Seduta n. 463 del 14/1/1999

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Seguito della discussione sulle comunicazioni del Governo in ordine al patto sociale per lo sviluppo e l'occupazione (ore 9,13).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito della discussione sulle comunicazioni del Governo in ordine al patto sociale per lo sviluppo e l'occupazione, iniziata nella seduta di ieri.

(Ripresa della discussione)

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Salvati. Ne ha facoltà.

MICHELE SALVATI. Come affermato dal Presidente del Consiglio, all'inizio del suo intervento, il patto sociale per lo sviluppo e l'occupazione rappresenta un salto di qualità nei metodi concertativi, che i Governi seguiti alla crisi finanziaria e politica degli anni novanta, hanno tutti seguito, con la breve eccezione del Governo Berlusconi.
Esso rappresenta un salto di qualità, sia in direzione dell'estensione delle materie soggette a concertazione, sia in direzione dell'estensione dei soggetti coinvolti nella concertazione.
Circa le materie, si è passati da quelle strettamente legate alla dinamica retributiva e, dunque, alla politica dei redditi, che costituivano l'asse dei grandi accordi promossi dai Governi Amato e Ciampi, ad una materia assai più ampia come quella del riassetto del settore previdenziale sotto il Governo Dini, sino all'attuale apogeo del


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metodo concertativo che vede, come oggetto di confronto - o negoziazione o trattativa, come la volete chiamare - l'intero disegno delle politiche economiche e sociali del Governo ed una parte non piccola delle politiche istituzionali.
Circa i soggetti, si è passati da quelli classici della politica dei redditi - le principali associazioni degli imprenditori ed i tre principali sindacati - ad una gamma assai più vasta di associazioni degli interessi dei produttori, sia dal lato del lavoro, che da quello dell'impresa.
Il patto è stato sottoscritto da ben trentadue soggetti: ciò costituisce, credo, un record europeo in materia. Poiché il nostro Stato si articola in autonomie territoriali con poteri forti e crescenti, si sono associati al patto, dal lato del settore pubblico, anche i rappresentanti di tali autonomie.
La concertazione stessa - e in particolare questa sua doppia estensione - merita qualche commento di fronte alle esaltazioni acritiche che taluno ne ha fatto da parte della maggioranza, ma soprattutto, di fronte all'allarme ingiustificato che è venuto da qualche esponente dell'opposizione.
Presa a giuste dosi, avendone ben presenti i limiti e in condizioni storiche idonee, a mio modo di vedere, si tratta di un'utile tecnica di governo democratico di società complesse, dove gli interessi sono densamente rappresentati, le loro organizzazioni sono percepite come rappresentative e, quindi, dispongono di un notevole potere di indirizzo sui loro membri.
Gli scienziati della politica hanno lungamente studiato questa forma di governo, da loro definita come neocorporativa o di corporativismo democratico, per distinguerla dal corporativismo autoritario tra le due guerre.
Questa parola - neocorporativismo - piace poco ai sindacati e in genere ai soggetti della concertazione, ma così viene definita dai politologi, i quali l'hanno studiata soprattutto negli anni settanta, per il successo che questa forma di governo sembrava avere in alcuni paesi nel controllare il pericolo numero uno di allora - l'inflazione -, senza cadere nell'opposto pericolo di politiche monetarie restrittive e, dunque, di ristagno del reddito e di aumento della disoccupazione.
La concertazione studiata era dunque quella più semplice, quella legata alla politica dei redditi e i paesi neocorporativi erano quelli che in cui tuttora prevalgono forme estese di consultazione e negoziazione tra Governo e interessi organizzati: l'Austria, paese tipicamente corporativo, come pochi; l'Olanda e i paesi nordici.
L'Italia, come al solito, è un caso a parte: né liberale né corporativa. L'esperienza dei Governi di solidarietà nazionale, nella seconda parte degli anni settanta, fu un primo tentativo di stabilizzazione consensuale, che fallì per inidoneità delle condizioni politiche: in sostanza, perché il partito comunista era ancora comunista e si stava aprendo un conflitto molto forte con i socialisti.
Negli anni ottanta si continuò a parlare di politica dei redditi ma le condizioni, per diversi motivi, continuavano a rimanere inidonee; c'era conflitto aperto tra i due grandi partiti del movimento operaio e il conflitto si rifletteva nei sindacati. Tutti ricordano l'accordo di san Valentino, il decreto di Craxi e i referendum.
Le condizioni mutano drasticamente con la crisi politica e finanziaria. Tra il 1992 e il 1994 i principali attori della concertazione (Governo, Confindustria e sindacati), sia pure con notevoli difficoltà, trovano che la concertazione è una via d'uscita obbligata in condizioni politiche ed economiche drammatiche; una via d'uscita obbligata per rispondere insieme agli interessi del paese e agli obiettivi organizzativi loro propri.
Nella concertazione, come in tutti i processi politici, non c'è da meravigliarsi che gli attori perseguano propri interessi; c'è solo da rallegrarsi quando questi interessi sono ragionevolmente compatibili con quelli del paese.
Dopo quel periodo drammatico, in cui i sindacati si conquistano sul campo i galloni di forza responsabile e che ha contribuito all'interesse collettivo (è sufficiente vedere lo sviluppo dei salari reali e


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i margini di profitto di quel periodo per rendersene conto), la concertazione è continuata, ingranandosi profondamente nel disegno di politica economica che ha condotto alla stabilizzazione finanziaria e all'ingresso nell'euro. Con l'eccezione del breve Governo Berlusconi, l'intero arco delle politiche economiche di questi ultimi sette anni è un arco concertativo, piaccia o non piaccia.
Ho fatto questo breve excursus su cose arcinote (e vi risparmio considerazioni politologiche o economiche più dettagliate) solo per sottolineare che il patto sociale di cui stiamo discutendo è il frutto di un processo storico contingente; un processo che va valutato come si valutano i processi storici e non sulla base di considerazioni di filosofia politica o di dottrina generale dello Stato, che rivelano appieno in questo contesto di polemica politica contingente la loro astrattezza. Così, ad esempio, diceva ieri Antonio Marzano: il potere di decisione politica è stato strappato al Parlamento; la legislazione è negoziata con soggetti rappresentativi di interessi, mentre solo il Parlamento è il legittimo rappresentante dei cittadini, non in quanto produttori rappresentati da grandi organizzazioni di interesse ma in quanto produttori e consumatori, studenti o operai, meridionali o settentrionali, o negli altri mille aspetti di cui è composta la loro identità completa di cittadini. Nelle osservazioni di Marzano si mischiano considerazioni ideologiche (credo astratte) e legittime preoccupazioni. Vengo alle prime. Le considerazioni ideologiche sono quelle che rappresentano un Parlamento come non lo è più da molti decenni, almeno dall'ingresso dei grandi partiti di massa.
La Camera ha dedicato lo scorso anno un importante convegno, in onore di Aldo Moro, proprio a questi temi e credo che Marzano farebbe bene a leggersi almeno il contributo di Tom Burns. Oggi, noi abbiamo un Governo che ritiene utile discutere con i rappresentanti dei produttori alcuni aspetti del suo programma di politica economica e sociale, anche allo scopo di sollecitare comportamenti conformi, guadagnare consenso e assicurarsi speditezza organizzativa. Tutti fini assolutamente comprensibili.
Questo programma esige il passaggio di leggi attraverso il Parlamento, passaggio che è assicurato dall'obbedienza della maggioranza dei parlamentari alle proposte del Governo che essa sostiene. Che differenza fa, rispetto ad una situazione in cui ugualmente la maggioranza si adegua ai programmi ed alla legislazione del Governo, anche se questo in precedenza non ha discusso con i gruppi di interesse? Se l'onorevole Marzano è affezionato al bipolarismo, alla dialettica Governo-opposizione, ad un Governo forte ed efficace che porta avanti un suo programma e in un certo senso lo fa passare attraverso il Parlamento, dovrebbe sapere che la libera iniziativa, la piena indipendenza del singolo parlamentare rappresentante della nazione, sono molto condizionate, per usare un eufemismo che rasenta la menzogna. Dove invece l'onorevole Marzano esprime una preoccupazione condivisibile è a proposito del fatto che il rischio di interessi delle organizzazioni dei produttori condizionino troppo pesantemente i programmi del Governo e ciò perché gli interessi delle diverse associazioni dei produttori, imprenditori o lavoratori che siano, non coincidono con gli interessi generali del paese. E avrebbe potuto aggiungere, a proposito dell'estensione del tavolo delle trattative a trentadue soggetti, che non è sommando decine e decine di gruppi di interesse che si raggiunge l'interesse generale. Chi rappresenta gli esclusi, le generazioni future o il lungo periodo, cioè quell'arco temporale che non è preso in considerazione dal calcolo degli interessi immediati? Questa è una osservazione del tutto vera, ma è vera sia se si segue il metodo della concertazione, sia un metodo in cui il Governo non si impegna esplicitamente in un negoziato con i gruppi di interesse.
Rifletta l'onorevole Marzano leggendo i resoconti parlamentari sull'esperienza degli anni settanta e ottanta quando il metodo della concertazione non era seguito affatto o almeno non lo era con la


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trasparenza di oggi; egli pensi alla situazione in cui la politica economica la facevano le Commissioni parlamentari, quando i deputati, o almeno alcuni di essi, e alcuni presidenti di Commissioni erano potenti (questa dovrebbe essere una cosa che gli piace), forse che la legislazione non subiva la pressione degli interessi? Non sono state prese, forse, decisioni che hanno danneggiato le generazioni future e gli esclusi? Forse che il lungo periodo era preso adeguatamente in considerazione allora?
Per quei Governi, non esplicitamente concertativi bensì consociativi (che è l'esatto contrario), paghiamo prezzi pesanti ed enormi ancora oggi e li pagheremo domani. Cosa altro è questo 5,5 per cento di avanzo primario che siamo costretti a spremere dal bilancio per molti anni a venire, se non il prezzo altissimo che paghiamo alla dissennatezza del passato, al conflitto e alla sua composizione consociativa? Non è certo dovuto alla concertazione.
La considerazione degli esclusi, delle generazioni future e del lungo periodo è la conseguenza di Governi forti. La presa in considerazione degli interessi di lungo periodo proviene da Governi forti, che essi seguano il metodo della concertazione oppure no. Se essi sono forti, utilizzano il metodo della concertazione al tavolo delle trattative e faranno valere gli interessi di lungo periodo contro l'eventuale visione miope o settoriale di alcune delle organizzazioni che vi partecipano. Se essi sono deboli, soccomberanno a queste visioni miopi anche se non attuano esplicite misure concertative.
Gli interessi miopi e settoriali si difendono molto meglio attraverso pressioni discrete e segrete verso singoli ministri o parlamentari che non in un tavolo aperto dove ciascuno è costretto a tirar fuori le sue carte davanti a tutti. Facendo così, tutti corrono un rischio e lo corre anche il Governo che può non onorare le sue promesse perché ha mal calcolato le sue risorse, mal previsto l'evoluzione dell'ambiente (questo patto si basa su una evoluzione dell'ambiente economico), mal giudicato la sua forza politica in Parlamento per cui le sue leggi possono non passare, ma io credo che questo rischio esplicito sia il sale della democrazia.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Polizzi. Ne ha facoltà.

ROSARIO POLIZZI. Signor Presidente, signor ministro, ben ha fatto qualcuno nei giorni scorsi a definire questo documento più che un patto una scommessa. Essa ha già le caratteristiche per chiamarsi una scommessa persa. Questo documento, il patto sociale per lo sviluppo e l'occupazione, già nella sua parte generale appare di evidente banalità. Si possono leggere infatti una serie di affermazioni che sono la rappresentazione palese della patologia dell'ovvio. In un momento storico come quello che stiamo attraversando, ma soprattutto considerando i personaggi che hanno partecipato all'elaborazione di tale documento, ci aspettavamo qualcosa di più concreto, che non fosse una serie di concetti triti e ritriti, rappresentati come se mai prima d'ora se ne fosse discusso.
Non ci sembra, per esempio, che si rilevi da qualche parte come sia di grande importanza per le prospettive di sviluppo e per l'occupazione il rafforzamento della competitività e dell'efficienza delle piccole e medie imprese. In buona sostanza, il patto è la realizzazione degli obiettivi concordati, che sembrano reggersi su troppe variabili per poter parlare veramente di un'intesa solida e di sicura riuscita finale.
Il contratto di formazione lavoro dove lo abbiamo collocato? Quali soluzioni vengono proposte nel capitolo occupazione? E che dire, per esempio, degli argomenti dell'allegato 4? I Governi che si sono succeduti, la cui risultante è quello odierno, per una serie di inadempienze di tipo culturale e programmatorio hanno determinato amministrazioni territoriali con scarsissima attitudine territoriale. Con un colpo di bacchetta magica e con grande ipocrisia politica, ecco che si richiede, senza precisare mezzi e risorse umane, il rafforzamento della loro efficienza


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ed efficacia ai fini della promozione dello sviluppo socio-economico. E continuando: si parla ancora di coesione e innovazione amministrativa attraverso il miglioramento della qualità dei servizi e degli standard di funzionamento; ma con chi? Con quali strutture? Con quale qualità di servizi e standard di funzionamento? Non ci accorgiamo forse che i primi mancano e che i secondi non hanno alcun parametro di riferimento?
Più avanti nel documento si parla di processi di decentramento di compiti statali, mettendo in condizione le nuove strutture regionali e locali di operare secondo schemi e regole rinnovate e semplificate. Ma conosciamo veramente la realtà amministrativa delle nostre regioni e degli enti locali? Ancora adesso non riescono ad assorbire l'impatto con quei compiti statali che si vorrebbero decentrare, creando all'interno delle strutture regionali e locali fenomeni di distonia che paralizzano le vie stesse di trasmissione di qualsiasi impulso programmatorio.
Si parla di riqualificazione ed aggiornamento professionale delle risorse esistenti e di acquisizione, da parte delle pubbliche amministrazioni, di nuove professionalità capaci di gestire le diversi fasi del cambiamento. Ma con quali strumenti, se ancora una volta nella finanziaria non viene assolutamente definito lo stanziamento dei fondi per la riqualificazione e per l'aggiornamento? Essi vengono identificati, ma non vi è alcuna proposta di chiara distribuzione.
Lo stesso istituto di supporto per la formazione del Ministero del lavoro viene ancora finanziato nella stessa maniera inadeguata, mentre gli viene richiesta, in particolare dalle regioni, una maggiore presenza per adeguarsi agli impegni che questo Governo, con anomala sollecitudine, richiede all'ente locale.
Orbene, il patto sociale di cui si parla oggi guarda attentamente al patto del lavoro del 1993. In cinque anni non sono cambiati i protagonisti e la terminologia per quanto riguarda l'occupazione. Si parlò infatti allora di crisi occupazionale; oggi la si definisce «emergenza lavoro», ma senza precisi impegni economici, programmatori e di certificazione europea non fra cinque anni ma in più breve tempo potremo acquisire una nuova terminologia: il marasma occupazionale (Applausi dei deputati del gruppo di alleanza nazionale).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Boccia. Ne ha facoltà.

