![]() |
![]() |
![]() |
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali della mozione.
TIZIANA MAIOLO. Signor Presidente, signor ministro, signori deputati, la mozione in discussione è stata sottoscritta da numerosi deputati ed è stata presentata il 30 ottobre 1997, a seguito di una serie di fatti molto gravi: tre importantissimi collaboratori di giustizia (Di Maggio, La Barbera, Di Matteo) erano stati arrestati mentre compivano reati molto gravi. Gli episodi di cui si erano resi protagonisti non erano né i primi né gli ultimi commessi da parte di collaboratori di giustizia.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Acierno. Ne ha facoltà.
ALBERTO ACIERNO. Signor ministro, ho firmato questa mozione condividendo la maggior parte delle cose dette dalla collega Maiolo; vorrei però puntualizzare un aspetto che ritengo importante e che va al di là delle problematiche legate ai processi che si stanno svolgendo, basati quasi tutti sulle informazioni dei pentiti.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Lumia. Ne ha facoltà.
GIUSEPPE LUMIA. Presidente, sottosegretario, colleghi...
GIOVANNI MARIA FLICK, Ministro di grazia e giustizia. Mi ha degradato!
GIUSEPPE SCOZZARI. Siamo troppo abituati ad avere sottosegretari!
GIUSEPPE LUMIA. Mi scusi, ministro: eravamo abituati alla presenza del sottosegretario Corleone su questo tema, comunque apprezzo molto la sua presenza.
PRESIDENTE. Constato l'assenza dell'onorevole Giovanardi, iscritto a parlare: si intende che vi abbia rinunziato.
SERGIO COLA. Signor Presidente, signori colleghi, è davvero strabiliante avere ascoltato quanto ha detto Lumia in questo momento; strabiliante perché il suo discorso è una distorsione completa del pensiero della Maiolo, esposto in modo compiuto nella mozione di cui ci stiamo oggi interessando. Ma noi non siamo assolutamente qui a difendere o attaccare alcuna procura, tanto meno quella di Palermo.
PRESIDENTE. Scusi, onorevole Cola...
SERGIO COLA. Ho finito, Presidente.
PRESIDENTE. No, lei può anche proseguire, poiché sta parlando da diciotto minuti. Però le ricordo che deve prendere la parola anche il suo collega Fragalà.
SERGIO COLA. Ho finito, Presidente.
La prima iscritta a parlare è l'onorevole Maiolo, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00202. Ne ha facoltà.
I deputati presentatori della mozione hanno considerato molto positivo che essi siano stati arrestati e che sia stato usato nei loro confronti un criterio equo, rispetto a tutti gli altri cittadini, anche se si trattava di collaboratori di giustizia in processi molto importanti. Nello stesso tempo, però, i presentatori della mozione erano molto preoccupati (e lo sono tuttora, perché non ci pare che i problemi di allora siano stati superati) per come si erano svolti i fatti. Ripercorrerò in modo molto sintetico i fatti che portarono all'arresto del collaboratore Di Maggio.
A questi arresti si era arrivati a seguito di una serie di intercettazioni telefoniche effettuate dai carabinieri, che avevano scoperto la presenza di questi collaboratori di giustizia in luoghi collocati tra Altofonte e San Giuseppe Jato, zone molto pericolose per la loro incolumità. Ci si domanda come mai il signor Di Maggio, per esempio, avesse potuto tornare con tanta tranquillità nei luoghi ove sicuramente avrebbe rischiato la vita.
Ho riletto i giornali dell'epoca. Su l'Unità si disse che la gente sapeva: il ritorno di Di Maggio (detto il «ritorno di Zorro») era nell'aria. Il direttore generale del servizio di protezione, dottor Cirillo, ha raccontato nella sua deposizione di qualche mese fa davanti alla Commissione parlamentare antimafia che dal 1994 il servizio aveva segnalato agli organi competenti (Ministeri dell'interno e di grazia e giustizia, procura di Palermo e così via) per ben sei volte il fatto che il signor Di Maggio teneva comportamenti a rischio, frequentava pregiudicati, si spostava dal luogo segreto nel quale viveva protetto.
Credo che Giovanni Brusca non sia ancora considerato collaboratore di giustizia a pieno titolo; non so bene se sia dichiarante o collaborante. Comunque, recentemente (esattamente il 4 giugno di quest'anno, nel corso di un altro processo a Perugia) ha raccontato - per quanto può essere credibile - che nell'agosto 1996, mentre deponeva al processo cosiddetto Agrigento più 51, aveva saputo: «...mi pare dalla televisione, del tentato omicidio di quel tale, Giuseppe Falcellaro. Ho capito subito. All'aeroporto, mentre mi portavano in carcere, ho detto all'ispettore che comandava la scorta: "Io so chi gli ha sparato. Questa è opera di Balduccio Di Maggio"». Alla domanda se lo avesse detto ai giudici Giovanni Brusca rispose: «Ma certo: dieci, cento volte; ci sono i verbali. L'ho detto ai magistrati» - chiama giudici i procuratori. Pazienza: lo fanno in tanti - «ai procuratori di Palermo, Caltanissetta, Firenze». In sostanza Brusca ha detto che era senz'altro opera di Di Maggio: è un'altra testimonianza. Per carità, non voglio dire che sia oro colato, ma comunque c'era.
Se vogliamo risalire ad ancora prima, nel 1995 vi era stata da parte dell'onorevole Fragalà una segnalazione a tutti gli organi competenti: il collega aveva ricevuto alla Camera i testi di alcune intercettazioni telefoniche effettuate dai carabinieri, dalle quali risultava che fin dal 1993, cioè da un'epoca immediatamente successiva all'arresto, il signor Di Maggio manteneva rapporti con la sua cosca. Si ha la sensazione che i rapporti di tipo criminoso non siano mai cessati.
