Seduta n. 396 del 21/7/1998

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(Mancata riassunzione del signor Giuseppe Nardini da parte della ditta ILAS)

PRESIDENTE. Passiamo all'interrogazione Saia n. 3-01501 (vedi l'allegato A - Interpellanze ed interrogazioni sezione 6).
Il sottosegretario di Stato per la giustizia ha facoltà di rispondere.

ANTONINO MIRONE, Sottosegretario di Stato per la giustizia. In merito all'interrogazione presentata dall'onorevole Saia devo precisare che il nostro ordinamento consente alla parte che abbia ottenuto un provvedimento giurisdizionale munito di esecutività di instaurare un procedimento esecutivo davanti all'autorità giudiziaria per la realizzazione del diritto accertato in suo favore.
È pertanto necessario che la situazione giuridica riconosciuta in favore di un soggetto emerga esattamente dal provvedimento giurisdizionale, di guisa che ne risulti determinato e delimitato anche il contenuto del titolo e quest'ultimo sia suscettibile di essere eseguito in via coattiva.
Anche il procedimento esecutivo ha natura giurisdizionale. In particolare, in materia di lavoro e previdenza l'articolo 8 della legge n. 604 del 1966 prevede che, quando risulti accertato con sentenza che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno, versandogli un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
Quest'ultima è pertanto qualificata come un'indennità determinata dal giudice tra un minimo ed un massimo prestabiliti dalla legge per la cui quantificazione occorre anche tener conto del numero dei dipendenti, delle dimensioni dell'impresa e di altri parametri ed ha la funzione, ad un tempo, risarcitoria del danno conseguente al licenziamento illegittimo e sanzionatoria dell'inadempimento dell'obbligazione principale della riassunzione.
Debbo anche ricordare che l'articolo 8 che ho sopra citato si applica ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che occupano alle loro dipendenze fino a quindici lavoratori. Ove si tratti di datori di lavoro che occupano, nell'unità produttiva alla quale è addetto il lavoratore licenziato, più di quindici dipendenti, ovvero


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si tratti di datori di lavoro che abbiano globalmente alle loro dipendenze più di sessanta lavoratori, la legge ha previsto l'applicazione al lavoratore della cosiddetta tutela reale, disciplinata dall'articolo 18 dello statuto dei lavoratori.
Entro quest'ambito di applicazione, a fronte di un licenziamento illegittimo, il datore di lavoro è condannato sia alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro sia al pagamento di una indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto e comunque non inferiore a cinque mensilità a titolo di risarcimento del danno per il periodo che va dal licenziamento alla effettiva reintegrazione.
Si tratta anche in questa ipotesi di una indennità avente sia natura risarcitoria del danno subito dal lavoratore, sia natura sanzionatoria dell'inadempimento dell'obbligazione reintegratoria.
Per quanto riguarda gli strumenti processuali per la soddisfazione del diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, va comunque osservato che l'obbligo di reintegrazione è un obbligo di fare che, in quanto tale, è infungibile ed incoercibile. Pertanto, si deve ritenere che la condanna alla reintegrazione, in caso di inottemperanza da parte del datore di lavoro, sia nel nostro ordinamento insuscettibile di esecuzione in forma specifica. Resta comunque salvo il diritto del lavoratore ad ottenere l'indennità conseguente alla mancata riassunzione o reintegrazione.
Al riguardo devo altresì rilevare che, nel caso in cui la sentenza del giudice del lavoro riconfermata in Cassazione, accertata l'illegittimità del licenziamento, abbia condannato il datore di lavoro al pagamento di un determinato numero di mensilità di retribuzione, in base all'articolo 8 della legge del 1966 o in base all'articolo 18 dello statuto dei lavoratori, la sentenza costituisce valido titolo esecutivo da azionare, tuttavia, nelle sedi competenti da parte del lavoratore interessato.
Quanto, invece, ad una tutela penale, in caso di inosservanza delle sentenze pronunziate dal giudice, comprese quelle della suprema Corte, devo notare che i provvedimenti giurisdizionali riguardano sempre l'interesse particolare e non possono trovare una sanzione nell'articolo 650 del codice penale, che ha come oggetto specifico della tutela penale l'interesse generale concernente la politica di sicurezza.
Inoltre, in generale, i provvedimenti giurisdizionali sono eseguibili coattivamente, sicché non entrano nella sfera di applicazione dell'articolo 650 del codice penale. Costituiscono pertanto una eccezione i casi nei quali l'inosservanza dei suddetti provvedimenti è considerata dal legislatore un reato.
Con particolare riferimento al diritto del lavoro va osservato che il legislatore ha espressamente previsto la sanzione di cui all'articolo 650 del codice penale soltanto nell'articolo 38 dello statuto dei lavoratori, norma che riguarda la materia specifica dei licenziamenti antisindacali.
Il disposto di questo articolo, con cui viene stabilito che incorre nella contravvenzione di cui all'articolo 650 del codice penale il datore di lavoro che non ottemperi al decreto del pretore che ordina la cessazione della condotta antisindacale e l'immediata reintegrazione del dipendente licenziato nel suo posto di lavoro, è da ritenere non applicabile per i lavoratori che non rivestono all'interno dell'impresa incarichi sindacali.
Dalle considerazioni generali che ho svolto risulta chiaro che il nostro ordinamento a favore dei lavoratori ingiustamente licenziati e non riassunti o reintegrati a seguito di una sentenza di condanna alla reintegrazione o riassunzione nel posto di lavoro, stabilisce la sola sanzione pecuniaria prevista in via alternativa dall'articolo 8 della legge n. 604 del 1966 o dell'articolo 18 della legge n. 300 del 1970, non essendo la condanna, per le ragioni esposte, suscettibile di esecuzione in forma specifica.
Faccio poi presente che il ministro dell'industria ha osservato come le problematiche inerenti ai licenziamenti individuali esulino dalle sue competenze sicché di nessun elemento questa amministrazione del Ministero dell'industria ha