ANTONIO BOCCIA. Signor Presidente, colleghi, in taluni interventi dell'opposizione sono stati messi in discussione la centralità ed il ruolo del Parlamento in relazione alla definizione del patto sociale alla nostra attenzione.
Ritengo ingiuste e immotivate queste critiche dell'opposizione. Va apprezzato, invece, proprio il fatto che il Presidente del Consiglio, subito dopo la sigla del patto, riconoscendo la centralità e il ruolo del Parlamento, abbia testualmente affermato: «come le forze sociali si sono riservate di sottoporlo all'approvazione delle rispettive basi elettive, così anche il Governo andrà in Parlamento per ottenere il via alla firma definitiva». È un fatto importante e significativo che in un momento di tentennamento e di sfiducia nelle istituzioni democratiche da parte di tanta gente, frastornata per diversi motivi, soprattutto dalla propaganda delle televisioni di Berlusconi e della seconda rete della RAI, che sia il Parlamento a dire l'ultima parola ed a sancire un itinerario di costruttiva pace sociale. E noi stiamo onestamente facendo questo. In queste ore, al Senato e alla Camera, è il Parlamento che dà il via definitivo al patto sociale.
In secondo luogo, è ingiusto e immotivato non riconoscere che è un successo del Governo, non inteso come maggioranza politica, ma come istituzione, aver definito un patto sociale per lo sviluppo e l'occupazione con le rappresentanze delle forze sociali, segno di una forte coesione della nazione intorno agli obiettivi di rilancio dell'economia e di crescita civile del paese, di ripresa dello sviluppo e di riduzione della disoccupazione. Questo


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complessivo obiettivo comincia, pur se timidamente, ad essere vissuto dal popolo come una missione. Esso crede di potercela fare: come per l'euro, tende finalmente, soprattutto al sud, a rimboccarsi le maniche, partecipa, vuole partecipare attivamente, trova insomma un motivo di unità.
In terzo luogo, non è edificante, dinanzi ai sacrifici di tutti gli italiani indistintamente e alla volontà delle diverse parti sociali, sminuire la portata dell'impegno che l'Italia, anche attraverso questo patto, sta portando avanti per costruire l'ideale europeo e per stare in Europa a fronte alta.
Ho fatto queste tre puntualizzazioni per dire che non mi pare giusto, insomma, che la polemica parlamentare debba spingersi fino all'autodenigrazione per difendere le posizioni di parte. Deve esistere un limite su alcuni valori comuni. Non può valere la logica dell'appartenenza. Deve scattare l'orgoglio di patria, un interesse comune più alto e generale.
Trovo giusto e comprendo, d'altro canto, la distinzione sui contenuti dell'impegno del Governo, in quanto portatore di una linea di maggioranza, e sui metodi adottati. Pensiamo diversamente ed è un bene per la democrazia. Ha ragione l'autorevole collega Marzano: non c'è liberismo nella condotta del Governo D'Alema-Mattarella, come non c'era nel precedente Governo Prodi-Veltroni. Ma noi non siamo liberisti, come non siamo collettivisti. Ci riconosciamo in un progetto che promuove lo sviluppo nella solidarietà. Per noi popolari, in particolare, è un progetto che nasce da lontano, parte dalla Rerum novarum, si radica nella dottrina sociale cristiana, passa per Sturzo, De Gasperi e per le idealità che hanno ispirato l'esperienza positiva della democrazia cristiana. Ieri D'Alema ha messo al centro della sua relazione il diritto di cittadinanza, evidentemente anche per indicare una radice, un'identità, un valore da rispettare, promuovere, difendere. Marini, certo, avrebbe detto «diritto della persona», per lo stesso motivo, ma insieme l'uno e l'altro spiegano una scelta, spiegano il sale del centro-sinistra, segnano la diversità di linea con la destra.
Qualche anno fa D'Antoni nella sua CISL, ieri D'Alema hanno affermato ruolo e forza del metodo-valore della concertazione come ricerca dell'equità sociale. Marini sicuramente avrebbe detto che la nostra ricetta è il solidarismo nella ricerca della giustizia sociale. Cari amici della destra, sicuramente non è la strada dell'assoluta libertà di mercato, secondo la quale chi è più forte vince, chi ha più capitale domina, chi è più ricco diventa sempre più ricco e chi è povero sempre più povero. Questa è la vostra strada, quella liberista ed è la ragione per la quale siamo contrapposti; ciò evidenzia l'alternatività tra il programma dell'Ulivo e quello del Polo, tra la maggioranza di centro-sinistra che governa e l'opposizione di centro-destra. Il patto sociale, dunque, ha un marchio nel quale noi popolari e democratici ci riconosciamo pienamente, pertanto lo sosterremo con operosità.
Nelle premesse del patto, il Governo e le parti sociali ribadiscono di voler conseguire l'obiettivo dello sviluppo e dell'occupazione attraverso una politica dei redditi; ricordo che seguendo tale impostazione, alla fine degli anni sessanta, per impulso dell'accoppiata Colombo-Carli, si ebbe il boom economico ed una grande fase di crescita del nostro paese. Si tratta, quindi, di una linea già sperimentata e con successo, fortemente radicata nella cultura e nel modello proprio del Governo italiano, la stessa che intende coniugare, in un linguaggio che proietta il nostro paese coerentemente in Europa, politiche di convergenza con politiche di coesione.
Sosterremo il patto in un momento nel quale sembrano vincere i nostri ideali - e probabilmente è così -, in un momento nel quale, probabilmente proprio per questo tutti danno addosso al partito popolare, tentando di scipparne parti, quasi come se si volesse cancellarne l'esistenza. Vi è un complesso di identità e, evidentemente, la nostra presenza fa ombra perché si identifica con un progetto e con una linea vincenti. Per tale motivo, per il fatto che ci riconosciamo pienamente nel


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patto, lo sosterremo nell'interesse dell'intero paese; esso pone occupazione e Mezzogiorno al centro dell'azione del Governo e delle parti sociali e del sistema complessivo delle autonomie regionali e locali.
Entro giugno avremo le intese istituzionali di programma, regione per regione, e finalmente saranno decollati gli strumenti di programmazione negoziata. Entro metà giugno del 1999, il Governo dovrà inviare a Bruxelles il piano nazionale per l'occupazione e per la medesima data conosceremo il DPEF per il 2000, che mette in campo i fondi di Agenda 2000 e si inserisce in quell'onda lunga strettamente legata all'Europa.
Tutto ciò vale per il Governo, per i sindacati, per le istituzioni, per le parti sociali, pertanto dovremo tutti farci carico del problema e batterci per il lavoro, tenendo conto dei parametri di convergenza.
Il problema della disoccupazione rappresenta, in questa fase, il disagio più grave del Mezzogiorno ed è il punto sul quale si coniuga la linea politica sottesa a tale patto sociale, l'azione del Governo di centro-sinistra, l'impostazione generale che si vuole dare per il risanamento economico e finanziario e per la ripresa produttiva del nostro paese.
Molto opportunamente, il patto prevede misure mirate a fronteggiare tale situazione, soprattutto meridionale. Al momento della mia elezione a presidente della regione Basilicata nel 1990, presentando la relazione programmatica sui futuri possibili della regione, indicai nella preservazione dalla malavita organizzata, nel superamento del clientelismo e dell'assistenzialismo, nella fine degli interventi «a pioggia», la via per avviare una fase di sviluppo autopropulsivo, fondato sulla consapevolezza dei meridionali di avere diritto alla solidarietà della nazione, ma anche sul dovere di contribuire laboriosamente ad accrescere il prodotto interno del paese. A molti sembrò una strada impossibile quella dell'autosviluppo, ma tanti altri ci credettero! Ora, la Basilicata, pur tra tante contraddizioni, presenta indici in crescita e costituisce un «modellino» funzionante. Abbiamo dimostrato che il sud, anche quello più povero e montagnoso, ce la può fare. Bisogna diffondere, allora, quella cultura e questa convinzione.
Vorrei dire, però, che anche qui a Roma bisogna smetterla di dirigere e di sostituirsi! Una classe dirigente, politica ed amministrativa cresce soprattutto se è lasciata libera di assumersi le proprie responsabilità e di misurarsi con le difficoltà.
La questione meridionale oggi è certamente questione di investimenti e di ripresa dei grandi investimenti, nonché di progetti mirati, come abbiamo detto a Catania, ma è soprattutto, fondamentalmente e prioritariamente, questione culturale! Se non cambia la testa dei meridionali, difficilmente noi ricondurremo in una logica europea il Mezzogiorno e l'intera Italia!
Quando leggo alcune delle «cento idee per lo sviluppo», devo dirvi francamente che da questo punto di vista sono un po' preoccupato.
Dobbiamo a Prodi e a Ciampi se oggi è possibile mettere in campo, come stiamo facendo, risorse finanziarie per la ripresa e per l'occupazione; per il sostegno alle imprese, diretto ed indiretto. Il patto sociale corrobora questo momento ideale. Tutto lascia credere che il 1999 sarà l'anno dell'inversione del tasso di disoccupazione. Dobbiamo operare, dunque, con chiarezza di obiettivi e di procedimenti, facendo leva ed affidamento prevalentemente sulle energie locali e valorizzando sia le capacità produttive e imprenditoriali che esistono e sono numerose nel Mezzogiorno, sia il patrimonio di tanti giovani che possono diventare un lievito formidabile per la riscossa del sud.
Lo Stato - ha detto D'Alema - sia programmatore e promotore. Questa è la prima cosa da fare, se si vuole veramente il riscatto del Mezzogiorno (Applausi dei deputati del gruppo dei popolari e democratici-l'Ulivo)!

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Prestigiacomo. Ne ha facoltà.


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STEFANIA PRESTIGIACOMO. Presidente, ministro Bassolino, colleghi, il fatto che siamo chiamati a discutere questo patto sociale in così poco tempo è sintomatico ed in qualche modo simbolico del ruolo residuale che il Governo ha assegnato alla sede di rappresentanza popolare e politica. Oggi siamo qui a contare i minuti per interventi stringati, quasi discutessimo di una cosa secondaria o, peggio, di una questione che non ci appartiene, che non appartiene al Parlamento. Il Parlamento, unica sede legittimata dalla rappresentanza popolare, è chiamato a fare il notaio di un accordo che evidentemente si vuole «superiore» e che passa da Montecitorio - così come è passato al Senato - solo per un rito svuotato di contenuti e che, invece, si vuole spacciare come una novità, come una grande innovazione. Le scelte e le decisioni sono state assunte altrove, in un'altra sede che si ritiene più rappresentativa di questa, in cui l'esecutivo ha concordato, con corporazioni e con associazioni di categoria, un'intesa finalizzata al solo vantaggio di un Governo che, dalla nascita, è alla continua ricerca di una legittimazione politica.
Questo patto sociale, dunque, segna la prevalenza degli interessi di una parte sulla politica alta e sullo stesso concetto di democrazia parlamentare che è stata ormai esautorata del potere e del diritto di decidere sulle questioni chiave dell'economia italiana. Una sede, quella in cui è stato firmato il patto, da cui resta fuori molta parte del paese, ministro Bassolino: quella dei non garantiti, quella dei piccoli, quella degli autonomi e dei disoccupati.
A poco valgono le considerazioni dell'onorevole D'Alema che finge di stupirsi dell'asprezza della posizione dell'opposizione. Questo blitz costituzionale espropria il Parlamento delle proprie prerogative istituendo, o meglio riesumando, una prassi, quella - come diceva ieri l'onorevole Marzano - della negoziazione delle leggi con i soggetti interessati che, in tempi non lontani, venne aspramente criticata da coloro i quali invece oggi la benedicono, cioè gli eredi del PCI e della CGIL. Eppure, allora esistevano le ragioni economiche - l'alta inflazione, in primo luogo - che giustificavano tali scelte. Oggi ci troviamo di fronte a condizioni economiche diverse, totalmente mutate, che indurrebbero invece alla liberalizzazione e non al dirigismo; che indurrebbero ad interventi di flessibilità, e non ad irrigidimenti. Ma il Governo ha ritenuto di percorrere ugualmente una strada inattuale invitando al tavolo i soliti noti e - perché no? - qualche volto nuovo che si sente ovviamente gratificato nel trattare la propria legittimazione sociale in cambio di una promessa di sgravi fiscali tutt'altro che imminenti e quantificati.
Questo non è un provvedimento economico, non è nemmeno il risultato di un'intesa sugli elementi fondamentali della nostra economica. Questo è un concordato politico che ha finalità politiche.
Lo stupore dell'onorevole D'Alema sorprende. Perché protestano quelli del Polo - si chiede il Capo del Governo - se al tavolo della concertazione sono stati invitati anche i rappresentanti dei piccoli imprenditori, dei commercianti e degli agricoltori, i rappresentanti cioè di quelle categorie a cui fanno riferimento?
Onorevole D'Alema, questo avrebbe dovuto essere il patto di tutti: degli invitati al tavolo ma soprattutto di quelli che non sono stati invitati. In tempi come questi, in cui il regime avanza, è ovvio che alcune categorie, invitate a sottoscrivere un patto, invitate ad un tavolo di trattativa per la prima volta, accettino le proposte, anche per il clima di paura di essere esclusi e di preoccupazione diffuso nel nostro paese. Oggi ci si chiede di dare ad una mediazione fra interessi politici governativi ed interessi economici particolari la legittimazione del Parlamento, che è l'unica sede rappresentativa di tutti costituzionalmente riconosciuta.
Poco conta se il patto sociale è privo di copertura finanziaria, e potremmo dire anche privo di serietà; poco conta se questa rappresenta una finzione a cui le categorie si sono prestate, fingendo di non vedere che i promessi sgravi fiscali e


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contributivi non sono definiti e certi, e non in grado, quindi, di innescare sviluppo e nuova occupazione, bensì successivi ed ipotetici, subordinati ad un certo incremento delle entrate per il recupero dell'evasione; poco conta se di fatto si è modificata, con una procedura extraparlamentare ed extrapolitica, la legge finanziaria, frutto di quaranta giorni di dibattito parlamentare, e se si contraddice il documento di programmazione economico finanziaria; poco conta se si tratta di una fumosa e ponderosa serie di dichiarazioni di intenti e di promesse reciproche dall'incerta applicabilità e dagli ancora più incerti benefìci sull'economia nazionale. Conta poco tutto, fuorché l'esigenza che il Parlamento, in due giorni, approvi questo verbale di armistizio tra D'Alema e le corporazioni dei garantiti del paese, un documento che legittima coloro che l'hanno firmato come i depositari di un nuovo e superiore potere legislativo, di un nuovo parcellizzato - dico io - interesse nazionale.
Noi voteremo, ovviamente, contro questo documento, perché costituisce una grave violazione dei principi della democrazia rappresentativa e della Costituzione della Repubblica, ma voteremo contro anche perché lo riteniamo dannoso nel merito per il paese, dal momento che opera nella direzione esattamente opposta a quella che l'Italia dovrebbe imboccare per modernizzare il proprio sistema produttivo ed il proprio sistema di gestione dei processi economici.
Un paese come il nostro, che ha faticosamente raggiunto il traguardo dell'integrazione monetaria europea e che si deve porre oggi il problema della concorrenzialità della propria economia su scala continentale, dovrebbe operare per eliminare le rigidità del proprio sistema economico. Sarebbe necessario agevolare una maggiore elasticità della capacità di produzione, che rappresenta la nostra unica risorsa in grado di fronteggiare i mercati, in rapidissima evoluzione, di beni e servizi. Su tali moderni mercati globali resisterà solo chi saprà modificare nei tempi più brevi la propria capacità produttiva, in modo da fronteggiare gli sbalzi e le evoluzioni del sistema continentale. Invece, il patto cosa fa? Introduce nuovi elementi di rigidità e finisce per ampliare la già vasta platea dei garantiti, in cambio di una pace sociale e politica che rischia di ingessare il sistema e di ridurre le potenzialità di concorrenza delle nostre imprese.
In questo senso si muove anche il mantenimento dei due livelli contrattuali che, in dispregio delle enunciazioni formali sulla sussidiarietà e sul decentramento, riduce sensibilmente la possibilità di apportare in sede locale quei correttivi che servono ad adeguare le situazioni specifiche alle esigenze dei singoli mercati.
Nel patto, inoltre, non si fa cenno ad una questione - chiave della strategia economica del Governo, che avrebbe potuto e dovuto - quella sì - trovare una utile sede di confronto tra le categorie produttive e i sindacati: la questione delle 35 ore. Come è possibile glissare su un nodo così rilevante della politica economica del Governo? La legge sulle 35 ore, di fatto, sta proseguendo il suo iter parlamentare e non vi sono segnali che questo esecutivo abbia cambiato opinione in materia, rinunciando all'impegno assunto all'epoca dal Governo Prodi. Si voleva addirittura inserire un accenno a questo tema nel decreto sugli straordinari. Allora, non si capisce a quali sgravi di costi per le imprese si faccia riferimento, se sulle aziende sta per piombare un ulteriore aggravamento del costo del lavoro, quando per legge si deciderà che si dovrà lavorare di meno a parità di salario. Che senso ha un patto tra Governo, sindacati e Confindustria che non considera il nodo delle 35 ore? Dobbiamo pensare che tutti i firmatari del patto accetteranno il nuovo orario di lavoro? Quale recupero di competitività sui mercati internazionali sarà possibile, in queste condizioni?
Noi voteremo contro, perché questo patto sociale è un patto contro la democrazia parlamentare, contro una visione


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economica moderna, contro il nostro paese (Applausi dei deputati del gruppo di forza Italia).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Tassone. Ne ha facoltà.

