Seduta n. 438 del 17/11/1998

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TESTO AGGIORNATO AL 18 NOVEMBRE 1998


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La seduta, sospesa alle 20,15, è ripresa alle 20,55.

Seguito della discussione del disegno di legge: S. 3551 - Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 29 settembre 1998, n. 335, recante disposizioni urgenti in materia di lavoro straordinario (approvato dal Senato) (5349) e dell'abbinata proposta di legge Contento e Foti: Modifica all'articolo 13 della legge 24 giugno 1997, n. 196, in materia di orario di lavoro (5021).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito della discussione del disegno di legge, già approvato dal Senato: S. 3551 - Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 29 settembre 1998, n. 335, recante disposizioni urgenti in materia di lavoro straordinario; e dell'abbinata proposta di legge Contento e Foti: Modifica all'articolo 13 della legge 24 giugno 1997, n. 196, in materia di orario di lavoro.
Ricordo che nella seduta di ieri è proseguita la discussione sul complesso degli emendamenti riferiti agli articoli del decreto-legge (Per gli
articoli e gli emendamenti vedi l'allegato A al resoconto della seduta del 11 novembre 1998 - sezioni 1 e 2).

(Ripresa esame degli articoli - A.C. 5349)

PRESIDENTE. Riprendiamo, pertanto, la discussione sul complesso degli emendamenti.
Questa sera proseguiremo con gli interventi: le votazioni inizieranno nella seduta successiva.

ELIO VITO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ELIO VITO. Presidente, si intende che le votazioni inizieranno quando saranno esauriti gli interventi o quando la maggioranza intenderà legittimamente applicare...

PRESIDENTE. Onorevole Vito, ho detto, infatti, che avranno luogo in una seduta successiva: volevo avvertire, per capirci, che non si voterà questa sera.
Ha chiesto di parlare l'onorevole Stagno D'Alcontres. Ne ha facoltà.

FRANCESCO STAGNO d'ALCONTRES. Signor Presidente, onorevoli colleghi, sulla regolamentazione che il Governo vuole dare


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al mercato del lavoro noi continuiamo a vedere miracolose levate di ingegno.
La normativa del Governo - espressione del tutto impropria, se fossimo realmente in una democrazia parlamentare, dove la norma la scrive il Parlamento - che discutiamo oggi sul lavoro straordinario ha la... straordinaria capacità di lasciarci nella più totale discrasia con la società, nel distaccare testardamente la classe politica dalla collettività che questo Parlamento è chiamato a rappresentare.
Fissato dalla legge Treu l'orario normale di lavoro in quaranta ore settimanali, con decreto-legge - dunque con un provvedimento motivato da straordinaria necessità ed urgenza - viene ridotto il limite oltre il quale le ore di straordinario devono essere comunicate all'ispettorato del lavoro.
L'onorevole Gazzara ha colto le contraddizioni della maggioranza che si appresta ad adottare queste misure e, insieme, punta ad una riduzione per legge dell'orario di lavoro a trentacinque ore. Perché non è stata immediatamente prevista in questo decreto-legge necessario ed urgente? La maggioranza vuole quaranta o trentacinque ore?
Credo che le motivazioni di questi provvedimenti riposte nella certezza di un aumento dell'occupazione non siano così solide, così come tale non lo è la maggioranza che le sostiene.
In quest'aula ho avuto modo altre volte di richiamare il programma dell'Ulivo, che chiedeva per le minoranze parlamentari la possibilità di ricorrere direttamente alla Corte costituzionale contro decreti-legge emanati senza che ricorressero i requisiti costituzionalmente previsti; un programma che proclamava tempi garantiti all'opposizione nella programmazione dei lavori parlamentari, non più soffocati da decreti-legge a ripetizione: carta stracciata dal Governo precedente che si è sentito ben poco impegnato da essa, nonostante scrivesse e ribadisse negli atti ufficiali presentati a questa Assemblea che gli interventi più indicati fossero quelli che miravano non a determinare le scelte dell'imprenditore, ma a lasciargli il massimo dell'iniziativa e ad assicurargli le condizioni di esercizio dell'azienda.
Onorevoli colleghi, non ho visto alcun intervento in questa direzione e continuo a non vederne. Credo che il Governo non possa essere identificato con lo Stato, il quale, inteso come collettività dei cittadini, è qualcosa di totalmente estraneo a questo Governo guidato dal partito di maggioranza relativa delle ultime elezioni.
Prima sono stati imposti sacrifici al paese per entrare in Europa e poi, una volta dentro, la responsabile dei guai è proprio l'Europa, perché non è più possibile dare colpe politiche all'opposizione.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE ALFREDO BIONDI (ore 21).

FRANCESCO STAGNO d'ALCONTRES. Poiché non è possibile darci alcuna responsabilità politica per il carico fiscale, per la disoccupazione, per il prodotto interno lordo tra i più bassi della storia repubblicana e ben al di sotto della media europea di questi anni, ecco che arrivano il terremoto asiatico e, molto più vicino a noi, il rigore e la scarsa duttilità dei tecnocrati di Bruxelles e di Francoforte.
S'ha da dire, invece, che il cambiamento dell'organizzazione del lavoro e la cosiddetta impresa flessibile (tanto per citare la letteratura specializzata) sono fenomeni talmente normali che sia l'Unione europea sia l'Organizzazione internazionale del lavoro, dal 1996, utilizzano termini come lavoro interinale e lavoro atipico senza pregiudizi di sorta, perché (richiamo l'Organizzazione internazionale del lavoro che non si attesta certo su posizioni troppo liberali) sono frutto di scelte dettati da nuovi stili di vita e dalle preferenze dei lavoratori.
Il Governo non solo decide di legiferare impropriamente mettendo in dubbio che la dinamica realtà produttiva della piccola e media impresa italiana richiede ben altro che nuovi oneri e gravami burocratici, e che lo stesso lavoratore


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dell'era post-industriale sia alla ricerca di un equilibrio più individualista nei propri ritmi di vita, come evidenziato anche da recenti studi dell'OCSE, ma nel contempo esso stesso trova più opportuno intervenire con provvedimenti che consentono alla grande industria di trarre beneficio sulla pelle della piccola e media impresa.
Assistiamo così al miracolo economico della delocalizzazione dei capitali all'estero, insieme con le rottamazioni e la cassa integrazione.
Vi è dell'altro. Questo Governo con questa maggioranza mette insieme la volontà di farsi i fatti propri con la fame di baronie e di potere. Le conseguenze sono (desidero affermarlo con forza in quest'aula) l'oppressione dell'impresa e la divisione della società italiana tra coloro che lavorano e coloro che non lavorano!
La strenua accentuazione delle garanzie degli occupati a tutto danno delle categorie dei disoccupati, al fine di raccogliere consenso, che si concluderà con la introduzione dell'orario di lavoro a 35 ore con legge, non potrà fare altro che creare un nuovo conflitto di classe, di quelli tanto cari al comunismo. La sinistra italiana d'altronde ha sempre cercato lo scontro di classe. È nata per questo.
Anche i sindacati, per come stanno le cose oggi, non hanno più alcun senso di esistere perché è in atto la demolizione dell'intero sistema delle relazioni industriali al fine di sostituire quest'ultimo con il dirigismo di Governo. Né i sindacati vogliono decidersi, una buona volta, a chiedere seriamente, per ottenerlo, l'adeguamento del mercato del lavoro e della contrattazione alla dinamicità delle nostre aziende migliori.
Onorevoli colleghi, il paese continua a perdere delle occasioni. Si avrebbe la possibilità di apportare alla nostra economia una serie di benefici e vi si sta rinunciando. L'attività di impresa privata è prevista e tutelata dall'articolo 41 della Costituzione. Porre troppi vincoli a tale attività violerebbe, in via mediata, il disposto dell'articolo 41 nel suo complesso che dispone testualmente al comma 3: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Non già repressa.
L'indirizzo e il coordinamento ai fini sociali dell'attività economica devono condurre alla promozione reale dell'impiego della forza lavoro senza eccessivi oneri da parte del datore di lavoro o da parte della comunità (ricordo che gli sgravi contributivi e quanto altro si concede alle imprese sono a carico della collettività), devono ancora essere funzionali all'impiego di nuove forze di lavoro, al corretto abbinamento valutato sul campo tra capacità possedute e richieste e, infine, devono rispondere all'esigenze contemporanee delle nuove tipologie produttive flessibili.
Il Governo invece non intende rispondere ad alcuna di tali esigenze per le ragioni che ho delineato poc'anzi di velleità dirigista e feudale, unita ad un fondamentalismo che sta nei cromosomi, che trova le motivazioni più o meno consapevoli delle proprie scelte nella dialettica di classe e nel conflitto sociale.
Ho ricordato poc'anzi anche i metodi politici con i quali si difende il Governo. Il precedente Governo ha inteso dare all'estero la colpa del fallimento della politica del lavoro e della lentezza della crescita economica degli ultimi due anni. Questo Governo, sulle orme del primo, sta disattendendo la normativa comunitaria ed io mi chiedo per quale motivo rincorra oggi, con rumore di grancassa, una nuova interpretazione dei parametri di Maastricht per la moneta unica.
È sufficiente, per una risposta in tal senso, osservare le manovre delle sinistre europee, leggere sui giornali le critiche mosse alla Banca centrale europea e alla sua indipendenza.
Non alla flessibilità alla politica del lavoro punta questa maggioranza, ma alla flessibilità della politica monetaria e di bilancio. Dunque all'opinione pubblica si presentano i problemi europei come giustificazioni per un nuovo, massiccio intervento delle Stato in economia: intervento finanziario con investimenti pubblici, intervento normativo che si stratifica e


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ingessa il mercato del lavoro, e nessuna idea sulla politica dei redditi, considerati come esogeni, come dati e irreversibili.
La nostra Europa - richiamo le parole, queste sì, straordinarie dell'onorevole Antonio Martino - è a rischio. L'instabilità finanziaria e valutaria che le sinistre europee possono provocare comprometterebbe quanto è stato finora costruito per raggiungere l'unione.
Non vi sono prove che l'inflazione sia il prezzo della crescita e della occupazione e che le politiche monetarie debbano avere come obiettivo la stabilizzazione di breve periodo. L'inflazione è la peggiore e la più strisciante delle imposte regressive. L'inflazione, colleghi della maggioranza solidale, colpisce la famiglie che hanno meno: per chi è ricco qualche banconota da cento mila lire in più per scarpe e vestiti incide molto meno rispetto a chi deve mantenere i propri figli con due milioni al mese.
L'instabilità viene pagata dalle famiglie meno agiate. Sono queste le distorsioni economiche e sociali di cui questo Governo, se fosse veramente solidale con il paese, che presume di rappresentare, dovrebbe farsi carico.
Quanto alla politica di bilancio in disavanzo, anche per gli investimenti, essa non ridurrà la disoccupazione ma brucerà risorse per avere scarti di produzione non prodotti. Sulla finanza allegra sono stati versati fiumi di inchiostro e non solo di inchiostro, e vorrei che lo spettro del debito non debba più essere agitato nel nostro paese. In proposito non voglio neanche approfondire la questione delle scelte corporative, conseguenza del principio di discrezionalità di bilancio e causa di tanti disastri nel bilancio statale.
Non voglio ripercorrere le tappe successive delle riforme autorizzate con delega in bianco, tra l'altro per il sistema della sanità nazionale e la tutela della salute dei cittadini.
La discrezionalità politica in economia è la scelta peggiore. In un contesto nel quale vi sono l'inaffidabilità delle previsioni e i ritardi nel capire se, quando e come intervenire, pensate come si comporterebbero gli operatori di qualunque mercato se esso fosse in qualche modo soggetto alla discrezionalità politica dei Governi in generale e del Governo italiano in particolare!
Rivolgo il mio pensiero agli onorevoli colleghi della maggioranza, a nessuno dei quali - sono certo - piacerebbe avere le bizzarrie governative dell'ultimo mese trasferite dentro il portafogli magari con le competenze del prossimo mese di gennaio.
Se sono queste le novità straordinarie non resta, a questo punto, che un nuovo ciclo di programmazioni quinquennali.
Devo dire che questa maggioranza, visti i modi e i tempi della sua composizione, non avrebbe alcuna difficoltà a proporre un salto indietro di trent'anni!
Non è certo finita l'epoca del lavoro tradizionale, ma la figura dell'operaio oppresso dall'industria, di tipo fordista, va scomparendo non solo per via della globalizzazione delle economie ma per il cambiamento di cultura stessa nella coscienza dei cittadini di questo paese, alla quale deve essere legato non solo il modello delle relazioni industriali ma anche il modello delle relazioni politiche tra gli eletti e coloro che legittimamente detengono la sovranità (Applausi dei deputati dei gruppi di forza Italia e di alleanza nazionale).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Aloi. Ne ha facoltà.

FORTUNATO ALOI. Onorevole Presidente, onorevoli rappresentanti del Governo, la conversione in legge del decreto n. 335 pone alle varie forze politiche, in modo particolare a quelle del Polo e ad alleanza nazionale, una serie di questioni che certamente non costituiscono elementi precostituiti di una opposizione critica ma danno alla nostra posizione un significato che va al di là dell'atteggiamento stesso che è alla base di una linea politica che fa riferimento, onorevoli rappresentanti del Governo, a quanto è successo in sede di Commissione, quando gli emendamenti proposti dal Polo non sono stati recepiti.
Gli emendamenti che noi proponevamo non ubbidivano ad una logica ostruzionistica,


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in quanto tendevano a migliorare il provvedimento legislativo. Ritenevamo infatti e riteniamo che si tratti di un provvedimento certamente delicato - vorrei che il rappresentante del Governo mi ascoltasse - che costituisce un momento di passaggio su una materia che senz'altro richiede una presa di posizione molto chiara e molto lineare. Il lavoro straordinario e la riduzione del lavoro straordinario in termini di orario non sarebbero di per sé una questione se non costituissero un fatto che per noi del Polo per le libertà ha un significato politico che, soprattutto sul terreno del sociale, sul terreno che attiene al mondo del lavoro, non possiamo accettare.
Si tratta, onorevole rappresentante del Governo... Ma vorrei che lei mi seguisse, nella misura in cui è possibile!

PRESIDENTE. Lei è un oratore che si fa ascoltare.

MICHELE SAPONARA. Anche dal rappresentante del Governo!

