Seduta n. 359 del 25/5/1998

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(Discussione sulle linee generali - A.C. 169)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Ha facoltà di parlare il relatore per la maggioranza, onorevole Maselli.

DOMENICO MASELLI, Relatore per la maggioranza. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, colleghi e colleghe, sono piuttosto emozionato nell'iniziare la discussione su questa proposta di legge che è di antica data. Essa ha preso avvio fin dall'VIII legislatura e poi, per mille avvenimenti diversi, compresa la conclusione anticipata di alcune legislature, non è mai giunta in porto. Mi auguro che questa sia la volta buona perché questa legge di civiltà possa finalmente essere approvata dalle due Camere.
Il provvedimento prende spunto da una base chiara: il testo della proposta di legge Corleone non è altro che quello elaborato nella precedente legislatura dalla Commissione affari costituzionali a seguito di un lungo esame. Tale testo dal gennaio 1997 fino ad oggi è stato esaminato dalla Commissione affari costituzionali che ha approvato alcune modifiche frutto di una collaborazione tra Governo, rappresentanti della maggioranza e dell'opposizione, i quali hanno lavorato insieme elaborando diverse proposte che poi sono state approvate. Dunque il testo è stato lungamente meditato.
Vorrei cominciare il mio discorso facendo riferimento alla base giuridica da cui partiamo. Intanto si tratta dell'attuazione dell'articolo 6 della Costituzione, che prevede di tutelare in modo particolare le lingue minoritarie esistenti nel nostro paese. Aggiungo che si tratta di dare attuazione alla Carta dei diritti delle minoranze europee, che non abbiamo ancora potuto ratificare, e alla legge europea sulle minoranze, che abbiamo invece all'unanimità ratificato sia alla Camera sia al Senato. Ciò significa che, dal punto di vista legislativo, siamo in ritardo.
In realtà, quando si parla di unità della nostra nazione si dice una grande verità: la nostra è una nazione che affonda nei secoli la sua unità. La persona che ha creato per prima questa unità legale è stato Augusto.
Augusto aveva diviso l'Italia augustea nettamente tra la penisola e la pianura padana, che erano insieme (Commenti del deputato Paolo Colombo)...
Fino ad Augusto, la penisola era separata dal territorio...

PAOLO COLOMBO. La Padania!


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DOMENICO MASELLI, Relatore per la maggioranza. Non posso dire «Padania», perché altrimenti voi pensereste che escludo delle zone che sono invece comprese in quel contesto. No, Augusto legava la pianura padana e l'Italia peninsulare, mentre escludeva dalla regione Italia, unica parte dell'impero a non essere divisa in province, la zona alpina, che costituiva delle piccole province alpine, che hanno poi dato il nome alle varie sezioni delle nostre Alpi - il «Ma con gran pena le reca giù» che ci facevano studiare da ragazzi nasce, in effetti, da queste province augustee - non per escludere dall'Italia queste province, ma per gettare una specie di ponte tra l'Italia ed il resto dell'impero. In realtà, si trattava di province in cui la presenza romana era molto forte; tant'è vero che si crearono città come, per esempio, Augusta Salassiorum e Augusta Taurinorum, che erano città-colonie romane nel cuore di queste province. Non si trattava, quindi, di una separazione dall'Italia, ma di una congiunzione tra l'Italia ed il resto dell'impero.
La stessa cosa valeva per le tre isole della Sardegna e della Corsica, che costituivano una provincia, e della Sicilia, che era un'altra provincia: queste tre erano però province antiche, perché nate dalla prima guerra punica.
In realtà, questo spartiacque, questo ponte durò per molti secoli. Durò intanto completamente fino a Diocleziano. Pensate, colleghi, che fino a Diocleziano l'Italia era formata da tante città autonome, che erano autentici Stati, nei quali i cittadini votavano per il loro Stato e poi - se volevano - andavano a Roma a votare per i consoli ed i proconsoli del governo imperiale. Era un sistema che mescolava insieme unità e federalismo, cioè unità e distinzioni locali, in un'amalgama totale.
Le invasioni barbariche e la nascita di lingue neolatine hanno praticamente portato alla creazione attorno all'Italia di un insieme di lingue minoritarie che, da una parte, erano in rapporto con il nostro paese, ma, dall'altra, erano in rapporto con le zone al di là delle Alpi. Alcune di queste erano, come ho detto, neolatine; in modo particolare, vorrei ricordare il rapporto tra l'Occitania e l'Italia. Quando parliamo di occitano, facciamo riferimento ad una lingua che va dalla Spagna all'Italia, attraverso le Alpi. A nord, abbiamo la lingua d'oil francese e la zona in mezzo tra la lingua d'oil e la lingua d'oc forma una terza lingua che è il franco-provenzale. Le nostre vallate piemontesi e valdostane hanno visto quindi la presenza dell'occitano, del franco-provenzale e del francese; una presenza che l'Italia unita ha continuamente considerato, se pensate che nel 1908 (non sono sicuro della precisione di questa data) accanto a 10 mila lire d'allora per pagare l'insegnamento del francese in Valle d'Aosta si dovevano dare 5 mila lire per l'insegnamento del francese nelle valli valdesi ed in Val di Susa. Il fatto di parlare francese e di essere di religione protestante non toglieva agli abitanti della Valpelline, per esempio, di essere ottimi cittadini italiani; la percentuale di morti nella prima e nella seconda guerra mondiale provenienti dalle valli valdesi ne è un chiaro indice. Costoro, cioè, si sentivano profondamente italiani anche se parlavano francese e fu soltanto nel 1923 che nelle scuole valdesi del Piemonte e in Val di Susa venne tolto l'insegnamento della seconda lingua, cioè quella francese.
Se questo è vero, vi è dunque la presenza occitanica franco-provenzale in Piemonte e in Valle d'Aosta, nonché quella di un grande popolo disperso nelle Alpi, cioè il popolo ladino, che congiunge la Svizzera con il Trentino-Alto Adige e il Veneto. Sappiamo che i ladini sono ora dispersi con nomi diversi in tutte queste regioni. Ci sono poi presenze tedesche, germanofone - e vorrei ricordare i valzer in Valle d'Aosta e in Piemonte - i cimbri e mocheni in Trentino e in Veneto, i germanofoni in Val Canale, che molte volte si lamentano perché non li ricordiamo, e una regione trilingue come il Friuli-Venezia Giulia.
Nell'Italia del sud la situazione è ancora diversa. Va innanzitutto considerato


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- non lo dimentichiamo - che l'Italia meridionale fu in due grandi epoche della sua storia un grande paese greco alle origini e poi di nuovo durante l'impero bizantino. I segni di questa origine greca sono conservati, per esempio, nell'abbazia basiliana di Grottaferrata che ha continuato ad essere una grande abbazia greca, la continuazione di questa presenza. Possiamo parlare della presenza greca anche in Calabria. Ancora nel 1500, a Crotone, vi erano due vescovi, uno di rito bizantino ed un altro di rito latino, c'era ancora, cioè, una presenza greca accanto alla presenza italiana.
A queste presenze antiche si sono poi unite quelle medieval-moderne, cioè di coloro che fuggirono per l'arrivo dei turchi dalla penisola balcanica e crearono una forte presenza in tutta l'Italia meridionale. Penso, naturalmente, agli albanesi, i quali non solo hanno mantenuto la lingua, ma in molte regioni anche il loro rito di origine: diventati bizantini, da ortodossi che erano, hanno mantenuto questo rito. Non solo: per esempio, in piena Calabria abbiamo ancora la presenza di altre potenze, come gli occitani, venuti dalle valli valdesi nel 1300.
Vorrei continuare con questi esempi che ci fanno rendere conto della ricchezza che nell'unità della nazione italiana apportano queste minoranze, che non sono certamente di poco conto. Oggi, a questa ricchezza spirituale e storica se ne aggiunge un'altra: la possibilità di fare di tali minoranze un ponte transfrontaliero per l'Europa. Anche dal punto di vista economico, infatti, ci veniamo a trovare di fronte alla situazione che altri Stati utilizzano i fondi dell'Unione europea che noi non siamo ancora in grado di utilizzare perché non abbiamo approntato la normativa. Per l'occitano, per esempio, i fondi dell'Unione europea li ha usati soltanto la Val Moira, che è riuscita a creare un fronte occitanico estremamente...

GUSTAVO SELVA. Noi ci mangeremo poi questi contributi europei con le traduzioni simultanee che dovremo fare dall'occitano all'italiano.

DOMENICO MASELLI, Relatore per la maggioranza. Non è vero, nessuna traduzione simultanea, perché gli occitani che useranno le traduzioni simultanee sono persone che sanno parlare occitano e che insegnano italiano nelle nostre scuole...

GUSTAVO SELVA. Per quelli che non sono italiani e dovranno capire l'occitano...

DOMENICO MASELLI, Relatore per la maggioranza. Ma la grande maggioranza lo fa... Comunque, con tutto il rispetto e l'affetto, vi chiedo, per cortesia, di lasciarmi finire.
Vorrei dire, quindi, che vi sono ragioni morali, culturali e finanziarie. D'altra parte, dobbiamo ratificare la legge-quadro europea delle minoranze e dobbiamo anche ricordare che abbiamo ratificato, all'unanimità, non la carta ma la legge europea sulle minoranze linguistiche, che chiede proprio - possiamo controllarlo - ciò che noi abbiamo previsto in questa legge.
Vorrei dire che la Commissione ha fatto un ottimo lavoro con la collaborazione di molti membri della maggioranza e della minoranza: in particolare ricordo Massa e Crema, presentatori di una proposta di legge, e Di Bisceglie, che ha costantemente seguito il provvedimento; potrei anche ricordare gli amici calabresi per il loro intervento. Aggiungo, però, che finora dobbiamo purtroppo notare che vi è un ritardo, da parte del Governo, nella relazione tecnica, il che ci impone di pregarlo di fornircela al più presto per permettere alla legge di poter passare ai voti, come è nel nostro desiderio. Vogliamo, infatti, che ciò avvenga al più presto, disponibili come siamo a migliorare il provvedimento con il contributo di tutti (Applausi dei deputati dei gruppi dei democratici di sinistra-l'Ulivo, dei popolari e democratici-l'Ulivo e della lega nord per l'indipendenza della Padania).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l'onorevole Menia, relatore di minoranza, al quale ricordo che ha a disposizione quindici minuti.


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ROBERTO MENIA, Relatore di minoranza. Grazie, signor Presidente.
Signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, ci troviamo a discutere in aula una proposta di legge che ha radici lontane, una lunga storia parlamentare, come ha già fatto notare il relatore per la maggioranza, onorevole Maselli, e che sostanzialmente riprende, anche in questa legislatura, il testo unificato uscito, nelle ultime due legislature, dall'esame della Commissione affari costituzionali. Ritengo però che già nelle legislature scorse sia passato un testo sostanzialmente sottovalutato da parte di chi lo aveva discusso. In questa legislatura la I Commissione ne ha discusso indubbiamente di più - basta andare a sfogliare gli atti parlamentari -, ma sono ancora grossolani e pesanti gli errori che, a nostro modo di vedere, incidono in maniera estremamente negativa sulla stesura di questa legge, che di fatto noi consideriamo inemendabile, almeno così come si presenta. Abbiamo quindi presentato, come è nostro diritto, un testo alternativo, che chiederemo poi di votare articolo per articolo, sotto forma di emendamento sostitutivo.
Passando all'esame di questa proposta di legge, vediamo che vi sono situazioni di macroscopica illegittimità, nonché altre a proposito delle quali riteniamo che vi sia, da una parte, il pericolo reale che questa legge vada ad incrinare un principio base dell'unità nazionale, cioè l'unità linguistica, dall'altra quello che crei condizioni di privilegio per le minoranze - o cosiddette minoranze - a discapito della maggioranza degli italiani.
Cosa prevede sostanzialmente questa proposta? Prevede che nei pubblici uffici - dunque anche in quelli dello Stato - esistenti nelle zone ove si parlano le cosiddette lingue minoritarie, si abbia diritto di usare le parlate locali in luogo dell'italiano; che altrettanto si abbia diritto di fare da parte dei membri dei consigli comunali e delle assemblee elettive, con a seguito una «traduzione riassuntiva in lingua italiana» (ed anche qui rileviamo immediatamente un profilo di illegittimità); che gli atti ufficiali dello Stato, delle regioni, degli enti locali, perfino degli enti pubblici non territoriali, possano essere tradotti nelle parlate locali, le quali possono usarsi nei procedimenti dinanzi al giudice di pace; che si insegnino tali parlate nelle scuole materne, elementari e medie (nelle prime due addirittura in maniera sostanzialmente obbligatoria), salvo contrarietà espressa dai genitori. Si prevede inoltre che sia obbligatorio l'insegnamento della cultura locale, della storia e delle tradizioni nelle scuole elementari e medie, che radio e televisione di Stato nei loro programmi debbano comprendere trasmissioni in tali parlate, che sia concesso alle pubbliche amministrazioni indicare i toponimi nelle lingue locali.
La proposta si muove sulla premessa dell'esistenza di una norma costituzionale, l'articolo 6, la quale stabilisce che la Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche.
Nel testo della proposta di legge vengono anche identificate le minoranze in albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene, croate e poi quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l'occitano ed il sardo, senza dimenticare, dulcis in fundo, gli zingari, rom e sinti.
Oltre alle belle parole ed altisonanti affermazioni di principio, l'errore di questa legge sta nel fatto che essa si muove da una parte sulla premessa che il bilinguismo sia forma necessaria, per non dire ovvia, di tutela delle minoranze linguistiche; dall'altra promuovendo a minoranze linguistiche popolazioni italiane che sono da sempre componenti della nazione italiana, come friulani o sardi. Io, ad esempio, sono nato a Pieve di Cadore da padre cadorino e quindi ladino (io parlo il ladino del Comelico) e da madre istriana (quindi, parlo il dialetto istro-veneto); parlo inoltre il dialetto triestino ma non mi sento minoranza, né ladina, né triestina e nemmeno istriana, perché tutti questi spicchi, per così dire, di me stesso e della mia identità compongono l'identità nazionale italiana. Non ho bisogno di