MARIO TASSONE. Signor Presidente, signor ministro del lavoro, credo si debba dare atto al Governo di aver offerto in questi giorni l'opportunità di discutere e di affrontare i passaggi più significativi contenuti in questo patto sociale.
Noi abbiamo seguito con molta attenzione tutta la fase della definizione di questo patto, che è stato enfatizzato, almeno nella fase conclusiva, nel momento in cui vi sono state le convergenze delle varie sigle sindacali e dei rappresentanti delle organizzazioni autonome. Questo patto è stato quindi considerato una conquista e credo che questa mattina, come anche ieri o in altre occasioni, possiamo discutere di esso con riferimento al suo contenuto. Certo, signor ministro del lavoro, si tratta di un patto di buone intenzioni. Ovviamente, dal patto e dall'accordo fra le diverse parti devono nascere iniziative di Governo coerenti che devono coinvolgere il Parlamento.
Non è peregrino, infatti, il discorso che echeggia anche in quest'aula in questi giorni in ordine all'espropriazione del Parlamento; è un tema che abbiamo affrontato più volte nelle aule parlamentari e nelle sedi più opportune. Se vi è stata grande polemica in ordine alle trentacinque ore su concertazione sì-concertazione no, su provvedimento legislativo sì-provvedimento legislativo no, anche oggi si ripropone un tema antico, quello del ruolo del Parlamento rispetto non solo alla negoziazione sindacale o ai patti sociali, ma anche ad alcune figure, come le authority, che sfuggono all'autorità e al controllo del Parlamento, e a provvedimenti come i decreti legislativi che sfuggono anch'essi alla piena consapevolezza delle Camere.
Si tratta di un dato che esiste e che intendo riproporre, non di un problema di maggioranza o di opposizione. Il patto sociale, oggetto di questa convergenza, è senz'altro utile; bisogna poi capire se vi è una rappresentanza complessiva degli interessi.
L'onorevole Salvati parla di consociativismo del passato, di pressione delle lobby o quanto meno di sfascio del passato. Io faccio parte di un gruppo che sostiene il Governo ed alcune componenti della maggioranza dovrebbero avere consapevolezza della storia del passato. Non credo vi sia stato un consociativismo in termini ancora da definire o da riscoprire; il consociativismo è stato forse un pericolo, ma anche un dato della politica non in termini così dispregiativi come li intende definire l'onorevole Salvati. Per quanto riguarda lo sfascio dei Governi e delle forze politiche precedenti, faccio presente che, se il paese ha raggiunto alcuni obiettivi e ha risolto alcuni problemi, non credo ciò sia dovuto improvvisamente al fatto che la sinistra sia andata al Governo.
L'onorevole Salvati deve avere rispetto delle componenti che aiutano il Governo a vivere, altrimenti diteci che non avete bisogno di alcune di tali componenti e toglieremo il disturbo; non è possibile, infatti, accettare le aggressioni di un esponente della maggioranza nei confronti di altre componenti della maggioranza stessa. L'attacco di ieri non era rivolto, infatti, all'onorevole Marzano ma ad una storia che va letta in termini diversi e non propagandistici; se non vi fosse stata quella storia, non ci sarebbe stata neanche quella presente. Dico ciò anche per una definizione dei rapporti interni alla maggioranza; non possiamo farlo oggi in termini assoluti, ma avremo altre occasioni di riflessione.
Ritengo che il patto sia un fatto importante e tutto da verificare, anche perché vi sono diverse scadenze.
Sul finanziamento di opere, sulla formazione, sull'imprenditoria, sui patti territoriali vi è uno scadenziario, per fine gennaio 1999, per febbraio 1999 e così via, che riguarda la presentazione da parte del Governo degli strumenti legislativi: ebbene, noi siamo in attesa. Non è che dica


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che non dobbiamo votare il patto sociale: certo, è un fatto importante e ritengo che lo si debba votare, ma siamo ancora sul piano delle enunciazioni. Signor ministro del lavoro, la realtà è che dobbiamo cambiare la politica per l'occupazione, perché quella che ci sta dietro le spalle, quella seguita dal Governo Prodi, non ci sta bene! La politica assistenziale, dei «buoni pasto» non ci sta bene, perché non risolve i problemi del Mezzogiorno, della mia Calabria, della sua Campania. Non li risolve e li ha aggravati! La politica assistenziale, certamente, non aiuta a creare un volano per una prospettiva in termini seri.
Questo paese ha sopportato dei sacrifici: tutti li hanno fatti, in particolare i ceti intermedi, ed allora non vi è dubbio che il problema dello sviluppo riguardi tutta la società, ma soprattutto le forze politiche che se ne assumono la responsabilità, attraverso il coinvolgimento delle forze sociali. Non è possibile leggere come una novità del patto sociale, per esempio, ministro Bassolino, il fatto che vengono recuperati finanziamenti per opere infrastrutturali nel Mezzogiorno: sono i vecchi finanziamenti che girano, sono i soliti finanziamenti! Vogliamo allora capire se finalmente questi finanziamenti per opere infrastrutturali, che devono creare occupazione all'interno del nostro paese, in particolare del Mezzogiorno, vengano effettivamente resi disponibili e come vengano utilizzati. D'altronde, dobbiamo ancora definire quali siano i compiti dell'Agenzia sviluppo Italia: capisco che vi è la questione del coordinamento, dell'indirizzo, del sostegno tecnico, ma il dato deve essere profondamente chiarito e certamente di tale questione il Parlamento deve occuparsi (mentre, anche in questa circostanza, per alcuni aspetti, il Parlamento è stato tenuto fuori).
Un'altra vicenda che voglio sottoporre alla sua attenzione (visto che i colleghi ora non la distraggono) è quella dell'imprenditoria giovanile: a tale riguardo, ho più volte denunciato una situazione non soltanto di sofferenza e di malessere ma anche al limite del rispetto delle norme di legge e della moralità, per il modo in cui vengono gestiti i progetti di imprenditoria giovanile. Voglio in questa occasione richiamare la sua attenzione a tale riguardo, signor ministro (l'ho già fatto attraverso interpellanze ed interrogazioni), poiché ritengo che, se vogliamo offrire una prospettiva per l'occupazione e lo sviluppo nel nostro paese, vanno verificati alcuni strumenti che fanno scadere la pubblica amministrazione a gestioni particolari, non dico assistenziali ma interessate, attraverso il collegamento con varie società di consulenza. Ebbene, certamente questa è responsabilità di un Governo democratico; altrimenti anche questo patto sociale è una carta scritta e sottoscritta, ma è soprattutto carta straccia.
Ritengo che occorra forza e volontà per aprire una prospettiva, anche perché, anche dopo l'entrata nell'area dell'euro, non vi sono grandi prospettive per l'occupazione. Non ne vedo, infatti, e non vorrei che anche questo patto, attraverso l'elencazione delle buone intenzioni (la formazione, la scuola eccetera), facesse rimanere le cose così come sono, al punto di partenza, in una incredibile stagnazione, al di là degli apporti che vi possono essere. Seguiamo, quindi, con attenzione l'azione del Governo: perché dobbiamo avere un preconcetto di sfiducia e di incapacità di un Governo che si presenta con un documento, a mio avviso, importante e interessante? Il documento, però, non è sufficiente, non basta; non credo che sia il dato su cui ci dobbiamo misurare in termini conclusivi. Ritengo allora, signor Presidente, che gli appuntamenti debbano essere vissuti con grande consapevolezza. Se ci fermassimo qui a cercare di comprendere se vi è una terza o una quarta Camera che agisce al di fuori delle prerogative parlamentari, delle istituzioni o degli organi costituzionali, ritengo che sbaglieremmo. Certo, oggi avvertiamo questo tipo di esigenza, sulla quale vogliamo concentrare tutta la nostra attenzione e il nostro interesse.
Faccio un'ultima notazione, signor ministro, prima di concludere. In questo documento vengono posti un insieme di


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problemi, ma ritengo che, ad esempio, la questione delle 35 ore vada ridiscussa. Sono convinto che la riduzione dell'orario di lavoro a 35 ore non aiuti lo sviluppo economico e non risolva il problema dell'occupazione nelle regioni meridionali. Forse qualcuno avrà una visione diversa, ma confrontiamoci; sull'argomento non c'è una parola d'ordine della maggioranza e, anche se ci fosse, non sarei d'accordo e convinto.
Vi è poi un altro problema - e concludo, signor Presidente -, cioè quello della fiscalizzazione, dell'equa politica fiscale. Ritengo si tratti di un dato che il Governo si deve porre in termini complessivi, se vogliamo dare concretezza, contenuto, spessore e corposità alle cose che indichiamo e, soprattutto, certezza agli obiettivi che vogliamo perseguire e raggiungere.
Grazie, signor Presidente, e chiedo scusa per aver superato il tempo a disposizione.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Barral. Ne ha facoltà.

MARIO LUCIO BARRAL. Signor Presidente, onorevoli colleghi, dal documento del Governo a tutti i sudditi: «In quel tempo il Presidente del Consiglio Massimo D'Alema decideva di sottoporre all'attenzione del Parlamento i contenuti di un bellissimo patto per la nuova ed eterna alleanza tra il Governo e i suoi sostenitori, che avrebbe garantito a tutti i sudditi ricchezza e prosperità». Questo potrebbe essere il prologo di una parabola, il cui reale significato sta, invece, nella volontà del Presidente del Consiglio di incassare il placet delle Camere su un documento con il quale si gioca la sua credibilità e quella dell'intero esecutivo.
Con questo machiavellico stratagemma il Presidente del Consiglio sta cercando di coinvolgere il Parlamento e, quindi, la società nel suo complesso nella generale, ma tutt'altro che unanime, euforia che per giorni i mass media hanno manifestato per l'accordo raggiunto il 23 dicembre scorso. La sua malcelata speranza è quella di poter scaricare un domani le sue responsabilità, in base al criterio: tutti colpevoli, nessun colpevole.
Il documento che stiamo esaminando, infatti, è tutt'altro che la grande invenzione del Governo per ritrovare sviluppo e prosperità, con cui sono state riempite le pagine dei quotidiani durante le festività natalizie, ed è forse proprio il clima festoso e di «buonismo» che ha fatto dire anche alle due parti sociali, apparentemente opposte e finte avversarie, ovvero Confindustria e sindacati, che questo patto renderà l'Italia ancora più credibile in campo europeo e internazionale, in quanto sono state poste basi solide per le sorti magnifiche e progressive dello sviluppo dell'economia e dell'occupazione. Sembra di ascoltare la voce dell'onorevole Berlusconi quando, con le sue televisioni, rendeva noti a tutta l'Italia i suoi sogni.
Sia da un punto di vista metodologico, che di contenuto, invece, il documento è tutt'altro che innovativo, frutto di vecchi schemi e di conservatorismi corporativi, che non possono e non vogliono tener conto delle condizioni socio-economiche, oggi radicalmente diverse rispetto a quelle che portarono all'accordo del 1993, nonché della necessità di trovare una nuova politica per lo sviluppo di un paese disomogeneo ed è pervaso - questo sì - di buone intenzioni sulla cui effettiva realizzazione, però, è più facile fare un atto di fede che un ragionevole sillogismo economico. In tutto il documento non esiste il benché minimo riferimento ai costi dello sviluppo: non essendo stati calcolati, restano imprevedibili. Viene riproposto pervicacemente e con ostentata soddisfazione il meccanismo della concertazione, proprio dell'accordo del 1993, come strumento per superare e neutralizzare i confronti politici ed istituzionali su temi di vasta portata che dovrebbero essere propri di una democrazia matura (come afferma la maggioranza).
Dal punto di vista dei contenuti, nel patto per lo sviluppo sono state inserite le ricette architettate dall'onorevole Prodi - ed avallate da lei, signor Presidente del Consiglio -, che però non stanno funzionando.