FORTUNATO ALOI. Anche dal rappresentante del Governo. Ma da vecchio docente, quando vedo che i miei allievi cominciano ad ascoltare in maniera distratta, mi preoccupo della bontà di ciò che sto dicendo o del fatto che possano non accogliere la tematica da me sviluppata.
Tornando al problema in questione, devo dire che la riduzione del lavoro straordinario è una vicenda che riteniamo debba essere vista, per ciò che concerne il Governo, da un'ottica riduttiva. Secondo noi, infatti, non basta affrontare la questione del lavoro straordinario per pensare, sia pure attraverso l'argomento specifico, di poter dare anche una risposta al problema dell'occupazione, del lavoro, dello sviluppo. Un Governo che si ponga su posizioni che storicamente dovrebbero essere di socialità avanzata, di sinistra, secondo una certa oleografia che i fatti hanno poi smentito in questi anni dopo le esperienze dei Governi di sinistra, un tale Governo, dicevo, non può non porsi il problema di una iniziativa - come quella in discussione, di tipo legislativo - che avrebbe dovuto comportare una grande responsabilità del Governo stesso. Ciò anche in riferimento ad un tema che da noi non viene esaltato, quale è quello della concertazione.
Anche sulla questione specifica, si poteva - sia pure con tutte le riserve che nutriamo - riuscire ad affrontare con la concertazione il tema del lavoro straordinario. Si tratta di una questione che ha fatto scomodare da parte di vari settori ed anche da parte dello stesso Governo il principio della transitorietà della disciplina.
Se si ritiene che ci si muova sul terreno della transitorietà e che la questione dell'abbassamento dell'orario da 48 a 45 ore finisce per rappresentare un elemento a sé stante, in una logica che evoca anche l'altra questione delle 35 ore, la vexata quaestio di questi giorni, è chiaro che un nesso tra i due momenti esiste. Naturalmente c'è chi ritiene - pensiamo sia una parte minoritaria - che le 35 ore debbano, contro l'opinione generale, essere affermate; c'è però anche la stragrande maggioranza che crede che le 35 ore possano rappresentare un momento di fibrillazione sotto il profilo della produttività in senso lato che coinvolge negativamente le aziende.
La storia è importantissima. Se guardiamo la legislazione italiana tra le due guerre, ci rendiamo conto che essa rappresentava quanto di più avanzato vi fosse all'epoca. Se il legislatore del 1923, e successivamente quello del 1925, ha ritenuto di dover fissare l'orario a 48 ore, in una logica di generale disordine che esisteva nel paese, evidentemente doveva esserci un motivo. La Carta del lavoro ha dato una successiva sistemazione alla materia - faccio richiami storici - collocando i rapporti di lavoro in un'ottica complessiva e sistematica.
Da dove nasce, ad esempio, il titolo V del codice civile, relativo al lavoro, che rappresentò allora per la legislazione italiana ed europea uno dei momenti più avanzati? Pongo una questione storica


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perché è bene che questo percorso abbia un senso, che si iscrive nella logica della legislazione italiana che ha una sua tradizione. La legge n. 196 del 1997, che tratta delle 48 ore, richiama i provvedimenti del 1923 e del 1925; ci si muove infatti secondo l'ottica di una legislazione del lavoro di tipo garantista. Queste cose vengono riconosciute altrove e non nel nostro strano paese pieno di smemorati. Mi riferisco a una certa legislazione che negli anni a cavallo tra le due guerre fu attuata e che oggi viene messa in non cale e dimenticata.
Appare contraddittorio che, mentre si affronta la questione delle 35 ore, che per il Governo è un punctum dolens (lo verificheremo quando le forze della maggioranza si spaccheranno proprio su tale questione), senza che si facciano pause di riflessione, si voglia varare questo provvedimento in un'ottica che non è rispondente alle esigenze del mondo del lavoro.
Voglio ricordare ai colleghi e ai rappresentanti del Governo qui presenti che ho lavorato molto nel sindacato, anche negli anni cosiddetti ruggenti, quando la CISNAL, quale sindacato della destra, sosteneva il valore ed il significato del lavoro in una visione globale. La nostra concezione del lavoro non ubbidisce alla logica di classe; noi proveniamo da quel sindacalismo rivoluzionario di Corridoni, di Alceste De Ambris, del mio conterraneo Michele Bianchi, i quali ebbero del lavoro una concezione altissima poiché conciliavano il principio del lavoro con quello della patria. Una volta, Corridoni, che aderì all'interventismo, ad un suo vecchio compagno di battaglia - un sindacalista rivoluzionario - che gli dava del traditore, rispose: caro amico mio, sappi che si tradisce per vivere e non per morire. Questa fu la frase che, prima di andare a morire nella trincea delle Frasche, disse in una sintesi tra lavoro e patria, tra lavoro e nazione che costituisce per noi il modo di essere e di vivere.
Anche quando si parla di corporativismo nell'accezione deteriore del termine - parlo da vecchio professore - mi chiedo se si possa legare tale concetto di corporativismo a quello di settorialismo. Tutta la dottrina della Chiesa, dalla Rerum novarum in poi, è incentrata sul corporativismo, che deriva dal verbo accorpare. L'opposto di accorpamento è lo scorporo. Il settorialismo è tutto ciò che è all'opposto del corporativismo. Sono concezioni non terminologiche. Lo ripeto, la dottrina della Chiesa è proprio basata su questo, sull'incontro tra le categorie non tra le classi, sulla possibilità di trovare un rapporto con il datore di lavoro, che non è padrone ma è colui il quale mette il proprio capitale a disposizione del lavoratore quale soggetto dell'economia. Questa è la nostra posizione. Non capisco quindi questo provvedimento né il motivo per cui bisogna approvarlo a «tamburo battente» dopo le modifiche apportate dal Senato.
Qui è stato evocato anche il principio di solidarietà che vale non solo in Italia ma in tutta Europa. È un concetto che deve portare una forza politica come la nostra a guardare alla socialità come momento importante di un discorso di sviluppo. L'azienda è un momento centrale del discorso, ma non è l'azienda del datore di lavoro iugulatore, del datore di lavoro padrone. La logica della concertazione - come si dice adesso - o dell'incontro tra il capitale e la vecchia concezione delle categorie porta alla sintesi costituita dal valore che si dà al lavoro senza dimenticare il ruolo centrale dell'azienda. Noi parlavamo anche di partecipazione agli utili dell'azienda: è una nostra vecchia concezione, che non voglio richiamare in questa sede. Sono cose che voglio ricordare in quest'aula con molta franchezza anche alla sinistra, per la quale rappresentano in parte la sua «coscienza cattiva» dopo anni e anni di guerra ai datori di lavoro e a quelli che venivano chiamati padroni.
Ebbene, mi fa piacere che oggi vi siate convertiti al liberismo, al liberalcapitalismo ed al federalismo; questa vostra strana conversione di novelli Saul sulla via di Damasco mi fa un po' ridere: a chi la raccontate questa storia?


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Vi sono dei valori, che appartengono alla nostra cultura e che io ho poc'anzi richiamato, come il corporativismo cattolico, che rappresenta un momento importante di una dottrina che sul piano sociale è riuscita a conciliar il datore di lavoro, il lavoratore ed il capitale.
È questa la posizione che appartiene, onorevole Presidente, un po' alla nostra storia e quando vedo - come in questo momento - alcuni amici sorridere mi viene da domandarmi sul piano della preparazione e dell'impegno culturale che cosa siano riusciti ad esprimere in questi anni e quante pubblicazioni abbiano fatto.
In conclusione, riguardo al problema del lavoro, del lavoratore e dell'azienda bisogna porsi nella posizione di chi, anche in riferimento al lavoro straordinario, deve portare avanti un progetto globale che significhi sia la difesa dell'azienda sia - nell'ambito del rapporto tra datore di lavoro e lavoratore - un momento di sintesi tra interesse del lavoratore, del datore di lavoro e, soprattutto, della nazione e, se mi consentite un termine che usate anche voi da un po' di tempo a questa parte - visto che il termine paese ve lo siete scordati - della patria italiana (Applausi dei deputati dei gruppi di alleanza nazionale e di forza Italia).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Cicu. Ne ha facoltà.

SALVATORE CICU. Signor Presidente, onorevoli colleghi, rappresentanti del Governo, stiamo vivendo un momento molto particolare dal punto di vista politico e culturale nel nostro paese. È un momento che vede il sistema del trasformismo attuarsi nella complessità che vive attualmente il nostro paese, ma vi è, invece, la necessità di risposte certe ed immediate sulle grandi problematiche del mondo del lavoro, dell'occupazione e delle imprese.
Ci troviamo di fronte ad un sistema: quello, cioè, della prevaricazione del diritto e del ruolo del Parlamento. Questo è un diritto che dovrebbe essere assicurato dall'approfondimento e dal dibattito su tematiche così importanti rispetto alle quali, invece, ancora una volta si instaura un percorso che guarda solo ed esclusivamente al raccordo tra interessi; interessi che non sono quelli del paese, bensì di una coalizione che ha logicamente grandissime difficoltà rispetto alle istanze, alle ideologie certamente non omogenee e rispetto a programmi che non guardano agli stessi obiettivi.
Se in quest'aula stessimo esaminando questo decreto-legge nella formulazione originaria del Governo, il nostro giudizio - sebbene sempre negativo - sarebbe stato comunque di confronto interlocutorio, di approfondimento e di ricerca propositiva rispetto al grande compito di una opposizione come la nostra.
Oggi, invece, siamo costretti ad adottare questa formula, che è necessitata ed obbligata rispetto a quello che si intende con i termini necessità ed urgenza e rispetto ad un problema che, pur essendo caratterizzato da tali requisiti, dovrà trovare una soluzione di approfondimento.
Il testo originario del decreto-legge rappresentava infatti il punto di arrivo, in qualche modo obbligato, di un itinerario logico voluto dal Governo Prodi. Ci sembra però che non si voglia cambiare nulla e che, pur nascendo dal presupposto della concertazione tra la Confindustria e le organizzazioni sindacali (vale a dire tra coloro che oggi decidono le sorti di questo paese assieme al Governo, senza alcuna validità rispetto al ruolo e alla partecipazione degli unici soggetti che all'interno di un Parlamento possono invece andare a confrontarsi, a deliberare e a decidere un certo tipo di percorso), si registri sicuramente l'assenza di una rappresentatività così ampia da coinvolgere il paese e le sue forze sociali ed economiche: quelle forze attive che ancora una volta vengono trascurate, emarginate e relegate ad un ruolo minore rispetto alla loro partecipazione nella rinascita sociale ed economica di questo paese.
La concertazione tra la Confindustria ed i sindacati ha sposato una logica che non ci ha mai convinti: una politica sull'occupazione e sulle relazioni sindacali messa in atto dal Governo precedente, che


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comunque il Governo D'Alema non sembra intenzionato a correggere. A questo punto, tuttavia, avremmo anche potuto responsabilmente considerare - date le premesse - che questo atto fosse solo uno strumento tecnico sul quale eventualmente convergere nell'interesse di tutti. Tutto ciò sarebbe stato possibile se il Senato della Repubblica non avesse peggiorato gravemente, in sede di conversione del decreto-legge, le determinazioni già negative prese dal Governo. Si è trattato di correzioni ispirate ad un vetero-populismo sorprendente, che carica di rigidità e di vincoli burocratici il rapporto di lavoro. Non solo, ma esse scavalcano di gran lunga addirittura quanto concordato con le stesse organizzazioni sindacali!
Ribadisco che non siamo mai stati tra coloro i quali considerano la concertazione uno strumento positivo; ma se essa ha una logica, allora non ha senso che il legislatore stravolga anche essa. Questo, peraltro, riteniamo che non vada incontro all'interesse di nessuno.
In una visione corretta e moderna delle relazioni industriali, gli interessi delle aziende e dei dipendenti sono molto più spesso convergenti che non conflittuali. La decisione del Senato di introdurre quelle modifiche, da questo punto di vista, costituisce un passo indietro e rappresenta sia l'espressione di una concezione arcaica dei rapporti di lavoro sia una inversione di tendenza rispetto a quella legislazione che, in maniera faticosa e contorta, pur essendo sempre in qualche modo positiva, lascia ancora una volta aperti degli spiragli per apportare degli accorgimenti essenziali e centrali, ma che si vogliono comunque «chiudere» in questa maniera.
Per rendersene conto è sufficiente esaminare il merito degli emendamenti presentati: partiamo proprio dall'abbassamento a 45 ore del limite previsto per l'obbligo dell'informativa alla direzione provinciale del lavoro. Si tratta di una forzatura rispetto a quanto concordato fra le parti sociali di una determinazione in controtendenza rispetto alla direttiva n. 93/104 dell'Unione europea.
Si tratta soprattutto di una scelta che sembra ignorare la tendenza in atto in ambito contrattuale ad annualizzare l'orario di lavoro e ad introdurre orari plurisettimanali. Questo Governo sbandiera ed enuncia con proclami forti e sorprendenti l'ingresso in Europa ma, nello stesso tempo, stravolge le regole, non si conforma e forse non ritiene utile uniformarsi a quella legislazione, con la quale però ci si dovrà obbligatoriamente confrontare. Evidentemente, chi ha introdotto queste norme non conosce o fa finta di non conoscere il significato della parola flessibilità e questo è un grave errore che ritroveremo anche nelle norme successive.
Vi è poi l'emendamento introdotto dal Senato al secondo comma dell'articolo 1, nel quale si impone l'obbligo di informare la direzione provinciale del lavoro in caso di superamento delle 48 ore settimanali. Si prevede inoltre che «la direzione provinciale del lavoro vigila sull'osservanza delle norme di cui al presente articolo» - il che significa soltanto ribadire le funzioni istituzionali di quell'ufficio - «e formula opportune disposizioni». Introdurre norme vaghe, meramente ordinatorie, senza specificarne i termini ed i limiti è un modo di legiferare che sarebbe sempre opportuno evitare. Così facendo in questo caso da un lato si dà spazio ad introduzioni burocratiche e «lentocratiche» nella vita delle aziende; dall'altro si pongono tutte le premesse per una serie di occasioni di ulteriore contenzioso, che potrebbero rivelarsi vaste e difficili da risolvere. Questo è esattamente il contrario di una legislazione seria, che mira a supportare, a liberare dai già pesanti vincoli esistenti e che vuole porsi seriamente il problema del rapporto tra dipendenti ed aziende nel sistema complicato del mondo del lavoro. Si va invece, con una inversione di tendenza, ad introdurre vincoli che appesantiranno notevolmente e che costituiranno un ulteriore limite allo sviluppo dell'impresa.
Anche la modifica, apparentemente innocua, al comma 3 contiene, in realtà, una serie di insidie che cercherò di rappresentare.