Signor ministro, mi rivolgo soprattutto a lei ed avrò piacere di sentire quello che avrà da dire: la memoria ci va a quasi dieci anni fa, cioè alla vicenda Contorno. Nel 1989 il signor Contorno, che doveva stare negli Stati Uniti, fu arrestato, armato fino ai denti, a San Nicola Larena, dove erano stati ammazzati 17 corleonesi, cioè suoi nemici.
Anche nello stesso periodo in cui Di Maggio si trovava a San Giuseppe Jato, o
comunque nella zona, accadevano fatti delittuosi molto gravi (un tentato omicidio, un omicidio ed altri). Capita poi anche un'altra analogia: Contorno fu arrestato, come dicevo, nel 1989 e poi, di nuovo, un anno fa - su questo vorrei dire poi due parole - e, invece di indagare sul perché un criminale mafioso che doveva trovarsi negli Stati Uniti invece si trovasse in un luogo dove erano stati ammazzati 17 suoi avversari di cosca, si montò tutto il polverone del «corvo» e si perse tempo ad indagare su chi aveva mandato certe lettere, anziché indagare sui 17 omicidi.
Anche in questa circostanza si è addirittura criminalizzato l'onorevole Fragalà, per non parlare poi dei giornalisti. Giusto ieri o ieri l'altro ho visto sul quotidiano Il Foglio una lettera di un giornalista che lamentava un certo comportamento della procura di Palermo, in occasione dell'interrogatorio di cinque giornalisti che avevano pubblicato notizie su Di Maggio e che erano stati sottoposti a vessazioni, con allusioni al fatto che allora si arrestava per false dichiarazioni al pubblico ministero. Quindi, di nuovo un polverone per non fare chiarezza sugli avvenimenti.
Credo, allora, che la situazione sia molto grave, innanzitutto perché forse si sarebbero potuti evitare degli omicidi: ricordo che la vita umana è sacra sempre, a chiunque appartenga, anche se è quella di personaggi che commettono reati o di mafiosi.
Come dicevo, vorrei fare un breve accenno a Contorno, sempre per verificare se vi siano responsabilità. Un anno fa Contorno è stato riarrestato mentre, tra una deposizione processuale e l'altra, faceva traffico di droga. Ho già detto queste cose in quest'aula in un'altra circostanza, alla presenza del sottosegretario Sinisi, ma mi piace ripeterle anche al ministro Flick.
Sei mesi prima dell'arresto di Contorno in un processo che riguardava un imprenditore, relativo sempre ad un traffico di cocaina, fu esibito un rapporto di un maresciallo dei carabinieri del paese segreto in cui risiedeva Contorno, nel quale si parlava già dell'implicazione di quest'ultimo in un traffico di cocaina. Questo avveniva sei mesi prima del suo arresto. Se vi è stata una deposizione di un maresciallo dei carabinieri in un pubblico dibattimento, è chiaro che quella era una notizia pubblica. E se era una notizia pubblica, che uso ne hanno fatto le autorità competenti? Come mai non hanno immediatamente disposto indagini ed eventualmente arrestato il signor Contorno?
Chiudo la parentesi e torno al tema generale. Nell'occasione dell'arresto del signor Di Maggio, il procuratore aggiunto di Palermo, Lo Forte, disse che quella non era un'indagine sui pentiti, ma sulla mafia. Vorrei innanzitutto rilevare che le procure della Repubblica non devono indagare su fenomeni, ma su fatti (mi sembrava infatti un po' strano che si potessero avviare indagini sul fenomeno mafioso). In ogni caso, anche se ci si esprime in termini non giuridici, se era in atto un'indagine sulla mafia, allora i signori arrestati erano mafiosi, cioè persone che non hanno cambiato vita né comportamento. Essi, quindi, non sono collaboratori dello Stato, bensì un'altra cosa, ossia mafiosi che commettono i reati che di solito vengono compiuti da mafiosi.
Mi domando come mai, in contraddizione con quanto detto dal procuratore aggiunto Lo Forte, il procuratore capo di Palermo, Caselli, in quella stessa circostanza disse che questi collaboratori erano ancora da considerare attendibili. Mi domando come li si possa considerare testimoni attendibili, nel senso di collaboratori dello Stato. Sappiamo che l'imputato può dire la verità o meno, tacere e fare tutto quello che vuole, ma un teste della corona deve essere per forza attendibile. Se una persona passa le giornate andando in giro a ricostruire il potere mafioso sul territorio e a commettere o a far commettere omicidi, quella persona non è più un teste della corona. Nei paesi anglosassoni questo signore non sarebbe più un collaboratore di giustizia; invece, in Italia, il procuratore della Repubblica dichiara che è ancora un teste attendibile. Non c'è bisogno di essere troppo maliziosi per capire che, siccome il signor Di Maggio è
un teste fondamentale a carico, per esempio, del senatore Andreotti, ma non solo, è considerato tale per motivi politici.
Signor Presidente, signor ministro, colleghi, mi preoccupo se, in nome della ragione politica e della necessità di sostenere un'accusa in un processo politico, addirittura lo Stato e la magistratura assumono un atteggiamento supino e passivo, quando potrebbero evitare la commissione di reati: questo è molto grave, perché esiste il dovere di evitare che essi vengano commessi. È molto grave che non vi sia trasparenza e lamento il fatto che di questi episodi gravissimi non si sia potuto parlare ancora in quest'aula, non se ne sia potuto parlare nemmeno nella Commissione bicamerale antimafia. Peraltro nessun ministro ha risposto alle interrogazioni presentate in materia, addirittura nella precedente legislatura: una responsabilità, almeno questa, che non posso attribuire né al ministro Flick, né al Governo di cui fa parte.