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L'assistenzialismo nel Mezzogiorno, la rottamazione per le aziende del nord (leggasi FIAT) avrebbero dovuto creare occupazione. Alla prova dei fatti, solo nel periodo gennaio-ottobre 1998 l'ISTAT ha rilevato una perdita di occupazione dell'1,7 per cento, pari ad oltre 17 mila unità. Sempre l'ISTAT ci fa sapere che negli ultimi tre anni oltre due milioni di persone, in aggiunta a quelle già esistenti, sono classificate «povere». Il ministro Ciampi, pur sapendo della mancanza di infrastrutture, dell'esistenza di una criminalità potente ed organizzata, della totale assenza delle istituzioni, ha invitato gli imprenditori del nord ad investire nel Mezzogiorno, allettandoli con strumenti agevolativi e concordati, che in realtà stanno dimostrando tutti i loro limiti e le loro lacune. Tutta l'operazione ha prodotto unicamente una migrazione del lavoro ed ha così impoverito la Padania, da sempre vocata alla produzione di ricchezza.
Sembrano essere non del tutto corrette le premesse su cui si basa il documento. Più volte viene ribadito che il quadro macroeconomico è stabile e sano, dimenticando la recentissima polemica sull'aumento di circa 6 mila miliardi del deficit di bilancio e l'incremento del debito pubblico negli ultimi tre anni. Si continua a trascurare che le previsioni economiche sono fondate su una percentuale di crescita del prodotto interno lordo di gran lunga inferiore al 2,8 per cento preventivato (1,5 per cento).
Acquista più forza l'idea dell'abbassamento della pressione fiscale. Ma è un'illusione. Basta ricordare il commento del collega Pagliarini, che lo scorso 23 dicembre evidenziava: «La riduzione dell'aliquota IRPEF e la diminuzione del costo del lavoro sono due obiettivi da perseguire, ma tenendo conto che così diminuiscono solo le entrate dello Stato. Se il PIL non cresce, solo aumentando le tasse si possono coprire le mancate entrate». La grande innovazione dovrebbe essere rappresentata dall'impegno a ridurre le imposte dirette: di fatto la restituzione dei proventi della lotta all'evasione viene realizzata mediante risorse provenienti dall'utilizzo di strumenti totalitari, come la delazione (l'istituzione del numero 117 con la Guardia di finanza) oppure attraverso l'individuazione del solito capro espiatorio nelle vere categorie produttive (artigianato, commercio, piccola industria) considerate come gli unici evasori in questo paese di Pulcinella.
Una scarsa autorevolezza fa poi sì che in ambito europeo l'Italia subisca le direttive e le regole determinate da altri paesi che non hanno lo stesso tessuto produttivo. Così le piccole e medie imprese devono sopportare alti costi finanziari e burocratici. Una recente ricerca ha quantificato in circa il 20 per cento del monte ore il tempo necessario per il disbrigo di faccende burocratiche, che impediscono (piuttosto che agevolare) la permanenza delle aziende sul mercato; si pensi - per esempio - alla legge n. 626 ed alla legge n. 46 del 1997 (con cui è stata recepita la direttiva 93/42).
In conclusione, ricordando che alla Padania non fa paura l'Europa, ma l'Italia, non posso che esprimere la mia contrarietà al patto sociale per lo sviluppo e l'occupazione (Applausi dei deputati del gruppo della lega nord per l'indipendenza della Padania).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Gardiol. Ne ha facoltà.

GIORGIO GARDIOL. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor Vicepresidente del Consiglio, signor ministro del lavoro, in quest'aula e fuori di essa, si è parlato, a proposito del patto per lo sviluppo e l'occupazione, di attentato al Parlamento e di blitz costituzionale.
Io vorrei, invece, evidenziare ai colleghi che hanno parlato in questi termini, le novità contenute in esso, a cominciare dalla stessa parola patto. Non si tratta più di un accordo negoziato che il Parlamento deve siglare, come è stato per l'accordo sul lavoro straordinario. Qui si tratta di un patto, ovvero di una ricognizione di problemi fatta dal Governo insieme ad organizzazioni che rappresentano una


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parte della nostra società; un patto che riconosce l'esistenza di alcuni problemi e che cerca di tradurli in progetti di soluzione.
Non si tratta, quindi, di un accordo del tipo prendere o lasciare, bensì di un tentativo - il primo che viene fatto coinvolgendo anche il Parlamento - di concertare alcuni progetti per la risoluzione di problemi della nostra società.
Certamente, questa concertazione viene concordata con parti sociali che rappresentano solo una parte della società. Va quindi fatta molta attenzione al modo con cui viene organizzata la rappresentanza sociale nella concertazione.
La legge che stiamo discutendo sulla rappresentanza sindacale, ritengo sia un'occasione importante per fare in modo che la rappresentanza sociale abbia contenuti definiti e che tutte le parti sociali vedano misurata la propria rappresentanza: sindacati, datori di lavoro e così via. Infatti, solo in base ad un diritto alla rappresentanza - il diritto di stare al tavolo delle trattative - si avrà, in futuro, una concertazione ed un patto più corrispondente all'articolazione della nostra società.
Quando si dice che il patto dovrà essere spostato al livello territoriale, coinvolgendo le istituzioni locali e le altre organizzazioni economiche, si fa un ulteriore passo avanti nel prendere sul serio il metodo della concertazione. Ma anche in questo caso è necessario che vi sia una legge sulla rappresentanza a livello territoriale, che costituisce uno degli elementi fondamentali di un processo che vede la concertazione come metodo di governo democratico.
Vi è, nel patto sociale, un altro aspetto importante, forse il più importante: l'aver introdotto, per la prima volta, criteri di monitoraggio e di verifica che ci consentono di passare dal semplice effetto annuncio della soluzione dei problemi ad una fase più importante, quella della verifica dei risultati effettivi.
In tal senso, il Parlamento dovrebbe attrezzarsi per svolgere tale monitoraggio e verifica. Non si tratta semplicemente di lasciare questo compito alle parti sociali contraenti del patto: perché il Parlamento abbia un suo ruolo, occorre che assuma il compito della verifica e del monitoraggio.
Gli obiettivi del patto sono lo sviluppo e l'occupazione. Le politiche per l'occupazione sono incentrate su misure che riguardano l'impresa, la flessibilità, la politica dei redditi, le potenzialità della formazione.
Anche queste sono cose fondamentali. Dovremo essere chiari sul fatto che per quanto riguarda questo tipo di sviluppo gli aspetti della riduzione dell'orario e della formazione come diritto soggettivo devono essere elementi caratterizzanti il patto sociale (Applausi dei deputati del gruppo misto-verdi-l'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Bolognesi. Ne ha facoltà.

MARIDA BOLOGNESI. Signor Presidente, signor Vicepresidente del Consiglio, onorevoli colleghi, credo che il patto sociale che il Governo ha presentato alla Camera non possa che essere da parte nostra oggetto di una duplice valutazione positiva per il segno politico che va colto e per il significato comunque complessivo di questo accordo.
Una duplice valutazione positiva dicevo, perché dopo il risanamento, grazie a questo e agli straordinari risultati della politica economica di questi anni (lo ha ricordato ieri il Presidente del Consiglio), si può porre oggi l'obiettivo dello sviluppo e del lavoro. Un tema centrale, questo, che si lega per noi ad una nuova fase del lavoro di questo Parlamento, del Governo e comunque del paese; un passo indispensabile verso qualsiasi idea di riforma dello Stato sociale.
Possiamo dire che il patto apre in qualche modo la porta alla riforma dello Stato sociale, proprio per il suo carattere programmatico ed anche per alcuni nuovi principi di solidarietà che esso contiene.
Una duplice valutazione positiva dicevo, anche perché sicuramente il segno politico che va colto centra l'idea che il patto contiene di legare più fortemente il


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lavoro alla formazione, investendo in questa con decisione, anche in un'ottica di riqualificazione professionale. Questo aspetto del raccordo e del rapporto tra il lavoro, lo sviluppo e l'occupazione, la formazione e la riqualificazione professionale è all'interno di un passaggio che ritengo anche culturale per il nostro paese, ossia il passaggio, nei fatti, dall'assistenzialismo all'obiettivo della piena occupazione.
Non ci sfugge (aggiungo questo all'apprezzamento iniziale) la consapevolezza che l'impegno sottoscritto, così come ha sottolineato ieri il Presidente D'Alema nel suo intervento, si iscrive in un quadro di impegno comune dei paesi dell'Unione europea a cui partecipiamo da paese protagonista e rappresenta, a mio avviso, con il lavoro e con l'obiettivo della stabilità e delle prospettive di sviluppo, il primo tassello concreto per la costruzione dell'Unione europea come soggetto politico.
Fatta questa premessa, credo sia però opportuno richiamare alcuni punti specifici delle novità di merito. Con la firma del patto inizia, a mio avviso, una fase nuova sulle politiche dello sviluppo e del lavoro, caratterizzata da un metodo nuovo, quello della programmazione. Programmazione che si pone obiettivi e la verifica dei risultati, impegnandosi sul monitoraggio degli effetti di una politica di incentivi e di disincentivi basati su regole condivise.
Ebbene, ritengo che questa sia una novità da richiamare, anche perché mi sembra che essa sia poco riecheggiata negli interventi dei colleghi. Si abbandona, in una parola, la logica dei puri sgravi alle imprese, ponendosi un obiettivo più ambizioso e ciò non è poca cosa in un paese in cui eravamo abituati a contributi a pioggia o, peggio, al sostegno di un capitalismo assistito dallo Stato.
Nel patto la riduzione del costo del lavoro si lega all'introduzione di una politica dei diritti di cittadinanza; ci si pone il problema della qualità dei servizi e del funzionamento della pubblica amministrazione. Gran parte del patto, infatti, è dedicata alla semplificazione, all'ammodernamento, alla innovazione organizzativa dell'attività della pubblica amministrazione. Credo che ciò abbia molto a che fare con i diritti di cittadinanza! Certo, vi è poi la parte che riguarda la maternità (sulla quale mi soffermerò più avanti), che «apre» questi nuovi principi di socialità.
Ritengo che tutto ciò che riguarda l'innovazione e l'attività organizzativa nuova della pubblica amministrazione rappresenti un lavoro indispensabile anche nel riconoscimento dei diritti, dell'accesso ai servizi e della loro qualità.
La politica degli sgravi, in una parola, cambia senso e si lega ad un progetto di riqualificazione delle risorse umane e ad una loro centralità. Essa punta cioè fortemente sulle risorse umane e sul capitale umano. Inoltre, con l'accordo si salvaguarda una politica dei redditi e si confermano i due livelli di contrattazione che permettono, a mio avviso, sia la tutela del salario reale dall'inflazione sia politiche di redistribuzione del reddito in rapporto alla produttività del lavoro e della redditività aziendale. Certo, questa conferma - è stato detto ieri dal Presidente del Consiglio quando si è soffermato su alcuni interventi - in prospettiva dovrà essere rivista e rivisitata e, con l'allargamento del mercato, nei fatti le regole verranno o dovranno essere modificate, ma oggi questa conferma della politica dei redditi ci pare un segnale positivo.
Gli attori, inoltre (questo è un altro elemento di valore del patto, a mio avviso), hanno accettato il patto di stabilità come limite e misura delle proprie azioni e quale garanzia di tenuta sotto controllo dell'inflazione. Non mi pare che questo sia un risultato poco qualificante.
Vorrei soprattutto soffermarmi, sottolineandola, sulla novità che ritengo maggiore di una politica di concertazione: il rafforzamento e lo sviluppo a livello locale della concertazione sull'obiettivo del lavoro e dello sviluppo, un metodo su cui credo si potessero spendere più parole da parte di altri colleghi. Questo vorrei sottolinearlo.


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Lo sviluppo a livello locale della concertazione, nei fatti, disegna una diversa assunzione di responsabilità di tutti i livelli istituzionali dello Stato, regioni ed enti locali, e avvia con obiettivi concordati un metodo - quello della concertazione anche a livello territoriale con il coinvolgimento ampio di soggetti e di forze sociali - che ha un contenuto del tutto nuovo, quello appunto del coinvolgimento a tutti i livelli sugli obiettivi individuati o futuri per una nuova fase politica dello sviluppo e del lavoro.
La concertazione, nei fatti, diviene - diciamo così - a rete. Si tratta, quindi, di un patto di responsabilità a rete e concordato che nella coerenza del principio di sussidiarietà, in sostanza, rende lo Stato più forte. Io credo che questa nuova assunzione di responsabilità delle istituzioni a tutti i livelli renda nei fatti lo Stato più forte di quello che abbiamo conosciuto fino ad oggi.
È uno Stato - tra l'altro nel documento è contenuta una novità di rilievo - che accetta gli impegni propri di una parte firmataria. Il Governo, sottoscrivendo questo patto, esce da un ruolo di finanziatore e - per così dire - di ufficiale pagatore, per assumersi una parte di responsabilità. Successivamente, tutti i livelli istituzionali dello Stato che possono farlo, si regoleranno in modo analogo.
Accolgo ciò come una novità e una grande innovazione rispetto al metodo e ai contenuti. Il monitoraggio, ad esempio, che costituirà una responsabilità dello Stato, non sarà limitato soltanto ai risultati (questo è comunque un grande obiettivo), ma si estenderà anche al comportamento delle parti. Un esempio si può segnalare con riguardo alle rigidità venute dalla Federmeccanica sul rinnovo del contratto, espressione di un atteggiamento contraddittorio con la lettera e lo spirito del patto, ma il Presidente del Consiglio ha pronunciato ieri parole chiare su questo e mi auguro che le sue parole ed i suoi auspici preludano ad una conclusione positiva della vicenda, senza o con l'intervento del Governo.
Credo però che dobbiamo sgombrare il campo - lo dobbiamo dire ai colleghi che si sono soffermati sull'argomento, cioè l'onorevole Marzano, l'onorevole Bono ed altri - dalla polemica sul ruolo del Parlamento. Non vedo, onestamente, i rischi di un sistema democratico concertativo o corporativo proprio perché il Governo è venuto a presentarci il risultato di una concertazione in una fase che definiamo completamente nuova; anzi, è vero il contrario, a mio avviso. Questa nuova procedura e questo dibattito non ci sottrarranno certo - vorrei tranquillizzare i colleghi - successivamente al momento dell'assunzione dei provvedimenti necessari da parte del Governo, ai compiti ed alle prerogative che spettano al Parlamento. Anzi, questa nuova procedura ci permette di intervenire in una fase di definizione di alcuni obiettivi e di porre all'interno di un dibattito politico più ampio la sigla del patto stesso. Ci consente di vedere tale sigla nell'ambito di una fase di riforme - quella dello Stato sociale ed altre -, quindi di collocarla politicamente e di dare ad essa un contributo.
Questo dibattito servirà inoltre a capire - altri colleghi lo hanno ricordato anche dai banchi della sinistra - come armonizzare queste politiche con le scelte già compiute e confermate nel programma del Governo in relazione, ad esempio, alla riduzione dell'orario di lavoro, che resta una delle leve per affrontare il tema dell'occupazione. Questo dibattito, inoltre, sarà utile proprio per arricchire il patto stesso, per costruire un ponte più solido verso la riscrittura e l'aggiornamento del welfare.
In questo senso credo sia necessario sottolineare due questioni in qualche modo inerenti al patto ma che da esso si allargano verso la riforma dello Stato sociale. Si tratta, in primo luogo, del tema della maternità e, in secondo luogo, della questione del lavoro rappresentato dai servizi alla persona.
Quanto al primo punto, quello della maternità e degli assegni familiari, voglio dire che il passaggio graduale dal meccanismo contributivo alla fiscalità generale


