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PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito della discussione del documento di programmazione economico-finanziaria relativo alla manovra di finanza pubblica per gli anni 1999-2001.
PRESIDENTE. Prendo atto che i relatori di minoranza rinunziano alle repliche.
SALVATORE CHERCHI, Relatore per la maggioranza. Svolgerò una breve replica che mi sembra doverosa; ritengo un atto di serietà rispondere alle argomentazioni portate in modo particolare dall'opposizione, la quale ha sviluppato due tipi di ragionamento.
PRESIDENTE. Avverto che sono state presentate le risoluzioni Comino ed altri n. 6-00041, Pagliarini ed altri n. 6-00042,
CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica. Signor Presidente, onorevoli deputati, il documento di programmazione economico-finanziaria è stato presentato alle Camere il 18 aprile, con circa un mese di anticipo rispetto al limite temporale fissato dalla legge. Con lo stesso anticipo le Camere si apprestano ora ad approvare le risoluzioni con le quali esse esprimono, in modo motivato, la loro posizione sugli indirizzi e sui vincoli di finanza pubblica incorporati nel documento.
PRESIDENTE. Colleghi, per cortesia!
CARLO AZEGLIO CIAMPI, Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica. Ecco l'altra faccia della relazione simbiotica fra rigore e sviluppo: non solo il rigore è precondizione per lo sviluppo, ma lo sviluppo stesso premia il rigore facilitando il raggiungimento degli obiettivi di bilancio, attraverso sia il rilancio delle attività private e l'aumento delle entrate pubbliche, sia l'attenuazione delle situazioni di bisogno e delle spese di sostegno al reddito.
PRESIDENTE. Signor ministro, la Camera l'ha ringraziata non solo per la sua replica, naturalmente.
Ricordo che nella seduta di ieri si è conclusa la discussione.
Ha facoltà di replicare il relatore per la maggioranza, onorevole Cherchi.
Da un lato, la lega ha riproposto la tesi dei due Stati: la Padania dentro l'unione economica e monetaria ed il Mezzogiorno, fuori, sia pure provvisoriamente, da essa, come - bontà sua - ha affermato il collega Pagliarini.
Dall'altro lato i colleghi di alleanza nazionale, di forza Italia e degli altri gruppi di opposizione, attraverso le relazioni degli onorevoli Marzano, Armani e Peretti ed i successivi interventi, muovendo da una formale adesione di principio
all'obiettivo europeo, hanno praticamente contestato tutto il documento di programmazione economico-finanziaria, talché - a leggere i loro interventi - gli italiani avrebbero di fronte la prospettiva non dello sviluppo ma di un campo di macerie; non conti pubblici in ordine ma il caos finanziario.
Alla posizione della lega si può rispondere solamente che l'obiettivo del Governo e della maggioranza è esattamente opposto a quello dalla lega stessa enunciato: anche il Mezzogiorno, liberato dall'assistenzialismo e dalla condizione di dipendenza, deve raggiungere gli standard di vita economica, sociale e civile di una società avanzata e libera. Semmai l'argomentazione della lega dovrebbe far riflettere quanti, anche nel Mezzogiorno, ritengano di essere stati sacrificati all'euro. È infatti del tutto evidente che la coesione nazionale, ove l'obiettivo dell'euro non fosse stato conseguito, sarebbe stata messa a dura prova poiché sarebbe risultato più stridente il contrasto tra un nord in condizione di partecipare alla moneta unica ed un sud al quale sarebbe stata addebitata la responsabilità della mancata partecipazione dell'intero paese.
Ai colleghi Marzano, Peretti ed Armani rispondo che è importante la condivisione dell'obiettivo europeo ma un obiettivo, se non è supportato da una strategia valida, rimane un'aspirazione. Il Governo ha avuto il coraggio di compiere una scelta strategica di fondo - l'Europa - e di vincolare ad essa l'insieme della sua condotta. A tal fine sono stati chiesti sacrifici ma l'obiettivo è stato raggiunto e il paese sta incassando un primo e rilevante dividendo.
Ci si può chiedere se altri Governi, per esempio quello presieduto da Berlusconi, avrebbero portato il paese in Europa. C'è da dubitarne fortemente sia per le scelte allora compiute sia soprattutto per la forte dose di euroscetticismo che ha caratterizzato sempre la politica del Polo. Quanto al futuro, non sarebbe male che l'opposizione coltivasse un po' più di fiducia e praticasse una più serena obiettività nell'analisi della situazione. È stata contestata la bontà dei conti pubblici; i problemi non mancano ma tutto si può dire fuorché che la situazione sia fuori controllo. Per questo torno a sottolineare il dato relativo al saldo corrente che è positivo e cresce in una situazione di riduzione della pressione fiscale. Poca o molta che sia quest'ultima non importa in questa valutazione, comunque esiste e in questo contesto il saldo di parte corrente cresce. Questo fenomeno, onorevole Peretti, genera quelle risorse che hanno consentito al Governo di indicare un obiettivo di crescita degli investimenti pubblici talché non si è mai registrato allo stesso livello nel corso dell'intero decennio.
Quanto alla spesa per interessi, l'opposizione richiama il dato che la spesa per interessi verrebbe ridotta in conseguenza del calo dei tassi che si registra a livello internazionale; essa però dimentica che i mercati finanziari hanno dato credito alla serietà dei programmi del Governo e alla bontà delle azioni adottate, soprattutto eliminando il differenziale dei tassi che caratterizzava, in epoca passata, il nostro paese. Non sempre è stato così. Ricordo, per esempio, che durante il Governo Ciampi si ebbe una positiva riduzione dei differenziali dei tassi di interesse tra l'Italia e la Germania; successivamente però, a dimostrazione che nulla è scontato, con il Governo Berlusconi quel differenziale riprese a crescere fino ad un massimo di 6,6 punti percentuali. Quindi un po' più di obiettività dovrebbe portare a ritenere che la riduzione dei tassi è dovuta certo ad un trend internazionale ma soprattutto al fatto che i mercati hanno premiato la serietà e la positività di un'azione politica.