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sentirmi minoranza di nulla e noi non possiamo contrabbandare per minoranze quelli che invece sono fatti costitutivi della nazione italiana in tutte le sue infinite sfaccettature ed identità.
Ed allora il pericolo reale e facilmente rilevabile è quello dell'incrinatura di una componente essenziale dell'identità nazionale, ovvero l'unità linguistica. Quest'ultima è infatti elemento fondamentale dell'unità nazionale, sicché la rottura di essa va a vulnerare l'articolo 5 della Costituzione - altro che realizzare l'articolo 6 -, norma che consacra appunto l'unità e l'indivisibilità della Repubblica. Dunque, allorché si pretende di opporre la diversità di una seconda lingua di fronte alla lingua italiana e si rivendica o il bilinguismo o tutele che stravolgono l'idioma nazionale, quella rottura, se non è in atto, è almeno potenziale ed incrina la stessa forza garantista della Carta fondamentale dello Stato.
Nozione comune e condivisa è quella che all'inizio era solo una deduzione delle ricerche filologiche: la storia di una lingua, cioè, contiene tutti gli elementi qualificanti della storia del popolo che la parla. Nell'articolazione del linguaggio, cioè, non c'è solo l'espressione del pensiero in termini comprensibili, ma vi si condensano insieme esperienze, relazioni, contatti, abitudini, vicende, aspirazioni, creazioni che nel loro insieme rappresentano l'evoluzione secolare di una comunità, cioè la sua identità nazionale. Insomma, la lingua non si limita ad essere un addendo del progetto aggregante di una nazione, ma la storia della lingua consente di ricostruire la storia dello spirito che informa di sé l'ascesa di un popolo verso la nazione.
Ed allora, data la stretta connessione che penso di aver in qualche modo inquadrato tra lingua e nazione, possiamo affermare che là dove c'è unità linguistica c'è unità nazionale, e se si corrompe la prima si frantuma la seconda, e di questi tempi, viste le velleità secessioniste ed indipendentiste di alcuni, non ce n'è proprio bisogno.
Allora, nello spirito di valorizzazione della nostra lingua comune, siamo stati promotori di un emendamento che in Commissione è stato recepito, il quale all'articolo 1 dichiara che l'italiano è lingua ufficiale dello Stato: pare strano, ma non è mai stato scritto da nessuna parte.
Ma noi non vogliamo che questa sia una mera affermazione di principio, smentita poi da tutto il resto; e allora, affermato da parte nostra il principio generale e fondamentale dell'unità linguistica, si tratta di affrontare il diverso discorso dell'attuazione di norme di tutela delle minoranze linguistiche.
In pratica, mentre fino ad ora la via seguita dal legislatore per attuare il principio costituzionale è stata quella di regolare con diverse norme ad hoc le minoranze rappresentate dagli altoatesini di lingua tedesca, dai valdostani di lingua francese, dai ladini delle Dolomiti e dagli sloveni del Friuli-Venezia Giulia, prevedendo per l'appunto strumenti di tutela differenziati, in questo caso il provvedimento in esame cerca di divenire una legge di principio, una legge generale, prevedendo norme generali ed astratte applicabili alle minoranze linguistiche - vere o presunte, io ritengo presunte - presenti nel territorio nazionale.
E qui si pone un problema fondamentale. Qual è il confine attraverso cui si qualifica una minoranza come tale? Quali sono i parametri? Quali sono i valori di riferimento (la presenza sul territorio)? A che cosa debbono essere parametrati poi questi livelli di tutela? Il numero? Alcune teorie sostengono che la presenza di un singolo diverso dalla maggioranza già crea in sé il diritto di rivendicare l'appartenenza ad una minoranza.
Intanto, solo alcuni autori hanno ritenuto che le minoranze linguistiche siano quelle che usano parlate che in senso politico sono dialetti; al concetto politico di lingua e non a quello culturale occorre infatti riferirsi nell'interpretare la Costituzione. I gruppi che parlano dialetti non sono minoranze linguistiche; e inoltre la

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tutela delle minoranze linguistiche non impone o comporta necessariamente il bilinguismo!
Pongo un problema in più. Come dicevo, parlo l'istro-veneto. Un dialetto avrebbe sicuramente dignità di lingua: la Repubblica serenissima di Venezia ha informato per secoli con la sua lingua e con la sua cultura la storia nazionale. Allora, caso mai, i veneti - so che sono stati presentati emendamenti tendenti ad introdurre questo concetto - avrebbero tutto il diritto di chiedere la tutela del loro dialetto, così come potrebbe essere richiesta per il romanesco o il napoletano. Ho presentato un centinaio di emendamenti che a diverso titolo ricordano dialetti italici, della nostra nazione. Tali emendamenti sono tesi a smontare queste affermazioni per cui parti fondamentali nell'integrazione nazionale italiana, che sono sfaccettature, spicchi diversi della comune identità nazionale, diventano minoranza; è questo il concetto che non accettiamo.
Anche sul piano del linguaggio corrente la tesi da noi sostenuta è fondata, nel senso cioè che non ci troviamo di fronte a minoranze linguistiche. Illuminante in proposito la definizione che dà del dialetto il Dizionario della lingua italiana Devoto-Oli secondo cui è dialetto «il sistema linguistico di ambito geografico limitato, che soddisfa solo alcuni aspetti (per esempio il popolare e l'usuale) e non altri (per esempio il letterario o il tecnico) delle nostre esigenze espressive». Potrei citare altre definizioni, ma mi limito a riportare uno stralcio della «Relazione all'Assemblea Costituente sulla tutela delle minoranze» (volume primo, «Problemi costituzionali e organizzazione dello Stato», paragrafo 6o) che, riferendosi al censimento del 1921, quello disponibile all'epoca, cita tutte le minoranze esistenti in Italia senza fare menzione di una minoranza sarda, ovviamente, né di una minoranza friulana.
Dico questo perché si è voluto emendare il titolo stesso di questa proposta di legge parlando di tutela delle minoranze storiche; ebbene, se fossero state così storiche, sicuramente ne avremmo trovato traccia nei lavori della Costituente, ma così non è. La relazione opera una distinzione ed afferma: «Per oltre 150 mila abitanti si tratta di isole linguistiche albanesi, catalane e greche dell'Italia meridionale insulare, disseminate fra la popolazione di lingua italiana e ambientate ormai da molte generazioni, tanto che la lingua parlata tradizionale di origine, che hanno mantenuto viva fra loro senza ostacoli né rivendicazioni né inconvenienti, le differenzia dalla restante popolazione». La relazione aggiunge: «Una categoria costituiscono i gruppi minoritari di lingua francese, tedesca e slava localizzati nell'arco alpino e in territori prossimi ai confini con Stati nei quali dette lingue sono lingue nazionali». E oltre: «Mentre la storia delle minoranze linguistiche che si sono raccolte nella prima categoria» - cioè i greci, gli albanesi, i catalani e così via - «non presenta alcun fattore di rilievo ed è nota più come curiosità folcloristica e di studio che per le sue particolari esigenze, tal che non desta alcuna problematica attuale, la storia dei gruppi della seconda categoria merita sommaria menzione». Il collega Maselli ridacchiava, ma non l'ho scritto io, ho citato i sacri testi della Costituente.
Fin qui, infatti, il testo della relazione alla Costituente, da cui si ricavano due considerazioni. In primo luogo, quelli che il costituente ha definito gruppi linguistici di interesse folcloristico non possono essere certo interessati all'applicazione dell'articolo 6 della Costituzione, che è il presupposto su cui si fonda - come si diceva - la proposta di legge in esame. In secondo luogo, la fonte costituente non fa alcuna menzione dei sardi e dei friuliani come minoranze linguistiche, tanto meno «storiche», come recita il titolo della proposta di legge. Ciò è ovvio, essendo quelle della Sardegna e del Friuli popolazioni italiane come lo sono le siciliane e le lombarde, che parlano un dialetto «distante» dall'italiano. In Italia, nei secoli addietro si parlavano esclusivamente numerosi volgari - ne parlava anche Maselli, in apertura -, assai diversi gli uni

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dagli altri. L'italiano è stato unificante per tutta l'Italia. Per le popolazioni di origine albanese, greca, croata, occitana, catalana, si può senz'altro dire che non hanno neppure una consistenza di rilevanza tale da giustificare norme come quelle previste. Si tratta di popolazioni in gran parte assimilate, con origini molto lontane, che oggi si riconoscono solo a livello di tradizioni.
Per tutte le popolazioni contemplate in questa proposta di legge si pone sicuramente il problema della tutela della loro cultura e della loro tradizione. Nessuno pensa di dimenticarle o negarle; ma la conservazione di questo patrimonio culturale, storico e linguistico si realizza nella valorizzazione del costume, delle tradizioni, delle fedi e dei canti popolari, nella diffusione locale delle opere letterarie dialettali - laddove ne abbiano la dignità -, nel sostegno pubblico ad associazioni, circoli, filodrammatiche, riviste che abbiano come fine, per l'appunto, la preservazione di quel patrimonio. All'apparato pubblico, allo Stato ed alle sue articolazioni, però, non si può e non si deve chiedere di più, posto anche che il dialetto o l'idioma locale - o la lingua minoritaria: su questo potremmo discutere per giornate intere - non è strumento di comunicazione nazionale né internazionale, ma si esaurisce nel ristretto ambito familiare ed in quello, più vasto, ma sempre limitato, della comunità locale. La nostra prima e fondamentale affermazione è dunque un «no» all'uso di altre lingue o, più esattamente ancora, magari all'invenzione di altre lingue ufficiali, a fianco dell'italiano.
Ho già avuto modo di dire come, attraverso il pretesto della tutela, si rompa in realtà l'unità linguistica e dunque l'unità di popolo.
Mi avvio a concludere, Presidente.
Noi riteniamo che un altro aspetto assolutamente inammissibile di questa proposta di legge è che le supposte minoranze linguistiche diventino altrettanti corpi separati e privilegiati, a detrimento della maggioranza dei cittadini italiani. L'articolo 11 del testo licenziato dalla Commissione prevede, infatti, che nei comuni in cui si attua la tutela della minoranza è consentito l'uso scritto e orale della lingua ammessa a tutela negli uffici dell'amministrazione pubblica: ufficio pubblico, come è noto, è qualunque ufficio dello Stato, della regione, della provincia, del comune. Se, quindi, il cittadino ha il diritto di usare il proprio dialetto - o «lingua» - in un ufficio pubblico, tutti coloro che vi lavorano o buona parte di essi dovranno conoscere quel dialetto per capire quanto viene loro detto. Non è paradossale, allora, pensare a futuri sviluppi di stampo altoatesino, dove gli italiani sono diventati stranieri in patria. È chiaro, dunque, che l'effetto della legge è quello di creare una categoria privilegiata (cioè la minoranza, o supposta tale, che è bilingue dalla nascita) che si ritroverà ad avere posti di lavoro garantiti ed una notevole «riserva di caccia» che sarà preclusa, invece, agli italiani. Vi faccio un esempio molto semplice, che è proprio della mia zona. Nel comune di San Dorligo della Valle, un paesino che confina con Trieste, per assumere gli affossatori comunali viene richiesto l'uso della lingua slovena: ebbene, io non penso che debbano parlare con i morti che seppelliscono. Sono queste le situazioni di privilegio per alcuni e di danno per la maggioranza che vengono a crearsi.

PRESIDENTE. Deve concludere, onorevole Menia.

ROBERTO MENIA, Relatore di minoranza. Concludo, signor Presidente.
Avevo intenzione di illustrare ancora tanti aspetti, per esempio quelli che indicano come ciò che ci viene chiesto dalla carta sulla tutela delle minoranze, più volte citata da Maselli, sia una normativa molto diversa da quella che abbiamo creato in Commissione. Sono tutte considerazioni che affido all'intelligenza di chi avrà la bontà di leggere la relazione di minoranza che ho presentato.
Da ultimo, desidero fare soltanto una notazione: il Ministero del tesoro, fino ad


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oggi, non ha neppure quantificato, perché è impossibile farlo, l'enorme spreco che deriverebbe dall'approvazione di una legge come questa.
Ciò che voglio dire, in conclusione, è che noi non vogliamo che l'Italia diventi una Babele: il nostro «no» a questa proposta di legge è quindi volto alla tutela della nostra cultura e della nostra tradizione di italiani, quindi rappresenta un impegno civile, morale e, se mi è consentito, patriottico (Applausi dei deputati dei gruppi di alleanza nazionale, di forza Italia e misto-CCD).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

SERGIO ZOPPI, Sottosegretario di Stato per la funzione pubblica e gli affari regionali. Signor Presidente, onorevoli relatori, onorevoli deputati, vi sarà occasione per un intervento più di merito dopo la discussione sulle linee generali, ma in questo momento preme al Governo dare atto del lungo e complesso lavoro che all'interno della I Commissione (affari costituzionali) è stato realizzato, con larga convergenza di intenti, anche attraverso l'apporto del Comitato ristretto; credo si debba dare atto al relatore per la maggioranza, Maselli, di un lavoro molto intenso e difficile, confortato poi dal parere di diverse Commissioni.
Questa legge intende dare finalmente una compiuta risposta all'articolo 6 della Costituzione, richiamato all'articolo 2 del provvedimento in esame: «La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche», inserendo armonicamente tale tutela (come è stato ricordato) nella legislazione europea. L'articolo 1, nel ribadire (non potrebbe essere altrimenti) che la lingua ufficiale della Repubblica è l'italiano, non può non avere un respiro più ampio delle scarne parole che lo compongono, nella consapevolezza che la Repubblica riconosce nell'italiano la propria lingua, simbolo della sua unità culturale e politica quale si è andata storicamente affermando nel secolare processo formativo della coscienza nazionale. Questa legge, quindi, non intende scardinare l'unità nazionale, ma rafforzarla, arricchirla all'interno di un'unità linguistica che non teme il commercio culturale con lingue e culture di antico rilievo.
Anche la valorizzazione del costume e delle tradizioni, opportunamente richiamata dall'onorevole Menia, come sarebbe possibile alla lunga senza un adeguato sostegno alle lingue parlate? Per non ridurle a fatti di infima qualità, la proposta di legge affronta una pluralità di campi, tutti di rilievo per l'effettiva tutela e valorizzazione del patrimonio storico, culturale, linguistico di significative minoranze, nella consapevolezza che la lingua parlata da una comunità nazionale è qualcosa di vivo, che si arricchisce sempre ed ha bisogno sia di un rapporto continuo, oggi peraltro irrinunciabile ed imposto dalla globalizzazione, con una pluralità di mondi esterni sia di poter attingere a serbatoi culturali originali presenti all'interno del proprio territorio, una vera e propria ricchezza nazionale.
In una visione giustamente ampia, la proposta di legge regola la delimitazione degli ambiti territoriali, agisce su una pluralità di campi (la scuola, l'università, le amministrazioni comunali, i procedimenti davanti all'autorità giudiziaria), risolve la vecchia e dolorosa questione dei nomi e dei cognomi, affronta il problema dei servizi radiotelevisivi. All'interno di questo quadro, sono le regioni a statuto ordinario e soprattutto le province a svolgere, d'intesa con le amministrazioni comunali, un ruolo prevalente, nella linea quindi del rafforzamento del neoregionalismo e del forte, spinto municipalismo, con una attenzione particolare alla creazione o al rafforzamento di istituti per la tutela delle tradizioni linguistiche e culturali della popolazione.
Una proposta di legge di iniziativa parlamentare seguita con doverosa e partecipe attenzione dal Governo, che ne auspica, con gli arricchimenti che il Parlamento riterrà di apportare, la sollecita approvazione. È prevalentemente questione di sensibilità culturale ed anche perciò è auspicabile la più ampia convergenza