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delle garanzie di reddito in caso di maternità, confermando - questo il patto lo prevede con nettezza - i livelli retributivi delle lavoratrici madri, cambia il significato stesso di questi istituti. Certo, il Presidente del Consiglio ci ha detto ieri che si tratta di una fase in prospettiva: ci vorrà una gradualità e forse anche una sperimentazione degli strumenti. Credo, però, che riconoscere l'importanza di questi istituti, cambiando il loro significato, trasferendoli dall'area dei diritti legati ai rapporti di lavoro a quella dei diritti di cittadinanza, sia la porta principale che apre anche il dibattito per la riforma dello Stato sociale nel segno dei diritti di cittadinanza.
Su questo punto della maternità mi pare si faccia anche un passo ulteriore rispetto all'ultima finanziaria da poco approvata. Essa richiamava il sostegno alla maternità e alle spese delle famiglie solo in riferimento alle fasce deboli. Il richiamo ai diritti di cittadinanza allarga questa prospettiva e vorrei salutare con favore questa novità.
In questo senso il patto rappresenta un'opportunità per aprire il capitolo welfare sui diritti di cittadinanza, anche se il tema della maternità richiede un lavoro di individuazione di strumenti che dovrà ancora essere compiuto, dei trattamenti di tipo universalistico per sostenere le responsabilità familiari. Occorre ancora superare la disparità tra categorie diverse di lavoratrici madri, ma credo che in questa discussione possiamo fissarci obiettivi più ambiziosi.
L'altro tema che volevo richiamare, sul quale credo sia necessario arricchire il patto e costruire iniziative che facciano da ponte tra quest'ultimo e la riforma dello Stato sociale, è rappresentato dall'intervento che giudico necessario sul vasto universo dei servizi alla persona. Mi permetto di aprire un capitolo che solo apparentemente si trova fuori da questa discussione. Tra il patto e la riforma dello Stato sociale possono attuarsi interventi che li colleghino più strettamente: forse quello relativo al mondo dei servizi della persona può essere un intervento significativo.
Vorrei insistere sul tema che ho accennato e sulla crescita di un vero mercato dei servizi come bisogno che ci sta di fronte, non solo per quanto riguarda l'infanzia e gli anziani non autosufficienti (che rappresenta sicuramente uno degli aspetti più evidenti della domanda sociale inevasa e di un mercato dei servizi che può crescere), ma anche con riferimento al forte aumento che oggi riscontriamo della domanda di servizi sociali e socio-sanitari che non trova risposta e che non può essere soddisfatta dalle tradizionali strutture di servizio. Certo, queste strutture vanno riqualificate e a questo proposito abbiamo in corso di esame una serie di provvedimenti importanti, come la riforma dei decreti nn. 502 e 517, con l'obiettivo dell'integrazione tra sociale e sanitario e la legge-quadro sull'assistenza, attualmente in discussione in Parlamento. Credo che dovrebbe essere aperto un capitolo su questo settore e ritengo che le strutture tradizionali non siano del tutto in grado di coprire questa domanda.
Credo, appunto, che possa crescere un vero mercato dei servizi alla persona. È necessario, ministro, investire in questa area, dove tra l'altro c'è un mondo vitale di operatori, dal volontariato al terzo settore, che, se ben sostenuto, anche in conformità con le linee del patto per il terzo settore firmato dal Governo, sarebbe in grado di creare occupazione. Penso anche a offerte di nuovi servizi, penso a forme di integrazione tra volontariato e lavoro retribuito, penso a nuove forme di impresa nel campo sociale e socio-sanitario.
Ieri, il Presidente D'Alema ha annunciato la volontà del Governo di sottoscrivere uno specifico protocollo con questo mondo, sempre più importante - egli ha aggiunto - nella nostra vita quotidiana. Ecco, mi permetto di sottolineare che, se questa importanza per la vita quotidiana dei cittadini è vera, così come è vera, potremmo, ministro Bassolino, partire da un lavoro che si ponga l'obiettivo della


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necessità della emersione del lavoro di cura retribuito, dei servizi alla persona, un lavoro che è ancora in larga parte sommerso, nero, tra l'altro quasi sempre fornito da donne e molto spesso da immigrati. Questa poi è una curiosa situazione del nostro paese: non ci rendiamo conto di quanta sia la manodopera sommersa, che evidentemente risponde ad un bisogno. Ritengo ci sia la necessità di individuare un sistema per incentivare l'emersione del lavoro di cura retribuito, legandolo all'assistenza, cioè di guardare a questo aspetto dell'assistenza dal punto di vista dell'attività lavorativa e della riqualificazione dei servizi alla persona, perché chiaramente il lavoro sommerso, il lavoro nero non può essere e molto spesso non è un lavoro qualificato nei servizi alla persona.
Forse proprio questo punto dell'emersione del lavoro sommerso sui servizi alla persona potrebbe essere un'iniziativa-ponte tra il patto sociale di cui stiamo discutendo in questi giorni e la riforma dello Stato sociale; un arricchimento e un ideale collegamento.
Più in generale, penso che la competitività tra i sistemi economici si misuri anche, ma forse soprattutto, sulla capacità di dare risposta ai bisogni. È questa, secondo me, l'originalità del sistema di welfare europeo. Oltre ad essere un elemento di originalità, è uno strumento che può rendere la sicurezza sociale in Europa un fattore dinamico dell'economia, mettendo in moto un volano per la ripresa della domanda interna. Credo che la sicurezza sociale, per le caratteristiche del welfare europeo, possa anche rappresentare un elemento dinamizzatore dell'economia europea.
In questo momento, è in corso un dibattito anche in altri paesi europei e lo abbiamo constatato, come XII Commissione affari sociali, instaurando un rapporto con le omologhe Commissioni dei Parlamenti di Francia e Inghilterra. Questo dibattito tende ad innovare e rafforzare l'originalità europea dello Stato sociale lungo alcune direttrici, con alcuni obiettivi: quello del passaggio dall'assistenza all'inserimento al lavoro; quello delle politiche di lotta all'esclusione sociale, che ha comunque come perno la lotta alla disoccupazione e il sostegno alle fasce a rischio di marginalità; quello della sicurezza sociale appunto come politica di cittadinanza. Queste direttrici di dibattito europeo, questi obiettivi europei portano le politiche sociali ad intrecciarsi e non ad essere subordinate, un po' come il parente povero delle politiche del lavoro. Credo che su tali obiettivi vi sia un lavoro del Parlamento, valorizzato dai provvedimenti che citavo prima: la riforma della legge-quadro dell'assistenza, ma anche quella degli ammortizzatori sociali.
A livello europeo, dentro la politica dello sviluppo e dell'occupazione stanno le politiche sociali, le iniziative sociali, come del resto è sancito dal Trattato di Amsterdam. In tal senso, il protocollo del patto sociale firmato si inserisce in una politica europea soprattutto per la prima direttrice, l'obiettivo che gli inglesi chiamano from welfare to work, l'idea cioè di politiche sociali come inserimento lavorativo puntando sulla formazione e sulla riqualificazione professionale; sforzo che, a mio avviso, va puntato anche sui servizi.
Infine, è anche sul terreno dei diritti di cittadinanza che il patto rappresenta un passo avanti su cui continuare a lavorare, su cui aprire, nei fatti, il dibattito sul nuovo Stato sociale. Come ci ha ricordato il premio Nobel per l'economia Amartya Sen - che abbiamo avuto l'onore di audire in Commissione XII nel mese di maggio dello scorso anno - non bisogna sottovalutare l'importanza della diversificazione dei sistemi sociali, per citare le sue parole, «ricordando che i costi vanno sempre visti come costi relativi alle finalità delle persone». È anche da questo punto di vista, perciò, che possiamo attenderci - cito ancora Sen - un «risultato positivo sia per l'economia sia per l'equità complessiva».

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Armani. Ne ha facoltà.

PIETRO ARMANI. Signor Presidente nel 1453, mentre Costantinopoli era assediata


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dal sultano Maometto II, si dice si discutesse del sesso degli angeli; oggi con il patto sociale stiamo facendo la stessa cosa, mentre il rischio Brasile trascina le borse e il Fondo monetario internazionale ha dimostrato in due occasioni, prima con l'Indonesia, poi con il Brasile, di essere incapace di controllare il ritmo della congiuntura mondiale; ancora, ieri Il Sole 24 Ore citava in forte calo a novembre la produzione tedesca, meno 2,3 per cento. Ecco il quadro nel quale stiamo discutendo del sesso degli angeli. Il patto sociale, infatti - non lo dico io, lo affermano autorevoli commentatori -, è una «carta degli annunci»; naturalmente sugli annunci non si nega una firma (perché a nessuno si nega un sigaro o una croce di cavaliere), infatti vi sono trentadue firme sotto il patto degli annunci. Coloro che lo hanno siglato non potevano rifiutarsi di farlo di fronte alle promesse che, in realtà, sono scritte solo nell'acqua. Ieri il Presidente del Consiglio ha detto che, se le imprese non investono, le agevolazioni saranno revocate: è la dimostrazione del fatto che si discute sul sesso degli angeli, perché se le imprese non avranno gli incentivi - mi soffermerò poi sulle proposte alternative del Polo, visto che D'Alema afferma che non ne fa -, se ne infischieranno e andranno in Romania o altrove.

ALFREDO BIONDI. In Brasile.

PIETRO ARMANI. In Brasile è più difficile che vadano, perché la situazione laggiù è complessa; forse andranno in Romania dove il costo del lavoro è più basso, in Slovenia e in tutti gli altri paesi con una simile situazione e nessuno le potrà fermare, sicuramente non le grida del Presidente del Consiglio che negherà le agevolazioni. Le imprese, infatti, investono quando hanno prospettive di guadagno, di apertura dei mercati, di quote di mercato da conquistare; diversamente o non lo fanno, oppure si muovono se il contesto è di apertura e di sviluppo dei mercati. L'Italia dovrebbe avere la possibilità di acquisire in casa propria capitali dall'estero e, quindi, di avere un orizzonte economico positivo. Sappiamo, invece, che in tutta Europa - non solo in Italia - in questo momento tale orizzonte è negativo. Capisco che il Presidente del Consiglio ed il ministro del tesoro siano affezionati - soprattutto quest'ultimo, che è persona autorevolmente anziana - al patto del luglio 1993, con il quale ottenne un certo risultato in termini di riduzione dell'inflazione. Oggi, però, l'inflazione programmata, peraltro già fortemente ridotta per ragioni internazionali (calo delle materie prime e crisi produttiva mondiale), non la controlliamo noi a livello nazionale, ma viene controllata da un «signore» che sta a Francoforte e che è il presidente della Banca centrale europea! Mi riferisco non solo all'inflazione, ma anche ai tassi di interesse, che rappresentano uno degli elementi sui quali si fonda la strategia di questo Governo, il quale non vuole abbassare strutturalmente la pressione fiscale, ma pensa di ridurla attraverso una variabile esterna e non controllabile come la diminuzione dei tassi di interesse, che riducono la spesa per interessi sul debito pubblico, e attraverso la cosiddetta lotta alla evasione, che è tanto più incerta quanto più resta elevata la pressione fiscale.
Siamo, quindi, di fronte ad una concertazione e ad un patto che sostanzialmente sono datati; sono il frutto di una cultura economica sorpassata che non ha più senso e significato: si tratta quindi soltanto di un annuncio, di una serie di annunci più o meno «buonisti», che consentono alle imprese di «firmare in bianco» per vedere che cosa succede. È il «carpe diem» delle imprese che fanno un ragionamento di questo genere: va bene, non neghiamo una firma di fronte ad alcune promesse e, comunque, restiamo libere di decidere secondo le nostre convenienze. Le promesse, però, non potranno essere mantenute, perché in realtà le agevolazioni, i patti territoriali, i contratti d'area e tutti questi meccanismi che sono stati messi in moto sono delle «montagne che partoriscono topolini» in termini di occupazione! Il vero sviluppo


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dell'occupazione si fa evidentemente in altro modo e si fa con la strategia del Polo! Voi, della sinistra, date agevolazioni e in cambio ritenete di ottenere risultati ed anzi minacciate (ieri il collega Bono ha parlato di «bastone e carota») l'uso del «bastone», cioè negate gli incentivi, se la «carota» degli investimenti occupazionali non verrà concessa dalle imprese. Questa è un'arma spuntata, perché - come ho già detto - le imprese, se non hanno la prospettiva buona, se ne vanno altrove a fare gli investimenti o non li fanno affatto.
Invece di dare le agevolazioni alle imprese e di erogare incentivi che costano alle finanze dello Stato e che rappresentano una forma di «neokeynesianesimo» di ritorno parziale (perché in realtà, poi, la riduzione dei contributi sociali è stata finanziata con la carbon tax: quindi si vuole ridurre il costo del lavoro introducendo una nuova imposta), mentre noi proponiamo la riduzione strutturale della pressione fiscale che, per un bilancio in disavanzo e con il 120 per cento del rapporto debito-PIL, deve essere naturalmente finanziata con la riduzione della spesa pubblica corrente.
Voi dite - lo ha ripetuto anche qualche giorno fa il sottosegretario Macciotta - che modificherete in prospettiva il sistema del welfare (in particolare, interverrete sulla previdenza); ciò corrisponde esattamente a quanto affermato ieri dal Presidente del Consiglio quando ha sostenuto che, pur essendovi oggi due livelli contrattuali, il patto avrebbe marciato verso il livello di decentramento territoriale dei contratti. La marcia può essere rapida o lenta; a mio avviso, la vostra marcia è lenta, mentre il problema della flessibilità del lavoro, dell'emersione del lavoro sommerso e della crescita nell'occupazione si affrontano trasferendo dal «centro» - dove però esistono le centrali sindacali che non vogliono perdere potere - al livello territoriale e aziendale il vero e unico livello della contrattazione per il lavoro dipendente. È per questo che il documento del Polo parla della concertazione come di uno strumento di carattere contingente e come frutto di un compromesso conservativo.
Il meccanismo della flessibilità si ottiene trasferendo al livello territoriale, al livello aziendale il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore. Voi, invece, avete mantenuto i due livelli contrattuali! E mi stupisco che la Confindustria, che prima aveva sparato a «palle incatenate» contro il contratto nazionale, poi abbia accettato i due livelli contrattuali...

ALFREDO BIONDI. È rimasta senza palle.

PIETRO ARMANI. ... che voi sapete che sostanzialmente non funzioneranno o che funzioneranno male perché accresceranno il costo del lavoro e la rigidità di questo fattore produttivo.
Siamo di fronte ad un insieme di annunci che non avranno gli effetti che sono stati strombazzati per addormentare l'opinione pubblica. Capisco che in politica il guadagnare tempo rappresenta già un risultato: voi state cercando di guadagnare tempo, per vedere quello che succederà nell'ambito della congiuntura internazionale. Purtroppo, però, anche il guadagnare tempo in politica può essere un boomerang. Infatti, se rinviate troppo alcuni interventi a livello nazionale aspettando, ad esempio, che la lotta all'evasione porti a creare quegli spazi finanziari necessari a ridurre le aliquote tributarie, non otterrete risultati significativi in termini di sviluppo; mentre, riducendo immediatamente le aliquote fiscali attraverso la riduzione contemporanea della spesa pubblica corrente, risolvereste più rapidamente ed efficacemente il problema; altrimenti non otterrete nulla perché il tempo lavora contro di voi, se è vero che in Germania la produzione industriale è diminuita del 2,3 per cento nel mese di novembre e se le Borse riflettono la crisi delle economie reali. «Le Borse vanno e vengono» diceva un ministro molto saggio del periodo fascista, Felice Guarneri, autore di un celebre libro in due volumi intitolato «Battaglie economiche tra le


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due grandi guerre». Egli diceva: «Non ti chiedere perché oggi la Borsa sale, perché ieri è scesa».
I mercati finanziari globalizzati sono cresciuti l'altra settimana, mentre oggi calano perché c'è troppa liquidità in circolazione, soprattutto da parte giapponese. Ma il vero problema è rappresentato dalla crisi delle economie reali in Asia come in America latina: sta aggredendo gli Stati Uniti e l'Europa, come dimostra il calo della produzione industriale tedesca e la riduzione drastica del nostro saldo positivo della bilancia commerciale. Non ci dimentichiamo, infatti, che quest'ultimo dipende per il 55 per cento dagli scambi con i paesi dell'Unione europea, ma per il restante 45 per cento dagli scambi con paesi extra Unione europea, quelli oggi in crisi.