A me pare che, al di là delle contestazioni su questo o quell'aspetto del documento di programmazione economico-finanziaria, l'opposizione abbia sottovalutato alcune delle tendenze che caratterizzano la situazione italiana. Ai risultati conseguiti nell'ultimo anno si è arrivati innanzi tutto grazie all'azione del Governo coerente con i piani di risanamento, ma non solo grazie ad essa. Si è
infatti assistito, nel corso di questi ultimi tempi, ad un mutamento profondo nel sistema delle aspettative dei principali operatori economici e delle forze sociali. Il che ha determinato una forte accelerazione del processo di risanamento. Questo è l'aspetto strutturale più rilevante e l'elemento che ha segnato la svolta rispetto alle precedenti esperienze in cui l'azione di contenimento finanziario riduceva l'esposizione complessiva della pubblica amministrazione, ma non era poi capace di innescare un meccanismo virtuoso. Questa volta, invece, l'inversione ciclica si è realizzata!
Sorprende che questo elemento di fondo non venga colto dall'opposizione. Nel dibattito sugli andamenti della finanza pubblica ci si è anche a lungo e giustamente soffermati sui limiti e sui problemi tuttora presenti; ma questo dato di fondo non è stato rilevato. Ed è un peccato non tanto perché non si è «dato a Cesare quel che è di Cesare», ma perché così facendo si sono sottovalutati i progressi realizzati dall'intero paese. Si rischia così ora di enfatizzare le difficoltà ed i pericoli che pure rimangono, ma che appartengono ad una fase ciclica che è diversa da quella che è ormai alle nostre spalle.
L'onorevole Danese ha argomentato la posizione dell'UDR-CDU/CDR favorevole all'approvazione del documento di programmazione economico-finanziaria. Lo ha fatto con argomentazioni che chiamano in campo direttamente la scelta europea, ma anche con argomentazioni di carattere più propriamente di politica interna, che non possono essere passate sotto silenzio. L'onorevole Danese, a giustificazione del voto favorevole, ha parlato testualmente di previsioni contenute nel documento di programmazione economico-finanziaria che il gruppo dell'UDR/CDU-CDR ha dichiarato di voler cogliere «nella loro potenzialità di svolta al centro che, da un punto di vista di un senso statalista della politica economica che il Governo ha perseguito, noi abbiamo colto e abbiamo letto». Vi sarebbe quindi una svolta della politica economica che ieri era statalista ed oggi, invece, aperta al centro! Ricordo all'onorevole Danese che lo scorso anno sono state fatte alcune decine di migliaia di miliardi di privatizzazioni! Non pare che una simile scelta potesse essere compiuta da un Governo caratterizzato in senso statalista. Ne deduco che talune delle argomentazioni a proposito del mutamento di indirizzo del Governo siano del tutto non solo infondate, ma che appartengano anche esattamente ad una valutazione arbitraria delle stesse proposte. Non c'è infatti alcuna svolta al centro! Allora, se si vuole dare un voto favorevole sul documento di programmazione economico-finanziaria penso che l'obiettivo europeo possa dare sufficienti argomentazioni. Sarebbe invece sbagliato - e comunque da noi non condiviso; anzi, sarebbe da noi contrastato - se si volessero aggiungere ulteriori motivazioni di carattere politico che farebbero sconfinare quel voto nella manovra politica. In quel caso, allora, andrebbero portati a sostegno di questa posizione limpide e non inventate argomentazioni a giustificazione di una scelta di un voto che nell'Europa, appunto, trova sufficienti argomentazioni!
Signor Presidente, concludo ricordando che il documento di programmazione economico-finanziaria interviene in un momento che è «periodizzante» della vita economica e politica del paese. È il momento in cui un risultato straordinario è stato raggiunto ed in cui altri obiettivi di grande rilievo incalzano con urgenza.
Un Governo, che ha già dimostrato sul campo di saper conseguire risultati così importanti per tutti, merita la fiducia del paese ed il pieno sostegno parlamentare perché le azioni complesse indicate nel documento di programmazione economico-finanziaria per aggredire il cancro della disoccupazione possano compiutamente dispiegarsi per il tempo necessario affinché, appunto, quegli obiettivi di crescita economica e di sostanziale riduzione del tasso di disoccupazione possano essere conseguiti.
Berlusconi ed altri n. 6-00043, Mussi ed altri n. 6-00044 e Malavenda n. 6-00045 (vedi l'allegato A - Doc. LVII, n. 3 - sezione 1).
Avverto altresì che la Presidenza non ritiene ammissibile il capoverso 2 della risoluzione Comino n. 6-00041, che prevede l'impegno del Governo a proporre al Parlamento un «trattato di separazione consensuale del paese», il quale, conseguentemente, imponga l'uso di differenti monete e la ripartizione del debito pubblico tra le due nuove entità. Esso risulta estraneo al contenuto tipico della risoluzione conclusiva dell'esame del documento di programmazione economico-finanziaria, caratterizzato dall'individuazione degli obiettivi del Governo nel triennio 1999-2001 in campo economico-finanziario; inoltre la formulazione di proposte alle Camere circa la predisposizione di un trattato per la separazione del paese non è riconducibile alle competenze del Governo e contrasta, come è noto, con i principi costituzionali che fondano l'unità e l'indivisibilità della Repubblica.
Tale capoverso potrebbe ritenersi ammissibile unicamente ove riformulato nel senso di prevedere un impegno del Governo all'adozione di soluzioni tecniche, quali l'utilizzo di strumenti monetari differenziati e la previsione di differenti sistemi economici e finanziari al nord e al sud del paese, al fine di rispondere adeguatamente a realtà ed esigenze ritenute dai presentatori della risoluzione diverse e tali, conseguentemente, da richiedere soluzioni differenziate al fine di permettere l'avvio del processo di risanamento.
Ha facoltà di replicare il rappresentante del Governo, che invito anche ad esprimere il parere sulle risoluzioni presentate.
L'anticipo della presentazione e della discussione del documento è stato certo motivato dall'intendimento di dare ulteriore dimostrazione della validità del riequilibrio dei nostri conti pubblici e dell'impegno a consolidarlo prima dello svolgimento del Consiglio europeo che ha sancito il 2 maggio scorso la nascita dell'euro.