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La stesura originale del comma prevedeva determinati tetti al lavoro straordinario, su base annuale e trimestrale, che entrano in vigore in assenza di disciplina collettiva applicabile. Inserire, come ha fatto il Senato, la previsione che questi tetti si applicano qualora non vi sia una disciplina collettiva più favorevole per i lavoratori significa voler introdurre da un lato un controllo che scavalca anche in questo caso la libera concertazione tra le parti sociali, dall'altro il problema ancora una volta di cosa significhi, in realtà, «più favorevole per i lavoratori». Ciò è incomprensibile, inaccettabile, inconcepibile e credo anche insuperabile rispetto al significato che dovrebbe assumere l'espressione «più favorevole per i lavoratori». È più favorevole lavorare meno ore o fare più straordinari e così guadagnare di più? Riteniamo che la questione non sia così semplice. Comunque questo tipo di definizione non avrebbe senso nella logica stessa della norma, che nasce dall'esigenza di colmare vuoti contrattuali là dove l'azienda, per qualche ragione, non applichi un contratto collettivo nazionale.
Che ragione ci sarebbe, invece, di entrare nel merito dei contratti collettivi, correggendoli per legge, come avverrebbe in questo caso? Devo dire che tutto ciò è davvero preoccupante. Non si tratta di questioni tecniche, ma politiche: centralismo, e soprattutto dirigismo, sono errori per i quali il nostro sistema economico e produttivo ha già pagato e sta pagando fin troppo chiaramente; ad esserne vittima sono state non solo le aziende, ma gli stessi lavoratori. Se il Parlamento mette mano ai contratti, crea un precedente pericolosissimo che tende a stravolgere la logica del nostro ordinamento delle relazioni industriali. Che tale ordinamento sia da rivedere è convinzione che in maniera profonda abbiamo anche noi, ma le modifiche che si impongono dovrebbero essere in senso di apertura, di liberalizzazione e non, come in questo caso, di ulteriore restrizione.
Con questo provvedimento vi è certezza e chiarezza - esso ne è la prova evidente - che questo Governo si assume un ruolo guida di falso liberismo, di falso liberalismo, mentre si ritorna, invece, ancora una volta alla logica del centralismo, del dirigismo, dello statalismo, cioè della prevaricazione del diritto dei singoli, degli individui, cioè i lavoratori, e dei gruppi che si raccordano rispetto ad un fine economico, cioè le imprese e le aziende.
Con queste norme si mortifica il significato della libertà e della possibilità del confronto tra le parti sociali. Noi riteniamo, tuttavia, che sia un altro lo sconfitto da questo tipo di legislazione: c'è una mortificazione anche del ruolo dello stesso sindacato, che esso svolge legittimamente quale controparte contrattuale delle associazioni di imprenditori. Forse, per realizzare una sorta di strana compensazione - credo involontaria -, con un successivo emendamento si assegna invece al sindacato un ruolo anomalo in senso debordante. Che senso hanno, infatti, i compiti assegnati alle rappresentanze sindacali dalla prima parte del comma 6, cioè il numero 3-bis della nuova formulazione dell'articolo 5-bis del regio decreto-legge n. 692 del 1923? L'obbligo di informazione al sindacato, oltre a costituire un ulteriore onere burocratico, sembrerebbe essere, posto così, un duplicato inutile - e di discutibile legittimità - delle funzioni già assegnate ad un organo istituzionale quale la direzione provinciale del lavoro. Esso, però, di fatto conferisce al sindacato una funzione anomala di indiretto controllo che, oltre ad essere estranea ai suoi compiti, non si comprende con quali mezzi o con quali poteri possa venire esercitata.
Concludo, signor Presidente, colleghi, rappresentanti del Governo, esprimendo il nostro giudizio assolutamente negativo rispetto alla procedura, al sistema e al contenuto di questo provvedimento (Applausi dei deputati del gruppo di forza Italia).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Losurdo. Ne ha facoltà.

STEFANO LOSURDO. Signor Presidente, colleghi, l'opposizione sta dimostrando


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con questi interventi - ripetuti in aula, sia nella seduta di ieri sia in quella di oggi e, probabilmente, anche in quella di domani - di avere, più che perplessità, motivi di vera e profonda contrarietà alla conversione in legge del decreto sulla regolamentazione del lavoro straordinario. Del resto, anche il Comitato per la legislazione - questa benemerita ed efficace istituzione che caratterizza il nuovo regolamento della Camera - nutre delle perplessità: esso ha posto, infatti, delle condizioni ed ha espresso delle osservazioni che, a mio avviso, sono molto significative. La condizione che il Comitato per la legislazione ha posto riguarda una richiesta di chiarimento sulla natura e sull'estensione dei poteri conferiti alla direzione provinciale del tesoro che, secondo quanto è previsto, vigila sull'osservanza delle norme di cui all'articolo 1 e formula opportune disposizioni. L'opposizione condivide questa condizione, infatti ritiene che si debba vigilare, nella conversione del decreto - caso mai questa dovesse avvenire -, sull'osservanza dei limiti precisi posti dal Comitato per la legislazione.
L'osservazione formulata dal Comitato sull'articolo 1, comma 1, riguarda invece la chiarezza e la proprietà della formulazione delle disposizioni in cui si afferma che la legge ha natura transitoria. Il Comitato ritiene - e noi siamo d'accordo - che tale affermazione sia pleonastica.
A parte queste premesse, il decreto-legge disattende, a nostro avviso, anche precise direttive europee, in particolare la n. 93/104, che indica il tetto delle 48 ore settimanali, comprensive anche del lavoro straordinario. Questo Governo si richiama costantemente alle direttive europee e basandosi su di esse impone anche linee politiche che trovano vasta opposizione nella realtà sociale. Voglio ricordare qui la vexata quaestio delle quote latte, su cui di fatto il Governo ha assunto una posizione di attesa, di osservazione muta, inerte, proprio richiamandosi alle direttive europee. Quindi, quando al Governo conviene politicamente il richiamo fermo, freddo, continuo alle direttive europee, lo pone in essere, ma quando non gli conviene glissa elegantemente, come sta facendo in relazione a questo decreto, con il quale disattende, appunto, una precisa direttiva europea.
Questo decreto-legge, a mio avviso, pregiudica anche fortemente la possibilità di ricorrere al lavoro straordinario, che appartiene fisiologicamente alla storia della civiltà del lavoro, è una tappa importante del cammino di dignità compiuto dal lavoro, che ha trovato il suo culmine nella regolamentazione dell'orario di lavoro e nella conseguente regolamentazione del lavoro straordinario. Noi non capiamo, quindi, la demonizzazione che viene fatta di questo istituto, che io oserei definire benemerito, perché in fin dei conti non rappresenta altro che l'incontro di due necessità nella dinamica del lavoro: la necessità dell'impresa e quella del lavoratore. Ritengo quindi che il lavoro straordinario, che in questo decreto viene mortificato, debba invece essere considerato come un apporto significativo tanto per la dinamica dell'impresa quanto per le esigenze del lavoro subordinato.
Questo decreto, con la sua regolamentazione antistorica del lavoro straordinario, contiene notevoli elementi di rigidità, che indeboliscono ogni possibilità di vera flessibilità. La flessibilità nel lavoro non incontra il favore ideologico della sinistra, ma è il portato dei tempi, è una necessità, oserei dire, storica e sociale, perché scaturisce dalla dinamica del lavoro nel mercato globale. La flessibilità è quanto mai necessaria per assicurare produttività ed occasioni di lavoro, ma anch'essa viene incredibilmente mortificata in questo decreto.
Perché - è la domanda che ci possiamo porre - c'è tanto odio ideologico, o meglio demagogico, nei confronti del lavoro straordinario nell'impostazione del Governo? Riteniamo che la ratio del contenimento così drastico del lavoro straordinario previsto dal decreto in esame sia rappresentata dalla possibilità di creare nuovo lavoro. A nostro avviso, però, la possibilità di creare nuove opportunità di lavoro è una pia illusione e dimostra una sorta di crassa ignoranza


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delle dinamiche moderne della produttività. L'articolo 1, comma 3, del decreto, recita: «Il ricorso al lavoro straordinario è inoltre ammesso, salvo diversa previsione del contratto collettivo, in relazione a casi di eccezionali esigenze tecnico-produttive e di impossibilità di fronteggiarle attraverso l'assunzione di altri lavoratori». Ebbene, riteniamo che questa norma offra una possibilità di ricorrere al lavoro straordinario e che però assolutamente non comporti la possibilità di creare nuovo lavoro. Per quale motivo? Ci si riferisce appunto ad eccezionali esigenze tecnico-produttive, ma sappiamo che ormai ci si trova di fronte ad organizzazioni ad alto tasso di specializzazione: riteniamo quindi che comprimere il lavoro straordinario con l'intento di creare nuova occupazione sia per l'appunto, come accennavo, una pia illusione, perché sicuramente non sarà possibile reperire sul mercato del lavoro quella manodopera ad alto tasso di specializzazione che le imprese, soprattutto quelle industriali, creano a volte in anni, o addirittura in decenni. Quindi questa previsione del decreto rende di fatto impraticabile e non perseguibile la ratio di creare nuova occupazione, che si vorrebbe affermare.
È una pia illusione, ripeto, ed è sicuramente la prova che la sinistra in genere, proprio da un punto di vista cromosomico, non riesce a capire le moderne esigenze delle dinamiche del lavoro. In realtà, questo decreto provoca effetti certi e concatenati: gli effetti certi, e quasi dichiarati, sono l'aumento del costo del lavoro ed impegni burocratici ed amministrativi maggiori, i quali sicuramente scaturiranno dall'applicazione del decreto, nel caso non auspicabile che fosse convertito in legge. Si avrebbe dunque una sicura e certa perdita di competitività.
Inoltre, ritengo opportuno sottolineare gli elementi di antieuropeismo del decreto: vorrei ricordare, infatti, come si venga a mortificare, in maniera conclamata, il principio di sussidiarietà, che pure questo Governo afferma di voler perseguire. È un principio che sicuramente sta alla base della dinamica legislativa dell'Unione europea, per cui, quando si raggiunge un accordo fra le parti sociali interessate, non si vede perché debbano intervenire organi superiori. Questo Governo, quindi, fra l'altro, ha voluto mortificare un principio moderno di alto contenuto civile e sociale, quello della sussidiarietà, perché ha dovuto pagare una sorta di dazio alla parte di rifondazione comunista che lo sostiene.
Il decreto provoca quindi effetti devastanti sia perché disattende i principi alla base della normativa europea sia perché - sotto il profilo sociale ed economico - penalizza la produttività interna del paese. Il decreto avrà quindi le conseguenze assolutamente negative di aumentare il costo del lavoro, di far perdere competitività e di aggravare gli oneri burocratici ed amministrativi.
A questi effetti certi e sicuri si aggiungeranno condizioni tali da spingere la grande industria e la grande finanza a trasferire le attività all'estero. In pratica questi operatori troveranno nella disciplina qui in esame l'alibi per spostare le proprie attività in paesi che offrono occasioni di lavoro più moderne per l'impresa.
Se così stanno le cose, probabilmente una ratio sottile unisce la politica di questo Governo e certi poteri forti che improvvidamente lo appoggiano. Infatti una parte della grande industria, normalmente organizzata nel campo della grande finanza apolide, probabilmente auspica il varo di questa normativa proprio per disporre dell'alibi per procedere ad una diversa organizzazione delle attività produttive. Può sembrare dietrologico sostenerlo, ma il futuro ci dirà con certezza se questa ipotesi è verosimile e se si realizzerà.
L'augurio di tutta l'opposizione - che a tal fine sta profondendo il proprio impegno - è che questo decreto non sia convertito in legge. Continueremo la nostra azione in aula proprio per evitare l'approvazione di una disciplina che sarebbe devastante per l'economia e soprattutto per i lavoratori che questo Governo


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di sinistra dice di voler tutelare (Applausi dei deputati dei gruppi di alleanza nazionale e di forza Italia).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Saponara. Ne ha facoltà.

MICHELE SAPONARA. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, nel dibattito sulla fiducia al Governo D'Alema ho avuto modo di dare atto al Presidente del Consiglio di intelligenza politica; egli infatti aveva affermato e riconosciuto che forza Italia non è quel «nulla» che infelicemente era stato indicato dall'onorevole Prodi e che - anzi - rappresenta una parte molto significativa del dibattito politico italiano. Nonostante questo, dichiarai il voto contrario al Governo D'Alema, anche (ma non solo) perché dell'esecutivo era stato chiamato a far parte come ministro del lavoro il sindaco di Napoli, Antonio Bassolino, il quale aveva dichiarato che avrebbe assunto la carica di ministro continuando a mantenere quella di sindaco.
Come sapete il Ministero del lavoro è particolarmente importante, specialmente in questo momento. La mia opposizione era motivata dal fatto che si trattava secondo me di un'operazione clientelare, che mal si conciliava con una questione morale che per tanti anni era stata rivendicata come prerogativa della sinistra.
Il ministro del lavoro a Napoli, in Italia meridionale, significava apparire interessati a svolgere una politica di parte, una politica meridionalistica, che potesse portare voti alla sinistra.
Speravo di sbagliare e speravo (o temevo) che potesse avere il dono dell'ubiquità e, contemporaneamente, fare bene il sindaco di Napoli ed essere un buon ministro del lavoro, ossia che potesse volare alto ed avere grandi programmi per i lavoratori italiani. I fatti, signor Presidente, hanno però smentito tale previsione o tale timore. Io l'ho visto di rado in aula, i colleghi della Commissione lavoro mi hanno detto che spesso, o quasi sempre, ha disertato le sedute della Commissione. Ovviamente, non è necessario partecipare sempre alle sedute della Commissione e dell'Assemblea per essere un buono o un grande ministro, ma è necessario che operi, che dia la prova di fatti concreti, che possano essere apprezzabili e apprezzati.
Ho ascoltato i colleghi che mi hanno preceduto, sia ieri sera sia questa sera, e ovviamente non ripeterò gli argomenti che così bene sono stati espressi, a volte con grande convinzione ed enfasi, e quindi accennerò soltanto ad alcuni di essi.
Condivido pienamente le critiche rivolte al decreto-legge di cui si chiede la conversione. Certamente, lo stesso rappresenta l'epilogo di un percorso confusamente e contraddittoriamente avviato e perseguito dal Governo Prodi e che oggi il Governo D'Alema, rappresentato nel settore del lavoro dal ministro Bassolino, intende riprendere perseverando negli errori che penalizzano fortemente le aziende italiane.
Innanzitutto, non si capisce perché si sia ricorsi allo strumento del decreto-legge laddove si tratta di una materia complessa, che richiede un intervento organico di armonizzazione fra i vari interessi, tutti di primaria importanza.
È a tutti noto, inoltre, che allo strumento della decretazione d'urgenza si può ricorrere, secondo il disposto costituzionale, quando sussistano i presupposti della necessità e dell'urgenza. Se è vero, onorevole Presidente, onorevoli colleghi, che dal 1923, cioè da settantacinque anni, la norma che regola il lavoro straordinario non è stata ritenuta degna di essere modificata, evidentemente la necessità e l'urgenza sono dettate da altre esigenze. La verità è che si cerca il più possibile di espropriare il Parlamento delle proprie prerogative, presentando decreti-legge «blindati»; abbiamo visto infatti come non ci sia alcuna possibilità per l'opposizione di far passare alcuno degli emendamenti presentati e che pure, fuori dall'Assemblea e dalle Commissioni, i colleghi della maggioranza ritengono degni di apprezzamento.