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sul testo e quindi la ricerca di fruttiferi punti di incontro, nella salvaguardia dei principi ispiratori della legge.
Il Governo, ed in modo particolare il Ministero del bilancio, sta svolgendo un'azione intensa di raccordo con le numerose amministrazioni interessate alla proposta di legge (l'attività del Ministero del bilancio è direttamente seguita anche dal dipartimento degli affari regionali). Contiamo, in un numero veramente ristretto di giorni, di poter avere la scheda e la relazione tecnica che è stata qui richiamata dal relatore (Applausi).

PRESIDENTE. Il primo iscritto a parlare è l'onorevole Detomas. Ne ha facoltà. Le ricordo che ha quattro minuti a sua disposizione.

GIUSEPPE DETOMAS. Signor Presidente, rappresentante del Governo e colleghi, preliminarmente desidero fare soltanto una annotazione sul regolamento, che, paradossalmente, nel momento in cui si discute di una legge di tutela delle minoranze, comprime il diritto della componente delle minoranze linguistiche all'interno del gruppo misto di poter esprimere quel che vorrebbe. Si sta parlando della tutela delle minoranze e a questa componente sono assegnati solo quattro minuti per discutere questa legge, che è importante anche per quello che le minoranze linguistiche vorrebbero portare avanti in questo Parlamento.
Detto ciò, a prescindere da questo aspetto procedurale e regolamentare, la componente delle minoranze linguistiche del gruppo misto saluta con soddisfazione l'approdo in Assemblea di questa proposta di legge. La storia di questo provvedimento - è stato qui ricordato più volte - è una vicenda travagliata di tentativi di dare attuazione all'articolo 6 della Costituzione, che rinvia a specifici provvedimenti legislativi la tutela delle minoranze linguistiche.
A questo proposito, è bene sottolineare il fatto che il legislatore costituzionale ha voluto inserire tra i principi fondamentali, su cui è basato l'intero nostro sistema democratico, appunto la tutela delle minoranze linguistiche. È utile ricordare a questo proposito che, a distanza di oltre cinquant'anni dalla sua emanazione, l'articolo 6 della Costituzione è rimasto sino ad ora per larga misura lettera morta. Varrebbe forse la pena rammentare tutte le volte che si è cercato di portare all'esame del Parlamento un testo che concretizzasse questo principio. L'onorevole Maselli ha precisato che è dall'VIII legislatura che un testo di questa natura cerca di trovare il suo spazio in quest'aula. È bene però anche ricordare che nella X legislatura una legge-quadro di tutela delle minoranze è stata approvata da questa Camera del Parlamento, ma il testo è stato poi affossato al Senato, con motivazioni pretestuose e fuorvianti che celavano uno spirito nazionalista che a mio avviso mal si concilia con i principi democratici e pluralistici su cui è improntata la nostra Carta costituzionale.
La tutela e la valorizzazione delle lingue minoritarie rappresenta in sostanza la valorizzazione delle culture di cui la lingua è il primo e più importante elemento caratterizzante. Il principio sul quale si fonda questo testo è il rispetto per le diversità; è il riconoscimento del contributo che i portatori di valori, culture e civiltà diverse possono apportare allo sviluppo sociale, culturale e politico dell'Italia, in un'ottica pluralista e di civiltà. Si tratta in sostanza di una risorsa dell'Italia, che il nostro paese ha il dovere di utilizzare al meglio.
Credo che del testo in esame sia interessante la prospettiva di valorizzazione più che di tutela. L'ottica della valorizzazione, che emerge dall'impianto del progetto di legge, implica un atteggiamento attivo e di sostegno; la tutela, invece, avrebbe una valenza passiva.
Concludo, Presidente, perché ho esaurito il tempo a mia disposizione. Ci troviamo di fronte ad un testo avanzato, che ci mette in linea con la politica dell'Unione europea. Credo che su questa linea dobbiamo andare avanti cercando di approvare il testo al più presto, per fare


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in modo che l'articolo 6 della Costituzione trovi finalmente applicazione (Applausi del deputato Jervolino Russo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Niccolini. Ne ha facoltà.

GUALBERTO NICCOLINI. Signor Presidente, purtroppo non ho avuto modo di seguire la discussione che si è svolta sul provvedimento da gennaio ad oggi; anzi, per la verità l'ho seguita da lontano, poiché sono interessato a questo tema. Posso quindi dire che oggi condivido l'emozione che è stata espressa dal relatore per la maggioranza; la mia emozione, però, è di tutt'altro segno.
Ringrazio il relatore per la dotta esposizione storica che ha svolto all'inizio del suo intervento. Durante questo excursus storico ho pensato alla confusione di lingue, di genti, di razze che si è verificata in tutto il Mediterraneo (non soltanto in Italia): ho pensato al Nord Africa, alla Spagna, al mio Adriatico ed alla mia Dalmazia; ho pensato all'isola di Lussinpiccolo, che addirittura riesce ad essere non dalmata, non istriana, non veneta, non slava, non italiana, ma uscoca (quindi entriamo ancora in un'altra linea).
Se volessimo ricostruire la storia di tutto questo teatro che è l'Europa (e quindi l'Italia, nel cuore del Mediterraneo), penso che passeremmo qui molte sedute. Ma non credo che quel discorso ci porterebbe alle conclusioni del progetto di legge che abbiamo davanti.
In proposito sono preoccupato. Poco fa l'onorevole Menia si domandava, giustamente, se la tutela debba equivalere al bilinguismo: siamo convinti che per tutelare o per valorizzare si debba arrivare al bilinguismo? Lo dice una persona che viene da una terra che non da oggi è stata un crogiuolo di razze, di incontri, di storia, di religioni, di lingue e di popoli diversi; una terra che proprio nell'unità della lingua ha trovato la sua ragione d'essere, la sua direzione storica (dal passato al presente ed al futuro). Tutto ciò è avvenuto nella valorizzazione delle differenti culture: ricordo che Trieste - avanguardia nella storia d'Italia - è stata la città con più chiese di religioni diverse e con più scuole di lingue diverse; ma, guarda caso, si riconosceva profondamente nell'italiano, che condensava non per annullare quelle culture ma per metterle in comunicazione e per riaggregarle.
Valorizzazione e tutela non significano bilinguismo. Stiamo attenti: non vorrei che cadessimo in una logica perversa, che porterebbe realmente ad una sfasatura di tutto ciò che è stato costruito in questi anni. Ciò vale per la mia terra, ma credo che il caso che ho descritto rappresenti un esempio ed un emblema che vale per tutte le terre di confine italiane (sulle Alpi o sul mare).
Vorrei fare soltanto un esempio. Se approveremo questa legge, nel consiglio regionale che siede a Trieste si dovranno parlare tre lingue e - lo ricordo - anche le loro varianti. Infatti la minoranza slovena presente in Friuli-Venezia Giulia parla due lingue diverse a seconda che si trovi nel Carso triestino o nelle valli del Natisone. Gli stessi amici friulani hanno varianti notevoli tra la provincia di Udine e la Carnia. Vorrei poi ricordarvi che vi è una minoranza che parla ancora tedesco nella Val Canale e nella Val del Ferro e che vi sono minoranze ladine insite nella nostra zona, a cui si aggiungono, poi, i veneti di Pordenone. Credo quindi che in quel consiglio regionale non si parlerebbe più!

CARLO GIOVANARDI. Certo, con un interprete ciascuno...

GUALBERTO NICCOLINI. È vero, negli ultimi anni in consiglio regionale si è parlata una lingua sola con i risultati che conosciamo: allora parliamole tutte, almeno avremo una giustificazione per il suo cattivo funzionamento!
Il rischio è, dunque, che si arrivi a questo o che si debba far ricorso alle traduzioni.
Il disegno di legge al nostro esame propone soluzioni che mi preoccupano molto. Cercherò brevemente di ricapitolarne alcune.


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Direi che l'unico articolo del testo che mi piace è l'articolo 1, anche se è insufficiente, perché una volta che viene stabilito che la lingua ufficiale della Repubblica è l'italiano, bisogna anche dire che l'italiano va valorizzato ed insegnato, in un momento storico in cui si registra un'ignoranza vergognosa della nostra lingua. Chi è a contatto con il mondo scolastico ed universitario sa che studenti che arrivano alla laurea scrivono «laurea» con la elle e l'apostrofo! Siamo arrivati a questo.

DOMENICO MASELLI, Relatore per la maggioranza. Perché non scrivono per quattro anni.

GUALBERTO NICCOLINI. All'articolo 2 si dice, poi, che «La Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l'occitano e il sardo». Forse andrebbe precisato che la Repubblica tutela la lingua e la cultura di tali popolazioni se insite sul territorio italiano, altrimenti sembrerebbe che l'Italia tutela queste popolazioni dovunque si trovino nel mondo.
Vorrei poi fare un breve cenno ai problemi che discendono dalla norma relativa alle comunità rom e sinti: esse si trovano sul territorio italiano e dunque necessitano di una tutela, ma io cercherei di definire molto meglio questo problema per non lasciarlo così vago e dover fare poi una legge che spieghi le intenzioni di questa.
L'articolo 5 è un po' pesante: «Nelle scuole materne dei comuni di cui all'articolo 4» - che dovremmo rivedere - «l'educazione linguistica prevede, oltre all'uso della lingua italiana, anche l'uso della lingua della minoranza per lo svolgimento delle attività educative». Per tutti?

DOMENICO MASELLI, Relatore per la maggioranza. No.

GUALBERTO NICCOLINI. Giusto! Qualora i genitori non intendano avvalersi di tale facoltà, ne informano la scuola interessata. Però, se vogliamo fare un discorso serio, dobbiamo prevedere che siano i genitori che intendono avvalersi della facoltà che ne fanno opportuna richiesta: trattanadosi di una minoranza rispetto ad una maggioranza, credo che la richiesta debba essere fatta da chi accede alla facoltà.
A questo proposito, nella relazione di minoranza che il collega Menia non è riuscito a svolgere completamente per motivi di tempo si ricorda che l'articolo 7, punto G, della Carta europea specifica che «in materia di lingue regionali o minoritarie, all'interno dei territori in cui queste lingue sono praticate e secondo la situazione di ogni lingua, le Parti dovranno fondare le loro politiche, la loro legislazione e le loro pratiche secondo i seguenti obiettivi e principi: (g) la messa a disposizione di mezzi che permettano ai non parlanti una lingua regionale e minoritaria abitanti l'area ove quella lingua è praticata di apprenderla, se essi lo vogliono». Se lo vogliono!
A questo punto si prevedano non corsi obbligatori, ma corsi facoltativi e chi intende avvalersi della facoltà di parteciparvi lo chiede. Penso che debba essere questa la disposizione.
Peraltro mi sembra ridicolo far riferimento all'esercizio dell'autonomia didattica e, contemporaneamente, stabilire l'obbligatorietà dell'insegnamento della lingua della minoranza. Mettiamoci d'accordo: o l'insegnamento è obbligatorio oppure, se vi è autonomia didattica, esso è solo consigliabile. In questo periodo siamo molto, molto sensibili alla parola «autonomia», per cui direi di stare attenti.
Tornando al discorso che facevo prima, ossia di parlare in tante lingue addirittura nei consigli regionali, credo che questa sia una cosa estremamente grave, ancor più grave quando, al comma 3, leggo che ove non si conosca la lingua minoritaria deve essere garantita una immediata traduzione riassuntiva. Ma vogliamo scherzare? Di un intervento fatto in un consiglio


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regionale, provinciale o comunale, io, che non conosco la lingua minoritaria, mi faccio fare un riassunto per cui non saprò mai quanto ha detto l'avversario politico in quel momento? Come può accadere questo? A mio avviso questa è già una norma illegittima, che va assolutamente rivista e sistemata in maniera molto più corretta. Ciò significa che almeno nei consessi regionali si parli l'italiano.
Si diano pure delle disposizioni diverse a seconda dei comuni in cui si intendono inserire norme di tutela, si accetti il principio del censimento per sapere quanta gente vive in quella determinata situazione, si favoriscano, come stiamo facendo noi a Trieste da cinquant'anni, scuole, case di cultura, la casa musicale, le biblioteche e quant'altro si voglia ammettere, ma non per questo si dovrà imporre un bilinguismo da estendersi a situazioni che non hanno né senso storico, né senso pratico e che soprattutto andrebbero ad «inquinare» quei rapporti di correttezza tra maggioranza e minoranza instauratisi nella nostra regione.
Colgo l'occasione per ricordare che a Triste, ogni prima domenica del mese, c'è un preside di una scuola slovena che scende in piazza dell'unità d'Italia. Chi non conosce la mia città non sa che piazza dell'unità d'Italia è tanto sacra quanto la chiesa di san Giusto. Sono quei punti, infatti, in cui la storia, la tradizione, la cultura hanno trovato un riferimento preciso. Ebbene, da anni questo professore, ogni prima domenica del mese, scende in piazza dell'unità d'Italia a mezzogiorno (l'ora del massimo passeggio in città); tira su un bello striscione che reca una scritta, mezza in italiano e mezza in sloveno, sul diritto e la tutela delle minoranze; tira fuori una bandiera italiana con la stella rossa e tira fuori anche la vecchia bandiera della federazione iugoslava (quella di Tito) anch'essa con la stella rossa; con il suo bel megafono in lingua slovena «pontifica» per 15-20 minuti sui diritti della minoranza da tutelare. Ebbene, questa città con le sue ferite aperte, con il suo passato che stiamo seppellendo lentamente, a fatica e con grande maturità, «sfiora» questo personaggio ma nessuno mai gli dice: fatti in là! Ciò dimostra che la maturità, l'educazione civica, il senso che questa città ha nei confronti del presente, senza dimenticare il passato e guardando al futuro, è molto forte.
Non imponiamo dunque bilinguismi di forma, di maniera o di sostanza che andrebbero ad «inquinare» questa maturità, a rovinare questo passaggio verso il futuro in una città che ancora oggi ha le ferite aperte (Applausi dei deputati dei gruppi di forza Italia e di alleanza nazionale).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Brunetti. Ne ha facoltà.