PRESIDENTE. Onorevole Armani, le ricordo che deve concludere.

PIETRO ARMANI. Quindi, se cala l'economia reale in Brasile, in America latina o in Asia, diminuisce in misura consistente anche il nostro saldo positivo della bilancia commerciale.
In sostanza, questo patto sociale fa solo degli annunci che non sarete in grado di realizzare perché avete potuto ridurre i contributi sociali solo con la carbon tax...

PRESIDENTE. Onorevole Armani, la prego di concludere.

PIETRO ARMANI. La mia conclusione, signor Presidente, è che stiamo a mio parere discutendo sul sesso degli angeli. La via dell'inferno è lastricata di buone intenzioni: noi stiamo andando all'inferno (Applausi dei deputati dei gruppi di alleanza nazionale e di forza Italia - Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Frattini. Ne ha facoltà.

FRANCO FRATTINI. Signor Presidente, signor Vicepresidente del Consiglio, signor ministro del lavoro, il documento che stiamo esaminando e che ci apprestiamo a votare, oltre ai rilievi ed alle critiche che i colleghi del mio gruppo hanno formulato nella seduta di ieri, si presta ad alcuni rilievi di fondo che, a mio avviso, riguardano il fondamento istituzionale e costituzionale di questo patto che viene in qualche modo rappresentato come il risultato di un nuovo metodo di concertazione con un'efficacia vincolante non soltanto per i primi ed originali sottoscrittori - Governo e parti sociali - ma con un'estensione del vincolo nei confronti degli enti territoriali, in particolare le regioni e gli enti locali.
Il confronto con le parti sociali sulla politica dei redditi e degli investimenti e sul risanamento finanziario del paese è frutto, in realtà, di regole che le stesse parti si sono date e lo scopo è quello di fornire al Governo, e solo ad esso, elementi per la decisione, che resta di sua competenza per quanto attiene all'iniziativa. Diverso è il confronto tra il Governo centrale e le autonomie territoriali. Queste ultime in alcuni casi, secondo l'ordinamento, vengono ascoltate, in altri casi coinvolte nella decisione, come nelle intese delle varie conferenze, perché hanno competenze proprie previste dalla Costituzione e quindi il Governo deve confrontarsi e, in taluni casi, il risultato è quello di una codecisione tra Governo e autonomie territoriali.
Uno degli aspetti che a mio avviso è più fortemente criticabile in questo documento è l'idea dell'unificazione del momento della concertazione pattizia con sindacati e imprese rispetto alla concertazione istituzionale, che è un vero e proprio confronto con gli enti pubblici territoriali, dotati di competenze proprie. In particolare, un aspetto sul quale occorre soffermarsi è che il Governo, sostanzialmente, si impegna ad attuare i risultati della concentrazione pattizia nei confronti degli enti territoriali, in qualche modo impegnandosi rispetto a risultati di attività che non dipendono dal Governo stesso, ma da enti che hanno discrezionalità ed autonomia di scelta.


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Quanto alla possibilità ed all'impegno che gli stessi enti territoriali hanno assunto sottoscrivendo questo documento, io mi chiedo quale sia il fondamento istituzionale del vincolo assunto. Come potrà quel vincolo, pur assunto dalle regioni e dagli enti locali, superare o rimodellare, ad esempio, azioni amministrative o di governo nelle regioni? Allora, la natura di questo patto è quella di vincolo solo ed esclusivamente politico; in tal caso mi chiedo come si possa ritenere serio ed affidabile un impegno che coinvolge scelte di governo che toccano i profili finanziari nelle regioni. Mi chiedo come possano i disoccupati, gli investitori, gli osservatori internazionali fidarsi della serietà del mantenimento degli impegni da parte di soggetti che hanno, ripeto, poteri, regole ed autonomia propri. In altri termini, come possiamo, in mancanza di cifre, di dati, di garanzie che l'impegno sia mantenuto e che i suoi alti costi trovino una trasparente copertura, credere che gli impegni vengano davvero mantenuti? Faccio soltanto un esempio: manca nel patto ogni riferimento al rapporto tra l'attuazione del decentramento di funzioni amministrative agli enti territoriali ed il conseguente trasferimento delle risorse occorrenti all'esercizio delle funzioni trasferite. Credo si tratti di una questione assolutamente centrale, sulla quale non si sarebbe dovuto tacere in questo documento. Dico che la questione è centrale perché a causa di essa si sta rallentando e forse bloccando tutto il processo di attuazione delle leggi Bassanini, perché gli enti territoriali stanno rifiutando di assumere nuovi e costosi compiti senza le risorse occorrenti: l'alternativa lasciata dal Governo sarebbe, infatti, soltanto quella di aumentare le tasse ovvero di ridurre la qualità dei servizi per i cittadini. Mi chiedo, allora, se questo impegno sarebbe stato sottoscritto dalle regioni e dagli enti locali qualora si fosse detto con chiarezza e trasparenza che il Governo non ha intenzione di correlare il trasferimento delle funzioni con il trasferimento contestuale delle risorse che occorrono per farvi fronte. Sa bene, il Governo, che si tratta di una questione centrale per le regioni, eppure tutta l'impalcatura del patto, per la parte che tocca il trasferimento, tace completamente.
Quindi io chiedo - anche nello spirito di avanzare una proposta - se il Governo sia disponibile ad una integrazione del documento, se sia disponibile a precisare il vincolo, assumendo il rischio - questo sì - che le regioni e gli enti locali ritirino la loro adesione. È troppo semplice, infatti, prendere o far prendere impegni senza prefigurare le conseguenze di ordine finanziario che possono derivarne. Un altro aspetto sul quale mi sembra importante soffermare la nostra attenzione, e che noi abbiamo in qualche modo denunziato, è il coinvolgimento delle forze parlamentari di maggioranza e addirittura di opposizione. In un sistema di concertazione, come è stato già detto, ciò tocca certamente la funzione del Parlamento, che non può essere di cogestione di un accordo intervenuto tra altri, né notarile di provvedimenti già adottati. In questo campo, il Parlamento svolge una funzione di controllo e, se tale funzione esiste, il Parlamento ha il potere-dovere di esprimere rilievi puntuali e di indicare al Governo un indirizzo modificativo del documento esaminato; in mancanza di tale indirizzo ovvero della recezione dell'opinione del Parlamento, la conseguenza sarebbe che una maggioranza parlamentare fa credere che vi sia un consenso su un accordo con il quale i rappresentanti di una percentuale minoritaria dei cittadini lavoratori e degli imprenditori impongono di fatto le loro scelte alla maggioranza reale del paese.
Penso di poter concludere osservando che gli obiettivi di fondo del patto sociale non potranno essere conseguiti se non si aiuterà, nella competizione e nel mercato, il sistema delle imprese a continuare a produrre ricchezza, senza assistenzialismi e vincoli opprimenti. Non servono ricette che di fatto impongono alle pubbliche amministrazioni, specialmente quelle locali, risultati ed effetti economici negativi di accordi imposti dai sindacati, cioè da coloro che rappresentano la minoranza


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dei lavoratori, ed accettati senza problemi dalle imprese, in particolare da chi rappresenta la grande impresa, ossia una minoranza nel mondo imprenditoriale. Tutto ciò in quanto il costo, il conto finale, viene pagato dalla collettività con le tasse, anzitutto quelle locali, e certamente con il blocco dell'auspicato, ma non ancora (e probabilmente mai) realizzato, recupero di efficienza e di snellimento dell'apparato pubblico (Applausi dei deputati del gruppo di forza Italia).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Ceremigna. Ne ha facoltà.

ENZO CEREMIGNA. Signor Presidente, signori del Governo, onorevoli colleghi, come deputati del gruppo misto-socialisti democratici italiani abbiamo seguito con grande attenzione lo sviluppo del confronto tra il Governo e le parti sociali svoltosi nel dicembre scorso, che ha portato alla sottoscrizione del patto che ieri pomeriggio è stato illustrato in aula dal Presidente del Consiglio.
Preliminarmente intendo affrontare una questione sollevata ieri, ed anche oggi, da diversi esponenti dell'opposizione, quella secondo la quale il patto sarebbe in un certo modo illegittimo in quanto fonte di espropriazione di competenze squisitamente parlamentari ed istituzionali. Non ho ben compreso ancora quanto di questa critica sia prevalentemente riferito alla forma e quanto, invece, riguardi la sostanza della vicenda che oggi stiamo discutendo; forse si tratta di un mix dei due aspetti. In ogni caso, per quanto ci riguarda, siamo tra i sostenitori nella forma e nella sostanza dell'intesa intervenuta tra il Governo e le parti sociali. Lo siamo perché, essendo la nostra una forza riformista, sappiamo bene che nessuna politica di progresso, di riforma e di cambiamento sarebbe possibile senza il robusto consenso delle parti più rappresentative della società. Siamo tra coloro che della necessità della concertazione fanno un costante punto di riferimento e un modello di comportamento da seguire.
Questo nostro paese deve molto a chi nel passato ha saputo realizzare quegli accordi tra Governo e parti sociali che sono stati la base, a partire dal 1993, della più robusta azione di risanamento della nostra economia e la carta più importante a nostra disposizione per raggiungere i traguardi che oggi giustamente celebriamo, primo fra tutti il nostro ingresso nella moneta unica europea. L'accordo del 1993 andava perciò di necessità rinnovato, lungo un itinerario che prevedesse, da un lato, una dilatazione la più ampia possibile dei suoi contraenti, dall'altro, il passaggio dalla fase del risanamento a quella dello sviluppo e della centralità dell'obiettivo lavoro.
Il Presidente del Consiglio ci ha rappresentato nel suo intervento la sigla di un patto tra Governo e parti sociali che è connotato da entrambe queste caratteristiche: per questo, noi deputati socialisti ne condividiamo le ispirazioni e le finalità. In particolare, ne condividiamo l'ambizione ad avere respiro sovranazionale, a collegarsi allo sforzo che tutta l'Europa comunitaria deve produrre, per affrontare con la dovuta determinazione lo spettro della disoccupazione e dare speranze concrete ai lavoratori italiani ed europei di un diritto di cittadinanza, che parte in primo luogo dalla formazione e dall'occupazione. Certo, non ci nascondiamo che si tratta di uno sforzo enorme, che richiede grande applicazione, grande tenacia, grande apertura mentale alle sfide che lanciano insieme innovazione e globalizzazione. Così come non ci nascondiamo che, ad oggi, quanto è scritto nel patto rappresenta soltanto delle potenzialità, non certo delle conquiste acquisite. Ma resta fondamentale che i soggetti principali che sono chiamati a produrre questo sforzo si muovano entro un percorso di obiettivi condivisi e dunque impegnativi per tutti.
Resta fondamentale che il patto sia, ad un tempo, il parametro verificabile delle rispettive credibilità e la cornice che non abolisce il conflitto, ma lo incanala nelle forme e verso obiettivi di sicuro avanzamento democratico e di progresso per il mondo dell'economia e del lavoro. Questa maggioranza e questo Governo hanno


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dunque realizzato le precondizioni per dare un sollecito avvio a quella fase di sviluppo duraturo che costituiva e costituisce l'obiettivo principale della dura stagione dell'emergenza e del risanamento, che il paese ha dovuto attraversare negli ultimi due anni.
Noi pensiamo che questa seconda fase del programma di centro-sinistra possa e debba essere condotta con altrettanta serietà e determinazione; ci sentiamo impegnati a fornire il nostro contributo verso il raggiungimento di tale obiettivo, con consapevolezza e convinzione, così come diciamo al Governo che resteremo vigili, nelle occasioni di verifica previste, alle concrete fasi di avanzamento di un progetto che riteniamo essenziale per il progresso del nostro paese (Applausi dei deputati del gruppo misto-socialisti democratici italiani).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Paolo Colombo. Ne ha facoltà.

PAOLO COLOMBO. Signor Presidente, ritengo superfluo discutere sui contenuti di questo patto sociale, perché i contenuti nuovi su cui discutere, francamente, sono pochi. Chi non è qui a scaldare la sedia, ma non si trova qui per caso e capisce qualcosa di politica non ha bisogno che gli si spieghi che questo è un atto meramente politico (è già stato anticipato da diversi interventi), con il quale il rais, il «Capo del Governo arabo» D'Alema, ha deciso di assoggettare tutti al suo potere e di dimostrare che la riforma costituzionale che stava portando avanti, nonostante il suo fallimento, viene da lui attuata nei fatti con l'assunzione di tutti i poteri di questo Stato. Quindi, le forze sociali istituzionalizzate, che non rappresentano la società vera, se non solo formalmente, sono tutte assoggettate. Il Parlamento darà dimostrazione di essere completamente sottoposto al potere del «Capo dello Stato» D'Alema e così l'operazione politica sarà compiuta.
È superfluo, quindi, discutere di contenuti e tanto vale, in questa occasione, parlare un po' di politica. È superfluo altresì parlare di contenuti, anche perché non ve ne sono di nuovi rispetto al patto del 1993, come ha riconosciuto lo stesso D'Alema nel suo intervento di ieri, quando ha detto che ci sono due aspetti nuovi (potete leggerlo sul resoconto stenografico della seduta di ieri): il primo è che viene riconfermato il patto del 1993 e il secondo che hanno firmato il patto anche quelli che all'epoca non lo avevano fatto. Questi sono gli aspetti nuovi.
Si tratta, quindi, di una presa in giro colossale e non si può parlare di contenuti; bisogna, invece, trovare le soluzioni al problema vero. Ed il problema vero è che, se vogliamo fare politica, dobbiamo mettere in discussione il modello di sviluppo capitalistico, del profitto portato all'eccesso, che ha contagiato tutto il mondo, con la globalizzazione selvaggia e il mondialismo, e che oramai dimostra di non poter offrire un futuro sostenibile ai popoli della terra.
Quello che accade in Brasile adesso e ciò che è successo in Indonesia sono la dimostrazione del fatto che il modello della massimizzazione del profitto, che travolge gli Stati, le identità culturali e i popoli porta inevitabilmente al disastro. Quali sono gli obiettivi di questo modello di sviluppo? Bisogna vestirsi allo stesso modo, consumare gli stessi prodotti, guardare gli stessi programmi televisivi, avere le stesse informazioni; bisogna annullare la propria identità per poter massimizzare i profitti di quei trenta padroni del mondo che oggi decidono quello che consumeremo dopodomani.
Se questo è il modello a cui dobbiamo assoggettarci, chiudiamo la «baracca», tanto il destino è segnato. Si rinuncia, così, alla difesa della propria identità culturale, che è il primo passo per impedire l'annullamento delle differenze fra i popoli, che invece sono positive e, quindi, da valorizzare poiché costituiscono una ricchezza che permette lo sviluppo delle società e delle comunità in modo armonico, nonostante i conflitti che vi possono essere. La rinuncia a capire che queste