Nemmeno in occasione della vicenda delle intercettazioni consegnate dall'onorevole Fragalà - si era nel 1995 - si è saputo nulla. Le interrogazioni parlamentari che abbiamo presentato alcuni mesi fa non hanno avuto risposta e personalmente sono stata costretta a cogliere l'occasione di una interrogazione su due mafiosi siciliani, o presunti tali, arrestati in Sardegna mentre commettevano un'estorsione, per denunciare che numerose agenzie di stampa (ho qui con me un fascicolo molto voluminoso) disponevano di un elenco smisurato di collaboratori di giustizia dal quale risultava che commettevano reati mentre erano sottoposti al programma di protezione, reati che vanno dall'omicidio allo stupro, dall'estorsione e alla rapina, dal traffico di droga ai reati più disparati.
Con questa mozione abbiamo chiesto alcuni interventi al Governo che dovrà attuarli se questa Assemblea riterrà di approvarla. Abbiamo chiesto innanzitutto trasparenza e chiarimenti sulle responsabilità istituzionali (se vi sono) su quanto è accaduto, e soprattutto abbiamo chiesto l'impegno a che episodi del genere non accadano più, o per lo meno a fare di tutto affinché non si ripetano. Infine, abbiamo chiesto iniziative sul piano legislativo.
Indico in modo sintetico e per titoli quelle che secondo me potrebbero essere le iniziative più urgenti sul piano legislativo per quanto attiene ai collaboratori di giustizia. Per quel che concerne il sistema di protezione, propongo la revoca automatica ed immediata del programma di protezione in caso di violazione delle regole a cui il collaboratore deve sottoporsi. Per quel che riguarda la prova, propongo l'abolizione dei colloqui investigativi, contro i quali mi sono battuta dal 1992 quando la norma venne approvata; è una abolizione che viene richiesta anche dal procuratore nazionale antimafia, dottor Vigna; inoltre, ho letto anche una interessante intervista del procuratore di Caltanissetta Tinebra, che si diceva d'accordo sulla abolizione dei colloqui investigativi. Suggerisco altresì il divieto, con la pena della nullità degli atti, per gli avvocati di assumere difese di più collaboratori per gli stessi fatti o su fatti connessi. Propongo poi la valutazione - questo è persino lapalissiano, ma pare vi siano dei problemi anche su tale punto - delle dichiarazioni dei collaboratori congiuntamente ad elementi di prova estranei alle dichiarazioni medesime.
Signor Presidente, so che al Senato la riforma sulla questione dei collaboratori di giustizia è a buon punto, anzi è quasi al punto di arrivo. Tuttavia, credo che le riforme siano importanti, ma reputo altrettanto importante che le riforme vengano applicate. Inoltre, secondo me è anche molto significativo che questa Assemblea ed il Governo rivolgano delle parole chiare all'opinione pubblica.
Ho letto gli esiti di una indagine del CENSIS sulla giustizia, dalla quale risultava che, in particolare sulla questione dei collaboratori di giustizia, il 63,5 per cento degli intervistati nutrirebbe una preoccupazione sui pentiti sia sotto il profilo etico che per gli effetti delle dichiarazioni sullo svolgimento delle indagini. Ebbene, non so se questo strumento sia importante -
perché è prassi definire un certo strumento importante e poi criticarlo - ma dobbiamo fare in modo che sia utile. Mi pare che negli Stati Uniti si usi tale strumento da circa 27 anni, anche con qualche risultato. Cerchiamo almeno di prendere da esperienze di altri paesi, che abbiano dato risultati positivi, gli aspetti migliori.
Infatti, ho l'impressione che stiamo facendo dei grandi pasticci. Sì, signor ministro, vedo che lei sta corrugando la fronte, ma noi stiamo facendo dei grandi pasticci. Difatti, ho l'impressione che vi sia una grossa caduta di professionalità per quanto riguarda una parte della magistratura. Reputo soprattutto che ci sia troppa ideologia per cui, per raggiungere una certa finalità si debbono a tutti i costi fare in Sicilia talune indagini su determinati soggetti politici. Non voglio neanche citarli, perché altrimenti si potrebbe alzare qualche deputato della maggioranza a dire che difendo i miei colleghi di partito.
Ebbene, che si indaghi su chi si vuole, si indaghi pure tutti i giorni su chiunque, però se succedono episodi come quelli di Di Maggio, si abbia il coraggio, che rappresenta la forza delle istituzioni, non la sua debolezza, di dire: abbiamo sbagliato, questo signore da oggi non è più un collaboratore di giustizia, bensì un mafioso ed assassino, che verrà processato e, se ritenuto colpevole, condannato per i reati che gli vengono imputati. È quanto si deve avere il coraggio di dire. Non si deve invece affermare: questo signore ha commesso degli omicidi ed ha ammesso di averne commissionati degli altri, inoltre è stato sorpreso dove non doveva trovarsi, quindi vi è qualcosa che non ha funzionato nel servizio di protezione, ma noi chiudiamo un occhio perché questa persona forse ci consentirà di condannare il senatore Andreotti o qualcun altro.
Lo Stato, se è forte, la magistratura, se è forte, devono avere il coraggio di liberarsi di queste zavorre e per zavorre intendo anche i processi fondati sulle ideologie e non sulle prove.