MARIO BRUNETTI. Potrei parlare così: Zoti President, lejoni se une ce kam jetuar, ne kjo kohe, si studioz, si meridionalist, si arberesh...

PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Brunetti, abbiamo capito l'allusione. Prosegua in italiano!

MARIO BRUNETTI. Capisco che, così facendo, metterei in imbarazzo gli stenografi e che fra poco il collega Selva chiederebbe la traduzione. Pertanto, proseguirò con l'intervento che avevo intenzione di fare. Signor Presidente, colleghi, consentite a me che ho vissuto come studioso, come meridionalista e come oriundo arberesh, tutta la passione culturale ed emotiva che nel corso degli anni ha assunto il movimento per il diritto delle minoranze interne di vedersi rispettata la loro identità, di esprimere la mia soddisfazione nel vedere che il progetto di legge unificato recante norme di tutela delle minoranze linguistiche è arrivato, alla fine, in aula.
Ho voluto iniziare simbolicamente con alcune parole in lingua albanese...

GUSTAVO SELVA. Le vuole tradurre?

MARIO BRUNETTI. Le ho tradotte all'inizio del mio intervento.


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...per dire che l'albanese è un idioma indoeuropeo, che non ha lingue gemelle e che risale alla civiltà pelasgica. È una lingua parlata dalle popolazioni che dettero origine all'impero illirico in una vasta area che andava dalle Bocche di Cattaro all'Epiro, dalla Macedonia fino alla Japigia, e che dalla metà del secolo XV, con l'occupazione ottomana dell'Albania, le numerose comunità arberesh insediatesi nel Mezzogiorno d'Italia, anche grazie all'amicizia che legava Scanderbeg a Ferrante d'Aragona, re di Napoli, si tramandano di generazione in generazione assieme ad usi, costumi, cultura e tradizioni.
Con questa lingua, del resto, parlarono uomini insigni di questa Italia. Parlava Pasquale Baffi, ministro della cultura della Repubblica partenopea, Agesilao Milano, attentatore del re borbone, definito da Mazzini «eroe tra gli eroi», Scura, Dramis, ministri del direttorio di Garibaldi, ed i numerosi italo-albanesi della spedizione dei mille con i sette generali tra le camicie rosse che si battevano proprio per unificare l'Italia. Ma con la stessa lingua comunicavano Francesco Crispi, pur nel giudizio che si può dare sul personaggio, formatosi in un collegio italo-albanese della Sicilia, gli avi di Antonio Gramsci, provenienti dalla splendida comunità arberesh di Plataci, in cui anche il sottoscritto ha visto i natali, nonché Costantino Mortati, uno dei padri della Costituzione italiana.
Purtroppo questa lingua, come altre citate nelle proposte di legge in esame, è stata sinora misconosciuta, anche se nelle comunità minoritarie di antico insediamento rimane sempre vivo l'amore per la lingua materna e le tradizioni popolari, che le centinaia di emigrati da questa comunità si portano appresso lungo le strade dell'emigrazione nelle Americhe, in Europa, in Australia, ovunque.
Nel merito, c'è da dire che questo progetto, tendente a dare attuazione all'articolo 6 della Costituzione, ha assunto nel corso degli anni le sembianze di una lunga «telenovela». Infatti, non da poco, ma addirittura dal 1958, data della presentazione in Parlamento della prima proposta di legge in materia, tra ipocrisie ed equivoche interpretazioni della norma, tra aristocratici fastidi e nazionalistiche avversioni, tra finte volontà di tutela ed intolleranze, tra discussioni di esperti e riedizioni di testi, tra sistematici sabotaggi e decadenze per ripresentare nuovi progetti, tra generosi sforzi di storici e linguisti di vaglia come Arté e come De Mauro o Pizzorusso per quanto riguarda gli aspetti giuridici, ed esasperanti gazzarre di esperti d'accatto, sono trascorsi quarant'anni senza che il dettato costituzionale di difesa delle minoranze interne abbia mai potuto concretizzarsi.
Oggi, con il provvedimento in esame, ci avviciniamo ad un punto di approdo positivo, cosicché, toccando ferro, con la conclusione positiva dell'iter parlamentare di questa legge l'Italia può collocare, almeno a livello emblematico, il problema delle sue minoranze di antico insediamento nell'ambito di un quadro giuridico definito, certamente parziale e limitato, che richiederà in tempi non geologici modifiche ed approfondimenti. Con tale provvedimento si esprime almeno l'intenzione di prendere atto della crisi della cultura monolinguistica su cui si è costruito ed è vissuto lo Stato italiano in questi decenni per guardare in avanti, al futuro, con una visione più pluralista e democratica. Ciò è necessario come atto di civiltà del nostro paese, ma anche per sentirci un po' più a nostro agio dentro l'Europa che tutti dicono di voler costituire nel rispetto dei popoli.
Ricordo che nel novembre 1997 - come già ricordava il relatore - sulla base di una relazione che presentai ratificammo la Convezione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali fatta a Strasburgo nel febbraio 1995, che ha rappresentato il primo organico strumento multilaterale di carattere convenzionale in questo settore che il Consiglio d'Europa aveva elaborato nell'intento di fornire una base giuridica uniforme alla protezione delle minoranze nazionali.
Il processo di elaborazione della convenzione si era avviato con il vertice di Vienna nell'ottobre 1993, quando i Capi di

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Stato e di Governo del Consiglio d'Europa convenirono di trasformare in obblighi giuridici per gli Stati membri gli impegni politici da questi assunti in numerose occasioni ed in particolare con la dichiarazione di Copenaghen in sede CSCE. Dalla convenzione da noi ratificata deriva l'obbligo per gli Stati di dare applicazione ai principi in essa contenuti attraverso norme da adottare a livello nazionale.
Si ricorderà l'osservazione da me fatta in quella sede di ratifica sui limiti nella definizione delle minoranze; un limite che peraltro poteva essere occasione per ricomprendervi, a livello di scelte nazionali, anche fenomeni in fieri come quelli conseguenti a migrazioni transnazionali.
Chiaro era invece, per quanto riguarda le minoranze di antico insediamento, avendo la convenzione un carattere essenzialmente programmatico nel suo contenuto normativo, che essa necessitava di una concreta attuazione con disciplina giuridica di dettaglio da parte di ciascuno degli Stati firmatari, tant'è che, per quanto riguarda il nostro paese, assieme all'approvazione del provvedimento di ratifica abbiamo richiamato esplicitamente la necessità, per non vanificare la convenzione e gli obblighi in essa contenuti, di approvare in tempi rapidi il nostro progetto di legge unificato di tutela, che è appunto quello che stiamo facendo ora.
Il provvedimento, peraltro, se non approvato impedisce al nostro paese, stando anche al giudizio della «Commissione di Venezia per la democrazia attraverso il diritto», di ratificare la Carta europea delle lingue regionali e di minoranza, sottoscritta a Strasburgo nell'ormai lontano novembre 1992 e che è ferma proprio per queste ragioni.
Chi oggi si lamenta che questa proposta di legge è arrivata in discussione come una «zeppa» per l'unità dello Stato, credo non abbia capito assolutamente nulla; dimostra di non essere stato in grado di intendere e volere nell'esprimere voto favorevole alla ratifica (proprio perché in quella sede abbiamo discusso di ciò) della convenzione quadro che ci imponeva di arrivare a questa discussione e all'approvazione del provvedimento sulle minoranze linguistiche. Credo che solo la grettezza culturale, l'ignoranza storica, la retorica patriottarda fuori moda, che trova alimento in una rigida equazione Stato-nazione-lingua...

ROBERTO MENIA. Ascoltati, comunque!

MARIO BRUNETTI. ...foriera, ai nostri giorni, di un neorazzismo di ritorno come proiezione di dominio sulle minoranze; solo questo può rendere ciechi e non avvedersi di ciò che sta avvenendo in Europa e nel mondo: non accorgersi che la storia dei popoli e degli Stati si sta giocando proprio sul tema della convivenza pacifica tra razze e culture diverse, unica via possibile per disinnescare le mine delle selvagge guerre spesso fratricide.

ROBERTO MENIA. In Unione Sovietica come tutelavano le minoranze?

MARIO BRUNETTI. È dunque arrivato il momento di rompere una continuità con questa ideologia, sconfiggendo anche da noi ogni residua cultura di intolleranza.
Tullio De Mauro ci ha ricordato che è nell'Europa del tardo Medioevo e nel Rinascimento che prende piede il paradigma della doppia corrispondenza biunivoca tra Stato, lingue e nazioni. Contro gli imperi ed i regimi feudali, contro realtà mercantili locali nascono grandi Stati nazionali; per una serie composita di motivi, culturali, religiosi, giuridici - egli dice - essi tentano di assumere come proprio ideale relativo il monolinguismo, per cui delle lingue esistenti all'interno di ciascuno Stato una sola viene privilegiata e diventa lingua delle leggi, dei nascenti sistemi istituzionali, della nascente editoria e poi dei giornali e spesso - ad eccezione dei paesi cattolici - anche del culto e della vita religiosa.
È la lingua del sovrano e della corte, della capitale e della generalità dei sudditi.


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Insomma, nella complessità di concreti intrecci storici, l'ideologia politica monolingue in una certa fase ha potuto agire anche nel senso dell'autonoma affermazione dei diritti dei popoli nella comunità delle nazioni; oggi, però, dinnanzi al violento processo di globalizzazione e alla pretesa di imporre un pensiero unico ed un unico modo di vita, dominato dalla finanza, non solo entra in crisi irreversibile quella cultura, ma la negazione della diversità culturale e l'omologazione ad un unico codice di pensiero diventano elementi di conflitto, riassorbibili solo in una visione multietnica e plurilinguistica della società in cui le identità diverse possono convivere in un quadro di tolleranza e di eguaglianza dei diritti, capaci di sconfiggere, in questa prospettiva, vecchie ideologie indotte da rabbiose voglie fuori tempo di sopraffazione linguistico-culturale.
È davvero malinconico ascoltare affermazioni come quelle rilasciate negli ultimi giorni secondo cui salvaguardare le minoranze interne significherebbe compromettere l'unità dello Stato. È un vecchio refrain che sentiamo ormai da decenni. Sarebbe sciocco e si perderebbe del tempo a stare qui a spiegare la storia a chi non vuole capire né gli eventi storici né il presente e che non sa cogliere come le minoranze di antico insediamento siano parte organica ed importante dello Stato italiano.
Antonio Gramsci - consentitemi anche questa citazione - ricordando l'origine italo-albanese del padre, in una splendida lettera dal carcere, in cui affrontava in termini storici il problema delle razze, affermava: «La mia cultura è italiana fondamentalmente e questo è il mio mondo: non mi sono mai accorto di essere dilaniato tra due mondi, sebbene ciò sia stato scritto nel Giornale d'Italia nel marzo del 1920». Potrei aggiungere, trovandomi nelle stesse condizioni di «oriundo», che salvaguardare quel di più che identifica le minoranze linguistiche arricchisce qualitativamente la cultura italiana.
È forse utile anche su questo punto ricordare De Mauro: salvaguardare i diritti linguistici dei francofoni e dei francoprovenzali della Valle d'Aosta non significa davvero tutelare lo straniero, come qualche insipiente ha affermato, ma tutelare un pezzo di storia patria. La continuità etnico-culturale è più forte di ogni confine politico tra Provenza, Liguria e Piemonte, antica comunanza di istituzioni politiche, antico e rinnovato ruolo di cultura del francese in Piemonte e in altre parti d'Italia. Salvaguardare i diritti linguistici dei tedescofoni di dialetto alemanno o bavarese, dentro e fuori la provincia di Bolzano, significa onorare una lunga vicenda di pacifica penetrazione germanica dal nord verso il sud latino ed il sud-est e l'est slavo, di presenza civilizzatrice, e sanare le piaghe di due conflitti mondiali (piaghe inferte non solo dalla Germania di Hitler).
Quel po' che rimane della Grecia salentina e calabra è l'ultima preziosa testimonianza di un'ininterrotta, millenaria presenza ellenica sul suolo che poi si chiamò Italia ma fu anzitutto Megale Hellas, Magna Grecia). Gli albanesi di antico insediamento parlano la lingua che è stata la prima base dell'albanese scritto e letterario d'Albania e sono la testimonianza di un saggio e civile costume di ospitalità etnica del Regno delle due Sicilie.
Girolamo De Rada, stimato nei maggiori circoli letterali dell'ottocento e, assieme a lui, Santori, Serembe, Variboba, Basile, sono esempi di creatività della letteratura italiana ed europea. Si può ricordare forse ancora che nel seno del popolo italo-albanese operò quella «fucina del diavolo» per i Borboni, il prestigioso collegio italo-albanese Corsini, in cui un grande ruolo ebbe appunto la religione greco-ortodossa alimentata dal vescovo Rodotà. Questo collegio fu tanto caro a Francesco De Sanctis e fu culla di artisti e di uomini politici che segnarono la storia dell'Italia intera ed influenzarono l'Europa. Si potrebbe continuare! Disprezzare questa eredità, significherebbe disprezzare un pezzo significativo di storia italiana ed europea ed aggiungo - tra parentesi - che continuare a cianciare

