemi di area vasta alcuni strumenti «a geometria variabile», che di volta in volta sono stati messi in campo per fronteggiare tali emergenze. Mi fermo ad un solo esempio: si parlava del ciclo dell'acqua come di un classico caso di problema di area vasta che i tradizionali enti - province e comuni - non erano in grado di governare. La legge Galli e la relativa individuazione degli ambiti territoriali ottimali hanno conferito al sistema delle autonomie territoriali uno strumento ad hoc che, con una sua geometria, governa quel tipo di problema. La stessa considerazione potrebbe essere fatta per altri problemi che generavano una domanda di area metropolitana e che hanno trovato una risposta non in quest'ultima, ma in strumenti - ripeto - differenziati con il passare degli anni.
In tale contesto noi abbiamo dato, invece, una risposta tradizionale: abbiamo modificato e riletto il capo VI; abbiamo avuto un dialogo molto fitto con l'ANCI, tenendo conto delle considerazioni che questa ha fatto; abbiamo introdotto un percorso sicuramente più coattivo, che non darà molte vie di fuga alle aree metropolitane, che fino ad oggi si erano destreggiate davanti al dovere di perimetrazione territoriale e politica, prima dei propri confini e poi delle proprie funzioni.
Abbiamo lasciato in piedi alcuni problemi che, secondo me, restano, allo stato dell'arte, insormontabili: penso alla provincia «ciambella». Non sempre - anzi, credo quasi mai - l'area metropolitana che verrà individuata coinciderà con la provincia e, dunque, se ciò non avverrà e se la città metropolitana assorbirà i poteri della provincia, genereremo un mostro istituzionale, cioè la provincia a «ciambella», che non ha poteri sul «buco», ma ha poteri sui comuni periferici, spesso talmente periferici da essere distanti un'ora e mezza di macchina l'uno dall'altro.
Abbiamo accettato una pressione - ed è per questo che esprimo un giudizio di riserva - ma abbiamo preferito non frenare questo vagone del treno rinviando in qualche modo alla fantasia e alla capacità degli amministratori locali la soluzione dei problemi che con questo testo non risolviamo.
Ho solo parole di elogio nei confronti del capo III perché, occupandosi dello status degli amministratori, risolve - mi auguro in via definitiva - una questione, sana un vulnus politico che avevamo aperto all'inizio di questo decennio quando, montando la marea di Tangentopoli, avevamo immaginato sotto la pressione dell'opinione pubblica che la riduzione del numero degli amministratori pubblici e un trattamento possibilmente peggiore fossero un modo per risanare la politica. Abbiamo dovuto prendere atto, proprio nel momento in cui conferivamo nuovi poteri e nuove funzioni alle amministrazioni locali, che oggi chi si impegna nel governo locale va ringraziato e va posto nella condizione di svolgere il suo lavoro. Su 8.100 comuni - poco più o poco meno - che compongono il tessuto amministrativo del paese, sono 539 o 540 quelli al di sopra di 15 mila abitanti, nei quali, dunque, fare l'amministratore può anche diventare il tassello di una grande carriera politica; nella stragrande maggioranza dei casi però siamo davanti a piccole realtà dove chi amministra e dedica tempo al governo del territorio e alla rappresentanza della propria comunità civile compie soltanto un sacrificio. Rimettere mano allo status degli amministratori consentendo loro, con l'adeguamento dei gettoni di presenza o con i permessi dal lavoro, di dedicarsi con pienezza e con minor sacrificio alla loro
Vorrei ora far cenno alle due difficoltà. Per quanto riguarda la prima, voglio ricordare che la mia esperienza parlamentare degli ultimi due anni e la precedente esperienza di dieci anni di amministratore mi hanno insegnato che oggi la lettura politica di parte dei fenomeni dell'amministrazione non tiene più. Credo che questo sia un tema rispetto al quale la divisione fra centro-destra e centro-sinistra, fra partiti contro altri partiti al nord o al sud, non riesce più ad interpretare le differenti letture che oggi si danno della vita delle comunità locali. Oggi - lo dico sulla base della mia esperienza di legislatore, maturata anche nel corso dell'esame in Commissione - ciò che conta è l'appartenenza alla categoria, cioè conta se si è sindaco di una grande città o di un piccolo comune, se si è assessore esterno o interno, se si è consigliere comunale o si fa parte dell'esecutivo. La lettura di cui il legislatore è stato oggi testimone e anche il destinatario di pressione è il senso di appartenenza al tessuto, al delicato puzzle dei ruoli dell'amministrazione locale. Questo impone a chi rappresenta la maggioranza e a chi l'opposizione di superare quella che potrebbe essere considerata una comoda categoria di appartenenza ma rischia di essere una superata categoria di appartenenza. Non è con questo tipo di lettura che noi riusciamo a capire ciò che sta accadendo nelle amministrazioni locali.