In Sicilia l'attuale legislazione sui pentiti sta creando un grave problema all'economia sana dell'isola ed all'occupazione. Quando un pentito, che fino a ventiquattr'ore prima non solo non era tale ma non era neanche considerato mafioso, perché operatore economico, viene arrestato in quanto ritenuto mafioso, e quindi, appunto, si pente, coinvolge nel suo pentimento decine di persone. Troppo spesso, dopo sei, dieci o dodici mesi queste persone - e lei signor ministro lo sa bene - vengono riconosciute assolutamente estranee ai fatti che gli erano stati addebitati. Purtroppo in Sicilia tutto questo sta impoverendo il tessuto economico. Il giorno dopo l'arresto di una persona con l'infamante accusa di essere organica a Cosa nostra, accusa gravissima, il sistema bancario interviene chiudendo i rapporti con quella persona e la sua azienda. Di conseguenza gli occupati diretti ed indiretti vengono messi in mezzo ad una strada, per poi sapere, dopo un anno, un anno e mezzo, che invece quella gente non c'entrava nulla, che era stato un errore, mentre quelle persone sono andate in galera.
Glielo dico da siciliano: ringrazio la magistratura per le grandi cose che ha fatto fino ad oggi; negli ultimi vent'anni la giustizia italiana ha fatto passi da gigante nella lotta a Cosa nostra, e di questo la ringrazio. Ma non possiamo correre il rischio di fare di ogni erba un fascio, soprattutto quando si sente portare sempre più avanti una teoria devastante, secondo la quale non bisogna investire nei territori del Mezzogiorno ed in Sicilia perché non si farebbe altro che favorire la mafia. È un teorema che è stato ripetuto
soltanto qualche giorno fa e che è pericoloso perché sappiamo tutti che la mafia cresce dove c'è povertà, che la disperazione porta i giovani a delinquere.
Un occhio all'attuale legislazione, signor ministro; credo che la gestione del pentito sia importante per tentare di risolvere il problema della mafia, ma non dobbiamo più correre il rischio che un pentito una mattina possa «consumare» le persone, alle quali poi si dice semplicemente: scusate, abbiamo sbagliato. Questo sta facendo pagare alla Sicilia e al suo popolo un doppio prezzo. Il siciliano, dopo aver pagato il prezzo della presenza della mafia, sta oggi pagando quello della presenza di un'antimafia che spesso e volentieri è in errore. La ringrazio, signor ministro.
Anche a leggere più volte la mozione mi è stato difficile cogliere in essa la necessità di affrontare con lucidità e una certa dose di obiettività la questione aperta dei collaboratori di giustizia.
Il testo è certamente datato e lascia trasparire ancora una volta il tentativo di creare confusione e di nascondere il vero obiettivo: attaccare la procura antimafia di Palermo, minare la credibilità del suo capo, il qualificato e onesto dottor Caselli, e fare tabula rasa dello strumento dei collaboratori di giustizia.
La prima parte della mozione è scritta con lo stile tipico dell'interrogazione parlamentare e riguarda la vicenda legata al ritorno all'azione criminale di alcuni collaboratori di giustizia (Di Maggio, La Barbera, Di Matteo) e in essa vengono ricostruiti fatti che ormai sono stati chiariti e definitivamente accertati e che oggi svelano solo l'inconsistenza e tutta la strumentalità tipica del modo di lavorare per teoremi e per pregiudizi, tra l'altro in netta contraddizione con quanti dei firmatari si dichiarano attenti alle logiche del garantismo e della valutazione puntuale dei fatti.
Di Maggio, La Barbera e Di Matteo non sono stati né protetti impropriamente né utilizzati illegalmente dalla procura antimafia di Palermo, anzi quest'ultima ha puntato su di loro la propria attenzione già in tempi non sospetti, cioè anche quando non si disponevano di elementi consistenti ai fini della notitia criminis. Ci risulta infatti che già dall'aprile 1997 era stata disposta un'indagine preventiva da parte della procura diretta con intelligenza da Caselli volta a verificare il fondamento di voci diffuse nel paese di San Giuseppe Jato circa possibili attività illecite di persone legate a Di Maggio.
Anche precedentemente, nel settembre 1996, sempre la procura aveva richiesto al servizio centrale di protezione una forma di controllo più stringente e quotidiana nei confronti di Di Maggio; stessa attività di maggiore controllo e attenzione aveva svolto, sempre in quel periodo, il servizio centrale di protezione.
È ben strano sostenere, come fa l'onorevole Maiolo, da un lato, l'uso dei pentiti di Palermo in modo spregiudicato, al punto di consentire loro di uccidere e di riorganizzarsi nelle forme mafiose e, dall'altro, non fare i conti con il dato di fatto: chi ha indagato e smascherato il ritorno all'attività criminale di Di Maggio, Di Matteo e La Barbera è proprio la procura di Palermo. È facile constatare pertanto il forte impegno della procura antimafia volta a lavorare secondo le regole del diritto, senza avere dubbi né incertezze, anche quando hanno dovuto incriminare collaboratori di giustizia che pure hanno avuto un ruolo importantissimo nel fornire notizie utili e verificate in diversi processi nei confronti di Cosa nostra.
