Seduta n. 426 del 23/10/1998

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TESTO INTEGRALE DELLA DICHIARAZIONE DI VOTO DEL DEPUTATO GIORGIO REBUFFA SULLA QUESTIONE DI FIDUCIA

GIORGIO REBUFFA. In una fase di crisi politica e costituzionale come quella che il nostro paese sta vivendo, la formazione di un nuovo esecutivo ha effetti che debbono essere valutati in considerazione non dell'immediato, ma del medio e lungo periodo.
La formazione di un esecutivo ha oggi sul sistema italiano effetti analoghi a quelli che ha l'elezione del nuovo Presidente negli Stati Uniti d'America o la nomina del nuovo premier in Gran Bretagna: spostamenti di blocchi dell'elettorato, cambiamenti profondi nella geografia del potere, rimescolamento di sentimenti e di passioni.


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L'evento, insomma, non riguarda solo il Parlamento o l'esecutivo, ma coinvolge tutta la nazione.
Voglio affrontare subito una questione specifica, che è stata oggetto di una campagna polemica.
La formazione di questo esecutivo è costituzionalmente legittima.
Il Capo dello Stato si è mosso nella più rigorosa ortodossia costituzionale: alla fine di un'intensa e complessa fase istruttoria, ha conferito l'incarico di formare il Governo al segretario del principale partito della coalizione che ha vinto le elezioni, al quale è stato contestualmente assicurato l'appoggio parlamentare anche di un partito che non era parte della precedente maggioranza.
Il Governo presieduto dall'onorevole D'Alema nasce dopo una crisi breve e intensa, che si colloca temporalmente alla fine di un periodo critico, lungo e confuso, nel quale si sono verificati eventi politici sui quali è necessario che tutti riflettano con serietà.
Il primo punto da prendere in considerazione è che è crollata la coalizione che ha vinto le elezioni del 1996. È la fine dell'Ulivo.
Quel che più colpisce l'osservatore obiettivo, nella breve e intensa crisi, è però il fatto che il Polo non è intervenuto nella gestione della crisi, come è dovere dell'opposizione parlamentare.
Alcuni di noi, deputati di forza Italia, levarono all'inizio della crisi un appello al leader del Polo perché entrasse immediatamente nella partita politica e ne condizionasse l'esito, come tocca fare a chi ha la responsabilità di milioni di voti.
Ma ciò non fu fatto. Ed è colpa grave. Pare quasi una sconfitta voluta. Forse ci si era illusi davvero di ritornare alle urne. Si è dato credito alla tesi, inaccettabile nella forma di governo parlamentare, secondo cui se cambia la maggioranza, si va a votare. Si tratta a dir poco d'una ingenuità, perché, se una maggioranza ha i voti, fa il Governo e basta. Con questa e con altre simili illusioni si è cercato di dare legittimità culturale e sostanza politica alla fuga verso la demagogia.
Sono circolate nel Polo addirittura ipotesi aventiniane od ostruzionistiche. Poi si è sostenuta la tesi del «Governo illegittimo»: tesi del tutto infondata politicamente e costituzionalmente, in primo luogo perché i parlamentari non hanno vincolo di mandato, in secondo luogo perché la legittimità di un Governo scaturisce dalla fiducia dell'Assemblea. Qualcuno, poi, portando alle estreme conseguenze la teoria del governo illegittimo e prendendo spunto da alcune indiscrezioni, poi rivelatesi infondate, ha addirittura avanzato l'ipotesi di messa in stato d'accusa del Capo dello Stato, un'ipotesi assurda.
Mi spiace dirlo, ma non c'è bisogno dei costituzionalisti per sapere queste cose. Basta leggere un buon libro di educazione civica.
Ora, se un'opposizione, invece di cercare di guidare i processi parlamentari e le crisi politiche, si accontenta di gridare alla luna, allora, molto semplicemente, non esiste.
Resta qualche cosa che somiglia all'opposizione, ma che è l'esatto contrario dell'opposizione parlamentare. Questo qualche cosa si chiama «fazione».
Opposizione e fazione sono cose opposte. Una fazione è qualche cosa di viscerale, di extra-politico, o di pre-politico: è l'autodifesa a oltranza di un gruppo di individui, che si muovono entro orizzonti puramente soggettivi, sia quanto alle regole che quanto ai fini.
La faziosità è un disvalore assoluto nella democrazia parlamentare.
Fare opposizione è esattamente l'opposto che essere faziosi. Si rischia, invece, di lasciare via libera alle urla.
Si sono intenzionalmente solleticati gli istinti. Si è addirittura dovuto sentire l'elogio della faziosità.
Opposizione rigorosa non vuol dire opposizione facinorosa.
Il grande schieramento che è stato il Polo per le libertà rischia di trasformarsi oggi in una fazione impotente, una fazione che perde ogni funzione politica. Basta una citazione classica, di Plutarco: «La politica è quella tal cosa che toglie all'odio