Ma l'anticipo è stato reso possibile dall'avanzamento intervenuto nella prassi di preparazione, di maturazione e di discussione degli atti che formano il complessivo assetto istituzionale, governativo e parlamentare, del bilancio pubblico.
Quest'opera non è terminata: la recente riforma della struttura del bilancio si inserisce in questo percorso; deve ancora dare tutti i suoi frutti. Questo vale anche per l'unificazione nel Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica dei due distinti dicasteri prima esistenti. Formalmente l'unificazione è già avvenuta, ma i positivi effetti, che Governo e Parlamento si sono proposti con il deciderla, potranno prodursi solo se si sarà capaci - ed è opera di lunga lena - di dar luogo ad una radicale rivisitazione delle strutture operative, ad una sostanziale riconsiderazione di procedure e modi di lavoro, alla valorizzazione della professionalità dei singoli, al far maturare nelle loro coscienze l'orgoglio del compito individualmente e collettivamente assegnato di attendere alla gestione della cosa pubblica. È un aspetto, questo, del grande tema della riforma della pubblica amministrazione, in cui il Governo tutto è impegnato, in primo luogo il Ministero della funzione pubblica.
Tutto questo deve essere vissuto come il ritorno ad una interpretazione virtuosa di quanto i costituenti intesero inscrivere nel sistema con l'articolo 81 della Costituzione,
il cui contenuto trova ora nuova vita combinandosi con i vincoli europei.
È con questo spirito che occorre svolgere negli anni a venire il filo degli equilibri di bilancio e della legislazione di entrata e di spesa a tali equilibri condizionata; è con questo spirito che occorre rinnovare in chiave europea gli strumenti e le procedure del bilancio pubblico in coerenza con le riforme già introdotte e con l'evoluzione delle istituzioni europee.
Se il Parlamento è il luogo del dialogo, dell'ascolto e della decisione; se il Parlamento è il luogo nel quale dialettica degli interessi, comprensione per le diverse ragioni e cooperazione per un fine comune consentono di maturare le scelte finali e di trasformarle dal livello propositivo a quello dei procedimenti giuridico-formali; se tutto questo è vero - come lo è - le modalità con le quali il Parlamento italiano, la maggioranza e l'opposizione hanno operato e stanno operando per l'obiettivo europeo costituiscono, al di là e ben oltre il raggiungimento dei vincoli finanziari di bilancio, la testimonianza più concreta e alta della nostra vocazione ad essere in Europa.
Questo stesso dibattito, che oggi si conclude, ne è ulteriore conferma.
Il cammino compiuto negli ultimi tempi nel risanamento della nostra economia è stato così rilevante e rapido da essere definito da molti «sorprendente».
Due anni fa, quando questo Governo iniziò ad operare, l'Italia non era in linea con nessuno dei cinque parametri di Maastricht: l'inflazione era al 4,5 per cento, i tassi di interessi dei buoni del Tesoro poliennali a dieci anni superavano il 10 per cento, il differenziare con gli analoghi titoli tedeschi era di 350 punti base; la lira era ancora fuori dell'accordo di cambio del sistema monetario europeo; il disavanzo pubblico correva ad oltre il 7 per cento del prodotto interno lordo; il rapporto debito pubblico-prodotto interno lordo, che aveva raggiunto nel 1994 la punta di circa il 125 per cento del prodotto interno lordo, a fine 1995 era pari al 124,5, mostrando solo una leggera tendenza alla discesa.
Le variabili che per prime sono rientrate nei limiti prescritti per la partecipazione all'euro sono state l'inflazione e i tassi di interesse.
L'abbattimento dell'inflazione è stato il frutto del radicamento di quella cultura della stabilità, che ha fondamento soprattutto nell'applicazione convinta da parte delle parti sociali dell'accordo di politica dei redditi del luglio 1993 e nella conduzione di una politica monetaria rigorosa.
Da mesi il tasso di inflazione in Italia è sceso sotto il 2 per cento. Il calo rapido dei tassi di interesse ha avuto le proprie determinanti principali, fra loro interagenti, nell'abbattimento dell'inflazione e nel recupero di credibilità dell'Italia sui mercati, conseguenza a sua volta della fiducia che la linea di politica economica ha suscitato.
Da mesi il differenziale dei tassi a 10 anni dei buoni del Tesoro poliennali italiani rispetto a quelli tedeschi si è ridotto a 20-25 centesimi di punto, dai 350 della primavera del 1996.
Terzo parametro: era indispensabile chiedere ed ottenere il rientro della lira nell'accordo europeo di cambio entro il 1996; altrimenti ci saremmo posti automaticamente fuori dell'euro in base al parametro che vuole che una moneta per entrare nell'euro abbia almeno due anni di appartenenza alla banda stretta.
Chiedemmo ed ottenemmo quel rientro a fine novembre 1996 con una parità di 990 lire per marco, superando difficoltà non piccole di chi avanzava dubbi sulla salute della nostra moneta e di chi voleva imporci una parità penalizzante per la nostra economia.
Certo, i parametri più difficili da raggiungere erano quelli relativi ai conti pubblici (disavanzo e debito).
Per scendere di 4 punti percentuali nel rapporto indebitamento-prodotto interno lordo in un solo anno, il 1997, sono state necessarie ben tre manovre nell'arco di dieci mesi: dal giugno 1996 al marzo 1997. Il Governo sa di dover essere grato alla propria maggioranza e all'intero Parlamento che le ha approvate.
Ma il miglioramento, pur considerevole, dell'avanzo primario che da quelle tre manovre è derivato non sarebbe stato sufficiente a raggiungere l'obiettivo del 3 per cento se, contemporaneamente, non si fosse prodotto quel calo dei tassi di interesse di cui poco fa ho detto.
Su questo operare congiunto delle due componenti del saldo e dei conti pubblici, aumento dell'avanzo primario e calo dell'onere per interessi, si fondava la sfida che il Governo ha lanciato quando ha deciso l'accelerazione della politica di risanamento per poter partecipare alla creazione dell'euro sin dall'inizio.