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comunicato di poter disporre in relazione all'atto di sindacato ispettivo di cui all'interrogazione in oggetto.
Dal canto suo il Ministero del lavoro ha portato a conoscenza del dicastero di grazia e giustizia che l'ufficio del lavoro e della massima occupazione territorialmente competente si è attivato per convocare un incontro con il legale del Nardini, cui si riferisce l'interrogazione, al fine di esperire ogni utile intervento per il bonario componimento della vertenza.
Lo stesso ministero ha però anche comunicato che l'iniziativa assunta dal locale ufficio per il lavoro non ha avuto riscontro da parte dello stesso lavoratore.

PRESIDENTE. L'onorevole Saia ha facoltà di replicare per la sua interrogazione n. 3-01501.

ANTONIO SAIA. Signor sottosegretario, debbo confessarle la mia assoluta insoddisfazione per la risposta data perché lei non ha fatto altro che leggermi gli articoli del codice. Le chiedo scusa, ma prima di presentare questa interrogazione mi sono preoccupato di leggere tali articoli, per cui li conoscevo già.
Signor sottosegretario, il punto è il seguente: le cose che lei ha detto rispondono assolutamente al vero, però il problema è un altro. A parte il fatto che non c'è soltanto una violazione dell'articolo 650 del codice penale ma, a nostro avviso, anche una violazione di quanto previsto dall'articolo 509, così come modificato, del codice penale; c'è poi da sottolineare una prima questione. In questo nostro paese c'è o non c'è un diritto? C'è stata una sentenza della Corte di cassazione, e quindi ci sono stati gli altri gradi di giudizio; ebbene, ci sarà in questo paese qualcuno che faccia rispettare le sentenze della suprema Corte? Un cittadino dinnanzi ad una sentenza della suprema Corte deve piegare la testa oppure deve accettare un concordato, un accordo che è sempre umiliante, come lo è quello proposto a quel lavoratore dall'ufficio del lavoro?
Signor sottosegretario, quest'ultimo avrebbe fatto bene a chiamare per l'accordo la ditta perché questa è inadempiente e sta violando una sentenza della Corte di cassazione oltre ad umiliare un lavoratore, rifiutandosi di pagare.
Signor sottosegretario, lei ha ragione, il nostro statuto non prevede obbligatoriamente (ed io spero che questa lacuna venga colmata al più presto) che, dopo una sentenza di condanna del datore di lavoro, vi sia la riassunzione nel posto di lavoro. Un essere umano non vuole solo percepire lo stipendio ma, se è stato licenziato ingiustamente, ha il diritto di tornare al lavoro! Ed io le dico che questo lavoratore è stato licenziato perché stava denunciando degli sconvolgimenti ambientali, degli scarichi abusivi da parte dell'azienda. Mi auguro che lei, signor sottosegretario, come rappresentante del Ministero di grazia e giustizia si attivi affinché si arrivi all'introduzione di una norma che preveda obbligatoriamente che, dopo una sentenza di condanna del datore di lavoro, il lavoratore venga riassunto.