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il suo carattere eterno e così facendo, grazie a Dio, subordina il passato al presente».
Questo Governo non va letto soltanto per il programma e per la struttura ministeriale. Certo, nel suo programma ci sono cose che ci piacciono e cose che non ci piacciono. Ma c'è un punto chiave che lo differenzia rispetto al Governo Prodi. Quel Governo aveva proclamato una posizione agnostica sulle riforme costituzionali, ovvero si era chiamato fuori dal principale nodo politico dell'Italia di fine secolo. Al contrario, questo Governo - lo voglio dire con enfasi - anche per la presenza al suo interno di un uomo come Giuliano Amato, si assume il compito e la responsabilità di riavviare la fase costituente, di fare le riforme costituzionali di cui il paese ha bisogno.
Il nodo delle riforme è un nodo politico, non tecnico. Non basta qualche ingegneria costituzionale. Non bastano soluzioni intelligenti. Quando siano stati sciolti i nodi politici, la Costituzione può essere rifatta con una scrittura privata.
La crisi della prima Repubblica è stata la scomparsa di un'intera classe dirigente e l'eliminazione di simboli che avevano fatto la nazione dal secondo dopoguerra in poi e che venivano da radici antiche. S'è dato vita, attraverso un sistema elettorale imperfetto, ad un meccanismo politico che per generosità o per retorica abbiamo chiamato «bipolarismo».
Si trattava, in realtà, di un «bipolarismo di emergenza». Occorreva rapidamente riempire i vuoti lasciati dalla distruzione di un'intera classe politica e di interi partiti.
Ora quel bipolarismo di emergenza è finito. La sua fine è stata segnata dal fallimento della Commissione bicamerale. Questa è naufragata a causa di una resistenza alle riforme che si è sviluppata trasversalmente ai due poli. Così, mentre da un lato gli interessi di partito, contrariamente a quanto si era stabilito, hanno prevalso su quelli delle riforme, dall'altro gli interessi del conservatorismo trasversale hanno prevalso anche su quello dei partiti, che pure, in quanto tali, avevano un qualche interesse a presentarsi come gli autori delle riforme costituzionali.
Nel naufragio della bicamerale è andata in pezzi la fragile geografia politica di questi ultimi quattro anni.
Tutti riscoprono la propria identità e il quadro politico è in continuo aggiornamento. In tale quadro alcuni cercano di accelerare i tempi per la costruzione del partito unico del Polo. Un suicidio politico perché toglierebbe al Polo quella diversità interna che prima abbiamo definito come la sua forza.
Col tempo è emerso quanta ipocrisia vi fosse in quella definizione: «bipolarismo». Questa crisi ha dimostrato che il bipolarismo in Italia non c'è, che dentro la debole cornice del bipolarismo si agitano progetti, umori e passioni che, avendo perso i punti di riferimento tradizionali, sono alla ricerca di nuove forme politiche, di nuovi soggetti e forse di nuovi leader.
Dobbiamo avere il coraggio di confrontarci con il fine vero, con il merito della questione, senza sfuggire nella demagogia o nelle sottigliezze teologiche.
Tutti, credo, abbiamo a cuore la costruzione di un sistema politico capace di prendere decisioni rapide, con responsabilità chiare e visibili.
Per trovare una risposta bisogna partire dal riconoscimento di un dato di fatto: nessun sistema politico può sopravvivere all'eliminazione di tradizioni, culture e storie che sono stati la carne, il sangue e le passioni di intere generazioni. E queste tradizioni sono in Italia soprattutto la tradizione socialista e la tradizione cattolico-liberale.
È dentro queste tradizioni, è grazie ad esse e, vorrei dire, solo con il loro permesso che in Italia può esserci il bipolarismo.
Se si pensa di sfuggire a questa verità - che è scritta, scolpita negli affanni che il sistema politico ha patito in questi anni - allora sì che si fa teatrino e non più politica, allora sì che comincerà il definitivo allontanamento della nazione dalla politica.
Una verità dolorosa. E chi si è fatto carico di dirla è stato addirittura additato come nemico proprio dalla persone alle