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Vi è di più: il Senato ha introdotto, attraverso un emendamento approvato dalla maggioranza, la riduzione da quarantotto a quarantacinque ore del limite oltre il quale è obbligatoria la comunicazione all'ispettorato del lavoro.
Ove tale modifica del regime degli straordinari venisse approvata, il Parlamento italiano legifererebbe in difformità dalle normative comunitarie.
Peraltro la materia del lavoro è, insieme ad altre, un nodo cruciale. Alludo, in particolare, al tema della giustizia: non si riescono ad avere sentenze in tempi ragionevoli e non si riescono a garantire i diritti previsti dell'articolo 6 della Convenzione dei diritti dell'uomo. Sappiamo, peraltro, che l'Italia ha ratificato tale convenzione, che dunque è legge: ciò nonostante, non riusciamo ad adeguare la nostra legislazione penale ai suoi contenuti, che peraltro contengono le stesse determinazioni della nostra Costituzione.
L'Italia, dunque, è già stata messa in mora per il mancato recepimento della normativa e con questo provvedimento andrebbe ben oltre, operando in aperto contrasto con le direttive europee. Questo decreto-legge, inoltre, opera la cancellazione di fatto del potere delle parti sociali di intervenire sull'orario, ignorando e superando l'intesa faticosamente raggiunta tra aziende e sindacati: è la fine della concertazione e l'inizio di una fase di intervento autoritario del potere esecutivo e legislativo su questioni chiave dell'organizzazione del lavoro, che vengono così sottratte alla libera contrattazione tra le parti.
Questo provvedimento, infine, ove approvato nella formulazione proposta dal Senato, provocherebbe un immediato aumento del costo del lavoro nel nostro paese. Le imprese dovrebbero riorganizzare i cicli produttivi e sottoporsi a spese ulteriori sul piano amministrativo e burocratico. La conseguenza inevitabile è che tutto questo si tradurrebbe in una perdita di competitività sui mercati europei e su quello nazionale: di questo passo si arriverà, anche attraverso un decreto-legge, alle famose trentacinque ore! Questo provvedimento è dunque il primo passo per arrivare a tale soluzione, che ha rischiato nel mese di ottobre di provocare una crisi di Governo, che è sempre in agguato (non so come l'esecutivo risponderà sulla questione).
Si tratta di una scelta che noi riteniamo dannosa sia per le aziende sia per l'occupazione. Quest'ultima rappresenta un problema, il più importante in materia di lavoro. Il ministro non si rende conto che in Italia non c'è un problema di straordinari. Un ministro che ha grandi progetti, che pretende di fare contemporaneamente il sindaco ed il ministro e che quindi deve farsi perdonare questo doppio incarico, non ha capito che in Italia non c'è il problema degli straordinari quanto piuttosto il problema dell'occupazione.
Il nostro è il paese con il tasso più elevato di disoccupazione nella comunità occidentale e non è certo con misure risibili come queste che si può pensare di ridurlo. La disoccupazione «viaggia» ben oltre il 12 per cento; nel sud è superiore al 20 per cento; la disoccupazione giovanile rappresenta un quarto della popolazione e la disoccupazione giovanile meridionale rappresenta oltre il 50 per cento della stessa.
Il ministro Bassolino, che conosce la realtà meridionale, appunto per la sua collocazione geografica, spero che sappia che questi problemi non si risolvono con la regolamentazione degli straordinari ma con una politica di più ampio respiro.
Noi crediamo nel mercato libero competitivo, nella sfida globale, e in una risposta forte alla competizione che dia ai lavoratori ed ai cittadini la possibilità di essere europei a testa alta, in modo da rispondere alle sfide che ci lancia il mercato europeo senza uno Stato moloch, uno Stato-apparato alle spalle, ma rispondendo alle sfide del mercato.
Questo decreto pertanto non merita di essere convertito in legge e va fatto decadere (Applausi dei deputati dei gruppi di forza Italia e di alleanza nazionale).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Rallo. Ne ha facoltà.


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MICHELE RALLO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, onorevole rappresentante del Governo, noi questa sera discutiamo apparentemente di uno strano decreto-legge modificato in maniera ancora più strana dal Senato, ma in realtà quello che si aggira in quest'aula e che è l'oggetto reale del nostro dibattere è, come è già stato ricordato, il famoso problema delle 35 ore. Questo è il vero elemento che sta alla base di tutto questo grosso pasticcio!
Infatti, come ha ricordato poco fa il collega Saponara con una logica stringente (ma facile da fare), mentre la decretazione in sé si basa proprio su un concetto di urgenza, anzi di somma urgenza, nel caso di specie il Governo ha ritenuto di decretare (quindi facendo riferimento alla somma urgenza) su una materia che non era stata toccata dal 1923, cioè dopo settantacinque anni.
Questo è il primo elemento di stranezza, ma è anche un elemento di mancanza di rispetto nei confronti del Parlamento. Se si ritiene opportuno che noi deputati e parlamentari, rappresentanti della nazione italiana, possiamo esaminare con l'indicazione della somma urgenza un provvedimento che si riferisce a una materia intatta da settantacinque anni, ciò vuol dire che il Governo non ci tiene in eccessiva considerazione. Ci potrebbe essere anche, da parte del Parlamento, un moto legittimo di risentimento nei confronti di chi ritiene di utilizzarlo come un «votatoio» per ratificare scelte che vengono prese in sedi diverse. Questa è la prima considerazione.
Vi è poi una seconda considerazione da fare e riguarda una strana modifica apportata dal Senato, che sembrerebbe apparentemente di poco conto; mi riferisco alla riduzione di tre ore del limite massimo dopo il quale le imprese che ricorrono al lavoro straordinario devono sottoporsi ad una serie di adempimenti burocratici che nei fatti sono argomento ed elemento che mira a scoraggiare il ricorso al lavoro straordinario. Ho detto però che si tratta apparentemente di un fatto minimo, perché in effetti questo livello abbassato di tre ore ha un significato grave, ha una portata elevata nei confronti in primo luogo delle imprese. A tale riguardo, come è stato ricordato - noi non vorremo essere profeti di sventure ma riteniamo in questo caso di essere fin troppo facili profeti - le imprese, in presenza di questo ulteriore provvedimento che invece di alleggerire il sovraccarico burocratico e il costo del lavoro, andrà ad aumentare il tasso di burocrazia e lo stesso costo del lavoro, sicuramente, almeno per una certa parte (noi speriamo che sia la più ridotta possibile), continueranno nella direzione di cercare altrove, in nazioni con meno vincoli e dove il costo del lavoro sia più basso, luoghi dove andare ad insediarsi. Riteniamo che ciò sia un fatto gravissimo e riteniamo che sia altrettanto gravissimo da parte di questo Governo muoversi in questa direzione.
Certamente noi non ci scandalizziamo se nell'andare a comporre il mosaico bislacco di un'alleanza strana, anzi stranissima, che vede insieme «picconatori» e «picconati» dell'altro ieri, che vede insieme gladiatori e denunziatori dei gladiatori fino a pochi giorni fa, che vede insieme il diavolo e l'acqua santa (anche se in questo caso non saprei dove cercare l'acqua santa), nel tentativo cioè di mettere insieme tutta questa selva di forze politiche, il Governo debba mediare, cedere e dire: a te do qualcosa e a te qualche altra! Ci rendiamo cioè conto che il Governo può aver detto al gruppo di Cossutta: ti diamo le 35 ore.
Epperò, signori, è concepibile questo? È concepibile che, solamente per mettere insieme una maggioranza raffazzonata, si vadano a porre in essere comportamenti che sono senza dubbio concretamente pericolosi per l'economia italiana, per la salute malferma delle aziende e per l'occupazione che purtroppo ha raggiunto i livelli che tutti sappiamo?
Questo è il secondo aspetto che riguarda il decreto in esame, nel testo modificato dal Senato. Aggiungiamo, per sottolineare la stranezza della modifica introdotta dal Senato, che si è allegramente sovvertita una concertazione che sicuramente non ci vede entusiasti. Comunque,


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una concertazione che ha una sua dignità, una sua funzione e che si vede del tutto smentita da un colpo di mano parlamentare.
Aggiungiamo inoltre che questo decreto, così come modificato dal Senato - mi è sembrato che poco fa lo ricordasse il collega Losurdo - è in contrasto con le direttive comunitarie che fissano a 48 ore il livello medio della durata massima del lavoro (non vorrei che questo concetto sembrasse un bisticcio di parole). Ciò perché ci si orienta verso una valutazione plurisettimanale del monte ore, a proposito del quale l'Unione europea ritiene di adottare criteri di elasticità che, evidentemente, da noi non hanno diritto di cittadinanza. Dicevo, dunque, che l'altro elemento negativo apportato dal Senato è questa presa di distanza dalle direttive europee.
Ciò per quanto riguarda il decreto. Ma poi vi è un aspetto che ho definito fondamentale. Dietro l'angolo vi è infatti il problema della settimana lavorativa di 35 ore, che viene evidenziato, in maniera nemmeno tanto nascosta, dai colleghi del Senato, dal momento che nelle modifiche emendative si legge «in via transitoria, in attesa della nuova disciplina dell'orario di lavoro». Ciò con uno scarso rispetto per il Parlamento che deve ancora decidere, visto che non è detto che decida in quel modo. Anche se per ora la maggioranza lo lascia presagire, certo è che nessuno può arrogarsi il diritto di dire che il Parlamento certamente deciderà in quel modo. Senza dubbio sarebbe stato più corretto dire che, qualora il Parlamento avesse disciplinato in maniera diversa l'orario di lavoro, quanto sopra poteva essere riformato.
In ogni caso, al di là di questo problema di educazione parlamentare, per così dire, in quella frase c'è l'indicazione precisa del fatto che il problema che sta dietro a tutta questa manovra è quello delle 35 ore. Allora, per non nasconderci dietro un dito, parliamone un poco.
A parere modestissimo del sottoscritto, queste 35 ore sono un'invenzione della sinistra europea in crisi, che ha responsabilità di Governo in molti paesi dell'Unione e che non vuole dare l'impressione di dimenticarsi dei disoccupati per interessarsi soltanto di chi un lavoro lo ha. Dunque, tramite il meccanismo delle 35 ore, tramite tutto ciò che è stato detto in casi del genere (lavorare meno per lavorare tutti, e così via), questa sinistra in crisi tenta di dire all'elettorato dei diseredati e di chi non ha un lavoro stabile che comunque essa pensa anche a loro, perché attraverso la riduzione dell'orario di lavoro vuol creare occasioni di lavoro per chi oggi non ce l'ha. Però, siccome ancora nessuno ha inventato il metodo perfetto per salvare capra e cavoli, non può certo scontentare chi lavora, chi considera come suo elettorato potenziale.
Questi che lavorano dicono: riduciamo l'orario, ma non riduciamo la remunerazione. Così avrebbero ottenuto il risultato di tener buoni i disoccupati e di dire agli occupati: non solo non vi togliamo nulla dalle tasche ma vi abbuoniamo addirittura qualche ora di lavoro.
Però la matematica non è un'opinione: se ad eguale retribuzione corrispondono prestazioni inferiori qualcuno questi denari li deve cacciare; dovrebbero farlo le imprese, ma una cosa del genere sarebbe una follia, soprattutto per aziende che sono con l'acqua alla gola come avviene per alcune che operano in varie nazioni europee, non ultima l'Italia.
Le imprese non possono tirar fuori questi soldi; dovrà farlo qualcun altro, cioè lo Stato. Si ritorna al vecchio discorso di uno statalismo superato, che ha mostrato tutti i suoi limiti e che, partendo da premesse particolari e strane come quella delle 35 ore, dopo un giro vizioso, ritorna al punto di partenza.
Diciamoci la verità, allora: è una presa in giro. Non è possibile, chiunque paghi, che la retribuzione resti la stessa con una quantità di lavoro ridotto. Siamo in presenza di un piccolo escamotage elettorale di una sinistra che gioca un ruolo di Governo costretta ad essere liberale ma che non può certamente rinunziare al suo elettorato tradizionale.


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Signor Presidente, accogliendo il suo invito alla brevità, e concludendo...

PRESIDENTE. Sa che la ascolto molto volentieri, come lei ha notato.

MICHELE RALLO. La ringrazio.
Per i motivi che stanno alla base della modifica effettuata al Senato sul decreto-legge, ma anche per quelli che dicevo, per ciò che sta dietro a questa strana manovra, per il fatto che questo strano apparato è pericoloso per l'economia nazionale, per le imprese, per il lavoro italiano, per tutto questo esprimiamo il nostro dissenso più profondo (Applausi dei deputati del gruppo di alleanza nazionale).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Giovine. Ne ha facoltà.

UMBERTO GIOVINE. Quella della creazione dei posti di lavoro attraverso la riduzione del monte ore da parte di coloro che sono attualmente occupati è un'illusione sul cui pericolo coloro che mi hanno preceduto si sono già pronunciati a sufficienza.
Se insisto su questo concetto è perché tale illusione è stata già spazzata via proprio in quei paesi europei ed extraeuropei che hanno dimostrato, viceversa, come si possano creare migliaia, milioni di posti di lavoro con altri strumenti, senza cedere alle illusioni che le giornate e le ore di lavoro siano una specie di torta, un'entità finita che debba essere suddivisa, per cui più sono quelli che vogliono accedere al lavoro meno dovrebbero essere le giornate e le ore lavorate.
Questo concetto, largamente superato, che l'economia sia un fatto finito e che debba essere suddiviso ogni volta ci ha portato all'attuale situazione in cui l'Italia, pur classificandosi al quinto o sesto posto, a seconda delle categorie, della classifica mondiale, si trova viceversa agli ultimi posti in Europa per quanto riguarda l'occupazione. I paesi anglosassoni, che hanno adottato altri criteri - sui quali potremmo anche discutere ma che indubbiamente hanno avuto successo - hanno prodotto milioni di posti di lavoro mentre noi continuiamo a creare solo milioni di disoccupati.
La demagogia è implicita nel fatto che si cerchi, attraverso stratagemmi di basso livello, come quello della costrizione nelle ore di straordinario, di dare l'impressione di creare angoli di occupazione. È un atteggiamento che va combattuto con forza. Non solo è falso il concetto ma è pericoloso il messaggio che il Governo intende dare. Il Governo, che non riesce a creare posti di lavoro, intende dare l'impressione di fare il possibile. Quando poi, inevitabilmente, i posti di lavoro con il taglieggiamento delle ore straordinarie non si creeranno, il Governo pensa di potersi giustificare dicendo di avercela messa tutta.
Siamo impotenti di fronte all'arroganza della maggioranza raccogliticcia che ha messo insieme questo Governo ma abbiamo abbastanza voce per denunciare questo imbroglio. Non si possono imbrogliare doppiamente i cittadini prima negandogli i posti di lavoro e poi giustificandosi dicendo che si è fatto il possibile per crearli.
Quando si afferma che l'Italia si trova soltanto al ventisettesimo posto nelle classifiche universalmente riconosciute della libertà economica, cioè in fondo alle classifiche, non si enuncia solamente un principio astratto auspicando una maggiore libertà economica, ma si denuncia un fatto che comporta gravi conseguenze. Il blocco burocratico politico che controlla l'Italia impedisce che vi sia quella libertà economica che altrove è considerata condizione minima indispensabile per un'economia accettabile e quindi anche per l'occupazione.
Come mai in Italia non vengono fatti investimenti adeguati da parte di società estere? Come mai l'Italia è in fondo alla classifica europea per gli insediamenti di società non italiane? Come mai società italiane emigrano, si delocalizzano? Come mai la maggioranza è costretta a proporre leggi per impedire la delocalizzazione cercando di attuare una specie di autoritarismo dell'economia che impedisce