Lo stesso riferimento al cosiddetto dossier dell'onorevole Fragalà, contenuto nella mozione, non ha nulla a che spartire con il ritorno al crimine di Di Maggio e di altri collaboratori, come era già stato comunicato dalla procura di Palermo alla Commissione parlamentare antimafia, presieduta allora dall'onorevole Parenti. A suo tempo quel dossier, reso pubblico in un altro periodo storico - nel 1995 - piuttosto che a smascherare presunte deviazioni e l'uso improprio dei collaboratori di giustizia è di fatto servito a bloccare un utile autorizzato collegamento tra il Di Maggio, allora seriamente collaborante, e il Reda, di San Giuseppe Jato, per recuperare notizie utili sui latitanti, in particolare su Giovanni Brusca.
Non possiamo davvero condividere la premessa alla mozione ed alcuni dispositivi diretti al Governo, anzi scorgiamo in essa una linea politica che il paese ormai conosce bene. C'è infatti una parte del centro-destra che in questi mesi si è impegnata maggiormente a demolire le strutture dell'antimafia piuttosto che la mafia stessa. La nostra idea è che intorno alla mafia vada creato un clima diverso - operoso, incalzante - in grado di fornire alle forze di polizia, ai magistrati, al mondo del volontariato, ai cittadini, agli amministratori locali, un approccio globale ed integrato fra più vie e più strumenti, al fine di colpire il fenomeno criminale in tutte le sue manifestazioni. Il vero pericolo sono le mafie, la loro organizzazione ed evoluzione strategico-organizzativa, il perdurare della loro pericolosità e non i collaboratori di giustizia e non addirittura il dottor Caselli e le procure impegnate in questa direzione.
Il nostro paese ha bisogno di un ulteriore sforzo corale nella lotta alla mafia e di una verifica serena degli strumenti fin qui adottati, non per lanciare segnali di arretramento, ma per poter disporre di migliori strumenti e per avanzare ancora nella lotta alle mafie.
Dobbiamo fare un salto di qualità. Non devono essere più le stragi ed una opinione pubblica esasperata a far scattare l'allarme e a far impegnare maggiormente le istituzioni in una forte azione repressiva, come è accaduto nel 1992 quando furono uccisi Falcone, Borsellino e gli uomini delle loro scorte o in altri periodi quando vi furono uccisi magistrati, esponenti delle forze dell'ordine, giornalisti ed uomini politici. Dobbiamo mobilitarci nei confronti di quella mafia che fa affari con la droga e uccide tanti giovani; della mafia che si intreccia con gli appalti e distrugge città e la possibilità di creare vere infrastrutture; della mafia che corrode le istituzioni, che controlla il traffico dei rifiuti e il traffico di armi, che strozza l'economia legale con il racket e l'usura...
Insomma, l'attuale classe dirigente, di maggioranza e di opposizione, non può e non deve sbagliare approccio nella lotta alla mafia. Non si devono fare gli stessi errori degli anni ottanta, quanto la classe dirigente - quella migliore - sottovalutò il fenomeno o quando una parte significativa di dirigenti politici si legò, in questo clima di sottovalutazione, alla mafia, in un vincolo perverso che ha dissanguato pezzi notevoli della nostra democrazia ed ha impedito lo sviluppo e il vivere civile di interi territori del nostro paese. Se vi è unità contro la mafia e non divisioni o assalti continui a parti significative dell'antimafia, si può aprire un confronto sereno e sicuramente più efficace nei confronti degli strumenti legislativi che ci hanno aiutato tantissimo nel rispondere alla strategia destabilizzante e stragista di Cosa nostra, culminata nel 1993 con gli attentati di Roma, Firenze e Milano.
In quest'ottica, si potrebbero migliorare le misure di prevenzione, le leggi antiusura e anti-racket, la legge sulla confisca dei beni mafiosi e quella sul riciclaggio, che sono strumenti importantissimi per colpire l'aspetto economico e le ricchezze delle varie mafie! La Commissione parlamentare antimafia sta dedicando a questo aspetto grande attenzione. Lo stesso Governo sta concentrando una notevole attenzione su questo versante.
Con un diverso clima politico potremmo fare di più e meglio!
Sui collaboratori di giustizia, non ci sottraiamo alla necessità di una verifica per modificare la legge e per adattarla
alla nuova fase del conflitto delle organizzazioni criminali con le istituzioni. Per noi l'istituto dei collaboratori rimane importante e non lo vogliamo distruggere né ridimensionare, come le parole e gli atti quotidiani dell'onorevole Maiolo fanno intendere! Per essere ancora più espliciti, per noi democratici di sinistra lo strumento dei collaboratori di giustizia è una risorsa e non un vincolo «dannato» della lotta alla mafia. Si tratta certamente di una risorsa complessa, da trattare con attenzione, da governare con severità e freddezza. Vogliamo senz'altro modificare aspetti rilevanti della legge attuale, perché ormai è cambiato il contesto e la relazione della mafia nei confronti dei collaboratori di giustizia. All'inizio, quando da Buscetta in poi si diffusero diverse collaborazioni, le mafie reagirono a testa bassa: inferociti e sanguinari provarono ad usare esclusivamente la leva della violenza, uccidendo e addirittura sterminando i loro familiari e cercando di creare terra bruciata intorno a loro. Adesso questa strategia non viene del tutto abbandonata, ma viene integrata da un'altra strategia meno violenta ma più subdola: faccio riferimento all'ormai accertato tentativo di diverse organizzazioni criminali di delegittimare perversamente l'istituto dei collaboratori, provando a fare patti con loro, tentando di depistare, facendo raccontare loro mezze verità e molte bugie al fine di screditare tutto lo strumento dei collaboratori. Da qui nasce l'esigenza di cambiare e di aggiornare la legge sui collaboratori; ripeto: non per abbassare la guardia, ma per rendere gli strumenti legislativi in nostro possesso più efficaci.