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senza riflettere, o senza conoscere la storia d'Italia sull'unità che verrebbe messa in crisi con la tutela delle minoranze, significherebbe svilire ed offendere le esaltanti pagine di eroismo scritte dagli albanesi nel Risorgimento, proprio per costruire quell'unità nazionale! E naturalmente significherebbe anche - ricorda ancora De Mauro, ed io sono d'accordo con lui - disprezzare e calpestare un diritto umano elementare come quello alla parità linguistica, sancito da ben due articoli della nostra Costituzione, oggi così pesantemente messa in discussione: mi riferisco all'articolo 3, comma 2, ed all'articolo 6, di esplicita tutela delle minoranze linguistiche. Significherebbe inoltre continuare a contraddire statuti ed atti formali degli organismi internazionali cui l'Italia aderisce e continuare ad andare assurdamente contro corrente rispetto alla linea di attiva promozione dei diritti delle comunità di lingue meno diffuse adottate ormai dalla generalità dei paesi del mondo. Questo atteggiamento, se permanesse, denoterebbe stoltezza culturale ma soprattutto cecità politica rispetto ai processi in atto in Europa. È palese che dinanzi ai pericoli per l'esistenza delle culture diverse e per la democrazia indotte dal processo di omologazione imposto dalla teorizzazione del pensiero unico, si risveglia nelle minoranze etnico-linguistiche una «seconda coscienza» che fa scattare la molla della resistenza alla minaccia della propria identità culturale e lotta per sconfiggere questo miscuglio livellato di valori e per riaffermare, con la richiesta di legittimazione della propria diversità culturale, una concezione democratica dello Stato e lo spirito pluralista della Costituzione repubblicana.
Ho avuto modo altre volte di dire - ed anche di scrivere più volte quale osservatore attento di questo mondo - che questa seconda coscienza, che spinge le minoranze etnico-linguistiche interne ad identificarsi nella propria storia e nella propria diversità culturale non si pone come incubo o nostalgia, ma come necessità di difesa di una propria peculiarità, che fa da freno al compimento di un genocidio linguistico operato attraverso la pretesa di omologazione nei valori fagocitanti e pervadenti di una mondializzazione economica che entra sempre più in conflitto con le diversità e la democrazia: il conflitto può nascere qui, se non si coglie questo valore positivo che viene dalle minoranze!
Del resto, se guardiamo bene alla stessa esperienza d'Europa in questo senso, constateremo che essa è segnata dalla caratteristica di rifiuto delle diversità all'appiattimento, che sottolinea una volontà di voler rivivere e praticare i valori della vita e della convivenza senza annullarsi. Non si tratta quindi di un ritorno all'indietro, ma dell'esplodere di nuovi valori, per cui la riaffermazione dell'identità etnico-linguistica si evidenzia come tentativo di recuperare una «naturalità» minacciata da contrapporre in maniera speculare all'«artificialità», ai meccanismi brutalmente distruttivi ed organicamente antidemocratici della teologia finanziarista della mondializzazione che crea - questo sì! - esuberi ed impone omologazione.
La proposta di legge in esame si innesta in questo quadro distruttivo come segnale di controtendenza, che, per di più, stacca la spina di giustificabili vertenze delle minoranze interne che si sentono, a giusta ragione, nel disprezzo del dettato costituzionale, vilipese, disprezzate, aggirate, mortificate dalla lunga antistorica, spesso cinica sottovalutazione della loro legittima domanda di riconoscimento dell'esistenza e della difesa del diritto di identità.
Quello che viene dato con questa legge non è un segnale di poco conto, seppure minimo, ma tangibile, e va colto in tutta la sua essenza. È già importante stabilire un quadro giuridico di identificazione ed uscire, tra l'altro, dalle diatribe tra lingue e dialetti di cui forse parleremo nel corso di questa discussione. È importante, appunto, un quadro giuridico di riconoscimento di quelle comunità che, caratterizzate da codici linguistici di storia diversa dalla lingua italiana, possono trovare in questo strumento elementi di valorizzazione

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della loro diversità ed una ragione per divenire soggetti attivi della loro storia pur dentro l'organicità dello Stato italiano.
Colgo proprio in questo punto lo spirito nuovo contenuto nella proposta: il riconoscimento delle minoranze di antico insediamento e i diversi gradi di tutela previsti che superano l'angoscia di guardare al problema nell'ottica di dover eliminare pericoli eventuali per lo Stato monolinguistico e mononazionale nella speranza di una assimilazione delle diversità culturali che, invece, resistono a dispetto del tempo e del vario mutare nei secoli delle situazioni politiche e storiche. Difendere ora, al contrario, con una legge dello Stato stesso le minoranze significa collocare lo Stato nelle condizioni di introdurre dentro di sé elementi di vita plurale, riconoscendo nella diversità storico-culturale e quindi della connotazione linguistica dei territori da esse abitate uno strumento di ridefinizione organica sia della propria strutturazione democratica sia della specificità della valorizzazione politica e territoriale attivando, al suo interno, progetti di intervento e meccanismi di sviluppo finalizzati al lavoro e alla crescita sociale e civile, utilizzando peraltro i cospicui finanziamenti dell'Unione europea ai quali purtroppo l'Italia non può accedere in assenza della normativa specifica.
Sotto questo aspetto l'intervento dello Stato deve intrecciarsi con un impegno serio verso il Mezzogiorno e le zone interne ove sono in prevalenza allocate le minoranze di antico insediamento, e per ciò stesso più sottoposte ai rischi di dispersione e di depauperamento, colpite come sono dai morsi terribili della disgregazione economica e dello spopolamento.
Sta in questo impegno massiccio e combinato la prova concreta di come il Governo può considerare la politica verso le minoranze, cioè un arricchimento dello Stato italiano e della società e non già un atto dovuto a coercizioni o a inspiegabili paure di conflitti e rotture dell'unità nazionale, del cui valore di fondo proprio alcune minoranze interne, come gli arberesh, si sono fatti portabandiera versando lacrime e sangue.
Per di più, l'approvazione della proposta di legge sulle minoranze, il cui esame quest'Assemblea affronta oggi - e che io mi auguro possa rapidamente concludere l'iter al Senato perché diventi, al fine, atto giuridico operante dello Stato -, al di là dello starnazzare delle oche replicanti che in quest'aula e fuori da quest'aula vibrano di furore razzistico e di banale ignoranza rispetto ai problemi che stiamo discutendo, contribuisce a dare credibilità all'Italia, facendola uscire dall'antitesi morta di una irrisolta contraddizione tra l'enfatizzazione dell'entrata in Europa e il non rispetto delle direttive europee in materia di minoranze linguistiche, di vecchio e nuovo insediamento, al punto da non poter ratificare la Carta dei diritti.
Agli europeisti di riporto c'è da ricordare, allora, che questa ipotesi di legge unificata, che mi sembra abbia trovato largo consenso anche nella Commissione e che raccoglie in sé proposte come quella che il sottoscritto ha presentato sin dal primo momento in cui ha messo piede in Parlamento, lungi dal creare difficoltà all'Italia, ci aiuterà, invece, a stare in Europa; a costringere gli altri paesi europei a rispettare il nostro presente e la nostra storia, a farci costruire uno Stato più tollerante e a far guardare ai giovani con qualche fiducia in più al loro avvenire, anche perché aiuta a liberare le classi politiche di maggioranza da una macchia disonorevole costituita dall'ipocrisia di aver sancito nella Costituzione, in via di principio, un diritto di tutela per le minoranze linguistiche senza poi dotarsi sul terreno pratico, come è avvenuto in questi anni, di una legge di attuazione dell'articolo 6, quindi sostanzialmente negando, così, nei fatti il rispetto e l'applicazione di quel diritto.
Ho terminato, signor Presidente. Credo che le minoranze di antico insediamento stiano attendendo con fiducia il voto favorevole di questo Parlamento sul provvedimento di cui stiamo discutendo. Deluderle, ancora una volta, sarebbe un

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delitto (Applausi dei deputati dei gruppi di rifondazione comunista-progressisti, dei democratici di sinistra-l'Ulivo e dei popolari e democratici-l'Ulivo)!

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Giovanardi, che ha a disposizione sette minuti. Ne ha facoltà.

CARLO GIOVANARDI. Il centro cristiano-democratico condivide pienamente una parte della proposta di legge, ma è assolutamente contrario ad un'altra parte della stessa. Condivide pienamente la parte della valorizzazione, dell'esaltazione e della necessità di ravvivare sul territorio lingue, idiomi e dialetti, a proposito dei quali è chiaro che andremmo in suddivisioni molto difficili; condivide, comunque, l'idea che nelle scuole, negli istituti culturali e nel teatro lingue che rischiano di scomparire vengano, viceversa, ravvivate e diventino un qualcosa che mantenga viva la tradizione di quel modo di parlare che ha radici antiche. La logica della legge che non possiamo assolutamente condividere e che non sapremmo come definire, nonostante l'intervento del collega Brunetti, che ha offeso molto ma spiegato poco, è quella per cui si stabilisce - è bene che i cittadini lo sappiamo - in undici regioni italiane (Friuli, Piemonte, Lombardia, Veneto, Abruzzo, Molise, Sardegna, Puglia, Sicilia, Basilicata e Calabria), in venti o trenta province, in centinaia di comuni, in decine di corti d'appello e tribunali che circa 2 milioni e mezzo di italiani abbiano diritto di parlare ad altri italiani tramite interprete. È esattamente questo che provvede la legge, e lo fa in maniera assolutamente immotivata.
Prendiamo il caso della Sardegna, visto che l'altra settimana ero ad Alghero: secondo questa legge, un catalano di Alghero ha diritto, nel consiglio comunale di Alghero, nel consiglio provinciale di Sassari, nel consiglio regionale, nel tribunale e nella corte d'appello a parlare in catalano e ad avere un interprete che, in ognuno di questi consigli o istituzioni giudiziarie o sedi amministrative, riassuma per gli italiani ciò che ha detto. Ma lo stesso diritto lo avrà il sardo che abita ad Alghero, nel senso che a sua volta avrà diritto all'interprete, considerato che vi è una minoranza sarda anche ad Alghero: la lingua catalana verrà tradotta in italiano per un'altra minoranza linguistica, per il sardo, che a sua volta, quando parlerà, vedrà riassunto in italiano il suo intervento per il catalano. Né va dimenticato, e quanto sto per dire vale anche per il Friuli, quanto mi hanno spiegato, cioè che i sardi non sono in grado di capirsi tra loro: il dialetto stretto di Cagliari rispetto a quello di Sassari...

PIETRO FONTANINI. I friulani si capiscono, non preoccuparti!

CARLO GIOVANARDI. So che può sembrare una barzelletta, ma, in realtà, è questo il principio che stabiliamo con questa legge, e si tratta di un principio oneroso, in quanto nessuno degli eletti in questi consigli rinuncerà - perché ne avrà diritto - a far assumere una, due, tre, quattro o cinque persone che gli garantiscano l'intervento riassunto in italiano; quindi verrà utilizzato, se non altro, anche per ragioni di clientelismo. Noi facciamo passare allora il formidabile principio non dell'esaltazione delle lingue, dei dialetti, degli idiomi diversi, ma quello che una comunità nazionale, gli italiani di lingua tedesca, ladina, sarda, friulana o veneta, per parlarsi tra di loro hanno bisogno dell'interprete, altrimenti non sono in grado di comunicare. Mi sembra un principio folle - altro che Bossi! - scardinare non la lingua - può essere l'italiano o l'inglese - ma il principio di una comunità. C'è comunità quando ci si parla e ci si intende senza bisogno di un interprete che, a pagamento, riassume un pensiero. A maggior ragione ci si deve parlare nei consigli comunali, provinciali, regionali, nelle comunità montane, negli uffici giudiziari senza bisogno di un interprete.
Certo, ci sono poi situazioni particolari e specifiche: nella regione Trentino-Alto Adige, giustissimo, vi sono collegi speciali; nella provincia di Bolzano, dove c'è una minoranza - o maggioranza, come volete


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- tedesca, il bilinguismo ha una ragione storica profonda. Noi, però, estendiamo a 2 milioni e mezzo di italiani, «a capocchia», questo principio. Qualcuno infatti mi deve spiegare perché il friulano sì ed il veneto no, perché il sardo sì ed il lombardo no: qual è il confine tra la lingua veneta e quelle friulana? Non esiste, è una scelta politica, odiosamente politica aggiungerei. Perché il modenese, ad esempio, che ha un suo idioma, una sterminata produzione poetica in vernacolare, decine di commedie, vocabolari italiano-modenese e modenese-italiano non deve essere tutelato, essendo una ricchezza di quella regione? Così il napoletano.
Vedete allora che questa legge parte su alcuni aspetti positivamente - la valorizzazione delle culture - ma deraglia con il concetto che in mezza Italia ci si debba capire attraverso interpreti.
Diceva il relatore, parlando degli occitani, che hanno dato tanto per l'unità d'Italia anche nella guerra 1915-1918, nonostante facessero fatica a parlare l'italiano. Ebbene, era esattamente il caso del 70 per cento dei combattenti in quel conflitto, napoletani, sardi, pugliesi, emiliani, che parlavano solo il dialetto. Non era solo il caso degli occitani. Purtroppo, l'unità d'Italia è stata fatta da popolazioni che non si capivano tra di loro, parlavano soltanto il dialetto. Poi, per fortuna - io ritengo per fortuna - siamo arrivati ad usare un linguaggio comune che ci permette in questo Parlamento di capirci. Io, però, ho presentato un emendamento perché se nel consiglio regionale del Friuli qualcuno ha diritto di parlare friulano, oppure chi proviene da Piana degli albanesi può parlare appunto albanese nell'assemblea regionale siciliana che ha rango di Parlamento (così come il governo siciliano ha rango di vero e proprio governo sul suo territorio) bisogna allora che anche qui quelle minoranze parlino la loro lingua madre ed abbiano un interprete che traduca per gli italiani che non la capiscono. Altrimenti, caro relatore, il ragionamento è monco. Mi si deve spiegare, infatti, perché ciò possa avvenire nei consigli comunali, provinciali e regionali, nelle comunità montane, nei tribunali e negli uffici pubblici, ma non in Parlamento.
Vedete allora che le incongruenze di questa parte della normativa sono insuperabili e assolutamente poco meditate: invece di esaltare le lingue e le parlate oggetto del provvedimento avviano un meccanismo disgregante che mette in pericolo quel poco di comunità nazionale che - lo ripeto - è la capacità di un popolo, di gente che ha la stessa origine, di parlarsi direttamente senza bisogno di ricorrere ad interpreti (Applausi dei deputati dei gruppi misto-CCD, di forza Italia e di alleanza nazionale).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Jervolino Russo. Ne ha facoltà.