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quella libertà economica che in altri paesi, compresi quelli giunti recentemente alla democrazia, viene concessa? Tutto questo avviene perché nel nostro paese si fa fatica ad affermare il concetto di democrazia economica che è strettamente collegato a quello di democrazia politica. Noi oggi siamo testimoni di un grande deficit di democrazia politica oltre che di democrazia economica.
Siamo in fondo alla classifica della libertà economica ed il testo che ci viene proposto dal Senato per la conversione non fa che aggravare questa posizione dimostrando agli italiani, malgrado tutti i tentativi fumogeni che il Governo metterà in atto, e soprattutto dimostrando alla società internazionale di cui facciamo parte, che l'Italia non è a livello che pretenderebbe di avere quando si parla di libertà d'impresa e di libertà di lavoro.
Oggi, nei paesi che creano posti di lavoro, la maggior quota di occupazione non si crea sul versante del tradizionale rapporto di lavoro dipendente, ma con nuovi mezzi: assistiamo all'impetuosa crescita del mondo del commercio elettronico che consente, a chiunque abbia spirito d'impresa e possieda un computer ed un telefono, di entrare nel mondo dell'economia e cominciare a trarne profitto. Ma anche nel nostro paese, dove tali tendenze si fanno strada più lentamente, la stragrande maggioranza dei posti di lavoro viene creata non da piccole e medie imprese bensì da microimprese, anche artigianali. È lì che dobbiamo andare a cercare, è lì che troveremo la risposta al problema della disoccupazione.
Ogni volta che esaminiamo i dati che ci provengono dall'ISTAT sappiamo che, per quanto essi vengano ponderati, siamo in presenza di una poderosa quantità di lavoro nero dietro queste cifre; da anni diciamo che vogliamo far emergere, far venir fuori in senso positivo il lavoro nero. Ma pensiamo veramente di riuscirci così, ponendo ulteriori limiti che vadano oltre la normativa europea? Tale normativa è stata peraltro recepita dalle organizzazioni di categoria e va in senso diverso rispetto a quello che il Governo vorrebbe farci votare con la pressione del Senato; in questo modo noi non creeremo un solo posto di lavoro!
Non è un caso che le 35 ore, oggi, comincino ad essere applicate in Italia - almeno a livello propositivo - proprio in quel rapporto di impiego pubblico che rappresenta una inesorabile crescita della spesa pubblica che, né il precedente Governo, né quello in carica sembrano essere riusciti a trattenere. Così facendo, non solo non creeremo posti di lavoro, ma costringeremo sempre più numerose aziende a cercare altrove il luogo di esercizio di quella imprenditorialità che viene riconosciuta come una delle caratteristiche più positive del nostro popolo.
I posti di lavoro che vorremmo creare e la libertà economica che vorremmo si sviluppasse debbono certamente passare attraverso l'eliminazione drastica sia delle regolamentazioni e sia di quella centralizzazione delle regole che in Italia porta a far sì, ogni volta che idealmente voltiamo la testa, che quel potere - che vorremmo vedere distribuito - torni inesorabilmente al centro (Applausi dei deputati del gruppo di forza Italia): si torna, cioè, al complesso delle norme burocratiche, a quelle che erano le partecipazioni statali e che ancora oggi governano gran parte dell'economia (talvolta applicando regole proprie che niente hanno a che vedere con le regole dell'economia internazionale), come si è visto recentemente con la vendita di società a maggioranza pubblica appartenenti a Finmeccanica, che ha provocato l'intervento dell'autorità di controllo americana per sospetto di insider trading.
Siamo di nuovo al comando di una economia pubblica che non produce posti di lavoro, ma che produce, invece, profitti privati con denaro pubblico! I controllori delle aziende appartenenti alle partecipazioni statali - che una volta erano sottoposti al controllo della cosiddetta lottizzazione politica dei partiti - oggi non sono sottoposti neanche a quel controllo. Fanno letteralmente quello che vogliono!
Ecco chi, finalmente, in Italia è libero da condizionamenti e da legami. A quel


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livello noi troviamo questa perversa libertà economica di fare profitti privati con il denaro pubblico; appena arriviamo all'impresa privata, troviamo tutti i condizionamenti possibili, che renderanno impossibile la creazione dei posti di lavoro.
Ci rendiamo conto che il contrasto con le direttive europee non spaventa un Governo che è una derivazione di un precedente esecutivo che ha «illustrato» l'Italia facendola inserire al fanalino di coda - assieme ad un altro paio di paesi - nella classifica della applicazione delle direttive europee stesse. Ci rendiamo quindi conto che la mancata applicazione, in questo caso, della direttiva europea non sarebbe considerata dal Governo come un elemento dirimente o comunque preoccupante per andare avanti sulla propria strada.
Dall'altra parte constatiamo che, quando si discute sulla legge più importante (la legge finanziaria), gli emendamenti proposti dall'opposizione non vengono tenuti in alcuna considerazione. Questo la dice lunga sulle possibilità del nostro paese di arrivare ad una reale democrazia!
La conversione in legge, con le note modificazioni, del decreto legge n. 335 (le famose disposizioni urgenti) rappresenta appunto questo: un passo indietro; un passo indietro in una linea che è già disastrosa per l'Italia!
Perché non ci rendiamo conto - questo non è un problema solo dell'opposizione, ma anche della maggioranza - che con questo tipo di demagogia si creerà una situazione perversa?
Qual è il Governo che pensa veramente che questo «trucco» di presentare la riduzione delle ore straordinarie in quella maniera - sotto alle quali ci si può esimere dalla presentazione della specifica documentazione - possa servire a creare posti di lavoro?
Comportarsi come il re dell'antico regime, che poteva stabilire le sue regole per far contento il popolo, salvo poi creare rivoluzioni, non è più possibile in democrazia! Noi siamo qua, qualora il Governo volesse comportarsi come quel sovrano, per denunciare (come nella favola di Andersen) che il re è nudo di fronte alla verità dei fatti: un Governo che non crea posti di lavoro, dopo averli promessi, e un Governo che viceversa pensa di presentare ai cittadini dei falsi posti di lavoro (che corrisponderebbero alla somma aritmetica delle presunte ore di straordinario che vengono sottratte attraverso una regolamentazione forzosa) deve essere denunciato alla pubblica opinione. Noi siamo qui, infatti, per denunciarlo (Applausi dei deputati del gruppo di forza Italia)! Per denunciare, d'altra parte, quello che fa un Governo che si basa su di una maggioranza che non riesce, non può riuscire e che non riuscirà a manifestare una posizione politica lineare e che possa essere compresa non solo dall'opposizione, ma anche dai cittadini.
La nostra è un'opposizione che deve soprattutto sottolineare il fatto - ancora una volta ed ogni volta che ci sarà concesso di parlare in quest'aula - che la maggioranza attualmente al Governo non è stata sancita dalla libertà democratica dei cittadini elettori; si tratta di una maggioranza che, a nostro avviso, non ha legittimità politica e che nasce - come lentamente cominciamo a scoprire - da quello che una volta veniva definito un «colpo di palazzo», cioè, da una operazione fatta contro la volontà degli elettori! Un'operazione fatta contro le istituzioni non potrà che portare a contraddizioni, poi, nella applicazione di una linea politica, qualora questa risultasse esistere.
Presidente, colleghi, ci rendiamo conto che la conversione in legge di questo decreto-legge rappresenta solo uno dei piccoli episodi del grande quadro oscuro della nostra democrazia; ma se ci fosse dato solo questo mezzo per esprimere la nostra opposizione, noi continueremo qui ad esprimerla con tutti i mezzi che ci verranno concessi (Applausi dei deputati dei gruppi di forza Italia e di alleanza nazionale).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Armaroli. Ne ha facoltà.


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PAOLO ARMAROLI. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo pro tempore: dico pro tempore perché in quelle brevi considerazioni sull'universo che sono le dichiarazioni programmatiche, i Presidenti del Consiglio, da cinquant'anni a questa parte, prefigurano Governi immortali, Governi che durino da qui all'eternità. Sappiamo invece come vanno a finire le cose: le statistiche ci dicono che i Governi hanno una vita media di circa undici mesi e siccome questo Governo, tra l'altro, a differenza del precedente, non è stato nemmeno legittimato da un voto popolare, «chi di spada ferisce, di spada» - signor rappresentante del Governo pro tempore - «perisce».
Colleghi, il provvedimento al nostro esame è una sorta di eredità giacente; è un lascito del precedente Governo. Chi sono i sottoscrittori di questo provvedimento? Sono Romano Prodi, nella sua veste di Presidente del Consiglio dei ministri, e Treu, nella sua veste di ministro del lavoro e della previdenza sociale, con il concerto di Ciampi, ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica.
Cominciamo dall'alto: Romano Prodi. Mai forse uomo politico ebbe tanti elogi dopo la sua morte politica. Il Corriere della Sera riporta a tutta pagina un titolo: «D'Alema media tra Prodi e Cossiga»; sottotitolo «Il Premier: il paese ha bisogno di loro», cioè ha bisogno di Romano Prodi e per sopramercato anche di Cossiga, il quale dopo aver «picconato» nell'ultimo biennio della sua Presidenza le mura della prima Repubblica, sta «picconando» il bipolarismo e, già che c'è, si concede anche trasferte in Spagna e «piccona» niente po' po' di meno che il Capo del Governo spagnolo, con il rischio di creare un incidente diplomatico.
Come dicevo, D'Alema - forse la sua è la riprova di una cattiva coscienza - dice: «Il paese ha bisogno di Romano Prodi». Signor Presidente Biondi, mi domando se Prodi non stia diventando come Genoveffa «la racchia»: tutti la vogliono e nessuno se la piglia, perché questa è la pura e semplice verità.
Il secondo sottoscrittore, cioè Treu, sembra un desaparecido, sembra un personaggio da telenovela televisiva, da programma Chi l'ha visto?: è passato dal Ministero del lavoro a quello dei trasporti dove certamente non ci ha fatto rimpiangere il precedente ministro Burlando (quando ci si metteva in treno ai tempi di Burlando o ci si faceva il segno della croce, se si era religiosi, oppure, se si era laici, si stipulava una polizza di assicurazione sulla vita). Oggi con Treu non ci sono di questi pericoli. Di incidenti ferroviari non ce ne sono, ma per il semplice fatto che i treni sono tranquillamente fermi al capolinea e i viaggiatori non hanno bisogno di fare altro che aspettare sulle loro valigie o nelle stazioni ferroviarie che i treni ripartano.
Poi, dulcis in fundo, Ciampi, il quale è un po' come il prezzemolo, sta dappertutto o, se si vuole nobilitare un tale personaggio, è un po' come lo Spirito Santo che sta in cielo, in terra e in ogni luogo.
A questo punto, signor Presidente, vorrei svolgere il mio intervento articolandolo in tre capitoletti, o se mi è consentito, vista l'ora, in tre pensierini della sera.
Il primo pensierino della sera - tarda sera - è sull'istituto della decretazione d'urgenza; il secondo sarà sui pareri - inascoltati, violati più della vecchia di Voltaire - del Comitato per la legislazione; il terzo pensierino della sera sarà sul merito, anzi, mi correggo, sul demerito del provvedimento, visto che questo provvedimento non ha né babbo né mamma e non ha né capo né coda, soprattutto dopo - come è stato ben detto da coloro che mi hanno preceduto - le edulcorazioni - si fa per dire - del Senato della Repubblica.
Vengo quindi al primo pensierino della sera, signor Presidente. Ella, che è un illustre giurista, sa bene che le proposizioni normative, di regola, hanno un soggetto, un verbo - di solito un indicativo presente -, un complemento oggetto e poi, eventualmente, altri complementi.


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Tra tante mosche nere, noi abbiamo, signor Presidente, signor rappresentante del Governo, una mosca bianca, rappresentata dal secondo comma dell'articolo 77 della Costituzione, che ha un incipit significativo, da periodo ipotetico: «Quando, in casi straordinari di necessità e d'urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni». Quindi, comincia con il «quando», ed un grande costituzionalista come Carlo Esposito, nel suo volume Saggi del 1954, sosteneva che questo «quando» (che può essere tradotto anche con un «se», con l'aggiunta «in casi straordinari di necessità e d'urgenza») non dà un potere al Governo, ma prefigura una mera eventualità. Cioè, in linguaggio materno, il secondo comma dell'articolo 77 può essere tradotto così: nella dannata ipotesi che il Governo - forse dopo aver bevuto qualche bicchiere di vino in più - ipotizzi di adottare un decreto-legge, ecco un percorso di guerra, tutta una serie di paletti, di lacci e lacciuoli - questi, sì, sacrosanti - perché il Governo non abusi della decretazione d'urgenza.
Effettivamente, nelle prime legislature e soprattutto nei primi anni dopo l'entrata in vigore della Costituzione, questa forte valenza significativa del secondo comma dell'articolo 77 suggerì una certa prudenza, una certa moderazione ai Governi, per cui veramente nelle prime tre legislature furono pochissimi i decreti-legge adottati dal Consiglio dei ministri ed emanati dal Presidente della Repubblica, che è il custode della Costituzione e quindi dovrebbe vigilare sull'effettiva sussistenza di tutti i presupposti per l'adozione di un decreto-legge. Poi la Costituzione - e segnatamente l'articolo 77 -, signor rappresentante del Governo, ha avuto un effetto di dissolvenza: il Governo si è scordato del passato, anche se la Costituzione repubblicana è tuttora vigente, ed ha cominciato a procedere «decreton decretoni», «vieni avanti decretino», e i decretini si sono succeduti al punto tale che hanno raggiunto, nelle legislature successive alla terza, proporzioni davvero inquietanti. Ora, in questo sistema di Governo alla camomilla, si dice che tutto è in ordine, tutto è a posto, i decreti stanno diminuendo a vista d'occhio.
Ma è veramente così, signor Presidente? Vi è un libretto di statistiche parlamentari, pubblicato proprio in questi giorni, che abbiamo ricevuto stamane in casella: ebbene, signor Presidente Biondi, sa quanti decreti-legge sono stati emanati in questa legislatura, cioè in due anni e mezzo? La bellezza di 273 decreti-legge, il che significa qualcosa come un decreto ogni tre giorni. Evidentemente, il Governo non può presumere che il Parlamento metta un timbro a tutti questi decreti: i padri fondatori della Costituzione, giustamente, lasciarono 60 giorni perché il Parlamento convertisse in legge i decreti ed effettivamente, nelle prime legislature, 60 giorni erano più che sufficienti per la conversione in legge dei decreti. Arrivati a questi livelli, però, il Governo non può pretendere che il Parlamento sia un metti-timbro su questi decreti e quindi spesso (e volentieri, lo dico dai banchi dell'opposizione) i decreti decadono.
A riprova che le statistiche non sono sempre come il pollo di Trilussa, voglio ricordare che sono pendenti davanti alle Camere, oggi come oggi, ben sei decreti-legge, anche qui un'enormità, soprattutto considerato che una salvifica ed arcinota sentenza della Corte costituzionale ha proibito la reiterazione dei decreti non convertiti. Ebbene, ricordo per i colleghi, ma forse anche per la memoria e l'intelligenza del rappresentante del Governo, questi sei decreti. Il primo riguarda «Sezioni stralcio, preselezione dei candidati al concorso per uditori giudiziari ed espropriazione forzata immobiliare»: mi pare che il provvedimento sia un po' eterogeneo e quindi faccia a pugni con la legge n. 400 del 1988 sull'ordinamento della Presidenza del Consiglio; questo decreto-legge, che scadrà il 21 novembre, è stato