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quali si rivolgeva. Mi riferisco al Presidente Cossiga che, mentre a est crollavano i muri, richiamava il mondo politico italiano alla necessità di un ripensamento profondo del nostro sistema politico e costituzionale - un ripensamento che fosse coerente con la nostra storia, capace di accogliere in sé quanto era rimasto vivo della nostra tradizione politica e culturale sotto la calotta della guerra fredda. Da quel tempo, Cossiga ha periodicamente rilanciato la questione di quel tipo di rinnovamento politico-costituzionale. Oggi Cossiga ha trovato il suo interlocutore in Massimo D'Alema. Un paradosso? Può darsi. La storia italiana ne è piena. Ma non c'è dubbio che anche l'onorevole D'Alema si muove nella ricerca di una rifondazione del quadro politico-costituzionale che sia coerente con la nostra storia e le nostre tradizioni.
Non si può disconoscere all'onorevole D'Alema di aver lavorato e di star lavorando perché si realizzi l'obiettivo di un bipolarismo nato dalla storia del paese e non partorito artificiosamente da un sistema elettorale. E va al tempo stesso riconosciuto che questa operazione è possibile perché un gruppo di audaci ha scelto in questi anni difficili di mantenere in vita la tradizione del socialismo riformista italiano, di mantenere quel nome e quel simbolo che, anche grazie alla spregiudicatezza e al cinismo dei comunisti e dei post-comunisti, erano diventati segni di abominio.
Ecco, dunque, perché l'Ulivo è finito. È finito il progetto di una diluizione delle identità storiche della politica di questo paese dentro un contenitore elettorale-governativo.
Ma di fronte alla fine dell'Ulivo, come reagisce il Polo?
Se la crisi dell'Ulivo ha le caratteristiche del dramma, quella del Polo ha le caratteristiche della commedia degli equivoci.
Di fronte alla crisi dell'Ulivo, il Polo s'è arroccato nel propagandismo, ha fatto appello alla piazza, ha ridotto lo scontro politico a pura e semplice rissa, mostrando incapacità di cogliere i punti deboli dell'avversario e far leva su essi. Il principale di questi punti deboli è l'incapacità dell'Ulivo di dare sufficiente peso e spazio alle proprie componenti centriste e socialiste e di essere pienamente credibile agli occhi dell'elettorato di queste componenti. Rispetto a queste componenti il Polo avrebbe potuto esercitare una fruttuosa azione politica.
Ma io continuo a dire «il Polo...». Ma che cos'è il Polo? Ora, nell'autunno del 1998, esso appare come una coalizione d'«emergenza».
Il sistema politico è crollato sotto i colpi delle inchieste giudizarie, i punti di riferimento erano venuti meno, da una parte e dall'altra. Se Berlusconi non avesse deciso di dar vita a forza Italia e al Polo, la stessa sinistra sarebbe probabilmente rimasta vittima di se stessa, senza un avversario con cui confrontarsi, distrutta da una cultura di «regime» che si sarebbe fatalmente affermata.
Il Polo si chiamò di «centrodestra» perché in esso si riconoscevano tutti quelli che, per una ragione o per l'altra, avvertivano l'esigenza di contrapporre un ampio schieramento alla coalizione di forze centrata sull'ex PCI. Ma a votare per i candidati del Polo furono anche e soprattutto moltissimi elettori di quel «centro riformista», che va (andava?) dai liberali ai socialisti, dai repubblicani ai democristiani, e che aveva governato questo paese con risultati non disprezzabili e certamente con il consenso della stragrande maggioranza degli italiani.
Il Polo nacque dall'incontro di tre grandi filoni della nostra vita politica: il «centro riformista», in primo luogo, e cioè un mondo cresciuto nella cultura di governo e nella centralità della vita parlamentare; la «destra nazionale» e la cultura laico-libertaria.
La forza del Polo è stata finora quella di saper far giocare liberamente al proprio interno queste tre componenti. L'elettore socialista, democristiano, missino, liberale, repubblicano o radicale, votava magari per il candidato del Polo nel collegio uninominale, anche se questo veniva da una storia diversa dalla sua,