Per quanto riguarda la seconda difficoltà, credo che, oltre alla lettura per categoria e per ruolo, conti una precedente divisione nel modo di pensare le autonomie locali. Esiste un filone che ha speso e scommesso tutto sull'investitura diretta dei sindaci, sulla capacità dei governi locali di recuperare efficienza e capacità decisionale. Chi interpreta bene questo filone - il partito dei sindaci, il partito degli esecutivi - ci chiede di essere oggi coerenti con il disegno che abbiamo generato all'inizio degli anni novanta e di rendere il sindaco e la giunta, dopo averli fatti padroni della decisione politica, padroni anche del processo amministrativo. Questo partito trasversale rivolge al Parlamento una lamentela: noi siamo svelti e rapidi, finché si tratta di adottare una delibera e di farla approvare dal consiglio comunale, ma poi perdiamo di autorevolezza e di rapidità quando si tratta di interloquire con la macchina amministrativa (un tampone forse lo abbiamo messo con la Bassanini). Questo partito ci chiede autorevolezza e sveltezza nei rapporti con le altre parti dello Stato. Ovvero, quando un sindaco ha a che fare con soprintendenze, aziende sanitarie locali ed organismi che non rispondono dei loro tempi e delle loro decisioni, viene denunciato un vizio, un limite, una frattura non risolta.
Tuttavia, davanti a questa domanda di ulteriore governabilità, vi è un filone che definirei del tutto opposto: quello di coloro che dicono che le scelte fatte all'inizio degli anni novanta - la legge n. 81, la finanza locale propria con percentuali che sfiorano il 70 per cento della finanza complessiva - hanno comportato, in termini di costo, il cimitero della partecipazione diffusa sul territorio; ovvero, nessuno vuole più candidarsi per i consigli comunali; i consigli sono svuotati; chi vuole fare attività politica si candida direttamente alla carica di assessore; le sedute dei consigli sono perdite di tempo. Quindi, tutto ciò che i cittadini recuperano in termini di capacità decisionale lo perdono in democrazia.
Ci siamo attenuti ad un dibattito che taglia trasversalmente gli schieramenti, non facendo di questo testo una opzione ideologica in un senso o nell'altro: è giusto, però, che una sede politica - anzi, la sovrana sede politica del Parlamento - registri almeno che questo è il dibattito che attraversa ogni assemblea di partito, di coalizione, di amministratori dall'Aspromonte alla Valtellina.
L'auspicio dei popolari - ed il mio personale - è che il testo al nostro esame non venga «blindato» né sia assaltabile a
Abbiamo un dovere, visto che questo è uno degli ultimi vagoni ad entrare in stazione: quello di consegnare agli amministratori, che saranno eletti il prossimo 13 giugno, una legge compiuta: abbiamo, quindi, il dovere di restituire rapidamente il testo al Senato e di esaminare con molta rapidità quello che ci proviene dal Senato, contenente le modifiche di natura elettorale; sappiamo, infatti, che le modifiche di natura elettorale incideranno anche sul modo di aggiudicare i voti ed i seggi per le elezioni del prossimo 13 giugno.
In conclusione, se quello al nostro esame è un testo nel quale nessuno si può riconoscere interamente, proprio perché rappresenta il punto di mediazione di culture che sono esplose, di appartenenze che sono cambiate e di dibattiti culturali che ancora debbono curare il necessario approfondimento, speriamo almeno di poter recuperare ad una tale difficoltà, di trovare una sintesi, con una rapida approvazione che permetta di far divenire legge, entro il 13 giugno, il testo al nostro esame.
Il gruppo comunista valuta positivamente l'ampliamento delle autonomie statutarie e regolamentari degli enti locali.
In effetti, fin dall'approvazione della legge n. 142 del 1990, il riconoscimento delle autonomie locali e l'attuazione del decentramento amministrativo, previsti dall'articolo 5 della Costituzione, avevano visto una realizzazione a dir poco insufficiente: condividiamo, pertanto, le previsioni tendenti all'ampliamento degli ambiti dell'autonomia organizzativa, normativa ed amministrativa, così come l'incentivazione all'esercizio associato di funzioni che interessano più circoscrizioni comunali, tendente ad assicurare una gestione più organica e più efficace dei servizi pubblici.