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approvato dalla Camera ed è all'esame della Commissione giustizia del Senato.
Il secondo decretino è «Proroga dell'entrata in vigore della nuova disciplina per i dirigenti statali»; scade il 28 novembre ed è all'esame della Commissione affari costituzionali della Camera. Il terzo decretino «Misure urgenti in materia di lavoro straordinario» è quello di cui ci stiamo occupando ogni sera e scade il 28 novembre, come ella, signor rappresentante del Governo, sa bene; è stato approvato dal Senato, sappiamo come peggiorato, ed è all'esame dell'Assemblea della Camera nelle sedute notturne, visto che di giorno ci occupiamo del collegato alla finanziaria e della manovra economica. Il quarto decretino è «Proroga degli sfratti», scadenza 1 gennaio, assegnato alla Commissione giustizia del Senato. Il quinto decretino «Rimborso dell'eurotassa, regolarizzazione di versamenti IRAP e altre misure fiscali urgenti» scade il 2 gennaio prossimo ed è assegnato alla Commissione bilancio della Camera. Vi è poi ancora un sesto decreto.
Questo è lo stato dell'opera al momento: sei decreti all'esame del Parlamento, tra Camera e Senato. Ebbene, il Governo probabilmente non conosce, o non sfrutta adeguatamente, le novità regolamentari che abbiamo introdotto di recente, grazie alle quali, se un Governo ci sa fare, se ha un ministro ed un sottosegretario per i rapporti con il Parlamento (per la verità, noi conosciamo soltanto l'onorevole Elena Montecchi, che è sottosegretario per i rapporti con l'opposizione) che funzionano, può tranquillamente far approvare un disegno di legge dai due rami del Parlamento in 60 giorni. Tutto questo sforzo, quindi, il mettere a repentaglio la reputazione, alla quale teniamo, del signor Presidente della Repubblica nell'ipotesi - Dio ci guardi - che non vigili attentamente sui requisiti di straordinaria necessità ed urgenza e, comunque, sulla legittimità e costituzionalità del decreto, che senso ha? Questo riguarda il primo pensierino...

PRESIDENTE Vuol dire che la prossima volta sentiremo gli altri due.

PAOLO ARMAROLI... della sera. Dubito, quindi, nella fattispecie, che esistano i presupposti di straordinaria necessità ed urgenza. Se il signor Presidente me lo consente, ruberei alcuni minuti a qualche mio collega - penso sia possibile se egli me lo concede - e, sia pure molto brevemente...

PRESIDENTE. Rubare è vietato, utilizzare è consentito.

PAOLO ARMAROLI. Utilizzando, con il consenso di un collega di alleanza nazionale, un po' del suo tempo, vorrei sviluppare brevissimamente - signor Presidente, non voglio abusare della sua cortesia - gli altri due pensierini della sera.
Per quanto riguarda il Comitato per la legislazione, signor Presidente, debbo notare che esso ha espresso un parere favorevole al decreto-legge in questione, ma con ben quattro condizioni e due osservazioni. Noti bene, signor Presidente; noti bene e prenda buona nota, signor rappresentante del Governo pro tempore, che, ai sensi del comma 5 dell'articolo 16-bis del regolamento, soltanto il deputato Cananzi ha espresso il proprio dissenso in merito alle condizioni n. 1 e n. 4. Ciò significa che otto membri su otto si sono trovati d'accordo sulle altre condizioni, mentre su queste due condizioni sette commissari su otto si sono trovati d'accordo.
Non mi pare, signor sottosegretario, che il Governo sia pronto a recepire il parere del Comitato per la legislazione e questo è gravissimo per il semplice motivo che il Comitato per la legislazione è un organo paritetico, formato da quattro deputati della maggioranza e quattro dell'opposizione: ebbene, la maggioranza non può essere pirandellianamente una, nessuna e centomila, dicendo una cosa nel Comitato per la legislazione, mentre ben altra cosa la maggioranza ed il Governo dicono in aula.


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L'ultimo pensierino della sera - ho concluso, signor Presidente - riguarda il merito, o meglio, come dicevo poc'anzi, il «demerito» del provvedimento...

PRESIDENTE. Onorevole Armaroli, è andato ben oltre i limiti di tempo.

PAOLO ARMAROLI. Concludo, signor Presidente. Debbo soltanto far notare che l'opposizione chiede quanto meno il ripristino del testo originario del decreto-legge, che è stato peggiorato in molti punti, basti pensare alla riduzione da 48 a 45 ore. Devo dire semplicemente al rappresentante del Governo che non solo l'opposizione è contraria alle misure normative previste dalle modifiche apportate dal Senato, ma che addirittura parte della maggioranza concorda con l'opposizione. Infatti, come dice un deputato del gruppo dei popolari e democratici, l'onorevole Emilio Delbono, segretario della Commissione lavoro della Camera, la scelta prioritaria è quella di restituire al testo la sua versione originaria. Certo, siamo anche consapevoli che i tempi stretti di conversione comportano un rischio di decadenza, ma il testo come è attualmente formulato può produrre effetti negativi sulle imprese.
Concludo, signor Presidente, citando l'onorevole Michielon, il quale ha detto che l'accordo doveva garantire flessibilità, mentre l'introduzione di mille lacci e lacciuoli avrà come unica conseguenza non la creazione di nuovi posti di lavoro, ma l'aumento degli straordinari fuori busta. Parole sacrosante, onorevole Michielon! Peccato che oggi pomeriggio la lega sia rimasta in aula a tenere bordone alla maggioranza e sul disegno di legge collegato alla manovra economica non sia mancato il numero legale. Vergogna! Il Polo fa opposizione...

MAURO MICHIELON. Cosa fa il Polo?

PAOLO ARMAROLI. ...mentre la lega va a corrente alternata (Applausi dei deputati dei gruppi di alleanza nazionale e di forza Italia).

PRESIDENTE. Comunico ai colleghi che ho consentito all'onorevole Armaroli di superare di quattro minuti il limite di tempo perché ha detto che li avrebbe sottratti ad un collega del suo gruppo.
Ha chiesto di parlare l'onorevole Scaltritti. Ne ha facoltà.

GIANLUIGI SCALTRITTI. Penso comunque, Presidente, che sia valsa la pena di sentire i pensierini della sera dell'onorevole Armaroli.

PRESIDENTE. Senza dubbio. Non è stata una pena, ma un piacere.

GIANLUIGI SCALTRITTI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la discussione sulla modifica del regime degli straordinari in relazione al decreto-legge n. 335, già approvato con modifiche dal Senato, ha posto in evidenza una serie di questioni politiche e tecniche che non possono essere assolutamente sottovalutate. Siamo infatti convinti che il futuro dell'occupazione e dell'economia nella nostra società sarà influenzato da questo provvedimento in maniera fortemente negativa.
È ormai chiaro a tutti quanto stridente sia il contrasto tra i provvedimenti - contraddittori, inefficaci e dannosi - decisi dal Governo per risolvere i problemi del paese e le decisioni chiare, forti ed efficaci assunte in Europa e nei paesi maggiormente industrializzati: misure tese a favorire la piena occupazione e l'evoluzione economica attraverso l'eliminazione di ostacoli burocratici ed il sostegno alle imprese, cioè ai soggetti che producono ricchezza.
Ma davvero questo Governo ritiene che le modifiche apportate al testo del decreto costituiscono un punto di approdo positivo, che possa determinare addirittura un sostegno propulsivo per la nostra società? Davvero è possibile pensare che il Senato abbia bene operato stravolgendo queste norme che ci pongono nuovamente fuori dall'Europa, che sono in contrasto con la direttiva n. 104 del 1993 e che compromettono in maniera determinante la sfida


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delle nostre imprese alle economie più avanzate dell'occidente (che, al contrario, vengono fortemente sostenute ed anche difese ed aiutate dai loro Governi)?
Certamente il testo originario del decreto non rappresentava per noi l'optimum rispetto alle nostre convinzioni e alle nostre richieste. Però su quella normativa si poteva svolgere un confronto ragionevole ed utile, che certamente avrebbe prodotto miglioramenti del testo e consentito quindi maggiori opportunità ai lavoratori ed alle imprese. La normativa avrebbe anche potuto - attraverso una serie di modifiche migliorative - agevolare una ripresa del sistema economico, che sicuramente al punto in cui siamo sarà frenata dalle norme contenute nel testo.
Disciplinare una materia delicata ed estremamente complessa come quella degli straordinari con un decreto-legge è già di per sé un uso spregiudicato dello strumento legislativo, che impedisce il necessario e sereno confronto tra le parti sociali e tra le forze politiche, che in Parlamento avrebbero sicuramente predisposto - e per via ordinaria - una normativa migliore sotto il profilo sia sociale sia economico. Il Governo, al contrario, ha voluto dare questo colpo di acceleratore, che ritengo preoccupante e veramente ingiustificato.
Le avvisaglie di tanta fretta erano già state percepite in Commissione: l'opposizione era stata invitata a ritirare i propri emendamenti per evitare la possibile decadenza del decreto. Il relatore, infatti, ha ricevuto il mandato di riferire all'Assemblea senza che gli emendamenti della maggioranza e dell'opposizione siano stati discussi. È grave che su un tema di così grande rilevanza si impedisca l'esercizio della democrazia ed il confronto tra maggioranza ed opposizione per la valutazione degli emendamenti, che avrebbero potuto migliorare il testo rendendolo più vicino alla normativa europea e più adeguato alle esigenze del nostro paese. Il Governo ha scelto la strategia del rullo compressore, ha sfruttato la forza dei numeri, ha deciso di raggiungere i propri obiettivi sottraendosi a qualsiasi tipo di confronto e penalizzando ancora una volta imprese e lavoratori.
La riduzione di tre ore dello straordinario, attuabile dalle imprese senza sottostare a regole burocratiche, così come voluta dal Senato, non trova una valida giustificazione e appare come un vero e incomprensibile atto di forza. La reiterazione da parte di questo Governo di un decreto già presentato da Prodi e decaduto a settembre è, infatti, di difficile spiegazione. In effetti, l'attuale Presidente del Consiglio, che al suo esordio in Parlamento e sulla stampa si è detto fortemente preoccupato per le nubi di recessione che incombono sul paese, ha poi stranamente accettato l'eredità del Governo precedente in maniera acritica e non giustificata, come la presentazione del decreto-legge in esame sta a dimostrare. Eppure, l'attuale Gabinetto si dichiara affrancato dalle condizioni ideologiche di rifondazione comunista e dalle richieste per le quali è caduto il precedente Governo ed è nato il nuovo.
L'attuale Presidente del Consiglio avrebbe dovuto valutare con maggiore saggezza le conseguenze che atti dirigistici, come quello di ridurre da otto a cinque le ore di lavoro straordinario ammesse e da quaranta a trentacinque le ore lavorative ordinarie, determinano e avrebbe dovuto capire che essi non produrranno per legge nuovi posti di lavoro, ma ne aumenteranno il costo danneggiando la competitività sul mercato delle imprese, favorendo la disoccupazione e la spinta recessiva.
Assistiamo quotidianamente a quel fenomeno che chiamiamo delocalizzazione, all'esodo delle nostre attività produttive verso paesi più favorevoli sotto il profilo del gravame dei costi (il sud-est asiatico). Eppure, non ci vogliamo rendere conto che a tale fenomeno di deindustrializzazione dovremo creare un argine attraverso la formazione di un ambiente favorevole alle imprese, di un ambiente che, pur rispettando gli equilibri sociali, garantisca una diminuzione dei costi attraverso una riduzione della burocrazia, del fisco, del reale costo del lavoro.


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Purtroppo, però, quel che è accaduto, il cambiamento di Governo e quindi la defenestrazione di Prodi, è stato semplicemente un valzer delle poltrone, un cambiamento di facciata, una soluzione politica di problemi interni alla maggioranza, restando confermata la mentalità statalista e dirigista della sinistra, addirittura rafforzata da provvedimenti ideologicamente legati a dottrine ormai perdenti e svincolati dalle necessità di un mondo evoluto e globalizzato.
Pensare che sia possibile obbligare gli imprenditori ad assumere diminuendo le ore di lavoro a costo normale, ovvero ostacolando burocraticamente l'esercizio dello straordinario, come previsto dal provvedimento in esame, significa avere un concetto utopico e politicamente ottuso dell'economia. È evidente, infatti, che il decreto-legge in discussione rende complicato e difficile il ricorso al lavoro straordinario, pregiudicando le opportunità di guadagno dei lavoratori e le stesse attività imprenditoriali.
Aumento del costo del lavoro, riorganizzazione dei cicli produttivi, paletti burocratici e amministrativi saranno i grandi risultati ottenuti dal varo di questo decreto-legge, che è demagogico e anti-europeo. L'Italia sta già pagando pesantemente l'errata politica economica del Governo Prodi, fatta di pressione fiscale e di tagli agli investimenti. In questi giorni, infatti, ne riscontriamo le conseguenze: il tasso di sviluppo è dimezzato, la disoccupazione è superiore al 12 per cento, la povertà è paurosamente cresciuta. Cosa possiamo dire ai nostri figli e ai giovani: forse che le loro possibilità saranno legate esclusivamente ai lavori socialmente utili, o inutili come ci divertiamo spesso a sottolineare? E quale può essere la prospettiva di un sud che ha sfondato il tetto del 20 per cento di disoccupazione?
Il Governo, però, sembra voler tirare dritto senza ascoltare nessuno, con ciò confermando quel dirigismo che ha nel suo DNA e dando corpo alle paure di chi si preoccupa non solo di quel che avverrà con la conversione del decreto-legge in esame, ma anche e soprattutto di quanto il suo varo lascia intravedere.
Mi riferisco, segnatamente, all'accenno che fa l'articolo 1 circa una prossima normativa sull'orario di lavoro. Si tratta, dunque, di un ulteriore passo in avanti per l'obiettivo delle trentacinque ore.
È un segnale indiscutibile che, se legato all'accantonamento di risorse previsto nell'attuale finanziaria, dimostra la strategia maldestramente mimetizzata di questo Governo, che porterà a far sì che venga inferto un altro pesantissimo colpo di maglio alle imprese, ai lavoratori e all'economia italiana.
Queste sono le principali conseguenze sul piano pratico, ma altri gravi fatti vanno segnalati: fatti inquietanti, che sicuramente non possono essere definiti solo preoccupazioni di parte, in quanto i loro effetti riguardano tutti noi.
Questo decreto, infatti, tradisce anche i patti siglati a suo tempo tra le parti sociali, cioè le imprese e i sindacati, aprendo una questione di non secondaria importanza, che riguarda tutti i cittadini e lo stesso assetto istituzionale del paese, il funzionamento stesso della macchina democratica.
Voglio, infatti, approfittare di questo intervento per evidenziare come la cosiddetta concertazione tra Governo, sindacati e Confindustria cancelli brutalmente le prerogative del Parlamento. Non possiamo delegare ai sindacati, alla Confindustria e alle altre organizzazioni il compito di rappresentare gli interessi del paese, di disegnarne il futuro, di impostare i percorsi e di stabilire le strategie e le regole, perché questi compiti spettano esclusivamente al Parlamento: non dobbiamo consentire una confusione di ruoli o, peggio, una surroga di responsabilità.
È evidente che in siffatte condizioni solo i poteri forti e fortemente organizzati avrebbero diritto di sopravvivenza, calpestando gli interessi e negando opportunità ai più deboli, ai disoccupati, ai poveri e alle categorie svantaggiate. Se il tavolo delle trattative serve solo a garantire gli interessi di chi vi partecipa, allora si