È vero, come ho appena detto, che attualmente non esiste questo obbligo, tuttavia c'è quello di pagargli lo stipendio. In altri termini, se un'azienda, in violazione di una legge, non vuole riconoscere la sua colpa, dovrà versare al lavoratore che sta a casa uno stipendio mensile. Su questo le chiedo formalmente (e domani presenterò un'altra interrogazione al riguardo), di avviare un'indagine. Come può un'azienda che paga 30-40 operai mese per mese, come può un'azienda che produce non avere niente, come risulta quando si vanno a fare dei sequestri? L'azienda ha tutto in leasing, tutto ipotecato, fa finta di non avere niente; però, mese per mese ha i soldi per pagare gli operai. Allora, se hai i soldi per pagare gli stipendi agli altri operai, quei soldi da dove provengono? Sono in nero? Su quale conto stanno?
Lei, come sottosegretario di Stato per la giustizia, ha il dovere di indagare! Questo lavoratore deve essere pagato con lo stipendio insieme agli altri, finché l'impresa non vorrà piegare la testa e riconoscere i suoi torti. Non è possibile che questo operaio, solo perché ha la


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dignità di alzare la testa, di non arrendersi, di non accettare compromessi da sei anni, debba vedere la sua famiglia umiliata, i suoi figli che muoiono di fame, la casa e i mobili ipotecati! Questo perché ha il coraggio di ribellarsi in questo paese dove il lavoro non ha più diritti.
Allora, signor sottosegretario, mi appello alla sua sensibilità. La prego veramente, perché domani presenterò un'altra interrogazione: si avvii subito un'inchiesta su quell'azienda, si veda perché, con tutte le ipoteche che ha, mese per mese paga i lavoratori e produce i suoi trafilati metallici. Dimostra sempre di non avere soldi, non ha mai nulla da ipotecare; ci sono fondi in nero? Dove sono depositati? Da dove vengono prelevati? Quale trafila fanno per arrivare improvvisamente alla banca, per comparire e scomparire? Questi fondi non ci sono mai quando gli avvocati li vanno a richiedere, però puntualmente sono presenti quando l'azienda deve pagare altri dipendenti.
Allora l'azienda deve includere nell'elenco degli operai da pagare mese per mese anche l'operaio Nardini Giuseppe. Questo paese ha il dovere di far rispettare la legge perché, se questo non avviene, veramente rischia nella mentalità del popolo italiano di perdere ogni credibilità. I ministri, persino il Presidente della Repubblica è stato interpellato su questa vicenda; se non hanno la forza di far rispettare la legge, allora vuol dire che questo Stato perde in credibilità.
Le rivolgo, signor sottosegretario, un appello accorato, perché questo è il simbolo di un uomo che non si piega; sta pagando con la fame sua e della sua famiglia, ma non si piega per affermare il proprio diritto. Il motivo per cui quell'azienda lo ha licenziato e non lo vuole riassumere è che quell'uomo ha avuto il coraggio di essere un homo erectus, di drizzare la schiena e di denunciare alcuni abusi all'interno della fabbrica.
Questa è la verità e queste sono le motivazioni per cui in tutti i gradi di giudizio - dal pretore, all'appello, fino alla Cassazione - gli è stata data ragione.

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