Non è stata una decisione improvvisata. Nella seduta di martedì 16 luglio 1996, nella replica a conclusione del dibattito sul documento di programmazione economico-finanziaria di quell'anno, così mi rivolsi a quest'Assemblea (cito dagli atti parlamentari): «La scadenza del gennaio 1999 è una data della quale dobbiamo avere piena coscienza: è un passaggio che non possiamo eludere, perché non coinvolge soltanto i parametri dell'economia, coinvolge tutte le sfere della vita civile. Abbiamo venti mesi davanti a noi e non una settimana deve essere perduta; in questo deve unirci uno spirito di orgoglio nazionale, perché l'obiettivo è largamente condiviso, perché è un obiettivo che è nell'interesse comune di chi lavora, di chi intraprende, di chi risparmia, di chi studia». Concludevo: «La nostra patria non merita di essere sospinta lontano dai paesi più avanzati dell'Europa. Sarebbe un danno grave per l'Europa stessa: senza l'Italia l'Europa unita sarebbe squilibrata sotto ogni profilo».
Questo è stato lo spirito che sin dall'inizio ha animato l'intero Governo, in un'unità di propositi e di comportamenti che, sola, può spiegare il risultato conseguito.
Un'ulteriore nota sugli interessi per dare una dimensione di quanto ha contato e conta il loro calo. Nel 1996 la spesa complessiva pagata dalla pubblica amministrazione per interessi è stata di 202 mila miliardi: a parità di tassi e tenendo conto della variazione della consistenza nominale del debito, essa sarebbe dovuta ulteriormente salire. Invece quella spesa è diminuita: è stata di 185 mila miliardi nel 1997, sarà di circa 164 mila miliardi nel 1998.
I conti pubblici registrano, oltre che il disavanzo annuo, il debito che i disavanzi, cumulandosi nel tempo, hanno generato. È un grosso onere che pesa e continuerà a pesare su di noi nei prossimi anni.
Quel peso dobbiamo cercare di ridurlo il più rapidamente possibile in termini relativi, cioè nel suo rapporto con il prodotto interno lordo.
Dal 1995 il rapporto debito-prodotto interno lordo è in diminuzione. Vi contribuiscono, insieme con il calo del disavanzo, i proventi delle privatizzazioni. L'alienazione delle imprese pubbliche ha un solo limite, quello di impedire che a monopoli pubblici possano sostituirsi monopoli privati. Al tempo stesso è intendimento del Governo di procedere alla cessione dei beni demaniali non più rispondenti a necessità funzionali.
Nel 1997 i proventi da privatizzazioni di società di proprietà dello Stato e dell'IRI sono stati di circa 40 mila miliardi, di cui 24.400 miliardi sono andati a riduzione della consistenza del debito.
L'obiettivo che ci proponiamo di raggiungere è far diminuire il rapporto debito-prodotto interno lordo di circa 3 punti percentuali all'anno, così da raggiungere nel 2003 quota 100.
Con la riduzione del disavanzo e del debito il bilancio pubblico torna ad essere strumento di politica economica.
L'Italia entra nell'euro in condizioni che consentono di confermare la sostenibilità dei risultati raggiunti nel 1997 e di prevederne un miglioramento. Nel 1998 l'indebitamento delle pubbliche amministrazioni è previsto scendere al 2,6 per cento in rapporto al prodotto interno lordo. Il risultato sarà ottenuto grazie alla riduzione della spesa per interessi, che si attesterà all'8 per cento in rapporto al prodotto interno lordo (un punto e mezzo in meno rispetto allo scorso anno). Il saldo primario in rapporto al prodotto
interno lordo si ridurrà per il venir meno di entrate temporanee previste nel 1997: il suo elevato livello - 5,5 per cento contro il 6,8 per cento del 1997 - rimane comunque assicurazione di stabilità finanziaria.
La sostenibilità dei risultati raggiunti dal nostro paese deve appunto essere assicurata dalla stabilità nel triennio 1999-2001 del saldo primario in rapporto al prodotto interno lordo, che è previsto si mantenga al di sopra del 5 per cento.
Alla stabilità del saldo primario si accompagnerà l'ulteriore riduzione della spesa per interessi. Si tratta di quel «dividendo» molte volte evocato come risultato di politiche di bilancio virtuose e come conseguenza della credibilità riconquistata sui mercati.
La penalizzazione che per lunghi anni ha pesato sulle nostre possibilità di sviluppo, con un onere per interessi che è giunto a superare il 12 per cento del PIL, tende a scomparire a mano a mano che il presente livello dei tassi si diffonde all'intera consistenza del debito pubblico. Quell'onere è stato ancora nel 1997 del 9,5 per cento; passerà all'8 per cento nel 1998 e scenderà al 6,5 per cento nel 2001.
La riduzione, in presenza di un costante livello di avanzo primario, permetterà sia l'ulteriore riduzione dell'indebitamento netto in rapporto al PIL (che scenderà gradualmente sino all'1 per cento nel 2001) sia un allineamento della pressione fiscale. Il totale delle entrate tributarie e contributive è previsto diminuire, in rapporto al PIL, dal 44,3 per cento nel 1997 al 42,9 per cento nel presente anno ed al 42,4 nel 2001. Contemporaneamente, il contenimento della crescita della spesa corrente al netto degli interessi ad un ritmo mediamente inferiore di un punto percentuale alla crescita del prodotto interno lordo monetario, libererà risorse per la desiderata accelerazione della spesa per investimenti, soprattutto nelle aree svantaggiate del paese. La spesa in conto capitale delle pubbliche amministrazioni potrà aumentare mediamente di circa il 9 per cento all'anno, passando dal 3,5 per cento del PIL nel 1997 al 4,1 per cento nel 2001.
Alla crescita delle spese per investimenti ed alla riduzione della pressione fiscale contribuiranno sia l'evoluzione tendenziale delle poste più rilevanti nel conto economico della pubblica amministrazione sia le misure di rafforzamento dell'economia previste dal Governo.