ROSA JERVOLINO RUSSO. Signor Presidente, desidero premettere che naturalmente intervengo non come presidente della Commissione affari costituzionali, ma come parlamentare. Desidero innanzitutto ringraziare il relatore per la maggioranza per il lavoro che ha svolto, il sottosegretario Zoppi, il quale ci ha sempre seguito in modo costruttivo, ma anche il relatore di minoranza, onorevole Menia. Egli, infatti, certamente da un punto di vista diverso da quello dell'onorevole Maselli, ha esposto una interessante relazione che offre argomenti sui quali riflettere. Mi auguro pertanto di lavorare insieme, sia pure con punti di vista diversi, come è avvenuto in Commissione, raggiungendo però sintesi largamente condivise sulla base di un testo che indubbiamente è perfettibile, ma le cui linee di fondo non ritengo assolutamente, almeno dal mio punto di vista, possano essere stravolte.
È stato qui ricordato il lavoro svolto nelle precedenti legislature - non tornerò su questo aspetto - e sono stati fatti riferimenti molto puntuali all'articolo 6 della Costituzione. Vorrei aggiungere altri tre riferimenti costituzionali.
Ritengo che fra i diritti inviolabili della persona umana indubbiamente vi sia anche quello alla propria identità culturale


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linguistica. Credo altresì che la Costituzione, nel momento in cui riconosce le autonomie locali, riconosca non soltanto le strutture giuridiche rappresentative, ma anche la vita, la cultura, la storia e - perché no - la lingua delle comunità locali.
Penso che, tutto sommato, l'articolo 3 della Costituzione - un articolo caro a noi donne perché ci ha aiutato a far saltare discriminazioni basate sul sesso - vada però ricordato perché una delle discriminazioni segnalate, rispetto alle quali il secondo comma sottolinea la necessità di un impegno della Repubblica, riguarda le ragioni di lingua.
Non abbiamo lavorato nell'intento in qualche modo di minare, indebolire l'unità del paese, ma anzi siamo stati mossi dalla volontà forte di rafforzarla, probabilmente guardando all'unità da due punti di vista, sui quali dovremo ancora discutere.
Non penso tuttavia che tale unità si possa raggiungere attraverso un'omologazione forzosa delle diversità; quest'operazione è stata compiuta in alcuni tempi storici e in qualche regione. Ricordo, ad esempio, quando immediatamente dopo la prima guerra mondiale venne imposta alle popolazioni del Trentino - non me ne abbia il caro collega, onorevole Mitolo, racconto una storia che è anche storia della famiglia di origine di mia madre - la traduzione del cognome; i miei si salvarono solo perché il loro aveva un dimostrato retroterra storico. Queste operazioni di tipo forzoso portarono a far nascere un sentimento anti-italiano, antiunitario, anche in gente che ne era assolutamente lontana.
Ritengo che l'unità sia un'operazione indubbiamente difficile e complessa, ma sia un'operazione di armonizzazione delle diversità, di rispetto per le storie, le culture e le identità regionali. Del resto, se stiamo cercando di fare questo tipo di operazione a livello europeo, per fortuna con successo, non si capisce perché non possiamo e, dal mio punto di vista, non dobbiamo farla a livello nazionale.
Non c'è nessuna voglia di minare l'unità nazionale anche da un altro punto di vista. Ci sono paesi nei quali l'unità linguistica si accompagna e, direi, quasi si identifica con l'unità nazionale e ci sono paesi nei quali esiste l'unità nazionale, ma non l'unità linguistica; penso alla Svizzera, per esempio. Ritengo sia veramente assurdo pensare oggi a logiche che sopprimano queste realtà.
È stato già ricordato che all'interno del provvedimento - non ho alcuna remora a ricordare che questa proposta è nata dal gruppo di alleanza nazionale - è un articolo 1, il quale afferma con chiarezza che la lingua ufficiale della Repubblica è l'italiano. Prima qualcuno dei colleghi - se non sbaglio, l'onorevole Niccolini - ricordava che dovremmo impegnarci anche per far conoscere l'italiano, affinché questo riconoscimento non avvenga soltanto sulla carta, ma nella cultura viva e reale di tutti i cittadini italiani. Su questo non c'è assolutamente dubbio e nel mio gruppo vi è una forte volontà di lavorare in questo senso, ma ciò non va affatto in controtendenza rispetto ad una logica di doverosa attuazione del dettato dell'articolo 6 della Costituzione.
Ricordava poc'anzi l'onorevole Menia che anche i documenti possono essere redatti nelle lingue protette, però io vorrei anche sottolineare che al quarto comma dell'articolo 9 abbiamo stabilito con chiarezza che producono effetti giuridici soltanto gli atti e le deliberazioni redatti in lingua italiana, principio che viene ribadito anche nell'ultima parte dell'articolo 10. Abbiamo anche accettato il suggerimento - proveniente dal collega Aloi, se non ricordo male - di inserire un comma 2 all'articolo 21, che riguarda la diffusione della lingua e della cultura italiana all'estero. Anche a questo proposito c'è moltissimo da fare: è necessario verificare ciò che effettivamente viene prodotto, in termini di rapporto costi-benefici, dai nostri istituti di cultura italiana all'estero; si debbono inventare strumenti nuovi, potenziare l'attività di RAI-International, e così via. Sono però tutte cose diverse e

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che non vanno in controtendenza rispetto a ciò che noi vogliamo affermare con questa legge.
Con grande rispetto verso tutti i colleghi intervenuti, vorrei però dire che alcune volte mi sembra che vi sia nel nostro approccio ai problemi un certo qual provincialismo culturale. Prima Brunetti ed altri colleghi hanno ricordato il lavoro compiuto dal Consiglio d'Europa, dagli organismi comunitari e dal Parlamento europeo, lavoro che è stato poi praticamente recepito in tutti gli Stati membri, rispettivamente, del Consiglio d'Europa e dell'Unione europea. Ora, signor Presidente, colleghi, a me pare francamente molto strano che ciò che negli altri Stati europei non è stato affatto preso come un indebolimento dell'identità e della cultura nazionale debba essere invece interpretato in questo modo nel nostro paese.
Certamente comprendo le difficoltà che possono esistere dal punto di vista pratico e sotto questo aspetto, come ho già detto, le norme sono probabilmente perfettibili, ma parlando di perfettibilità voglio dire con umiltà e fermezza ai colleghi che mi auguro che anche la XIII legislatura non si concluda insabbiando questo progetto di legge, come è già avvenuto nella XII, nell'XI e nella X. Mi auguro anche che il lavoro intorno a questo testo si sostanzi di critiche e proposte costruttive: il profluvio di emendamenti, francamente ostruzionistici, che già sta giungendo ai nostri uffici non credo dimostri la volontà di operare in una logica costruttiva.
Dicevo, comunque, che il progetto di legge è probabilmente perfettibile e forse può anche creare qualche difficoltà applicativa, ma se andiamo a stringere, in realtà, i diritti che il testo riconosce alle minoranza linguistiche sono sostanzialmente tre. In primo luogo, quello di parlare la propria lingua nelle istituzioni democratiche locali. Amici, noi facciamo le riforme istituzionali, parliamo di logica di partecipazione e di diritti di cittadinanza attiva: ebbene, mi pare che fra i diritti di cittadinanza attiva vi sia anche quello di esprimersi nella lingua e con la cultura che sono proprie. Non è poi un diritto tanto strano! Anche il diritto di usare la propria lingua davanti agli organismi giurisdizionali - se ne parlava poco fa con il sottosegretario per la giustizia, Corleone - si potrà articolare meglio, si potrà perfezionare la relativa norma, ma in fondo che tipo di giustizia vogliamo esercitare nel nostro paese se il cittadino non è in grado di farsi capire chiaramente dal giudice e come può un magistrato giudicare un cittadino che non ha avuto modo di esprimere il suo punto di vista, di difendersi in modo adeguato? A me sembra che questi siano non graziose concessioni del Parlamento italiano ma riconoscimenti di diritti minimali di libertà, che un sistema democratico deve garantire a tutti i cittadini.
Anche nel caso del diritto all'informazione in radio e televisioni locali, amici e colleghi, siamo proprio al minimo: quando l'articolo 21 della Costituzione parla di diritto all'informazione, lo riconosce non rispetto ai cittadini di lingua e cultura italiana ma rispetto a tutti i cittadini italiani; quindi, anche l'uso delle lingue locali per far comprendere ciò che sta avvenendo mi sembra rientrare in qualcosa di costituzionalmente garantito.
L'altro diritto di cui si è parlato molto riguarda la possibilità di approfondire, durante il percorso scolastico, la conoscenza della propria lingua, della propria cultura e della propria storia. Vorrei dire con chiarezza che nel Comitato ristretto ed in Commissione nessuno si è mai sognato di porre questo diritto come alternativo alla conoscenza, allo studio, all'approfondimento della lingua italiana: quindi, assolutamente la possibilità di comunicare fra i cittadini non viene meno. È invece qualcosa che si aggiunge. Inoltre, preciso che se c'è una persona che crede nell'autonomia scolastica sono proprio io, perché in fondo, come ministro della pubblica istruzione, ho proposto, sostenuto ed ottenuto il varo per la prima volta, nel provvedimento di accompagnamento alla finanziaria 1994, dell'articolo sull'autonomia scolastica; tuttavia, riconoscere

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un sistema di autonomia non significa affatto rinunciare a porre dei punti fissi e degli obiettivi, che poi autonomamente le singole istituzioni scolastiche si organizzano per raggiungere. Quindi, non vi è alcun contrasto fra ciò che proponiamo e la logica dell'autonomia.
Due ultime considerazioni voglio aggiungere. Il relatore Maselli è stato capace di instaurare un colloquio molto produttivo con il Comitato per la legislazione. L'altro giorno, per la cortesia del collega Armaroli, ho avuto la possibilità di avere una tabella nella quale si riporta l'accoglienza che le Commissioni di merito hanno dato ai suggerimenti del Comitato per la legislazione. Bene, non credo che faccia onore a nessuno (meno che meno a chi ha studiato e voluto il nuovo regolamento) constatare che, così come Armaroli mi faceva notare, i rilievi del Comitato per la legislazione vengono normalmente disattesi in misura pressoché totale. Ebbene, noi invece abbiamo recepito questi rilievi. Ed allora mi rivolgo con amicizia e con rispetto ai colleghi dell'opposizione: non si può chiedere (positivamente, come loro hanno fatto) l'intervento del Comitato per la legislazione e poi imputare alla Commissione di merito il fatto di avere accolto i rilievi dello stesso. No, noi non avevamo chiesto questo intervento. È stato chiesto, è avvenuto, le osservazioni avanzate sono più che fondate e noi le abbiamo accolte: dovrebbe essere qualcosa che faciliti l'approvazione della legge. Si deve proprio al Comitato per la qualità della legislazione l'inserimento della precisazione - dal mio punto di vista, opportuna - dell'aggettivo «storiche» nell'espressione «tutela delle minoranze linguistiche» nel titolo della legge. Così come si deve al Comitato per la qualità della legislazione il comma 2 dell'articolo 2, quello relativo ai rom e ai sinti. Può piacere o non piacere - personalmente, a me piace - ma le comunità dei rom e dei sinti sono comunità antichissime, che soggiornano da centinaia di anni nel territorio nazionale. Devo dire che ho fatto un'esperienza bellissima nella scorsa legislatura, quando presiedevo una Commissione non importante come la Commissione affari costituzionali, ma una Commissione sulla quale qualcuno sorrideva (personalmente non ho sorriso mai, perché è stata un'esperienza molto bella), cioè la Commissione speciale competente in materia di infanzia, che questo ramo del Parlamento istituì verso la fine della legislatura. Nell'ambito di una indagine sulla condizione dei bambini rom e sinti, ascoltammo i rappresentanti di queste comunità. Era la prima volta che queste comunità ufficialmente venivano chiamate ed ascoltate in Parlamento. Bene, è stato un incontro bellissimo, perché queste comunità esprimono una ricchezza culturale che dal mio punto di vista è interessantissima ed affascinante.
Del resto, credo che non si debba scandalizzare nessuno. Ho chiesto agli uffici di fare una rapida indagine delle leggi regionali sulla condizione dei nomadi: ne esistono ben dieci, delle regioni Basilicata, Liguria, Toscana, Veneto, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Lombardia, Marche e Piemonte. Quindi, mi sembra che la legge dello Stato arrivi per ultima, ma comunque almeno fissa un principio.
Vorrei fare un'ultima considerazione, che riguarda il Governo, ma non il sottosegretario Zoppi, che anche dal punto di vista della puntualità è eccezionale ed esemplare. È stata rilevata dai due relatori e dal Governo stesso la mancanza della relazione tecnica. Amici, vorrei fare il punto su una questione di metodo. Noi, come Commissione affari costituzionali, con la collaborazione della maggioranza e dell'opposizione, abbiamo sempre fatto grandissimi sforzi per rispettare la calendarizzazione d'aula: ebbene, la deve rispettare anche il Governo. Bene o male, la Commissione bilancio aveva da un mese il provvedimento al suo esame e nel momento in cui quella Commissione dice di non potersi pronunciare perché manca la scheda tecnica del Governo, ritengo che anche questo problema debba essere posto in quella audizione - che molto opportunamente è stata chiesta e che avverrà nella Commissione da me presieduta

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- per verificare i rapporti Governo-Parlamento in vista della piena attuazione del regolamento.
La mia conclusione è di auspicare un lavoro di sereno confronto, di costruzione fatta insieme, per poter giungere all'approvazione di una legge che io giudico civile e necessaria in una democrazia che vuole essere sostanziale (Applausi dei deputati dei gruppi dei popolari e democratici-l'Ulivo, dei democratici di sinistra-l'Ulivo e misto-socialisti democratici italiani).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Fontanini. Ne ha facoltà.