Al Senato il Governo ha presentato un suo disegno di legge già nel febbraio 1997. Si tratta quindi di giorni che sono antecedenti di molto all'avvertito e provato coinvolgimento di alcuni collaboratori - con in testa Di Maggio - in reati e nel tentativo di riorganizzarsi nel territorio, lì a San Giuseppe Jato. In questi stessi giorni, la Commissione giustizia del Senato sta approvando importanti emendamenti a tale testo.
Noi riteniamo che l'impianto della proposta del Governo vada bene e che alcune modifiche possano essere accolte, ma vi è un limite: non si può bloccare la scelta strategica di utilizzare, accanto ad una autonoma azione investigativa, i collaboratori di giustizia. Un'azione investigativa autonoma e un uso integrato dei collaboratori di giustizia, devono formare un mix potente nella lotta alle mafie. Di recente la Commissione parlamentare antimafia si è recata negli Stati Uniti e ha potuto verificare lo straordinario apprezzamento fatto in questo senso nei confronti del nostro paese. Siamo indicati come un punto di riferimento internazionale. I nostri investigatori e magistrati sono considerati fra i migliori del mondo e la ricaduta dei collaboratori di giustizia in azioni criminali viene da loro considerata fisiologica. Anzi, nel nostro caso di basso profilo, visto che negli Stati Uniti i collaboratori che ritornano ad agire nelle varie mafie superano il 18 per cento. Nei prossimi anni dobbiamo prepararci magari anche ad ulteriori innovazioni: non è escluso che si debba qualificare la nostra polizia penitenziaria sul modello dei marshall americani e prepararla a gestire i collaboratori di giustizia.
È chiaro che i collaboratori non devono avere rapporti tra di loro, che devono essere supportati, per farli tornare ad una cultura e pratica della legalità, e che bisogna evitare che si creino vincoli assistenziali di dipendenza dal contributo pubblico. Deve esserci, inoltre, una chiara distinzione con i testimoni di giustizia: questi ultimi non devono avere niente a che spartire con le regole che guidano i collaboratori di giustizia; i testimoni sono dei cittadini onesti che scelgono di denunciare la criminalità. Sono, insomma, la parte migliore del nostro paese, persone che mettono a repentaglio la propria vita professionale, i propri affetti familiari, la propria vita quotidiana per non essere omertosi, per non chiudere gli occhi, come per troppi anni si è fatto nel nostro paese.
Presidente, ministro, colleghi, il gruppo dei democratici di sinistra esprime pertanto un «no» convinto e preoccupato
sulla mozione Maiolo. Ci auguriamo che nel centro-destra prevalga una logica progettuale, appassionata e convinta di lotta alla mafia, in grado, insieme a noi, di dare una risposta forte all'altezza della sfida che ancora oggi le mafie portano alla nostra società e alla transizione complessa ma inarrestabile della nostra democrazia (Applausi dei deputati del gruppo dei democratici di sinistra-l'Ulivo).
È iscritto a parlare l'onorevole Cola. Ne ha facoltà.
Vorrei chiedere all'onorevole Lumia se si sia mai posto un problema che, purtroppo, qui non ci si pone mai: è vero, i collaboratori di giustizia hanno dato un enorme contributo alla risoluzione di tante e tante problematiche, hanno disvelato alcune vicende terrificanti, hanno fatto venire alla luce, ancorché in modo non definitivo, anche gli autori di efferati delitti, ma l'onorevole Lumia si è posto mai il problema di quanti innocenti sono stati condannati a seguito di dichiarazioni di pentiti? Ne vuole un esempio, onorevole Lumia? 1983, il famoso maxiblitz che riguardava i pentiti della nuova camorra organizzata: ebbene, su 1.100 arrestati colpiti da ordinanza cautelare (non l'attuale, eravamo nell'ambito del vecchio codice di rito), ben 950 sono stati assolti, onorevole Lumia. Ma purtroppo questi 950, a prescindere dal povero Tortora, si chiamavano tutti Gennaro Esposito!
L'onorevole Lumia si è mai posto il problema che a fronte dei tanti risultati utili raggiunti vi è anche la condanna di tanti e tanti innocenti, colpiti da ordinanza di custodia cautelare, a seguito di dichiarazioni, poi appalesatesi calunniose, di collaboratori di giustizia? Si è mai posto il problema che di queste persone non si fa nemmeno il nome in questo Parlamento, perché l'unico obiettivo da raggiungere è, per lo più, di carattere politico, mentre nell'altro piatto della bilancia non pesa nemmeno il dramma di tante e tante persone a seguito di accuse di mascalzoni, di pluriassassini, di delinquenti, di mostri? Questo problema l'onorevole Lumia non se l'è proprio posto, giacché il suo discorso è improntato ad una difesa che a noi non interessa proprio.
Allora, vogliamo entrare nel serio, e non nel faceto, oppure nell'interessato e nel parziale? Vogliamo affrontare il problema in termini diversi da quelli in cui è stato affrontato in questo momento? Vogliamo cioè vedere qual è il senso della mozione della collega Maiolo? La Maiolo, nel lontano ottobre 1997, dava atto di una situazione: dei pluriassassini, che rispondevano al nome di Balduccio Di Maggio, La Barbera e Di Matteo, che erano stati ammessi alla protezione, ai benefici e ai privilegi della legge sui pentiti, avevano commesso omicidi - perché raggiunti da apposita ordinanza di custodia cautelare per tali fatti - estorsioni ed altri gravissimi reati. E il tutto non a titolo individuale (lo dice l'ordinanza cautelare), ma nell'ambito dell'estrinsecazione di un rapporto mai sopito, mai spento con l'organizzazione mafiosa di appartenenza. Questo è un fatto pacifico, come si evidenziava nella mozione. Lei, onorevole Lumia, afferma che essa ha perduto di attualità. Ma non è colpa dell'onorevole Maiolo se si discute di questa mozione solamente a distanza di dieci mesi; lo dica al Governo che lei sostiene, non lo dica assolutamente all'onorevole Maiolo.