Altri aspetti positivi riguardano la previsione di forme di garanzia e di partecipazione delle minoranze, l'ampliamento della partecipazione dei cittadini all'amministrazione locale, la possibilità data agli elettori di far valere in giudizio le azioni ed i ricorsi che spettano al comune, l'adeguata preventiva informazione di gruppi e singoli consiglieri, così come la previsione che statuto e regolamento indichino modalità di esercizio delle forme di controllo del consiglio sull'attuazione degli obiettivi programmatici, sull'efficienza della gestione e dell'organizzazione dei servizi e sulla contabilità. Non è molto, certo, di fronte al generale annullamento del ruolo delle assemblee elettive, che richiederebbe ben altri interventi, ma è almeno un segnale di rispetto degli eletti e della rappresentanza.
La nostra critica più netta va invece al comma 5 dell'articolo 2, in cui si prevede che gli enti locali, nell'esercizio delle funzioni proprie e di quelle conferite loro con legge dello Stato e della regione, operino secondo il principio di sussidiarietà, «utilizzando l'intervento di famiglie, associazioni, comunità e imprese private». Se, infatti, non abbiamo preclusioni rispetto ad un'ottica di sussidiarietà verticale, che assegna al livello di governo superiore compiti che quello inferiore, più vicino alla popolazione interessata, non può comunque svolgere adeguatamente, nutriamo la preoccupazione fondata che la previsione in oggetto dia il via all'abdicazione dell'ente pubblico rispetto ad un ruolo fondamentale che gli compete nel dare risposte alle istanze ed ai bisogni dei cittadini, determinando così una sostanziale
In proposito vorrei ricordare che l'articolo 3 della Costituzione, al secondo comma, assegna alla Repubblica - e quindi anche agli enti locali, che ne sono parte costitutiva - il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Indubbiamente, vi sono aspetti da rivedere e correggere, soprattutto in relazione ad una gestione pubblica spesso inefficace, inefficiente e diseconomica, ma intervenire delegando a privati compiti e funzioni fondamentali rischia di essere un rimedio peggiore del male e di vanificare l'intento degli estensori dell'articolo 3 della nostra Carta costituzionale, perciò mi auguro vivamente che in Comitato dei nove si manifesti la disponibilità a discutere l'emendamento presentato in proposito dal mio gruppo.
Per quanto riguarda le aree metropolitane, è indubbio il fallimento delle previsioni della legge n. 142 ed è altresì evidente la necessità di dare risposte alle esigenze peculiari del territorio di grandi aree urbane, di garantire un governo unitario ed interventi coordinati su determinate materie in contesti territoriali legati geograficamente ed economicamente. Concordiamo quindi sulla proposta di un unico livello di governo e di amministrazione in realtà complesse, in modo da assicurare un'organizzazione adeguata dei servizi. Abbiamo perplessità, che espliciterò più dettagliatamente in sede di illustrazione degli emendamenti, in relazione a conseguenze non sufficientemente approfondite delle previsioni del testo al nostro esame ed alla scelta di demandare agli statuti le decisioni inerenti agli organi delle città metropolitane, alla forma di governo ed al sistema elettorale.
L'intero capo III, che disciplina i diritti ed i doveri degli amministratori locali, oltre a dare risposte ad esigenze legittime riafferma giustamente un principio contenuto anch'esso nella nostra Costituzione, nell'articolo 51, cioè il diritto di disporre del tempo necessario per l'esercizio di funzioni pubbliche. È importante la previsione esplicita che sia la Repubblica a tutelare il diritto all'espletamento del mandato disponendo del tempo, dei servizi e delle risorse necessari. Significativa è anche la previsione che impone agli enti locali di fissare le modalità per fornire servizi, risorse ed attrezzature necessari per l'attività dei singoli consiglieri e dei gruppi consiliari. Anche l'articolo relativo alle indennità, in particolare la previsione di precisi criteri per la sua determinazione con decreto del ministro dell'interno, nonché quello riguardante i permessi, con l'ampliamento dell'ambito temporale per adempimenti relativi alle funzioni elettive, sottolineano il significato dell'impegno politico in favore della comunità ed assegnano a questo impegno il dovuto riconoscimento in termini di dignità.
Infine, concordo con il sottosegretario Vigneri nell'apprezzare la delega per l'adozione di un testo unico comprensivo di tutte le disposizioni legislative in materia di ordinamento dei comuni e delle province. Anche questo credo sia un modo apprezzabile per dare risposte concrete ai cittadini e per facilitare il loro effettivo avvicinamento alle leggi ed alle istituzioni (Applausi dei deputati dei gruppi comunista, dei democratici di sinistra-l'Ulivo e dei popolari e democratici-l'Ulivo).