Interventi addizionali a sostegno dello sviluppo ammonteranno a circa 26.600 miliardi nel triennio, così ripartiti: 5 mila miliardi per politiche di sviluppo di alcuni settori prioritari, 15.600 miliardi per politiche di sostegno degli investimenti e di ricostruzione delle zone colpite dai terremoti, 6 mila miliardi per riduzione della pressione fiscale. A questi importi dovranno ora aggiungersi le somme necessarie per la ricostruzione delle zone colpite dall'alluvione in Campania. Restano e resteranno profondi nei nostri animi il dolore e la commozione per tante vite umane distrutte, per tante famiglie sconvolte da questa calamità.
Per raggiungere gli obiettivi di indebitamento pubblico e per finanziare le misure di rafforzamento dell'economia sarà necessaria una correzione pari a 13.500 miliardi di lire nel 1999: qualora questa correzione sia di natura permanente, occorreranno ulteriori interventi per 4 mila miliardi nel 2000, per 2 mila miliardi nel 2001, per raggiungere l'obiettivo previsto. Gran parte della correzione consisterà nel contenimento delle spese correnti, con l'obiettivo di ridurre ulteriormente il peso dello Stato nell'economia e di contribuire in maniera positiva alla formazione del risparmio nazionale. Già nel 1998 è previsto il raggiungimento di un avanzo di parte corrente pari a mezzo punto percentuale del PIL. Il risparmio delle pubbliche amministrazioni dovrebbe poi crescere gradualmente e raggiungere quasi il 3 per cento nel 2001. In tal modo, il risparmio della pubblica amministrazione contribuirà alla crescita del risparmio nazionale, che potrà essere utilizzato più efficacemente per finanziare gli investimenti direttamente produttivi.
È questo il mutamento di fondo rispetto ad una situazione che, per decenni, è stata caratterizzata da un rilevante assorbimento di risparmio privato da parte dello Stato per finanziare il proprio disavanzo di parte corrente.
Un avvertimento: non inganni l'entità relativamente modesta delle correzioni necessarie, nei prossimi anni, per ricondurre gli andamenti tendenziali entro gli obiettivi complessivi di disavanzo. Stiamo passando, ed è un grande avanzamento, da leggi finanziarie incentrate sulla «quantità», cioè sull'entità delle correzioni, a leggi finanziarie di «qualità». Ciò, tuttavia, non renderà più agevole la preparazione, la discussione, l'approvazione parlamentare delle prossime leggi finanziarie.
Preparare e approvare leggi finanziarie di «qualità» implica, per il Governo e per il Parlamento, fare scelte, decidere un ordine di priorità fra le esigenze del paese, tutte importanti, tutte utili, ma che non possono, tutte insieme, essere finanziate e, quindi, tutte insieme realizzate.
La scelta di queste priorità, come emerge chiaramente dalla risoluzione presentata dai gruppi di maggioranza, deve coinvolgere l'intero sistema delle regioni e degli enti locali territoriali; si tratta del cosiddetto patto di stabilità interno, che si lega al completamento del federalismo fiscale al quale è dedicato un punto specifico della risoluzione.
È da condividere in pieno l'esigenza che il vincolo sui saldi di bilancio sia rispettato anche mediante la definizione di procedure, di strumenti che rendano pienamente operante il vincolo stesso nelle decisioni delle regioni e degli enti locali e realizzino il concorso delle regioni e degli enti locali nelle scelte e nell'attuazione della politica di bilancio.
Ho detto, poco fa, che il nostro successo, dichiarato da molti «sorprendente», ci ha imposto il dovere di spiegarlo. Ci siamo adoperati, in questi ultimi mesi, a dimostrare, in tutte le sedi, la sostenibilità del risanamento nei conti pubblici e nell'intera economia. All'esterno dell'Unione europea molti hanno dichiarato «sorprendente» lo stesso successo del varo della moneta unica europea.
Alla sorpresa si aggiungono spesso i dubbi. Le economie europee, si dice, si sono tolte strumenti di flessibilità con la rinuncia alle valute nazionali e a politiche monetarie autonome; hanno costretto le politiche di bilancio nella camicia di forza del patto di stabilità.
Ho messo insieme critiche esterne ed interne per una questione di metodo. Ho detto in passato che dobbiamo ormai «operare Europa, pensare Europa, sognare Europa». Le cose che vanno e quelle che non vanno devono ormai essere viste in un'ottica europea, come problemi comuni, come obiettivi comuni. Il dado è tratto: siamo, come suol dirsi, nella stessa barca.
Se l'economia deve servire a qualcosa, deve servire soprattutto a dare un lavoro a chi voglia lavorare. Il creare lavoro è lo scopo ultimo di un sistema economico; e non solo per ragioni economiche di produzione e di domanda, ma anche e soprattutto per la dignità e l'autosufficienza che il lavoro conferisce. La capacità dell'economia italiana e di quella europea di creare occupazione è sempre stata in cima ai nostri pensieri. Certo, l'azione del Governo è sembrata spesso concentrata solo sui problemi del disavanzo, del rigore, dell'inflazione, ma come ho già detto e come vale la pena di ripetere queste preoccupazioni non erano un allontanamento dall'obiettivo principale. Eravamo e siamo profondamente convinti che un'occupazione sana e durevole si crea solo se il paese ha i conti in ordine, si crea solo se l'affanno della precarietà non costringe le politiche economiche a costosi stop and go, che minano le certezze di cui hanno bisogno i piani di investimento delle imprese ed i piani di spesa dei consumatori.
Ho detto che siamo tutti nella stessa barca, ma la barca doveva essere rimessa in ordine prima di affrontare il mare aperto. Abbiamo rinforzato lo scafo, abbiamo calafatato la carena, abbiamo ricostruito remi e timone, ora possiamo
guardare la disoccupazione in faccia. Ma prima di affrontare qual mare e quel compito vorrei rassicurare coloro che temono, da sponde opposte, l'adeguatezza dei risultati raggiunti. Una prima critica: i risultati ci sono, ma sono sostenibili? Una seconda critica: il patto si stabilità non configura un eccesso di rigore che toglie ogni elasticità alla politica di bilancio?