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scivola lentamente ma inesorabilmente verso una forma di corporativismo che già qualche collega ha preconizzato.
Il Parlamento deve rivendicare tutte le sue prerogative e deve farlo perché è l'unico autorizzato a fissare le regole in un quadro di confronto e di assunzione di responsabilità, che soli possono offrire garanzie a tutti i cittadini. Ma ciò a patto che maggioranza ed opposizione sappiano dialogare, senza sottrarsi ai propri doveri, evitando che la forza dei numeri impedisca alla validità delle idee di emergere.
Quando la posta in gioco è alta, occorre mettere in campo le intelligenze, le sensibilità e le esperienze migliori. Su questo terreno, sul terreno cioè dello sviluppo, dell'occupazione, del futuro economico e sociale del paese, non possiamo permetterci scontri e prove di forza fini a se stesse o determinate, come spesso è avvenuto e sta ancora purtroppo avvenendo, da convenienze politiche.
Noi ci opponiamo fortemente a che questo decreto venga convertito così come è stato delineato e definito dal Senato. Ne avvertiamo - lo abbiamo sottolineato più volte - la pericolosità, la certezza che esso produrrà solo effetti devastanti nell'economia e nella società.
Voglio anche porre in evidenza come il sistema delle regole e degli stessi rapporti politici venga scardinato da un modo di procedere brutale ed impermeabile a qualsiasi apporto a qualsiasi contributo dell'opposizione.
Con la situazione determinatasi a seguito dei fatti elencati sono stati inferti colpi gravissimi al mondo del lavoro, alle prerogative del Parlamento, al sistema dei rapporti tra le forze politiche. Ancora una volta verifichiamo come la tendenza al dirigismo sia una delle caratteristiche più preoccupanti di questo paese che, in un momento tanto delicato per il futuro dell'economia e dell'occupazione, anziché liberare le imprese da vincoli burocratici ed amministrativi, offrendo così maggiori opportunità al mondo del lavoro e favorendo lo sviluppo economico, ne crea di nuovi ed ancora più complicati. Questo è un modo di procedere che ci sconcerta e ci preoccupa, e di sicuro sconcerta e preoccupa l'intero paese.
Abbiamo ingaggiato una battaglia, dura ma necessaria, che combattiamo consapevoli dell'interesse della nazione.
Denunciamo con grande chiarezza la vacuità delle dichiarazioni sull'Europa fatte da esponenti del Governo e dallo stesso Presidente del Consiglio che, sul piano concreto e delle realizzazioni pratiche, vengono tradite nello spirito e nelle indicazioni attuando provvedimenti in netto contrasto con le normative comunitarie.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, questo primo passo verso lo sciagurato obiettivo della riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario ci vede schierati nella determinata convinzione di capovolgere una normativa sbagliata e pericolosa.
Ancora più dura sarà la battaglia che ingaggeremo sulle 35 ore, quando il Governo (immagino con gli stessi metodi) presenterà il relativo provvedimento in Parlamento. Condivido, quindi, pienamente quanto ha annunciato il presidente del mio gruppo: se quella legge passerà in Parlamento noi raccoglieremo le firme per una referendum abrogativo della legge stessa. Questo possiamo assicurarlo al Governo e alla maggioranza!
Su questioni di vitale importanza per l'Italia un'opposizione responsabile non può fare sconti di sorta (Applausi dei deputati dei gruppi di forza Italia e di alleanza nazionale).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Pezzoli. Ne ha facoltà.

MARIO PEZZOLI. Signor Presidente, prendo lo spunto da quanto detto al termine del suo intervento dall'onorevole Armaroli relativamente alle forti accuse da lui lanciate verso la lega per l'atteggiamento da questa tenuto nel pomeriggio di oggi, nel corso della discussione sulla finanziaria.
Non voglio essere così caustico e polemico nei confronti dell'atteggiamento della lega come lo è stato l'onorevole


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Armaroli. Personalmente, salvo la buona fede, soprattutto di quegli esponenti della lega della mia regione che ho avuto l'opportunità di conoscere anche più profondamente in questi anni e con i quali mi sono confrontato sui temi politici di questi anni.
Vorrei dire, anche all'onorevole Michielon, che se è vero che da parte del Governo D'Alema vi sono state delle aperture nei confronti dei principi politici fondanti della lega quali il federalismo e le autonomie (che saranno oggetto di dibattito con il Governo stesso), è altrettanto vero che non si possono firmare cambiali in bianco ad un Governo di centro-sinistra e post-comunista nel momento in cui presenta un decreto fortemente penalizzante nei confronti della piccola e media impresa, tanto numerosa nei territori che io, umilmente, e voi, in maggior numero, rappresentate: il Veneto.
Infatti, leggendo i resoconti stenografici della discussione in aula del presente provvedimento (che è iniziata mercoledì 11 e proseguita giovedì 12 e anche ieri ed oggi), vedo che non sono molti gli interventi dei deputati della lega nord su un provvedimento gravissimo per il tessuto connettivo non solo delle realtà che noi rappresentiamo (e che voi volete rappresentare in maniera specifica), ma dell'intero territorio nazionale. Infatti, nella discussione iniziata mercoledì 11 novembre, nessun deputato della lega è intervenuto. Il dibattito è proseguito, come ricordavo, giovedì 12 novembre e, in quella sede, sono intervenuti due soli deputati della lega con interventi molto meno polemici rispetto a quelli che noi conosciamo (e a cui ci hanno abituato i colleghi leghisti nel momento in cui si confrontano con maggioranze di centro-sinistra): l'intervento dell'onorevole Chiappori e quello dell'onorevole Covre.
Nella seduta di lunedì 16 novembre (sto dando un'occhiata al resoconto stenografico), non mi pare che vi sia stato alcun intervento dei parlamentari della lega.
Si registra dunque un certo atteggiamento di sufficienza da parte della lega nord su quelli che sono i provvedimenti di questo Governo post-comunista, forse nella speranza che qualcosa possa essere dato nell'ambito di una contrattazione, direi nell'ambito di un mercato delle vacche, a cui ci ha abituato non solo il Governo Prodi ma anche il Governo Dini, in precedenza, ed ora velocemente, a pochi giorni dal suo insediamento, il Governo D'Alema.
Posso capire chiunque di noi quando sui principi, sui valori, che sono fondanti i nostri movimenti, cerca il dialogo tra maggioranza e opposizione a condizione di non superare certi paletti. Ritengo però che questo provvedimento certi paletti li superi, li travalichi, addirittura li abbatta, andando contro quelli che sono gli interessi dei nostri elettori ma anche contro gli interessi degli elettori della lega.
Ed è proprio per questo che alleanza nazionale, e più in generale i deputati del Polo per le libertà, vogliono e stanno facendo una forte battaglia di opposizione, anche ostruzionistica, fondata su delle considerazioni di carattere tecnico-giuridico di una certa rilevanza. Portiamo avanti questa battaglia perché non vogliamo assolutamente che il decreto in esame venga convertito in legge.
Non abbiamo alcun problema nell'assumerci, signor rappresentante del Governo, la responsabilità di impedire la conversione in legge di un decreto che è, come qualcuno ha già ricordato, di basso profilo dal punto di vista formale e soprattutto dal punto di vista sostanziale.
Dagli interventi dei deputati di alleanza nazionale svolti in seno alla Commissione lavoro pubblico e privato della Camera, risulta evidente che alleanza nazionale si è interessata da tempo della questione che è oggi al nostro esame. In particolare, il gruppo di alleanza nazionale aveva prospettato alla Camera l'approvazione di una norma di semplice attuazione, che avrebbe tenuto conto delle attese di migliaia di piccole e medie imprese che rischiano, dopo le modifiche introdotte inopinatamente dal Senato, di vedere ancora una volta aumentato il peso di tutte quelle incombenze burocratico-amministrative


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che impediscono loro di lavorare, di produrre e di generare benessere. Sto parlando cioè di un provvedimento di legge che avrebbe incontrato il consenso della piccola e media impresa ed anche, più in generale, di tutta l'industria presente sul nostro territorio.
Sarebbe sufficiente leggere il testo della proposta di legge n. 5021 (stampata ed abbinata al disegno di legge n. 5349, e sulla quale il relatore di minoranza ha svolto il suo intervento) presentata dai colleghi di alleanza nazionale Contento e Foti per tentare di prevenire, attraverso una norma semplicissima (addirittura un articolo unico) - il presagio si è dimostrato reale - i problemi di cui oggi stiamo discutendo. L'articolo unico di questa proposta di legge recita testualmente: «L'ultimo periodo del comma 1 dell'articolo 13 della legge 24 giugno 1997, n. 196, e successive modificazioni, è sostituito dal seguente: Le disposizioni di cui ai commi secondo e terzo dell'articolo 5-bis del regio decreto-legge 15 marzo 1923, n. 692, convertito dalla legge 17 aprile 1925, n. 473, si applicano solo in caso di superamento delle 48 ore settimanali di lavoro».
Questa è una norma, in sé chiara, che non lascia spazio ad equivoci e che consentiva di andare incontro alle esigenze sia della piccola e media impresa, della piccola imprenditoria sia di coloro che reclamano, oramai da lungo tempo, tutta una serie di semplificazioni burocratiche e di minori oneri, che sono inutili alle imprese che cercano di competere all'interno del mercato nazionale e con il mercato estero.
È sufficiente confrontare il testo della proposta di legge che ho appena ricordato con il testo «borbonico» al nostro esame in questi giorni per rendersi conto di quanto elevato sia il numero degli esponenti, all'interno di questa maggioranza, che sono nemici dei bisogni, delle istanze, delle necessità della piccola e media impresa. Il Senato, infatti, ha stravolto il senso dell'accordo raggiunto tra le parti sociali andando ad individuare norme ancor più stataliste e dirigiste rispetto a quelle che si volevano modificare.
A tale riguardo, credo che sia opportuno richiamare brevemente alcune di quelle modifiche che, come ho detto, il Senato ha apportato in maniera inopinata. Anzitutto, come cappello di natura politica si è voluto inserire nel testo del comma 1 - ecco in proposito gli emendamenti di alleanza nazionale e del Polo - il seguente inciso: «In via transitoria, in attesa della nuova disciplina dell'orario di lavoro». Credo che le parole «in via transitoria» vadano a cozzare contro il buonsenso e, soprattutto, contro coloro che reclamano, nell'ambito del mondo del lavoro, di chi investe, di chi produce, di chi crea benessere, un minor dirigismo e una minore rigidità della normativa sul lavoro. Si va contro l'interesse di chi desidera, all'interno del mondo della produzione e del lavoro, che vi sia una norma certa che possa produrre effetti positivi non in via transitoria - probabilmente per quattro mesi, prima della legge sulle 35 ore - ma per gli anni a venire.
Ritengo che il Governo, su input della maggioranza, fortemente condizionata dai comunisti, abbia dovuto scrivere «in via transitoria» e la successiva frase «in attesa della nuova disciplina dell'orario di lavoro» forse perché lo straordinario deve essere necessariamente legato all'ipotesi della riduzione complessiva dell'orario di lavoro che sta a cuore a rifondazione comunista ma che va a cozzare - non lo diciamo solo noi di alleanza nazionale o i parlamentari del Polo, in quanto lo ricordano i migliori economisti del nostro paese - contro gli interessi della piccola e media impresa, contro le sue aspettative e le sue esigenze.
Ci si è voluti liberare di rifondazione comunista perché creava problemi alla maggioranza, che voleva darsi un aspetto di carattere liberale nel momento in cui affrontava i problemi del lavoro, come quelli dell'economia, nell'ambito di una semplificazione e delegificazione del nostro sistema legislativo. Ci si è voluti liberarsene perché condizionava il Governo


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Prodi, ma credo che continui a condizionare questo Governo nel momento in cui chiede che la legge sulle 35 ore, che non rappresenta altro che un'anticipazione, sia comunque discussa e approvata in questo Parlamento. Probabilmente, questo è il regalo delle altre forze che compongono il centro-sinistra affinché poi non vi siano problemi nell'ambito della parificazione fra scuola privata e scuola pubblica. Mi pare che qualche minaccia in questo senso sia giunta da parte dei comunisti italiani che si sono scissi da rifondazione comunista nelle settimane scorse.
Probabilmente, quindi, il Governo, accettando le modifiche apportate dal Senato in senso dirigista, cerca di contrattare qualcosa con il partito di Cossutta. La riduzione da 48 a 45 ore mortifica tutto un comparto produttivo. Ricordo gli interventi di Prodi dal pullman e anche quelli del candidato del centro-sinistra del mio collegio, nell'ambito di contraddittori che abbiamo avuto durante la campagna elettorale del 1996. Ricordo che si tentava, durante quegli interventi, di dimostrare che il centro-sinistra, rispetto a qualche anno prima, era comunque diverso, avendo maturato una coscienza differente dei problemi del mondo produttivo e soprattutto delle piccole e medie imprese.
Ora questo comparto produttivo viene mortificato perché sperava che il centro-sinistra, dopo aver ottenuto tanti voti anche da quel comparto, avrebbe avuto un atteggiamento diverso su problemi legati all'occupazione e al nuovo ordinamento del lavoro. Tutto ciò purtroppo non è avvenuto; si mostra il vero volto del centro-sinistra, penalizzante per la piccola e media impresa quando si parla di lavoro straordinario e di riduzione dell'orario. Siamo di fronte ad una serie di norme ancora più penalizzanti che riducono da 48 a 45 il monte ore, aggiungendo addirittura degli incisi di carattere politico che credo non abbiano neanche un minimo di valenza di carattere tecnico-giuridico.
Potrei continuare il mio intervento sia dal punto di vista tecnico-giuridico sia da quello politico. La ringrazio di aver scampanellato, Presidente, per ricordarmi che il tempo a mia disposizione era terminato. Adesso andrò a coricarmi: ho esaurito il mio dovere di parlamentare del Polo e credo di aver mantenuto gli impegni assunti con il capogruppo.
La speranza - proseguiremo questa battaglia anche nelle piazze, nelle città e nei collegi - è che la gente capisca il vero volto di questo centro-sinistra che in tema di occupazione, di lavoro, di aiuto alla piccola e media impresa torna indietro invece di andare avanti.
Concludo ricordando che sono rappresentante di gruppo di alleanza nazionale nella Commissione politiche comunitarie. La relazione semestrale del Governo al Parlamento sulla fase ascendente del processo normativo nell'ambito dell'Unione europea teneva conto l'anno scorso (oggi non più: ne discuteremo nelle prossime settimane, quando la relazione arriverà alla Camera) dell'impegno che si era assunto per una riduzione del costo del lavoro, per un minore dirigismo, per ridurre l'imposizione fiscale alle imprese, per un minor peso burocratico. Oggi vi siete levati la maschera e vi dimostrate ancora più dirigisti ed autoritari rispetto al tessuto collettivo del nostro paese e a quello che hanno fatto altri Governi di centro-sinistra (Applausi dei deputati dei gruppi di alleanza nazionale e di forza Italia).