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identità debbano essere tutelate, garantite e salvaguardate significa inchinarsi ad un destino che è inevitabile.
Il problema dello sviluppo economico sta in questi termini. Allora, se l'obiettivo è solo la massimizzazione del profitto, di cui parlavo prima, dobbiamo prevedere che anche l'economia europea, prima o poi, sarà contagiata da questo virus. D'Alema diceva ieri che, per fortuna, qui non succede ciò che sta accadendo in Brasile, perché siamo nell'unione monetaria. Ma la nostra non è un'isola felice: l'Europa non riesce a difendersi dagli assalti delle popolazioni distrutte da questo modello di sviluppo, che sono affamate ed incazzate e non hanno oramai neanche più valori culturali, perché hanno come obiettivo quello che vedono in televisione, in quanto le informazioni e i modelli che proponiamo sono quelli ai quali desiderano arrivare. Ci troviamo, perciò, con le nostre città invase da immigrati irregolari, che prima o poi distruggeranno anche l'impero romano d'occidente, come la storia ha già dimostrato che succede.
Lo sviluppo economico sostenibile deve, quindi, prevedere altre regole e tenere conto di una serie di condizioni. Innanzitutto, non può essere basato su ricette facili. Ieri D'Alema ha parlato di sviluppo economico solido e duraturo, ma lo vede solo lui. Se guardiamo la curva della crescita del PIL, constatiamo che si sta ammosciando: freudianamente, mi sembra di poter dire che il Viagra dell'economia in questi termini non esiste. Qual è la medicina che può salvare e far crescere l'economia? È la fiducia, la fede. In primo luogo, i cittadini devono riconoscere di appartenere ad una comunità nella quale non accade che tutti sono pronti a fregarsi l'uno con l'altro. Dalle mie parti ci sono ancora imprenditori ed operatori economici che concludono contratti miliardari con una stretta di mano, senza scrivere niente. Il rapporto di fiducia è basato sulla condivisione di valori comuni. In base ad un atteggiamento culturale del genere, nell'ambito della comunità si creano i presupposti per cui non è necessario difendersi dalle fregature: è ciò che manca in questo Stato.
Il modello di sviluppo basato sulla massimizzazione del profitto porta alla massimizzazione dell'individualismo e dell'egoismo. Anche il Papa parla di queste cose. Ogni tanto bisognerebbe ricordarlo, senza limitarsi a visite di Stato per dimostrare che si è forti e che si ha anche l'appoggio di un alleato così potente. Il Papa, grand'uomo, ha denunciato i mali del sistema comunista ed oggi denuncia i mali del sistema capitalista. È un po' la sindrome di Cartagine: il mondialismo, l'omologazione, l'unificazione portano alla distruzione dei confini fra gli Stati e delle identità culturali. Il nemico dell'ideologia capitalista si trova dunque all'interno e produce gli effetti che stiamo verificando.
Occorre, quindi, affermare un nuovo tipo di modello di sviluppo, per contrastare quello attualmente imperante. Già all'interno di questo Stato, dobbiamo cominciare ad affermare il principio della tutela delle differenze a tutti i livelli. Se vogliamo salvare questo Stato, che rappresenta popolazioni con storie, culture diverse, dobbiamo trovare la maniera di far convivere civilmente queste culture. Partendo da tale presupposto, è inutile pensare di avere un contratto collettivo nazionale che omologhi situazioni così differenti. La contrattazione decentrata in questi termini fa ridere: non consentendo piani differenziati per situazioni così diverse, essa tende a pregiudicare lo sviluppo ed il benessere di un'intera parte dello Stato, quella più forte economicamente, la quale non può costruire un futuro per le proprie popolazioni e soprattutto per i più giovani, che devono pagare più di altri lo scempio dei conti pubblici e quindi l'opera di risanamento (grazie alle politiche consociative, che non hanno prodotto lo sviluppo del sud).

PRESIDENTE. Il tempo, onorevole Paolo Colombo.

PAOLO COLOMBO. Concludo, signor Presidente.
Noi non daremo un avallo politico a questo stato di cose, ma siamo convinti


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che fatalmente la storia arriverà a dimostrare ancora una volta che abbiamo ragione. Se sarete un po' furbi ed intelligenti, potremo cercare di anticipare la storia e di prendere adeguate misure per garantirci un futuro, altrimenti...

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Alemanno. Ne ha facoltà.

GIOVANNI ALEMANNO. Signor Presidente, i giornalisti, già all'indomani dell'illustrazione del patto del lavoro da parte del Presidente del Consiglio, hanno riportato una serie di polemiche tra il Governo ed i contraenti del patto stesso.
Queste polemiche, a nostro avviso, la dicono lunga sulla critica fondamentale che va rivolta al patto per il lavoro: si tratta di un patto sociale che, nonostante il lungo lavoro di discussione e di incontro, nonostante il tam tam pubblicistico che lo preannunciava come una svolta nella storia sociale del paese, non tocca le questioni fondamentali, che restano insolute.
D'altra parte, lo stesso Presidente del Consiglio - e da questo sono state originate le polemiche giornalistiche di oggi - lo ha candidamente confessato nel suo discorso di ieri.
Voglio leggere due passi dell'intervento dell'onorevole D'Alema, perché sono significativi. In essi il Presidente del Consiglio afferma di sostenere sinceramente che da parte del Governo non è mancata la disponibilità ad innovazioni nel senso di un modello contrattuale più elastico, in grado di valorizzare ancor di più la dimensione decentrata della contrattazione e di garantire, quindi, una più ricca articolazione.
Inoltre, sempre l'onorevole D'Alema afferma che su questo punto si è svolta una discussione vera, nella quale sono state avanzate preoccupazioni serie e seriamente motivate da parte delle grandi organizzazioni sociali circa il rischio di un eccesso dell'articolazione della contrattazione, che avrebbe potuto far perdere loro la possibilità di esercitare, con il Governo, la politica dei redditi che ha rappresentato una condizione essenziale per vincere la sfida di questi anni.
Infine, il Presidente del Consiglio conclude dicendo che la dimensione del contratto nazionale tenderà nel tempo ad essere corretta dai fatti.
Di fronte ad affermazioni di questo genere, dobbiamo sottolineare che è mancato fondamentalmente il cuore di quello che avrebbe dovuto essere il patto sociale: tutti si attendevano una rivisitazione della contrattazione collettiva che, senza abolire la dimensione nazionale del contratto collettivo, riuscisse a cogliere l'esigenza oggi più fortemente avvertiva nel paese, cioè la capacità di applicare regole diverse a situazioni diverse.
Infatti, di fronte ad un paese che ha un differenziale di sviluppo così accentuato - il nord a piena occupazione ed il sud che ancora sconta gravissimi tassi di disoccupazione - ci saremmo aspettati che il patto sociale fosse centrato su questo differenziale.
Oggi l'Italia si trova di fronte ad un bivio e si chiede se l'articolazione della contrattazione e se regole diverse saranno ottenute tramite una rottura sociale - ed un grave conflitto sociale - oppure tramite - questo avrebbe dovuto essere l'obiettivo del patto - un ragionamento concertato, un legame che avrebbe dovuto toccare tutte le parti sociali.
In altre parole, il problema è quello di comprendere se il nuovo modello del mercato del lavoro, che preme sulla realtà italiana sull'onda dell'economia globale, possa essere raggiunto sulla spinta di una pressione unilaterale di carattere politico o di una parte della realtà sociale, oppure se possa essere raggiunto per un concorso generale delle parti; soltanto in questo secondo caso l'articolazione potrebbe essere guidata, si potrebbero garantire i diritti dei lavoratori e si potrebbe assicurare la tutela delle garanzie fondamentali che hanno sempre rappresentato la dignità e la civiltà del lavoro in Italia.
Tutto questo non è stato affrontato, e lo dice D'Alema! Anzi, D'Alema dice: saranno i fatti a porre il problema. Ma se


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sarà così, allora non vi sarà stato patto sociale e sarà mancata una capacità di guidare lo sviluppo.
L'altro indice indicatore dell'elusione dei temi fondamentali è dato dalla questione dell'orario di lavoro. I colleghi di rifondazione comunista hanno rilevato come si faccia un patto sul lavoro, si affrontino in 60 pagine questi problemi e non si spenda poi una riga, in 60 pagine, sulla questione fondamentale dell'orario di lavoro, questione che ha messo in crisi una maggioranza, che ne ha creata una nuova, che teoricamente fa parte del programma di Governo e che sta per arrivare in Commissione lavoro! Un problema fondamentale che pesa come un macigno sul cammino di questo Governo e sullo sviluppo della realtà sociale ed economica del paese.
Qual è stato il metodo adottato? Il metodo - e la sostanza - di questo patto è stato ancora una volta quello di eludere i problemi fondamentali, di eludere il centro della questione e di cercare di recuperare il senso e le firme delle trentadue associazioni che hanno firmato questo patto, promettendo una serie di fatti che saranno difficilmente realizzabili. Tutte le riduzioni del carico fiscale, tutte le riduzioni del costo del lavoro, che sono state promesse in questo patto (non è chiaro, come è stato giustamente osservato, come verranno effettivamente recuperate in termini di bilancio generale dello Stato), peseranno poi sulla fiscalità generale dello Stato e peseranno sulla politica economica di questo paese, senza una risposta chiara.
Ancora una volta, per non affrontare, come avveniva nel vecchio consociativismo democristiano, i problemi chiave del paese, si cerca di conquistare il consenso sociale erogando o promettendo l'erogazione di risorse oppure, come nel caso in oggetto, promettendo l'erogazione di incentivi, da un lato, e riduzioni fiscali, dall'altro.
Personalmente non condivido l'eccesso di affermazioni che sono venute anche da parte del Polo, per cui sembra quasi che il problema fondamentale di questo patto sia quello del metodo della concertazione. A me il metodo della concertazione non stupisce affatto e non mi crea assolutamente problemi né posso non rispettare le trentadue firme che si sono inanellate dietro questo documento. Trentadue firme che sono molto di più rispetto a quelle sull'accordo del 1993. Io rispetto queste firme ma dico che la montagna ha partorito un topolino! Dico che purtroppo questo patto non sarà un filo guida per il paese perché i problemi fondamentali non sono stati risolti.
Le trentadue associazioni hanno firmato perché non si potevano certamente sottrarre rispetto all'offerta e alla promessa di sgravi fiscali e di possibili incentivi, ma hanno dovuto misurare la difficoltà del Governo nel dare un indirizzo politico a tale realtà.
Quindi, io affermo che la pratica della concertazione è importante ma deve essere studiata e approfondita; essa ha senso però se produce dei fatti realmente innovativi e se riesce a guidare questa evoluzione che è necessaria al paese. Se infatti la concertazione deve servire soltanto a tenere tutti buoni e a creare un dato di apparato, di facciata, dietro alla quale i problemi fondamentali non vengono risolti, allora siamo ancora fuori strada.
Ne consegue che il nostro atteggiamento sarà quello di continuare un'opera di dialogo sociale con queste associazioni, così come è stato detto anche nella conferenza stampa di ieri; sarà quello di parlare, di approfondire, di verificare se gli impegni assunti dal Governo saranno mantenuti, se gli incentivi e gli sgravi promessi avverranno realmente oppure se essi saranno stati semplicemente una promessa per ottenere quelle firme e incalzare i vertici di quelle associazioni a firmare questo patto.
In questo Parlamento, nello scenario politico e sociale però rimangono ancora aperte questioni fondamentali. Sto parlando, in primo luogo, del peso della contrattazione nazionale rispetto a quella decentrata, sia di carattere aziendale che territoriale, ed è questa la chiave dell'innovazione


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del mercato del lavoro, la chiave per creare occupazione nel nostro paese, ma mi riferisco anche al peso del problema dell'orario di lavoro, che deve essere chiaramente denunciato da questo Parlamento, altrimenti lo sarà dal paese perché la «strada» dell'orario è stata, diciamo, «sovrapposta», per una logica politica, alle realtà e alle parti sociali. Aggiungo che di fronte al rilancio del metodo della concertazione non abbiamo visto risultati adeguati.
Concludo dicendo che, di fronte ad una emergenza come quella del lavoro, che si accentuerà ancora di più, e di fronte alla nuova epoca dell'euro, che abbiamo inaugurato da pochi giorni, la responsabilità di tutti, maggioranza e opposizione, deve essere quella di seguire attentamente questi temi, di stabilire un dibattito reale e di andare veramente in profondità per comprendere la situazione che abbiamo di fronte, a partire da quella legge fondamentale sulle rappresentanze sindacali che misurerà la capacità di rappresentanza dei lavoratori di fronte ai tavoli fondamentali in cui si deciderà la storia economica e sociale di questo paese.
Occorre, dunque, una grande attenzione verso questi temi perché su di essi si decide il destino dell'Italia. Oggi noi non possiamo non condannare il patto sociale come un'operazione propagandistica di promesse ma che elude le questioni fondamentali (Applausi dei deputati del gruppo di alleanza nazionale).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Martino. Ne ha facoltà.

ANTONIO MARTINO. Signor Presidente, onorevoli colleghi e colleghe, signori del Governo, vorrei immediatamente precisare che non è mia intenzione criticare questo documento in base alle conseguenze intenzionali che presumibilmente ne seguiranno. Infatti, dal punto di vista delle conseguenze, questo è un documento del tutto innocuo, una pomposa e velleitaria esibizione di intenzioni più o meno nobili, un libro dei sogni, aria fritta!
D'altro canto, non credo nemmeno che esso rappresenti qualcosa di nuovo ma ritengo che contenga qualcosa di vecchio, di molto vecchio, di preoccupantemente vecchio.
Tenderò invece a criticarlo dal punto di vista del metodo che esso riafferma e che darà vita a conseguenze non intenzionali davvero preoccupanti. È con un certo imbarazzo che mi accingo ad esaminare le posizioni esposte in apertura di seduta stamane da un collega della sinistra nei cui confronti ho la più alta considerazione professionale e non da adesso: l'onorevole Michele Salvati. Egli, nel suo intervento di stamane, ha svolto un elogio del neocorporativismo che avrebbe riscosso gli entusiastici consensi di quella parte della destra che non è rappresentata in questo Parlamento. Egli ha detto che l'intero arco delle politiche economiche degli ultimi sette anni, con la sola parentesi del Governo Berlusconi, è un arco neocorporativo. E sia! Supponiamo che davvero negli ultimi sette anni in Italia abbia dominato il neocorporativismo. Con quali risultati?
Apprendiamo dai dati dell'OCSE che l'Italia è l'unico fra i sei maggiori paesi industrializzati in cui il numero degli occupati nel 1997 era inferiore al numero degli occupati del 1980. In tutti gli altri paesi il numero degli occupati è aumentato. L'unico paese in cui l'occupazione è diminuita è stata l'Italia negli anni che, secondo Salvati, sono stati di neocorporativismo. La diminuzione non ha avuto luogo nel corso degli anni ottanta, perché in quegli anni l'occupazione aumentava; il calo della occupazione ha avuto luogo negli anni novanta: tra il 1992 e il 1997 si sono distrutti un milione e 400 mila posti di lavoro!
Il collega Salvati sostiene che questo patto sociale rappresenta un salto di qualità rispetto ai patti sociali che lo hanno preceduto sia per l'estensione delle materie in oggetto sia per l'allargamento del numero dei soggetti partecipanti. Saremmo passati - secondo Salvati - dalla vecchia politica dei redditi al nuovo patto sociale di oggi.