Non ho dubbi - già ne abbiamo parlato - sulla sostenibilità dei risultati raggiunti; certo, bisogna consolidarli. La strategia del risanamento non ha mirato semplicemente alla compressione delle spese e all'aumento, in parte temporaneo, delle entrate. All'interno della fase del risanamento vi era un'altra doppia fase: da un lato bisognava ottenere «tutto e subito», per abbassare il disavanzo di 4 punti percentuali del PIL in un anno, senza mettere in ginocchio l'economia. Questo «tutto e subito» conteneva - non poteva non contenere - elementi una tantum e faceva affidamento su un calo dei tassi d'interesse che riducesse il divario rispetto al livello degli altri paesi europei. Ma allo stesso tempo si avviavano le riforme strutturali, principalmente la riforma fiscale e quella della pubblica amministrazione; si ponevano le basi per trasformare uno sforzo eccezionale nella normalità di una buona amministrazione.
Nessuno sforzo di rigore, nessun abbraccio delle regole della corretta amministrazione varrebbe a mantenere i conti pubblici sulla retta via se l'economia non riprendesse a crescere...
Di queste relazioni vi è già prova nei fatti recenti. In Italia e in Europa la ripresa è iniziata. Il tasso di disoccupazione nell'Unione europea, che aveva raggiunto un massimo del 10,8 per cento della forza lavoro a metà dell'anno scorso, ha preso a decrescere, ed è oggi di mezzo punto al di sotto di quel livello. Anche in Italia gli ultimi dati indicano che è stato passato il punto di svolta: l'occupazione ha iniziato ad aumentare.
Il miglioramento degli obiettivi di disavanzo pubblico, che la relazione di cassa e il documento di programmazione economica hanno assegnato per il 1998 e per gli anni seguenti è permesso, oltre che dalla riduzione dei tassi, dal miglioramento delle prospettive di crescita, assieme causa ed effetto della lotta al disavanzo. Allo stesso tempo, i successi sul fronte dell'inflazione e il consistente avanzo nei conti con l'estero assicurano, per l'Italia e per l'Europa, una situazione di assenza di tensioni che dovrebbe sostenere il proseguimento della crescita. L'avanzo con l'estero potrà restringersi: una riduzione è possibile e persino doverosa in una situazione in cui molti paesi dell'Asia sono costretti a cercare nell'esportazione il compenso ad un crollo drammatico nella domanda interna. Europa e Italia hanno il dovere, attraverso il mantenimento della crescita e l'accettazione di una riduzione nel surplus corrente, di contribuire all'aggiustamento in corso.
Di fronte ai risultati raggiunti, perdono peso le critiche che vedono nel patto di stabilità e di crescita una specie di spada di Damocle, pronta a tagliare le speranze di crescita con il filo affilato di un rigore fine a se stesso. Il patto di stabilità - che non a caso si chiama «patto per la stabilità e per lo sviluppo» - rappresenta al contrario una garanzia istituzionale che lo sviluppo non verrà interrotto dal disordine dei conti pubblici.
Quale politica, allora, per l'occupazione? L'occupazione - ho detto - comincia a beneficiare della ripresa ciclica dell'economia. Ma quella che dobbiamo aggredire in tutta Europa, e non solo in Italia, è la
componente strutturale della disoccupazione. Ad ogni punto di svolta nel ciclo, l'economia europea si è ritrovata con un peso più alto dei senza lavoro. Nel 1982, con un divario fra reddito effettivo e reddito potenziale di un punto e mezzo, il tasso di disoccupazione in Europa era dell'8,5 per cento. Quindici anni dopo, nel 1997, con un analogo margine di risorse inutilizzate, il tasso di disoccupazione era maggiore di due punti. Al di là della domanda effettiva, vi sono ad evidenza altri fattori che costringono le economie europee nella minorità della disoccupazione, con il suo tragico fardello di sofferenze umane e sociali.
L'analisi di questi fattori è stata più volte ripetuta. Le terapie sono note: bisogna creare un ambiente favorevole all'innovazione; bisogna che le risorse, umane e finanziarie, possano agevolmente fluire dai settori in declino a quelli in espansione; bisogna che il nostro sistema di protezione sociale favorisca il lavoro, eviti le «trappole della povertà», incoraggi mobilità e flessibilità. Questi giudizi non sono nuovi, ma forse nuova è la coscienza delle opportunità che la moneta unica schiude per una diversa stagione di crescita; nuova è la costellazione di condizioni favorevoli che dall'assetto istituzionale della moneta unica possono sprigionarsi per porre l'economia europea su un più alto sentiero di sviluppo.
Perché il pieno impiego si possa realizzare è necessario, prima di tutto, che il perdurare in Europa di un così elevato tasso di disoccupazione sia vissuto da tutti, istituzioni e cittadini singoli, come un inaccettabile sperpero di risorse, come una non sopportabile ingiustizia sociale.
È questa un'affermazione che può sembrare generica, addirittura retorica. Non è così. Solo una determinazione profonda, che è in primo luogo consapevolezza intimamente avvertita e partecipazione piena al dramma dell'alta disoccupazione in tutti i suoi aspetti, può dar luogo a comportamenti, individuali e collettivi, a politiche che, traducendosi in una molteplicità di scelte operative, portino, attraverso quotidiani progressi, alla soluzione di un problema, così grave e complesso, come quello della disoccupazione.
Sono convinto che la chiave dei miglioramenti nell'occupazione sia in larga parte nel disinnesco paziente di tutti quegli ostacoli microeconomici che impediscono il flusso delle risorse, di lavoro e di capitale, da chi le chiede a chi le offre. Oggi ogni paese può fare l'inventario dei propri ostacoli. E, in omaggio al principio di sussidiarietà, la rimozione degli ostacoli costituisce responsabilità dei singoli Governi.