PIETRO FONTANINI. Sar President, o comenci il mio intervent in furlan par protesta cuintri chest Stat che da plui di cicuante ains al è sord tai confronts di cheste lenghe.

PRESIDENTE. Onorevole Fontanini, la prego. Abbiamo capito il significato.

PIETRO MITOLO. Ecco dove si va a parare con questa legge!

PIETRO FONTANINI. Signor Presidente, colleghi, è da più di cinquant'anni che i popoli depositari di lingue e culture diverse dall'italiano attendono interventi che diano attuazione alle norme costituzionali contenute negli articoli 3 e 6. Cinquant'anni di attese e di incomprensioni sono tanti per uno Stato che annovera tra le sue popolazioni una varietà di lingue che pochi altri paesi in Europa hanno, considerando che il diritto di praticare una lingua minoritaria sia nella vita privata che nei rapporti con le istituzioni è un diritto imprescindibile, conforme ai principi contenuti nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici delle Nazioni unite ed affermato nell'Atto finale di Helsinki del 1975. Il ritardo della legislazione italiana nel recepire questi principi è particolarmente preoccupante.
Già nel 1992 il Consiglio d'Europa approvava la Carta europea delle lingue minoritarie o regionali, un documento fondamentale sottoscritto da diciotto Stati che dopo la ratifica della Norvegia, della Finlandia, dell'Ungheria, dell'Olanda, della Croazia e della Svizzera è ufficialmente entrato in vigore il 1 marzo di quest'anno. In precedenza, cari colleghi, ho ascoltato affermazioni che non sono consone rispetto a questa Carta. Si tratta in sostanza di un documento già entrato in vigore, anche se l'Italia non l'ha ancora sottoscritto.
La Carta riconosce le lingue minoritarie come componenti il patrimonio culturale dell'Europa. «La protezione e la promozione delle lingue minoritarie nei paesi e nelle regioni d'Europa» - dichiara il documento - «rappresentano un contributo importante per costruire un'Europa inserita nei valori della democrazia e del rispetto delle diversità culturali». Ecco un altro passo tratto dalla Carta: «In un'Europa libera e democratica rispetto, comprensione e tolleranza per tutti i gruppi linguistici devono diventare obiettivi primari nelle istituzioni e nell'informazione pubblica».
In questi anni le istituzioni pubbliche sono state disattente a questi principi. Non soltanto il Governo italiano non ha ancora sottoscritto la Carta europea delle lingue minoritarie, ma più volte vi è stato un atteggiamento di ostilità nei confronti dei popoli che a casa loro volevano difendere la loro lingua e la loro cultura. Anche la proposta di legge in esame denota questo atteggiamento di ostilità nei confronti dei parlanti una lingua diversa dall'italiano. Infatti il primo articolo recita: «La lingua ufficiale della Repubblica è l'italiano». Un modo veramente originale, cari colleghi, per dare tutela a chi da anni aspetta norme in suo favore: gli si ricorda che la lingua dominante in questo Stato è l'italiano! Cari colleghi, stiamo deliberando a favore delle minoranze linguistiche o continuiamo con questi proclami a fare violenza ai popoli non italici di questo paese?
Ci sembra poi che l'aver introdotto norme a favore dei rom e dei sinti sia poco rispettoso nei confronti delle culture che da sempre sono insediate in alcune


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regioni d'Italia e che hanno dato al patrimonio culturale mondiale pagine di letteratura tra le più significative. A titolo di esempio ricordo, per questo secolo, le poesie in lingua friulana di Pier Paolo Pasolini o di padre Davide Maria Turoldo.
Vorrei inoltre richiamare il parere espresso dal Comitato per la legislazione: come sarà possibile tutelare gli zingari rom e sinti senza aver specificato nell'ambito del testo di legge le norme e i principi in base ai quali sarà adottato un regolamento attuativo? È difficile. Certo si tratta di popolazioni che risiedono da parecchi anni sul nostro territorio italiano, però si spostano, si muovono e difficilmente (proprio per la loro dinamica ed il loro modo di essere) accettano anche le norme che molte regioni hanno loro dedicato.
Tra l'altro, la tutela della lingua degli zingari è contraria alla Carta europea delle lingue minoritarie, la quale all'articolo 1 esclude le lingue degli emigranti da quelle soggette a tutela. Anche in Commissione si era concordato di stralciare le culture degli zingari dal testo di questa legge; poi sono state reintrodotte, non sappiamo per merito di chi.
La lega nord per l'indipendenza della Padania pone come condizione irrinunciabile, al fine dell'espressione del voto favorevole, la soppressione del secondo comma dell'articolo 2, relativo alle comunità rom e sinti.
La nostra convinzione è dettata anche dalla necessità di rendere operativa questa legge, poiché la presenza delle due comunità cui ho fatto riferimento creerebbe non pochi ostacoli applicativi.
Il dibattito - speriamo approfondito e serio - che si svilupperà in quest'aula non potrà prescindere da alcuni luoghi comuni che cercano di invalidare la portata culturale di norme a favore di popoli minoritari.
Chi è contro i popoli e la loro lingua cita molto spesso la torre di Babele. Adesso farò un riferimento che spero il relatore, collega Maselli, che è un gran conoscitore della Bibbia, essendo anche pastore protestante, potrà comprendere. Al capitolo 11 della Genesi vi è il racconto della costruzione della torre di Babele e della successiva maledizione di Dio che confonde le lingue degli abitanti di quella antica città. Secondo un'esegesi più attenta, il racconto biblico va invece interpretato come il tentativo di Babele di massificare tutto e tutti, di andare contro la volontà di Dio che vuole gli uomini con le loro identità e diversità. Babele rappresenterebbe, dunque, la volontà di un potere unico che vuole una città unica con una lingua unica: in pratica il tentativo di realizzare quel potere centralizzante e massificante che è contro il volere di Dio.
La pluralità delle lingue è proprio la garanzia che Dio vuole a favore dell'umanità composta da tanti popoli e nazioni. Una volontà che si può leggere sempre nella Genesi al capitolo 10, dove si fa l'elenco dei popoli che sopravvivono al diluvio universale e che si moltiplicano con le loro diversità linguistiche ed etniche. Un pluralismo, dunque, sentito e vissuto come una benedizione secondo la volontà positiva del Creatore.
Il testo, quando all'articolo 2 elenca le minoranze oggetto di tutela, compie, peraltro, anche una discriminazione, in particolare nei confronti del friulano, del sardo e del ladino, facendo riferimento alle popolazioni parlanti tali lingue e non alle popolazioni friulane, sarde e ladine. In tale distinzione sembra scorgersi il tentativo di non riconoscere una pienezza di dignità a queste lingue, che sono parlate da popoli che da sempre vivono in Italia. Vorremmo capire perché. Mi rifaccio a questo riguardo ad un appunto del Comitato per la legislazione, il quale ha detto: «Chiarisca la Commissione la portata ed il significato, ai fini della legge in esame, del termine popolazioni e valuti i motivi per cui l'uso di tale termine è stato preferito a quello di comunità».
Come friulano non posso accettare questa discriminazione e con un emendamento propongo che tutte e dodici le minoranze siano poste sullo stesso piano. La mia lingua madre, il friulano, è una lingua riconosciuta a livello scientifico nella sua precisa individualità all'interno

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della grande famiglia delle lingue romanze. La sua tradizione letteraria...

CARLO GIOVANARDI. Tutte sono riconosciute, anche la mia!

PIETRO FONTANINI. Ascolta, Giovanardi, che forse impari qualcosa!
La sua tradizione letteraria inizia alla fine del 1200 e si normalizza definitivamente a partire dal 1300.

CARLO GIOVANARDI. Ma tutte sono così! Cominciamo a raccontarci le barzellette!

PIETRO FONTANINI. Lo conferma Dante nel suo De vulgari eloquentia, dove fa riferimento alla parlata degli abitanti di Aquileia.

CARLO GIOVANARDI. Anche nel ducato di Modena il duca parlava modenese!

PIETRO FONTANINI. Lo stesso riconoscimento si trova in un manoscritto della biblioteca vaticana del XIV secolo, nel quale si legge che il Friuli era provincia del tutto distinta dalle altre, perché in essa si parlava una lingua che non era né latina, né slava, né tedesca. Era un idioma del tutto differente da quello italico.
Oltre alle dodici minoranze che questa legge elenca vi sono altri popoli che attendono un riconoscimento: forse anche il tuo, Giovanardi. Mi riferisco, in particolare, al popolo veneto, che rappresenta la stragrande maggioranza all'interno della sua regione, ma che questa proposta di legge ignora. Come è possibile disconoscere la millenaria storia di un popolo che ha sempre mantenuto, soprattutto attraverso la lingua veneta, un orgoglioso attaccamento alla propria identità? I veneti a casa loro non si sentono minoranza, tuttavia chiedono con forza che la loro lingua e la loro cultura entrino all'interno delle istituzioni pubbliche e, in particolare, che la scuola italiana finalmente riconosca il valore letterario di quell'antica lingua.
Se da questa Assemblea non verranno accolti gli emendamenti che la lega nord per l'indipendenza della Padania ha presentato per dare dignità anche alle lingue veneta e piemontese, il nostro giudizio sarà fondamentalmente contrario alla norma.

CARLO GIOVANARDI. E il lumbard?

ROBERTO MENIA. C'è una lingua padana o no? Non l'ho ben capito!

PIETRO FONTANINI. Tuttavia non pensiate di bloccare la stragrande maggioranza dei popoli che vivono sul territorio della Padania perché saranno gli stessi popoli, che questa proposta di legge ignora, a far adottare alle regioni del nord tutta una serie di provvedimenti a favore delle loro culture.
Colleghi, se in Europa vengono parlate più di 60 lingue significa che l'identità dei popoli è qualcosa di naturale, che viene prima delle istituzioni, e non sarà possibile omologarle e distruggerle perché la libertà anche linguistica è un valore troppo importante per essere indebolito e mortificato da leggi che non rispettano questi diritti naturali (Applausi dei deputati del gruppo della lega nord per l'indipendenza della Padania).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Crema. Ne ha facoltà.

GIOVANNI CREMA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, ogni cultura che muore porta con sé una fetta insostituibile dell'intera cultura dell'umanità e le società più avanzate hanno l'obbligo di impedire che ciò avvenga. Di più: il grado di democrazia di uno Stato si misura anche dalle garanzie di difesa delle minoranze etnico-linguistiche.
Così il collega, onorevole Brunetti, illustrava la sua proposta di legge nella passata legislatura, ed io su questo punto ho concordato con lui quando con il


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collega, onorevole Massa, ho proposto ad altri deputati il testo che porta le nostre firme e che ha lo scopo di dare finalmente attuazione alla norma costituzionale prevista dall'articolo 6 della nostra legge fondamentale.
Il testo che è ora all'esame dell'Assemblea tiene conto delle indicazioni contenute in numerose proposte di legge e di un approfondito lavoro svolto in Commissione, che ha consentito di raccogliere un largo consenso, così come richiede la rilevanza culturale e sociale di un provvedimento così importante per buona parte del paese.
Seppur giustamente proiettati verso la piena integrazione europea e quindi attenti alla necessità di apprendimento di lingue straniere quali il francese e soprattutto l'inglese, ormai considerata lingua universale, non possiamo esimerci dall'azione di tutela di culture legate allo storico evolversi della nostra Italia. E ciò in maggior misura oggi, quando tutti concordano rispetto alla necessità di un più consistente decentramento dello Stato e molti (noi tra questi) per una sua trasformazione in senso federalista.
È questa che si propone una legge di principio, che intende definire un quadro generale per l'attuazione della Costituzione, affidando agli enti locali precisi compiti in materia sia di programmazione sia di intervento.
La parola, il linguaggio, può essere un mezzo esterno di comunicazione, un utile sistema commerciale di contatto, un elaborato metodo per i rapporti interpersonali, ed ecco l'utilità epidermica indubbia: impara l'inglese, impara il basic, il linguaggio dei computer! Questo è l'imperativo. È dunque l'imperativo dell'avere, così si avrà successo, più comunicazione, più spazio per l'azione. Così l'amico e compianto collega, onorevole Loris Fortuna, scriveva nella sua relazione nella IX legislatura in Commissione affari costituzionali, in un precedente sfortunato tentativo legislativo. Il suo contributo prezioso e appassionato in ordine al tema in esame così continua: ma nel regno dell'essere, laddove il verbum mentis esprime l'intera interiorità dell'uomo, ogni comunità ha la sua parola che corrisponde alla sua storia, che è costruita nella sua storia. Può essere, anzi è così, che sia necessario utilizzare negli scambi e nei rapporti un'altra lingua, la cosiddetta lingua nazionale od altre, ma è assolutamente necessario, contemporaneamente, non estraniarsi dalle fonti del proprio linguaggio prodotto dall'esperienza e dalla vita della propria gente, della propria comunità, della propria famiglia. È il rapporto tra parola-scorza e parola-seme che si ripropone continuamente tra l'avere e l'essere.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, noi oggi diamo seguito, anche qui con grande ritardo, alla carta dei diritti delle minoranze etniche e linguistiche che è stata approvata alcuni anni fa dal Parlamento europeo. L'onorevole Gaetano Arfé, che ne è stato promotore e del quale mi piace ricordare il fatto di essere, assieme a Loris Fortuna, mio compagno di fede politica, con larga lungimiranza ci ricordava che è interesse della democrazia europea che la presa di coscienza delle minoranze non diventi un fatto di ribellismo endemico e che la rivolta delle regioni trovi un suo sbocco ed una sua composizione.
È proprio vero, è nell'interesse della democrazia europea, dell'Europa nel suo insieme, che non scompaia e neanche impallidisca una testimonianza della sua storia che è anche parte integrante del suo patrimonio di civiltà. È ancor più interesse dell'Europa inserire queste energie nel proprio circolo, anche come contributo alla lotta contro un processo di standardizzazione culturale, che è a livelli sempre più bassi, che ignora anche il pedagogismo paternalistico di altri tempi, impone e propone mode, costumi, comportamenti, uniformazioni mortificanti, che espone l'Europa ai pericoli di una autentica colonizzazione di provenienza americana e giapponese, grazie ai previsti sviluppi delle nuove tecnologie nei mezzi di comunicazione di massa.