Ebbene, stavo dicendo che in questa mozione si fa riferimento a somme spropositate che venivano elargite a questi delinquenti, a libertà di movimento nell'ambito di una protezione, libertà di
movimento che consentiva a questi signori di delinquere! È vero o non è vero?
Pertanto io dico, carissimo onorevole Lumia, che tutto questo non può non far sorgere degli interrogativi, ai quali lei ha il dovere di rispondere a prescindere dalla finalità e dagli obiettivi positivi che sono stati raggiunti dai pentiti. È possibile dar credito alla cieca a tale genia di delinquenza, autrice dei più efferati delitti, che agisce normalmente per il raggiungimento di interessi egoistici propri, a delinquenti per lo più destinati ad essere condannati più volte all'ergastolo? È possibile ed è giusto concedere loro grandi privilegi e benefici senza aver prima verificato l'attendibilità (è qui il punto, carissimo ministro) e la sincerità del loro pentimento? Ed ancora, chi, dopo aver dichiarato il proprio pentimento, continua a delinquere e a commettere reati così devastanti, è da considerare ancora affidabile, anche in relazione alle dichiarazioni rese in un primo momento e non ancora riscontrate, oppure riscontrate magari attraverso altre dichiarazioni che si intrecciano a vicende di collaboratori di giustizia?
Questi sono quesiti ed interrogativi che lei non si porrebbe? Se lei non si ponesse questi interrogativi, direi che lei è cieco, naturalmente cieco perché non sa leggere l'etica del diritto, perché non sa leggere l'equità e l'iniquità, in quanto si commette anche iniquità nel momento in cui si raggiunge un obiettivo. Anche le dittature, nel momento in cui sopprimevano la libertà altrui, lo facevano nell'ambito del raggiungimento di un obiettivo che passava sulla libertà altrui (Commenti del deputato Lumia). Non intendo riferirmi al comunismo; anche al comunismo, al fascismo e al comunismo che lei ha rappresentato fino a poco tempo fa, carissimo onorevole Lumia, quello reale, quello che è stato applicato in tutto il mondo e che ha avuto un'applicazione veramente disastrosa in tutto il mondo. Questo suo richiamo dimostra ancor più la sua chiusura mentale, onorevole Lumia, perché io sto parlando di argomenti attuali.
Questo fenomeno non è venuto alla luce, carissimo ministro Flick, solamente nell'ottobre 1997; fenomeni del genere sono emersi anche prima, nel 1993, nel 1994, nel 1995, tant'è che molto opportunamente il ministro Napolitano ritenne di procedere ad un'audizione in Commissione affari costituzionali, che si tenne precisamente il 9 settembre 1996, a distanza di pochi mesi dall'insediamento di questo Governo. Pur nella relazione asettica, il ministro Napolitano affacciò la sussistenza di problematiche inquietanti, in relazione alle quali egli sollecitava una proposta di soluzione da parte di coloro che erano presenti in Commissione. Lei non c'era, ma avrà sicuramente letto gli atti di quell'audizione, atti che sono stati forieri di risultati e di proposte che lei forse ha trasfuso, ancorché parzialmente e non in senso conforme ai «desiderata» di tutti, nel disegno di legge che è all'esame del Senato.
Mi rivolgo all'onorevole Lumia, che in questo momento non vuole ascoltarmi, giustamente, perché dico cose a cui egli è sordo: certamente il contributo dei pentiti è stato rilevante, eccome, guai a nasconderlo, pur tuttavia le anomalie sono tante e tali da non poter essere tralasciate. Voglio riassumerle nell'ambito del risultato di quell'audizione, nel corso della quale si constatò innanzitutto che nell'ultimo lustro vi era stato un appiattimento della magistratura inquirente su tale tipo di prova - mi riferisco, appunto, alla fonte di prova costituita dalle dichiarazioni dei pentiti - che dovrebbe essere invece scelta, come si verifica negli Stati Uniti, solo come extrema ratio.
Tutto questo, carissimo ministro, lei non può non considerarlo come un campanello d'allarme per la magistratura requirente, che non si affida ad altro tipo di ricerca, ma soltanto a questa fonte investigativa, e la fa propria in tutti i casi, sia in quelli di criminalità organizzata sia in quelli, ben noti, di Tangentopoli.
Un altro rilievo che fu sollevato si riferiva al dato statistico, che io intendo qui richiamare. Signor ministro, vorrei sapere da lei: nei processi che sono stati celebrati a seguito di chiamate in correità o di dichiarazioni di collaboratori di
giustizia, quante assoluzioni si sono avute? Io il dato ce l'ho: forse più del 50 per cento. Se questo dato risponde a verità, mi dica, signor ministro, è allarmante o no? Forse non sarà il 50 per cento, magari sarà il 40 per cento, lei stesso potrà fare gli opportuni accertamenti, ma questa percentuale sarà destinata ad aumentare a seguito della celebrazione e della definizione di altri processi. Lei si è mai domandato se è stata promossa l'azione penale per il reato di calunnia nei confronti dei collaboratori di giustizia che hanno determinato prima l'arresto e poi l'assoluzione, a seguito della definizione del processo, di povere persone che sono state oggetto delle loro attenzioni, perché quelli avevano capito che dovevano accusare Tizio, Caio e Sempronio? Ha fatto questa indagine? Io non credo, ma se la facesse lei constaterebbe che quasi in nessun caso i pubblici ministeri hanno attivato siffatte vicende attraverso l'imputazione di calunnia nei confronti dei collaboratori di giustizia.