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Vorrei intanto dire qualcosa su quella politica dei redditi che è stata una prospettiva di politica economica dominante fra gli economisti con qualche rarissima eccezione, alla quale mi onoro di appartenere, negli anni settanta. Allora si sosteneva la necessità di quella che oggi chiamiamo concertazione come strumento per sconfiggere l'inflazione. Altri sosteneva che, senza concertazione, la lotta all'inflazione avrebbe condotto il paese ad un'alta disoccupazione. Quella tesi era sbagliata allora ed è sbagliata a tutt'oggi sotto il profilo logico ed è stata ampiamente, credo definitivamente, contraddetta dalla realtà e disattesa, diventando desueta, da tutti i paesi occidentali.
Altrimenti non si spiegherebbe come mai i paesi che storicamente hanno sempre avuto i più bassi tassi d'inflazione e disoccupazione, come gli Stati Uniti, il Giappone, la Svizzera, siano anche paesi che non sanno nemmeno cosa sia la concertazione. Questo metodo è stato molto popolare in Inghilterra negli anni settanta, con il risultato di dar vita ad una disoccupazione a due cifre e ad un'inflazione a due cifre, a quella che con un termine poco elegante veniva definitiva stagflazione - cioè ristagno ed inflazione - e che Samuel Brittan battezzò col nome di «male inglese». A proposito di Brittan vorrei segnalare all'amico Salvati la lettura del bel volume di Samuel Brittan e Peter Lilley L'illusione della politica dei redditi, pubblicato a Londra nel 1977.
Del resto, noi tutti sappiamo che il «male inglese» non è stato curato dalla politica dei redditi e che non è stato certo un patto sociale a determinare la diminuzione drastica di disoccupazione ed inflazione nell'Inghilterra della signora Thatcher. La verità è che questo metodo è fortemente preoccupante, perché istituzionalizza quella che nella letteratura specialistica viene chiamata la politica degli interessi.
Ora, la politica degli interessi non è un gioco a somma zero; non è vero che quello che guadagnano coloro che guadagnano sia uguale alle perdite di coloro che ci rimettono. La politica degli interessi è un gioco a somma negativa, perché il comportamento razionale dei singoli gruppi di interesse, ognuno dei quali persegue il proprio tornaconto diretto, finisce per dar vita non intenzionalmente ad un risultato finale che danneggia tutti. Noi abbiamo istituzionalizzato la politica degli interessi.
Questo patto sociale - vorrei dirlo all'amico Salvati - rappresenta sì un balzo in avanti, ma nella direzione sbagliata. Il ventaglio dei temi si amplia e il fatto di avere invitato al tavolo delle trattative trentadue signori che nessuno ha eletto non ha molta rilevanza (Applausi dei deputati dei gruppi di forza Italia e di alleanza nazionale).
Si dirà che quei signori sono rappresentativi di tutta la società, ma non è vero: l'Italia tutta è rappresentata solo qui, in questo Parlamento sovrano (Applausi dei deputati dei gruppi di forza Italia e di alleanza nazionale), che non può permettersi di tollerare questo autentico esproprio della sua sovranità.
Le società, diceva Voltaire, sono come i giochi: senza regole non esistono. Invece di invocare taumaturgiche quanto improbabili riforme costituzionali, non sarebbe male cominciare a rispettare la Costituzione vigente, riconducendo l'attività dei sindacati e dei gruppi di interesse al loro ambito istituzionale (Applausi dei deputati dei gruppi di forza Italia e di alleanza nazionale), il che significa che Governo e Parlamento devono essere in condizione di svolgere le loro funzioni senza dover prima chiedere il permesso ai rappresentanti del padronato e del grande sindacato (Applausi dei deputati dei gruppi di forza Italia, di alleanza nazionale e misto-CCD - Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Rebuffa. Ne ha facoltà.

GIORGIO REBUFFA. Signor Presidente, signor Vicepresidente del Consiglio, signor ministro del lavoro, non c'è dubbio che il documento che ci è stato presentato sia molto, molto complesso ed è anche un documento molto, molto ambizioso e,


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come tutti i documenti ambiziosi e complessi, richiede che sia valutato con uno sguardo molto, molto critico.
Si è parlato di un documento che riprende la linea della concertazione. Io vorrei far osservare che rispetto a quello che è stata la concertazione nel nostro paese, forse non intenzionalmente, nel documento ci sono altre cose e altri sbocchi, altri esiti possibili.
Il primo aspetto che colpisce nel documento - lo voglio dire anche scherzosamente - è che si tratta di un documento anche sintatticamente di difficile decifrabilità. Voglio per esempio far notare che all'inizio del testo vi è un refuso, chiamiamolo così, che impedisce di capire chi abbia effettivamente contrattato, ma che è imputabile probabilmente della fretta, che però, quando porta alla sciatteria, è un peccato molto grave. Altri elementi linguistici meriterebbero una maggiore attenzione, ma spero, mi auguro, credo che gli uffici di palazzo Chigi la presteranno autonomamente.
È un documento certamente di grandi aspirazioni e anche qui gli elementi semantici sono molto indicativi. Sembra quasi, leggendolo, che il Governo richieda un'altra fiducia, perché è lo stile tipico di un documento di chi richiede la fiducia: «il Governo si impegna», «il Governo farà», «il Governo proporrà». Solo che a questo proposito è stata notata un'incongruenza sulla quale non posso non concordare: questo sistema - lo dico metaforicamente e quindi in modo non preciso - della «doppia fiducia» indica certamente qualche disagio. La fiducia richiesta al Parlamento è stata data, non so se le parti sociali debbano darne un'altra.
Difatti, questo documento - lo dico al Vicepresidente del Consiglio - è sfuggito alla collegialità della maggioranza e voglio anche aggiungere che il fatto che sia sfuggito alla tagliola, alla ghigliottina della collegialità della maggioranza si vede anche...

ELIO VITO. Ascolta Mattarella!

GIORGIO REBUFFA. Ringrazio della collaborazione, ma Mattarella ha due orecchie e soprattutto...

ELIO VITO. Non ascoltate l'opposizione, ma almeno ascoltate la maggioranza!

SERGIO MATTARELLA, Vicepresidente del Consiglio dei ministri. Se ella ascoltasse con la medesima attenzione quando parla il Governo...

ELIO VITO. Sicuro, e non apprendo nulla di buono...!

PRESIDENTE. Onorevole Rebuffa, continui e non si faccia distrarre dai tentativi dell'onorevole Vito.

GIORGIO REBUFFA. Se invece fosse stato sottoposto alla collegialità, probabilmente non vi sarebbero dentro le incongruenze, le aporie e gli esiti non voluti che esso denuncia.
Non è solo un documento relativo alla concertazione. La concertazione nel nostro paese aveva una funzione precisa e che si chiama scambio politico, che permetteva di avere consenso in cambio di codecisione. Essa portò, a partire dal 1978, ad una possibilità di risanamento del nostro sistema economico. Voglio anche ricordare che quel sistema di scambio politico e di concertazione finì bruscamente nel 1984, quando una delle parti sociali si sottrasse all'accordo e in quella situazione l'esecutivo poté ricorrere, con gli strumenti che il sistema parlamentare gli forniva, al rimedio: si tratta della nota vicenda del decreto Craxi e del referendum sulla scala mobile. Lo dico perché in questo documento esiste la possibilità che le soluzioni costituzionali che danno al Governo e al Parlamento la forza di mantenere gli accordi e di imporli imperativamente siano sottratte. Che cosa succede nel documento? Si crea, ancorché molto ottativamente, più sul piano degli auspici che su quello della realtà, un complicato sistema di tavoli, che si occupa di molte questioni di carattere normativo.


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Fra tutte ve ne è una che colpisce in modo particolare: la politica scolastica. Incidentalmente, desidero rilevare che proprio nella parte che riguarda la politica dell'istruzione si usano espressioni che andrebbero cambiate perché incomprensibili, almeno per me. Mi riferisco, ad esempio, alla seguente: «aprire al mondo del lavoro i dottorati di ricerca», espressione oscura a meno che non si voglia dire qualcosa di grave e che è già accaduto (colgo l'occasione odierna per denunciarlo) e cioè che si mette il dottorato di ricerca come condizione necessaria per concorrere all'alta dirigenza pubblica. Sulla vicenda torneremo in altra occasione, ma visto che ne avevo notizia, ho voluto affrontarla per un attimo.
Il suddetto sistema di tavoli, dicevo, cosa comporta? Fa nascere una struttura corporata, non corporativa, per cui l'esecutivo dà vita ad un meccanismo di accordi che, poi, deve sottoporre al Parlamento per la ratifica. Cari colleghi, emerge chiaramente un fatto: la struttura si sottrae al meccanismo vigente del sistema e cioè la responsabilità parlamentare. Esso potrebbe funzionare se fossimo nel governo del Premier, ma - ahimè o per fortuna - non è la nostra situazione, perché il nostro è un sistema parlamentare; pertanto tale meccanismo, che sembra il proseguimento della concertazione, è invece diverso, è perverso ed era già presente attraverso la proliferazione delle cosiddette autorità indipendenti. In realtà, infatti, esso diventa un laccio non solo per il Parlamento, ma anche per l'esecutivo. Si tratta di un elemento critico che non si può sottacere.
Nelle parti di merito, allora, il documento è largamente ottativo e di auspici, ma è pericolosamente ottativo e di auspici, perché costruisce un sistema di decisioni che, non solo rischia di sfuggire al controllo parlamentare, ma anche a quello dell'esecutivo. Se tale meccanismo, infatti, andasse avanti e si consolidasse, la soluzione trovata nel 1984 di un atto di imperio dell'esecutivo non sarebbe più possibile. Ciò rischia di mettere l'attuale esecutivo - e in generale anche i futuri - di fronte a un fatto istituzionale compiuto, che va oltre la logica del sistema.
Da ultimo, desidero sottolineare che è proprio questo il rischio grave della strada indicata, argomento sul quale torneremo in altra occasione per avviare ulteriori critiche, analisi ed anche contrapposizioni (Applausi dei deputati del gruppo dell'UDR).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare, a titolo personale, l'onorevole Lucchese. Ne ha facoltà.

FRANCESCO PAOLO LUCCHESE. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signori ministri, signor vicepresidente del Consiglio, intervengo alla conclusione del dibattito che, a mio avviso, rappresenta solo un rituale che vorrebbe accreditare e dare dignità ad un patto, fornendogli la legittimità che non ha. Si tratta di un patto scellerato tra il Governo, il grande capitale e i sindacati confederali. Non si tratta altro quindi che di una forma di neodirigismo, anche se il Presidente del Consiglio ha puntigliosamente respinto tale accusa.
Darò ora lettura di una parte dell'intervento di ieri del Presidente del Consiglio per dimostrare che in effetti lui dice una cosa e poi ne fa un'altra. Il testo è del seguente tenore: «Questa volta, dunque, lo Stato ha assegnato a se stesso un ruolo più impegnativo; non più soltanto "pagatore" degli oneri di un patto stretto tra le forze sociali, ma parte in causa, in primo luogo in quanto dal suo funzionamento come datore di lavoro, produttore di servizi, di progetti e di decisioni dipende la riuscita del patto stesso». Mi pare che non vi possa essere più dirigismo di quando si afferma che lo Stato è parte in causa e che in primo luogo è datore di lavoro!
Ha proseguito poi con le seguenti parole: «e, insieme, perché il Governo si presenta come garante dell'efficacia, dei modi in cui saranno impiegate le risorse pubbliche».
Leggerò ora un'altra parte dell'intervento del Presidente del Consiglio, quando


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alla fine si è richiamato alla fiducia nel futuro, alla fiducia degli imprenditori, dei giovani e dei lavoratori. Quale fiducia vuole dare e quale fiducia vuole da questi giovani in presenza di una disoccupazione crescente? I nostri giovani che non hanno lavoro non hanno speranza: allora quale fiducia bisogna chiedere?
Mi pare, in conclusione di questo discorso, che emerga un leit motiv: siamo al solito «effetto annuncio», per cui si annunciano provvedimenti che non sono sicuri; si annunciano provvedimenti che poi rimarranno nel cassetto dei sogni. Si prende tempo, pensando che si risolveranno le cose dopo! Il leit motiv potrebbe corrispondere ad un detto che usiamo noi in Sicilia: «Mentre lu medicu sturia, lu malatu si fa la via», (mentre il medico studia cosa deve dare al malato, il malato nel frattempo muore). Questa mi pare essere la logica del patto sociale, di queste promesse che attendiamo che si concretizzino e che poi, puntualmente, non diventano mai un fatto reale.
Quale speranza vi può essere in un Mezzogiorno in cui si registra un 25 per cento di disoccupazione, dove i giovani sono il 55 per cento dei disoccupati? Non solo, ma in queste zone non vi è più speranza nel futuro e vi sono soltanto i contratti di lavoro, i lavori socialmente utili e provvedimenti similari; non vi è una speranza di un lavoro sicuro!
Quali misure importanti chiediamo per il sud al ministro del lavoro?
Il Presidente del Consiglio ha parlato di infrastrutture. Tutti, però, sappiamo che nel sud l'autostrada Messina-Palermo dopo 33 anni non è stata ancora completata; sappiamo che le ferrovie sono costruite su un unico binario; sappiamo che le poste non funzionano.
E poi si parla di formazione. Quest'ultima è sicuramente importante, ma non bisogna gestirla come nel passato come una forma di assistenzialismo o come un motivo di interesse personale e politico di alcuni gruppi politici.
Sottolineo poi che nell'intervento del Presidente del Consiglio non vi è stato alcun richiamo ad una verace riduzione della pressione fiscale. Quest'ultima non fa decollare il Mezzogiorno e noi chiediamo che nel sud vi siano investimenti con un vantaggio fiscale, prevedendo, per esempio, delle zone franche.
Ma ciò che soprattutto non è stato posto in evidenza in quell'intervento (è stato fatto solo un piccolo passaggio, con una parola buttata lì così, quando si è parlato di sicurezze) è la lotta alla criminalità. Senza quest'ultima non esiste futuro! Su tale argomento ho presentato numerosi atti di sindacato ispettivo al Governo, ai quali non ho mai ricevuto risposta. Rilevo, peraltro, che stranamente, quando si verifica qualche fatto criminoso a Milano si aumentano gli organici delle forze di polizia: richiesta che peraltro ho avanzato numerose volte per il Mezzogiorno!
Vorrei concludere il mio intervento sulla questione dello Stato sociale. Il Presidente del Consiglio ha affermato che vi è una idea di cittadinanza; ha «strombazzato» il provvedimento sulla maternità, che è un po' settoriale; ha dimenticato però che durante l'esame della legge finanziaria in sede di valutazione degli emendamenti avevano chiesto maggiori interventi per la gravidanza e per il parto preordinato, nonché un allungamento del periodo di assenza dal lavoro dopo il parto.
Ma quello che più manca nell'intervento del Presidente del Consiglio è proprio l'idea di cittadinanza, che è la più importante per noi: è la famiglia! Non si è parlato della famiglia in quell'intervento sul patto sociale perché, a nostro avviso, soltanto in essa risiedono i fondamenti del vero Stato sociale e di ogni patto sociale (Applausi dei deputati del gruppo misto-CCD).

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle comunicazioni del Governo.
Sospendo brevemente la seduta.

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