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Solo ora, quindi, ci si accorge con grande preoccupazione che le culture diverse rischiano di scomparire con danni incalcolabili per le nostre comunità.
L'approvazione del testo in esame porterà l'Italia fra i paesi più avanzati in Europa ed in sintonia con le risoluzioni prima ricordate dell'Unione europea.
Signor Presidente, prima di concludere il mio breve intervento, vista l'avara disponibilità di tempo, mi permetta di ringraziare il presidente della I Commissione, l'onorevole Jervolino, che ha gratificato il lavoro mio e del collega onorevole Massa firmando la nostra proposta. Vorrei ringraziarla per la solerzia, peraltro abituale, con la quale ha seguito il provvedimento in esame. In modo particolare, desidero ringraziare il relatore per la maggioranza, il collega Maselli, che con tenacia ed ammirevole impegno ha permesso all'Assemblea di iniziare oggi la discussione e l'esame del provvedimento (Applausi dei deputati del gruppo misto-socialisti democratici italiani).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Aloi. Ne ha facoltà.

FORTUNATO ALOI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, io non esordirò in una lingua che non sia quella italiana, perché ritengo debba essere la lingua ufficiale del paese, tant'è che noi di alleanza nazionale abbiamo voluto che al primo articolo della proposta di legge venisse chiarito in modo fermo che la lingua ufficiale è quella italiana.
Non parlerei nemmeno di minoranze etnico-linguistiche, perché forse sarebbe più esatto parlare di presenze etnico-linguistiche. Il termine «presenza» attesta il significato ed il valore che nella storia e nella cultura del nostro paese hanno certe realtà.
Parimenti, devo dire con franchezza che le perplessità che affacciava nella relazione di minoranza il collega Menia non vanno né sottovalutate né - onorevole Brunetti, glielo dico con la lealtà che caratterizza i nostri rapporti - demonizzate anche con espressioni che non hanno attinenza con la serietà della questione che stiamo affrontando.
Devo altresì ringraziare il relatore per la maggioranza perché ha recepito alcune proposte. Infatti, oltre alla difesa della lingua italiana in tutte le sue articolazioni interne ed estere, ha tenuto conto di quanto da noi suggerito in merito alla questione scolastica. Fermo restando che la questione dell'autonomia rappresenta un dato acquisito, con il collega Menia abbiamo reputato indispensabile che, per il reclutamento degli insegnanti, si tenessero presenti non le disposizioni locali, ma quelle nazionali, secondo le quali i provveditorati rappresentano l'articolazione periferica del Ministero della pubblica istruzione, con le garanzie che ne derivano. Allo stesso modo debbo dire con molta franchezza che le perplessità che il collega Menia avanzava nella sua relazione di minoranza non vanno sottovalutate né, onorevole Brunetti (lo dico con la lealtà che caratterizza i nostri rapporti), quasi demonizzate con espressioni che spesso possono non aver rapporto con la questione seria che stiamo affrontando.
Voglio anche ringraziare il relatore perché ha recepito, oltre all'esigenza della difesa della lingua italiana in tutte le sue articolazioni interne ed estere, anche l'elemento attinente alla questione scolastica. Fermo restando che l'autonomia è un dato ormai acquisito, abbiamo ritenuto con il collega Menia - in quella circostanza ci siamo battuti - che sia necessario che nel reclutamento degli insegnanti si tengano presenti non disposizioni locali o localistiche ma quelle nazionali che vedono nei provveditorati, articolazioni periferiche del Ministero della pubblica istruzione, le garanzie necessarie.
Per quanto riguarda il problema degli esperti, abbiamo chiesto assicurazioni di ordine culturale e scientifiche per coloro che si autodefiniscono tali. Quanto al bilinguismo e ai problemi che può far sorgere in certe zone, soprattutto in quelle di confine (la situazione non è tanto semplice e le preoccupazioni di Menia non vanno sottovalutate) c'è sicuramente da riflettere e da definire la materia,


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anche mediante emendamenti. Certamente il tema non riguarda gli albanesi di Calabria o i greci di Calabria e di Sicilia; abbiamo già detto che si tratta di presenze storicamente consolidate. È stato citato il collegio di San Demetrio Corona da cui uscivano i patrioti del Risorgimento: valga per tutti l'esempio di Agesilao Milano.
Voglio poi ricordare una pagina riportata dallo scrittore Curzio Malaparte, il quale parlava del soldato della prima guerra mondiale Giovanni Zero. Egli, di fronte ai propri capi che guidavano l'assalto, ebbe a dire, da soldato semplice: «Questo è il soldato Giovanni Zero, di San Giovanni in Fiore, che vuol dimostrare a quelli di qua e a quelli di là che qui ci son uomini».
Vorrei anche ricordare i grecanici di Calabria e la figura di Rohlfs, che in anni e anni redasse il vocabolario greco-italiano che rappresenta un testo molto importante. Abbiamo centri come Roghudi, Gallicianò e Bova dove esiste un istituto di studi ellenofoni, che vanno tutelati e difesi. Nessuno in questi luoghi pensa di attentare all'unità d'Italia; c'è gente i cui avi hanno combattuto per l'Italia in tutte le guerre del Risorgimento, gente che è integrata e radicata nel tessuto nazionale.
La nostra è anche una posizione critica; il collega Menia - signor relatore per la maggioranza - ha avvertito il dovere di presentare la sua relazione di minoranza per ribadire il valore dell'unità nazionale che soprattutto in certe zone d'Italia - mi riferisco ai confini - viene spesso insidiata con il marchingegno della questione linguistica delle minoranze.
Ecco il senso della proposta di legge che ho presentato; insieme con l'onorevole Valensise abbiamo ritenuto di difendere certe realtà linguistiche, proprio in sintonia con certi valori e certa cultura: l'unità d'Italia. Vivaddio, è stata proprio la Calabria che ha dato il nome all'Italia e che è ora orgogliosa di avere in sé presenze che rappresentano storia, cultura e civiltà (Applausi dei deputati del gruppo di alleanza nazionale - Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Olivieri. Ne ha facoltà.

LUIGI OLIVIERI. Signor Presidente, colleghi, l'annosa questione della tutela di quelle che si possono definire le «minoranze minori» inizia finalmente ad avviarsi a soluzione.
La proposta di legge in esame si situa nel filone delle precedenti proposte di normazione quadro al fine di dare attuazione generalizzata al principio di tutela delle minoranze linguistiche stabilito dall'articolo 6 della Costituzione.
Come è noto, infatti, la protezione delle minoranze linguistiche presenti sul territorio italiano ha finora presentato caratteri di profonda differenziazione giuridica e ciò per evidenti ragioni storiche, sociali e politiche. Il risultato è stato però un trattamento talmente differente tra le diverse realtà minoritarie da potersi dire che l'Italia vanta, tra le sue tante contraddizioni, anche quella di essere nello stesso tempo uno dei paesi più avanzati al mondo nella tutela di certe minoranze ma anche uno Stato che tende ad assimilare alcuni gruppi minoritari.
Questa realtà rischia di risultare tanto più odiosa se si considera che il grado di tutela delle minoranze presenti in Italia rischia di apparire, nella gran parte dei casi, direttamente proporzionale all'influenza politica ed economica degli Stati nazionali di riferimento delle diverse popolazioni. L'occasione di invertire questa tendenza, fornendo anche alle minoranze finora non protette dall'ordinamento un tetto normativo sotto il quale far valere i propri diritti, è di quelle storiche e non può essere perduta.
Tutti ricordiamo infatti la vicenda della proposta di legge presentata nel 1991 dall'onorevole Labriola, che fu approvata dalla Camera ma non divenne legge per lo scioglimento anticipato della legislatura. Questa volta le cose possono e devono andare in modo diverso!

DOMENICO MASELLI, Relatore per la maggioranza. Bravo!


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LUIGI OLIVIERI. L'impostazione della proposta in esame non è dissimile da quella di allora, sotto il profilo sia procedimentale sia contenutistico; le popolazioni oggetto di tutela sono le medesime, compreso il riferimento sia pur generico ai sinti e ai rom, di cui ha parlato anche il presidente della Commissione affari costituzionali Jervolino. Rispetto ad allora, però, è cambiato il contesto istituzionale di riferimento grazie all'evoluzione in senso regionalistico che il nostro apparato costituzionale sta vivendo e alla presenza di nuovi e più efficaci strumenti normativi, in primis la legge cosiddetta Bassanini 1, che infatti costituisce un'importante base di partenza per le azioni delle pubbliche amministrazioni anche in tema di tutela minoritaria.
Prima e fondamentale conseguenza positiva è la previsione di diritti di enorme rilievo simbolico ma anche concreto, senza pesare però sulle casse statali. Con grande prudenza e saggezza il progetto prevede, all'articolo 17, che lo Stato non possa contribuire per una cifra superiore ai 20 miliardi annui. L'effetto virtuoso di questa disposizione è duplice: da un lato, la concessione di nuovi fondamentali diritti minoritari viene resa possibile ad un costo irrisorio per lo Stato e, dall'altro, si sensibilizzano al problema le regioni e gli enti locali interessati, che in questo modo saranno i primi veri responsabili della politica di tutela e promozione delle minoranze linguistiche presenti nei rispettivi territori. Anche le popolazioni interessate sapranno così qual è il livello di governo responsabile in prima battuta per l'implementazione delle norme a loro tutela e sapranno valutare con un voto influente la politica minoritaria dei rispettivi amministratori locali.
Detto quello che deve considerarsi l'aspetto primario dell'intera disciplina sotto il profilo politico, è possibile soffermarsi su alcuni dettagli tecnici, anche al fine di fornire un contributo al miglioramento di quella che comunque, se approvata, sarà da considerare una tra le migliori leggi di questa legislatura. La previsione dell'italiano quale lingua ufficiale della Repubblica è senz'altro un fattore positivo perché implicitamente asserisce la dignità ed il riconoscimento di altre lingue; non di meno, questa previsione rischia di essere pleonastica, visto che sia il rango di ufficialità dell'italiano sia la promozione di lingue minoritarie sono già sanciti altrove in norme di rango costituzionale (si pensi, per esempio, all'articolo 99 dello statuto di autonomia del Trentino-Alto Adige). Sotto il profilo sistematico, il luogo migliore per questa disposizione sarebbe probabilmente lo stesso articolo 6 della Costituzione.
Dove forse si poteva fare qualcosa in più è in riferimento ai sinti e ai rom. È vero che essi trovano, per la prima volta in una legge dello Stato, il riconoscimento generale della necessità di tutelare le loro peculiari caratteristiche storico-culturali. Dunque la loro posizione, almeno sotto il profilo teorico, risulta migliorata ed è vero che difficilmente la legge avrebbe potuto dire di più rispetto alle concrete modalità di tale tutela. È però anche vero che l'articolo 2, comma 2, fa riferimento a generiche misure rischiando di duplicare quanto è valso finora per la gran parte dei gruppi minoritari in riferimento all'espressione generica, di cui all'articolo 6 della Costituzione.
Non è possibile, per ragioni di tempo, soffermarsi sui singoli diritti linguistici e culturali riconosciuti agli appartenenti ai gruppi minoritari oggetto di tutela. È sufficiente ricordarne alcuni a titolo esemplificativo per capire come questa legge potrebbe portare l'Italia all'avanguardia, in Europa e nel mondo, in tema di tutela delle minoranze: diritto, ma non obbligo, all'educazione nella lingua minoritaria; introduzione nelle scuole dello studio della cultura minoritaria anche per gli appartenenti alla maggioranza, al fine di promuovere la reciproca conoscenza e comprensione; incentivo allo studio anche universitario delle culture delle minoranze; diritto all'uso della lingua minoritaria nei confronti della pubblica amministrazione e di alcuni organi giudiziari; diritto ad ottenere informazioni nella lingua minoritaria; diritto all'uso di tale


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lingua anche negli organi collegiali degli enti locali; ripristino di nomi italianizzati; diritto ad una toponomastica bilingue ed altri ancora.
Il tutto - sia ribadito - a costo quasi zero per lo Stato, stimolando regioni ed enti locali ad adottare una politica minoritaria in linea con lo spirito federalista e di vicinanza al cittadino che deve ormai ispirare la nostra legislazione.
Non vanno infine trascurati due ulteriori ed importantissimi principi. Il primo: il contestuale impegno della Repubblica alla valorizzazione anche dall'estero delle culture presenti sul territorio italiano; in primo luogo, naturalmente, della cultura italiana, ma anche delle culture minoritarie, anch'esse costitutive del patrimonio culturale nazionale. Il secondo: l'incentivo alla collaborazione interregionale e transfrontaliera - si intende - oltre che ai fini generali finalizzati in particolare alla promozione delle culture minoritarie.
In conclusione, vorrei esprimere l'auspicio che l'approvazione di questa legge - che io spero avverrà in tempi rapidi e più celeri possibili - sia di impulso alla regolamentazione di nuovi e generali diritti, anche in favore delle minoranze più svantaggiate presenti sul territorio italiano: mi riferisco alle cosiddette nuove minoranze di emigrati, alle quali è necessario iniziare a pensare anche in termini di tutela e non solo di repressione (Applausi).
Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

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