Non dobbiamo guardare alla spesa sociale in modo puramente difensivo e contabile, come a un punto di emorragia della spesa pubblica che deve essere tamponato. La ricerca di una nuova via passa per una riforma della spesa sociale che la renda parte di una politica attiva del lavoro. Penso alle spese assistenziali, per le quali bisogna creare un rapporto più diretto e premiante con forme di lavoro. E penso specialmente alla formazione, alla quale dovrebbe essere riconosciuto, anche contabilmente, il ruolo di investimento in capitale umano.
Ecco allora il compito primo della politica economica nel nuovo sistema dell'euro: come raccogliere i frutti della crescita e allo stesso tempo proteggere i meno fortunati. L'Europa ha un'orgogliosa tradizione di protezione sociale alla quale non intende rinunciare. Coloro che restano spiazzati nell'intreccio delle combinazioni produttive hanno il diritto alla solidarietà di tutti. La rete di sicurezza sociale deve tendersi per aiutare coloro che sono lasciati temporaneamente ai margini dell'allocazione di risorse, per offrire loro nuove opportunità.
In Italia occupazione e Mezzogiorno sostanzialmente coincidono; sono di fatto un unico problema. Ma l'interesse ad affrontarlo e risolverlo è del paese intero. Tornare a chiudere, dopo la riapertura, grave, degli ultimi anni, il divario di sviluppo tra sud e nord vuole anche dire offrire al nord un'occasione per sviluppare la propria esuberante imprenditorialità, per rafforzare ed ampliare, localizzandole anche nel Mezzogiorno, le proprie
imprese, per beneficiare di un più ampio mercato di assorbimento dei propri prodotti.
Ma sta soprattutto al Mezzogiorno esprimere ed affermare la propria capacità di iniziativa.
Vi sono segnali, in molte aree del Mezzogiorno, di un risveglio di imprenditorialità, non solo nei maggiori centri industriali del passato. Cominciano a manifestarsi capacità nuove, più diffuse, si avverte un'attenzione crescente ai mercati internazionali. Vi sono segnali di vivacità in aree di attività economica sommersa: non certo quelle basate sullo sfruttamento del lavoro minorile o immigrato, che con più forza occorre reprimere, ma quelle finora sospinte fuori della legalità da normative onerose e dalla pochezza dei vantaggi che esse coglierebbero nella legalità.
Accanto ai segnali positivi vi sono però anche i rischi, i rischi che della mobilità di risorse finanziarie, materiali, intellettuali, che proprio l'unificazione monetaria europea promuove, si avvalga prevalentemente il «centro» del sistema economico europeo; dove più alti sono i salari ma anche i rendimenti del capitale. Sarà così se, nelle aree a più basso sviluppo e a più ampia disponibilità di risorse umane, i comportamenti individuali e le politiche non sapranno creare, subito, in questa delicata fase di transizione, «profezie credibili»: ossia programmi, progetti, iniziative che, proprio avvalendosi delle risorse sottoutilizzate, offrano occasioni di rendimento ancora più attraenti di quelle del centro.
Occorre, in primo luogo, uno «scatto» di efficienza, di concretezza della pubblica amministrazione, dello Stato, delle regioni, degli enti locali.
L'indicazione della strategia espressamente diretta allo sviluppo e all'occupazione è il corpo centrale del documento di programmazione economico-finanziaria. Si tratta di un'azione a tutto campo, articolata in cinque aree: la sicurezza e la giustizia, la concorrenza e la mobilità, gli investimenti nel capitale sociale, quelli in infrastrutture, la buona e trasparente amministrazione: mirata e adattata, nella sua attuazione, alle singole aree del territorio, per valorizzarne le peculiarità.
Si descrivono nel documento le singole linee di intervento, indicando le priorità che il Governo si è dato. Voglio soffermarmi sul metodo, quello che dovrà assicurare che ciò che ci siamo proposti venga effettivamente fatto.
Dovranno agire, in primo luogo, gli strumenti di programmazione indispensabile affinché, nel campo delle infrastrutture materiali e sociali come in quelle della sicurezza e del patrimonio ambientale e culturale, si passi dai piani generali di intervento alla progettazione esecutiva e soprattutto all'attuazione.
È fondamentale, da una parte, l'identificazione dei bisogni e delle priorità. Vi sono, dall'altra, le risorse finanziarie, comunitarie, nazionali e regionali, talora non appieno utilizzate. La congiunzione tra questi due poli, che non di rado stentano a toccarsi, dovrà essere data dalla programmazione che sta allo Stato, alle regioni e agli enti locali insieme realizzare, utilizzando istituti che già esistono: le intese istituzionali di programma Stato-regioni, la programmazione dei fondi comunitari, gli strumenti volti allo sviluppo di sistemi locali. Saranno proprio questi strumenti a dare corpo, assieme al rafforzamento delle amministrazioni locali ed alla costituzione di sportelli unici di servizio, al decentramento amministrativo avviato.
Con la firma, lo scorso novembre, da parte del Presidente del Consiglio e dei presidenti delle regioni Umbria e Marche, del protocollo di intesa per gli interventi dopo l'emergenza terremoto, è stato messo a punto un metodo sperimentale di lavoro finalizzato alla predisposizione dell'intesa istituzionale di programma. Su questa linea andremo avanti con le altre regioni, fondendo questa direzione di intervento con la programmazione che, nel Mezzogiorno come nel centro nord, stiamo avviando per impiegare appieno e nel modo più proficuo i finanziamenti addizionali comunitari.
Ancora una volta la partecipazione all'Europa ci è di sprone e di indirizzo. Nei mesi scorsi abbiamo ottenuto significativi risultati nel colmare i ritardi nell'attuazione dei programmi rientranti nel quadro comunitario di sostegno 1994-1999. Ora, nell'avviare programmi e progetti per il nuovo quadro comunitario 2000-2006, l'Italia ha una grande occasione: utilizzare le procedure dell'Unione europea, la credibilità e talora la durezza delle sue regole per imporre un percorso di programmazione degli interventi che, attuando il principio della sussidiarietà, risponda ai «veri» bisogni; che dia attuazione a ciò che si annuncia; che ne garantisca la pubblica verifica. È quanto abbiamo sperimentato nelle scorse settimane, quando il comitato di sorveglianza, che raccoglie le amministrazioni regionali, centrale ed europea, ha portato unanimemente a compimento il difficile esercizio di riallocare risorse da programmi, che non riuscivano a tradursi in spesa, a programmi che promettono rapidità di spesa per un importo complessivo di 2.600 miliardi.