Voglio chiedere a lei, che è avvocato, oltre che ministro: si è reso conto che questo appiattimento ha determinato un'ulteriore anomalia nell'ambito della suprema Corte di cassazione, che pare in questo momento stia mutando orientamento? Anche qui, dicevo, c'è un appiattimento: dal momento che le investigazioni vengono fatte solo in base alle dichiarazioni dei pentiti, la conseguenza è che, secondo l'interpretazione della Corte di cassazione, non c'è più bisogno di un riscontro di carattere esterno, ma le dichiarazioni dei pentiti, che dovrebbero essere zero, perché munite solo di attendibilità intrinseca, si riscontrerebbero tra di loro, costituendo cioè ognuna il riscontro dell'altra. Questa è un'altra mostruosità di carattere giuridico, che la Corte di cassazione ha reso possibile negli ultimi due o tre anni, a parte una sentenza recentissima che accende un barlume di speranza di riscatto da questa barbarie. Qualcuno - l'onorevole Grimaldi, per esempio - parlò in quella sede di imbarbarimento del nostro sistema processuale e lo fece in riferimento all'esigenza che l'ammissione al regime premiale (signor ministro, non so se lei l'abbia trasfusa o meno nel suo disegno di legge, ma è un fatto di importanza vitale), e quindi anche alla libertà, avvenga solo dopo la valutazione processuale dell'attendibilità, cioè per lo meno dopo la pronuncia di una sentenza di primo grado. Mi pare che questo sia un fatto di importanza vitale, perché non è detto che solo perché parla, senza che si siano ancora operati i cosiddetti riscontri, il pentito debba avere 500 milioni al mese, o all'anno, non so, e debba circolare liberamente, con il rischio che commetta i reati che hanno commesso Balduccio Di Maggio e tutti gli altri. È questa un'esigenza che non potrà assolutamente non essere rappresentata.
L'onorevole Maiolo ha parlato anche di un altro fenomeno, che è preoccupante, allarmante e dovrebbe interessare tutti i cittadini: i cosiddetti colloqui investigativi. Anche in quella sede si parlò dei colloqui investigativi: vanno aboliti, perché non è possibile stuzzicare uno che è stato condannato all'ergastolo chiedendogli cosa sappia di questo o di quell'altro, per poi indurlo alla collaborazione. Le dichiarazioni sarebbero inevitabilmente sospette ove mai avessero come presupposto il cosiddetto colloquio investigativo.
Si parlò anche della necessità di scindere la difesa dei collaboratori di giustizia e si parlò, infine, di un altro argomento, che non è stato mai preso nella giusta considerazione e che, secondo me, sarebbe il toccasana: l'istituto della dissociazione. Lei ricorda certo don Riboldi, che si fece portavoce di rappresentanti di organizzazioni mafiose pericolosissime. Ebbene, don Riboldi disse - non so se lei ricorda questo episodio, forse allora non era ministro, ma avvocato e professore universitario - che vi era la disponibilità da parte di eserciti di camorristi a costituirsi, a mettersi a disposizione dell'autorità giudiziaria e confessare anche i più efferati delitti da essi commessi, purché non si arrivasse alla costrizione ad allargare il campo di accusa. Lo Stato, allora, rinunciò a questa possibilità, naturalmente
spinto da determinate parti sociali, che avevano scopi e finalità assolutamente non troppo reconditi.
Questo uscì, carissimo signor ministro, da quella famosa audizione. Ebbene, il comportamento del ministro Napolitano, che forse aveva l'entusiasmo del neofita, è stato deludente benché egli avesse affermato testualmente: «Non rivendico alcuna patente di coraggio, perché francamente sarebbe eccessivo ed improprio; ma tengo all'impegno di chiarezza che ho assunto nel prendere in esame e nel trasmettere al Parlamento questa relazione, che contiene elementi di riflessione critica e concrete ipotesi di correzione, su cui intendo andare avanti per la parte che mi compete e in collaborazione con il ministro Flick»; lei, invece, ha deluso sotto il profilo non dico della tempestività, ma per lo meno della intenzione di porre riparo a tutto questo attraverso un disegno di legge che non soddisfa assolutamente i quesiti che, a mio modo di vedere, sono stati rappresentati da tutte le forze politiche.
Vorrei ricordare all'onorevole Lumia che queste non furono le osservazioni di Cola, di alleanza nazionale, di Marino o di forza Italia, ma furono le osservazioni dei rappresentanti di tutti i partiti politici, da Grimaldi a Soda ai popolari; furono le osservazioni di tutte le forze politiche, che certamente non sono state recepite in un disegno di legge che, in ogni caso, è sempre tardivo, perché dopo quello di Di Maggio si sono verificati tanti episodi estremamente significativi e che rendono ancor più pregnante l'azione di richiamo alla giustizia che ha fatto l'onorevole Maiolo.
Parlo con lei con estremo piacere...
...perché ho sempre constatato la sua grande disponibilità; però le dico che l'Italia è ancora uno Stato democratico. E se l'Italia è uno Stato democratico, in cui sono profonde le radici di civiltà giuridica, riteniamo che quanto denunciato non possa assolutamente essere compatibile con uno Stato di diritto, che è espressione di uno Stato democratico (Applausi dei deputati del gruppo di alleanza nazionale).