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perché in qualche modo si sentiva rassicurato dall'esistenza di una forte dialettica interna alla coalizione, «garantito» quasi del fatto che la sua identità politica e culturale non sarebbe stata negata. Ma era, come si diceva, una situazione di «emergenza». Non si votava tanto «per» la propria coalizione, ma «contro» l'altra.
Ora però le cose stanno rapidamente cambiando.
L'emergenza è finita, o sta finendo, e con essa il bipolarismo d'emergenza. Si può ipotizzare, o auspicare, che si vada verso un nuovo bipolarismo, con soggetti politici nuovi o rinnovati. Ma il dato di fatto è che la scomposizione dei poli è già cominciata.
Da qui la confusione. Invece di fare un'analisi rigorosa della situazione, si è preferito aggrapparsi al progetto del «partito unico», che è il vero suicidio politico del Polo.
«Barra al centro» disse l'onorevole Berlusconi al momento dell'insediamento del suo Governo nel 1994. Ma che cosa significa «centro»? Non credo che si intenda un centro puramente geometrico, come pura equidistanza politico-parlamentare fra destra e sinistra. Quando si parla di «centro» ci si riferisce alla politica di centro, che è la politica del cattolicesimo liberale e del riformismo europeo. Il Polo rischia di non essere più un punto di riferimento per chi si rifà ai valori ed ai programmi di quella politica.
Si può riempire la propria politica di tutti i contenuti, ma non si può essere antiparlamentari, non ci si può schierare contro le regole della politica.
Mi chiedo: c'è ancora spazio per una politica liberale e riformista all'interno di forza Italia? Ho la sensazione dolorosa che si tratti ormai di una domanda retorica.
È necessario oggi ricostruire il centro della politica italiana. Ma la ricostruzione del centro passa attraverso un processo di chiarificazione interna alla politica italiana. Una chiarificazione che il Presidente Cossiga non s'è limitato ad invocare, ma s'è anche assunto l'onere di mettere in moto, esponendosi, nell'evoluzione della crisi che ha portato alla formazione del nuovo Governo, a critiche di vecchi e nuovi avversari.
Al Presidente Cossiga va riconosciuto il merito di aver evitato che la crisi del Governo presieduto dall'onorevole Prodi degenerasse in un tracollo politico-istituzionale, in un momento particolarmente delicato della vita nazionale, oppure si risolvesse nel prolungamento dell'equivoco di un bipolarismo Polo-Ulivo fondato sull'ipocrisia e sulla poca chiarezza.
Nella polemica sulla formazione del Governo dell'onorevole D'Alema c'è un equivoco che bisogna chiarire. Si può essere contro il programma di questo Governo, contro il suo leader, i suoi ministri e le sue scelte. Ma bisogna riconoscere che l'incarico a D'Alema ha messo in moto un processo di chiarificazione all'interno del panorama politico. Ha chiarito una volta per tutte che la «transizione» non solo non è finita, ma anzi è appena cominciata. Finora ci siamo mossi nell'ambito del «bipolarismo d'emergenza». Ora è chiaro che i due poli sono del tutto inadeguati, che la geografia politica va completamente ridisegnata. Va sciolto il nodo politico della collocazione e del ruolo del «centro riformista», della sinistra socialdemocratica e della destra nazionale. Solo se si affrontano questi nodi politici con coraggio, è possibile realizzare le riforme costituzionali, che si collocano sempre a conclusione dei processi politici e non all'origine.
Oggi entro in quest'aula con un vincolo di appartenenza. Un vincolo non certo determinato dalla Costituzione che, al riguardo, pone il parlamentare in totale libertà, bensì da me ancora avvertito per ragioni che ineriscono alla mia storia e alla mia coscienza.
Rispetterò quel vincolo. Ma è l'ultima volta. D'ora in avanti mi considero sciolto da ogni vincolo, libero non solo di dissentire, ma anche di agire secondo quanto la coscienza mi detta.
In una fase come quella che stiamo vivendo è facile sentirsi confusi. Molte convinzioni si dissolvono, antiche certezze vengono messe a dura prova. In una fase del genere, tuttavia, posso dirmi sicuro di due cose.


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La prima è che mi riconosco solo con chi guarda alla storia e alla politica del nostro paese nella convinzione che, come ha opportunamente ribadito l'onorevole D'Alema ricordando Aldo Moro, il confronto tra valori e culture diverse sia un arricchimento per la nazione.
La seconda è che mi opporrò a quanti tentano di gettare la politica nelle fauci di mostri ricorrenti nella storia, attraverso un annullamento della funzione del Parlamento, delle istituzioni costituzionali e della politica stessa.
Sono, ovviamente, ben consapevole del significato di quello che ho detto. Me ne assumo, come è naturale, tutta la responsabilità e ne trarrò tutte le conseguenze.

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