PRESIDENTE. Le avevo detto che avrei dovuto penalizzarla di tre minuti per il tempo impiegato dal collega Armaroli; lei invece ne ha impiegati due di più. È quindi inutile che mi spolmoni a raccomandare il rispetto dei tempi.
Ha chiesto di parlare l'onorevole Vitali, con il quale sarò più spietato, visto che ha una nota eloquenza, e che prego di rimanere nel limite di tempo prefissato.
Ne ha facoltà.

LUIGI VITALI. Presidente, mi auguro che non sarà necessario che lei eserciti il suo potere di interrompermi perché mi manterrò nei tempi, anche perché ritengo di essere l'ultimo di questa sera, ponendo


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così fine ad una giornata che ci ha visto impegnati da stamane nei lavori parlamentari.
Voglio fare alcune considerazioni. Dopo giorni di discussione sulla conversione di questo decreto-legge credo sia stato detto tutto.
Credo che non sia più possibile trovare argomentazioni nuove per sostenere l'errore che la maggioranza ed il Governo stanno facendo di voler a tutti i costi convertire un decreto che non risponde alle esigenze del mercato del lavoro.
L'aula è vuota ma sono convinto che qualcuna leggerà il resoconto stenografico ed è per questo che vorrei sollevare il problema istituzionale che riguarda i rapporti tra Camera dei deputati e Senato della Repubblica. Non è la prima volta che siamo costretti ad approvare, a causa dei termini in scadenza o a seguito di persuasioni dettate da logiche che non condividiamo, provvedimenti licenziati da questo ramo del Parlamento in un testo successivamente stravolto dall'altro ramo del Parlamento. Per esempio, pochi giorni fa abbiamo approvato il provvedimento sulle sezioni stralcio o quello riguardante la competenza per i provvedimenti disciplinari dei magistrati, che ha fatto la navetta tra Camera e Senato tre o quattro volte. In quest'ultimo caso abbiamo dovuto accettare la decisione del Senato di non accogliere nessuna modifica apportata da questo ramo del Parlamento.
È quanto avviene oggi poiché siamo chiamati a convertire un decreto-legge che il Governo ha presentato in un certo testo e che è stato letteralmente stravolto, nella forma e nella sostanza, nel corso dell'esame presso il Senato. Credo che questo problema vada posto una volta per tutte perché, se bisogna legiferare secondo l'indirizzo dettato dal Senato, facciamo pure una riforma istituzionale, ai sensi dell'articolo 138 della Costituzione, con la quale stabiliamo che è delegato a legiferare solo quel ramo del Parlamento perché è inutile cogliere i frutti del bicameralismo. Poiché così non è, e non può essere (potrebbe infatti essere vero il contrario, secondo l'indirizzo che sembrava aver assunto la Commissione bicamerale), dobbiamo stabilire una sintesi tra i lavori di questo ramo del Parlamento e del Senato pretendendo il rispetto e la pari dignità nei confronti dell'altro ramo del Parlamento.
Vorrei porre anche un problema politico relativamente al modo con cui si legifera, al modo in cui si svolgono i lavori parlamentari, al modo in cui il Governo usa e abusa dello strumento del decreto-legge, cercando, chiedendo e pressando, invitando l'opposizione al senso di responsabilità per ridurre la propria funzione con il pretesto che i tempi sono stretti, che, se non si converte il decreto nel testo approvato dal Senato, esso deve subire un'ulteriore esame, che non si fa in tempo ad approvarlo e così via.
Credo invece che vi sia una forma «maestra» per legiferare, quella del disegno di legge di iniziativa governativa e quella della proposta di legge di iniziativa parlamentare. Il decreto-legge deve essere uno strumento eccezionale e non si può dire che in questa fattispecie sia stato utilizzato da questo punto di vista, perché l'ultimo provvedimento di proroga per l'adeguamento a quella direttiva comunitaria alla quale il Governo si è rifatto allorché ha presentato questo decreto-legge era scaduto il 18 o il 19 gennaio (non ricordo bene) 1998. È trascorso quasi un anno, quindi un tempo quasi sufficiente per il Governo e per qualunque maggioranza per presentare un provvedimento, per farlo discutere approfonditamente nei due rami del Parlamento e quindi per approvarlo. Invece si è fatto ricorso al decreto-legge che il Senato ha tenuto per trenta giorni «accatastato» senza che se ne discutesse e, quando è giunto all'esame della Camera, è stata esercitata nella Commissione di merito una forte pressione che non ha consentito non solo una discussione approfondita ma nemmeno l'esame degli emendamenti presentati dall'opposizione. Questo è un problema politico che una volta per tutte si deve porre nel rispetto dei ruoli della maggioranza e dell'opposizione; ruoli che non sono - per lo meno per quanto riguarda l'opposizione - soltanto ostruzionistici


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e dilatori perché nella discussione al Senato gli appartenenti all'opposizione avevano già dichiarato di condividere in linea di massima la filosofia che il Governo aveva voluto sposare con questo decreto. Quando poi questo decreto-legge è stato completamente stravolto dagli emendamenti presentati dalla maggioranza, quel consenso e quella disponibilità che erano stati offerti immediatamente - perché si trattava di adeguare normativamente il mercato del lavoro e l'orario ordinario e straordinario alla direttiva europea del 1993 - sono venuti meno.
Nella restante parte della maggioranza si è poi riscontrato un comportamento agnostico, nonostante che, nella discussione in Commissione di questo ramo del Parlamento, si siano riscontrati giudizi negativi da parte di autorevoli esponenti della maggioranza; ma quando poi si è trattato di arrivare alla conta e di verificare l'atteggiamento definitivo del Governo e della maggioranza che lo sostiene queste voci libere, queste voci di dissenso oculato, motivato ed argomentato hanno fatto «spallucce» e per disciplina di partito hanno dovuto «ingoiare il rospo».
Noi, invece, non vogliamo comportarci in questa maniera per non creare ripercussioni sulle fasce produttive del nostro paese, non provocare una maggior disoccupazione e maggiori lacci e lacciuoli ai piccoli imprenditori e alle piccole imprese che rappresentano l'ossatura della nostra economia.
Si tratta, sì, di un problema politico ed istituzionale ma anche, signor Presidente, di un problema di merito. Noi non siamo d'accordo di convertire il decreto-legge con le modifiche apportate dal Senato.
Voglio quindi fare una sommaria cronistoria di questo provvedimento, che è stato motivato dalla direttiva comunitaria del 1993 e secondo cui l'orario di lavoro ordinario non avrebbe dovuto superare le 40 ore settimanali; nel momento in cui però vigeva una disciplina risalente al 1923 - che prevedeva invece un orario di lavoro ordinario di 48 ore settimanali - si rendeva necessario intervenire, così come è intervenuto il legislatore con la legge Treu del 1997, n. 196, secondo cui l'orario ordinario di lavoro avrebbe dovuto essere di 40 ore settimanali.
In sostanza, ci chiediamo che cosa vuole cambiare questo decreto-legge, che solleva protesta e opposizione, anche in termini di ostruzionismo (è una forma abusata, ma in questo caso è l'unica adatta per sostenere le nostre ragioni).
Nella formulazione iniziale data dal Governo a questo decreto-legge, pur rimanendo l'orario di lavoro ordinario a 40 ore, era tuttavia possibile espletare lavoro straordinario fino alla quarantottesima ora e soltanto dopo la quarantottesima ora era necessaria la notifica ai competenti uffici dell'Ispettorato del lavoro per gli accertamenti e le dovute giustificazioni.
Il Senato, invece, ha voluto mantenere tra la quarantunesima e la quarantottesima ora il livello di lavoro straordinario; ma ha altresì voluto imporre al datore di lavoro, dopo la quarantacinquesima ora, l'obbligo di darne notizia alle competenti istituzioni, all'ispettorato del lavoro e alle associazioni sindacali.
Quest'ultimo obbligo, in particolare, non è da noi condiviso visto che ci troviamo in un momento in cui il mercato del lavoro ha poco bisogno di leggi che stabiliscano e predeterminino il costo del lavoro, ma ha invece un gran bisogno di fantasia, di accordi bilaterali tra datore di lavoro e lavoratore senza l'intervento di associazioni sindacali o, perlomeno, senza l'intervento della «triplice sindacale». Semmai, con l'intervento delle associazioni interne alle aziende e che quindi non hanno quella rappresentatività nazionale che richiederebbe, invece, per la notifica il provvedimento in esame: è soltanto in questa maniera che si potrebbe creare un giusto mercato del lavoro. Non c'é bisogno di arrivare alla legge delle 35 ore in Italia per verificare che in alcune aziende ed in alcune zone del nostro paese già esistono contratti che prevedono l'orario settimanale a 36, 37 e 38 ore, senza che per questo sia stato necessario emanare una legge. Il che significa che, se noi andiamo a colpire quelle fasce produttive del nostro paese che creano realmente,


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in maniera solida e concreta, posti di lavoro (quali sono appunto le piccole e le medie imprese), non è sicuramente così che andremo ad incentivare l'occupazione e a creare delle aspettative che possano avere delle possibilità di trasformarsi in posto di lavoro.
Allora, in un momento nel quale non è sicuramente il posto fisso quello che può dare la pubblica amministrazione (perché nelle relazioni economiche di presentazione ai bilanci e alle leggi finanziarie sentiamo parlare di riduzione di posti di lavoro nella pubblica amministrazione), in cui i posti di lavoro non possono essere dati dalle grandi imprese (il caso recente della FIAT è clamoroso: un'azienda che, pur essendo stata beneficiata da questo Governo e da questa maggioranza con centinaia di miliardi, annuncia per il dicembre prossimo venturo la possibilità di mandare in cassa integrazione 35 mila operai), è certo che l'unica forma coerente e reale per creare occupazione è rappresentata da quella fascia di piccole e medie imprese che soltanto con una legislazione meno afflittiva e con un intervento meno pressante da parte dello Stato e del Governo possono sprigionare quelle potenzialità e quelle risorse che le possono rendere competitive non soltanto sul mercato nazionale, ma anche in quello europeo.
Oltre alle considerazioni di merito, occorre fare pure delle valutazioni logiche, che portano a dissentire dalla impostazione di questo provvedimento. Il testo in esame risulta infatti poco chiaro. Ad esempio, si può osservare che l'ultimo periodo dell'articolo 1, comma 1, primo capoverso, che attribuisce alla direzione provinciale del lavoro - settore ispezioni del lavoro competente per territorio - il compito di vigilare sull'osservanza delle norme recate da quell'articolo e di formulare - ove occorra - le opportune disposizioni, può generare difficoltà interpretative in ragione di una certa genericità che è insita in questa esposizione letterale.
Non è inoltre chiara la operatività della disposizione di cui al primo periodo del secondo capoverso che dispone che il ricorso al lavoro straordinario debba essere contenuto, stante la successiva individuazione di precisi limiti massimi inderogabili, a meno che esso non debba essere riferito alla fattispecie che sembra non essere esclusa da tali limiti quantitativi, ai sensi del terzo capoverso. Anche in tal caso, signor Presidente, si deve sottolineare la genericità della previsione, suscettibile di interpretazioni forse troppo discrezionali.
Vi sono infine - come ho già accennato - i problemi interpretativi in ordine al rapporto tra i limiti quantitativi inderogabili posti dal capoverso 2 e le fattispecie in cui il lavoro straordinario è ammesso ai sensi del capoverso 3. A tale proposito, appare quasi sicuro che gli straordinari ammessi per far fronte alle particolari circostanze previste dal capoverso 3 non incontrano il limite quantitativo di cui al capoverso 2, sia per ragioni sostanziali sia per la lettera della disposizione, che stabilisce che il ricorso al lavoro straordinario è inoltre ammesso, salva diversa previsione del contratto collettivo, in relazione alle fattispecie elencate.
Signor Presidente, queste sono delle carenze di ordine lessicale e anche di ordine logico, che creeranno sicuramente...

PRESIDENTE. Onorevole Vitali, la prego di concludere.

LUIGI VITALI. Non credo che vi siano altri colleghi iscritti a parlare.

PRESIDENTE. C'è un altro collega e comunque alle 24 dobbiamo concludere i nostri lavori.

LUIGI VITALI. Ho capito.

PRESIDENTE. Se fossero stati rispettai i tempi non si sacrificherebbero gli ultimi colleghi.

LUIGI VITALI. Presidente, credo di essermi attenuto ai tempi.


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PRESIDENTE. Lei si è attenuto ai tempi!
Prosegua pure.

LUIGI VITALI. Queste sono le motivazioni che ho cercato di portare al mio ragionamento, anche per dire che vi erano e vi sono ancora i tempi per poter procedere ad una modifica di questo provvedimento e ad una sua conversione nei termini nei quali il Governo inizialmente lo aveva proposto ai «danni» del Parlamento.
Queste sono le ragioni per le quali siamo contrari al provvedimento in esame e per cui sosterremo in tutte le forme e in ogni luogo la nostra posizione a sostegno delle nostre idee e dei nostri principi (Applausi dei deputati dei gruppi di forza Italia e di alleanza nazionale).

PRESIDENTE. Sarebbe ora iscritto a parlare l'onorevole Galeazzi. Egli ha ora due possibilità: o interviene adesso per pochi minuti (anche perché pure i dipendenti della Camera che hanno lavorato fino a quest'ora hanno i loro diritti), oppure potrà intervenire domani sera, per primo.

ALESSANDRO GALEAZZI. Presidente, il problema è che tutti abbiamo lavorato e, se qualcuno ha superato i tempi, non vedo per quale motivo io non debba svolgere il mio intervento.

PRESIDENTE. Il motivo è che i nostri lavori si concludono alle 24, perché è questo che è stato stabilito fin dall'inizio ed io mi sono sforzato di ricordarlo a tutti coloro che sono intervenuti. Comunque, svolga il suo intervento.

ALESSANDRO GALEAZZI. Presidente, parlerò domani sera per primo.

PRESIDENTE. Sta bene.
Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

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