Intendiamo contare per lo sviluppo del Mezzogiorno soprattutto sull'imprenditoria locale, sulla diffusione ampia di quella rete di piccole e medie imprese che ha costituito la base del nostro risveglio industriale negli ultimi decenni e che è considerata dall'intera Europa esempio da imitare. A tal fine il documento di programmazione economico-finanziaria si impegna a dare nuova forza agli strumenti dei patti territoriali, dei contratti d'area e dei contratti di programma.
Sinora sono stati approvati dodici patti, per un totale di circa 1.200 miliardi, con un'occupazione prevista di 10.600 addetti, di cui 7.000 di nuova occupazione. Ai ritardi di valutazione e di selezione delle singole iniziative stiamo rispondendo oggi con uno sforzo organizzativo e tecnico del Ministero che consentirà un passaggio più celere alla fase dell'attuazione. Molti altri patti stanno maturando: 20 iniziative hanno chiesto e ottenuto l'autorizzazione all'assistenza tecnica, 15 di esse nel Mezzogiorno; per altre 13 è avviata l'istruttoria ad opera di banche.
Analogo sforzo riguarda i contratti d'area. Nei tre già conclusi di Crotone, Manfredonia e Torrese-Stabiese, sono previsti circa 200 miliardi di investimenti, con oltre mille nuovi occupati. Sono prossimi alla stipula due altri contratti d'area.
Rinnovata e forte attenzione intendiamo dare allo strumento dei contratti di programma. Essi hanno consentito sinora di realizzare oltre 23 mila miliardi di investimenti da parte di grandi e medie aziende, con oltre 80 mila unità di lavoro.
In questo quadro si inserisce l'imminente creazione di uno strumento nuovo. La costituenda società «Sviluppo Italia», riordinando e riorganizzando le attività oggi svolte da una pluralità di imprese pubbliche, tutte operanti nell'area della produzione e dello sviluppo, mirerà ad indirizzare servizi reali e finanziari all'imprenditorialità emergente ed ai sistemi locali di sviluppo, per facilitare il ricorso agli strumenti di incentivazione e per promuovere nuovi investimenti, anche da parte di imprese estere.
Onorevole Presidente, onorevoli deputati, non credo di indulgere alla retorica dei sentimenti, di cedere all'entusiasmo al di là del legittimo, se, nel concludere questa replica, affermo che la firma che i Capi di Stato e di Governo, riuniti come Consiglio europeo, hanno apposto il 2 maggio scorso al documento che ha sancito la nascita dell'euro ha un valore storico.
Dal maggio del 1998 per l'Europa, per l'Italia molto cambia, in atto e ancor più in prospettiva: una prospettiva più sicura di pace, di lavoro, di dignità di vita. La creazione dell'euro è evento eminentemente politico, trascende la pur straordinaria rilevanza economica e monetaria.
Sotto il profilo economico e monetario essa conclude un processo messo in moto vent'anni fa, con la costituzione del sistema monetario europeo. Già alla sua origine quel processo mirava ad un obiettivo
politico: compiere un passo avanti, decisivo, irreversibile nell'integrazione europea.
La moneta unica europea, la Banca centrale europea che la emette e la gestisce, sono il primo momento veramente unitario, veramente federale, che unisce un ampio, significativo gruppo di paesi d'Europa.
È un atto di rinuncia da parte dei singoli paesi partecipanti ad una porzione importante di sovranità nazionale a favore della sovranità europea. Si rinuncia, in quanto ci si riconosce in una patria più ampia.
Le implicazioni economiche sono di grande rilievo. Ancor più le implicazioni politiche: quelle implicite immediatamente alla firma dell'atto; quelle potenzialmente ben più rilevanti che quell'atto dischiude.
È un evento che nel nostro paese congiunge il passato con il futuro, che evoca gli ideali ed i valori che furono alla base del Risorgimento, che li ripropone quali motivi ispiratori di scelte che portano al superamento dei nazionalismi, causa con i loro eccessi di tante rovine, attraverso la costruzione di nuovi assetti istituzionali. In questi le varie componenti della realtà europea potranno trovare sistemazione organica, feconda di sinergie in ogni campo dell'attività umana. Si sta scrivendo e mettendo in opera una nuova Costituzione.
L'Italia doveva partecipare e partecipa sin dall'inizio alla moneta unica, all'euro. Parteciperà attivamente alle vicende, economiche, sociali e politiche che necessariamente seguiranno. Vi apporterà la forza del proprio patrimonio di storia, di tradizioni, di valori civili, di ingegno, di operosità. In questa stessa vicenda di genesi dell'euro l'Italia ha dato all'Europa quello di cui l'Unione europea ha maggiormente bisogno: la dimostrazione di quanto un paese, un popolo, può fare quando si dà un grande obiettivo e verso di esso impegna le sue energie migliori.
Sul complesso di impegni assunti nel documento di programmazione economico-finanziaria il Governo chiede il consenso del Parlamento e del paese.
Signor Presidente, per queste ragioni le chiedo di porre in votazione per prima la risoluzione Mussi ed altri n. 6-00044, presentata dai gruppi di maggioranza e accolta dal Governo (Vivi, prolungati applausi dei deputati dei gruppi dei democratici di sinistra-l'Ulivo, dei popolari e democratici-l'Ulivo, di rinnovamento italiano, misto-verdi-l'Ulivo e di deputati del gruppo di rifondazione comunista-progressisti).
Avverto che a norma del comma 2 dell'articolo 118-bis del regolamento, sarà posta in votazione per prima la risoluzione Mussi ed altri n. 6-00044, accettata dal Governo.
Ricordo altresì che, sempre a norma del comma 2 dell'articolo 118-bis del regolamento, in caso di approvazione della medesima le rimanenti risoluzioni dovranno considerarsi precluse.