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PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito della discussione del testo unificato dei progetti di legge costituzionale di iniziativa dei deputati Trantino; Simeone; Selva; Frattini e Prestigiacomo; Lembo; Giovanardi e Sanza; di iniziativa del Governo; Boato: Modifica alla XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione.
PRESIDENTE. Ricordo che nella seduta di ieri sono iniziati gli interventi sull'articolo 1 nel testo unificato della Commissione, e sul complesso degli emendamenti ad esso presentati (vedi l'allegato A ai resoconti della seduta del 3 dicembre 1997 - A.C. 830 sezione 1).
ALFREDO STRAMBI. Signor Presidente, in premessa vorrei sottolineare
GIACOMO GARRA. E l'Etiopia e l'Albania te le sei scordate?
ALFREDO STRAMBI. Dal momento in cui ottenne lo scettro fino alla sua morte l'Italia cambiò politica e Capi di Governo: pose fine all'autoritarismo di fine secolo per entrare nel periodo giolittiano, poi si consegnò alla dittatura fascista. Alla caduta di quest'ultima, tornata la democrazia, si ebbe una scelta istituzionale con il passaggio dal sistema monarchico a quello repubblicano. Vittorio Emanuele nasceva mentre ancora nel Mezzogiorno era viva la nostalgia dei Borboni, al punto che, coincidendo la sua nascita con quella di un figlio dell'ex regina Maria Sofia, si aprì una specie di competizione molto curiosa, ma a sfondo politico, tra i Savoia e i Borboni. Inoltre, mentre nasceva Vittorio Emanuele, si apriva un'impegnativa cerimonia a Roma, dove gli ex sovrani delle due Sicilie si erano rifugiati, a palazzo Farnese, dove c'era mezzo Gotha dell'alto clero romano, con la benedizione del Papa nonché l'imperatrice d'Austria.
PRESIDENTE. Onorevole Strambi, la prego di concludere.
ALFREDO STRAMBI. ...pronto a sostenere che nelle decisioni del re avevano avuto una parte notevole anche le pressioni dell'antifascismo e le sue idee personali.
GIACOMO GARRA. Denis Mack Smith!
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Bonato. Ne ha facoltà.
FRANCESCO BONATO. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghe e onorevoli colleghi, siamo ora chiamati ad esprimere il nostro parere sul complesso degli emendamenti presentati sul testo unificato dei progetti di legge costituzionale proposti da vari deputati e dal Governo e riguardanti la modifica della XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Ortolano. Ne ha facoltà.
DARIO ORTOLANO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la XIII disposizione finale della nostra Costituzione, di cui stiamo discutendo, afferma che «I membri e i discendenti di Casa Savoia non sono elettori e non possono ricoprire uffici pubblici né cariche elettive.Agli ex re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi sono vietati l'ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale. I beni esistenti nel territorio nazionale, degli ex re di Casa Savoia, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi, sono avocati allo Stato. I trasferimenti e le costituzioni di diritti reali sui beni stessi, che siano avvenuti dopo il 2 giugno 1946, sono nulli».
PRESIDENTE. Colleghi, per cortesia!
DARIO ORTOLANO. Ma nulla di tutto ciò si è sentito finora, se non l'arrogante rivendicazione del proprio ruolo per il passato, accompagnato in taluni casi da una rivendicazione di legittimità che si proietta sinistramente sul futuro del nostro paese.
PRESIDENTE. Sospendo brevemente la seduta, in attesa che il Presidente della Camera comunichi all'Assemblea le determinazioni della Conferenza dei presidenti di gruppo.
Ha chiesto di parlare l'onorevole Strambi. Ne ha facoltà.
l'anacronismo, l'assurdità per certi versi, di questa discussione. Mi chiedo come sia possibile provare interesse per il problema del ritorno degli eredi di casa Savoia in Italia in un momento in cui il paese deve affrontare problemi di estrema gravità (mi limito a ricordare quello a cui la collega Nardini ha fatto poc'anzi riferimento: la tragedia del rimpatrio forzato degli albanesi).
Vorrei poi sottolineare, riallacciandomi ad un'esperienza personale, lo scarto (l'abisso, mi viene da dire) di clima e di pregnanza tra la riunione di oggi e quella a cui ho assistito la sera dell'altro ieri ad un'assemblea operaia alla Piaggio di Pontedera. In tale assemblea 1430 «esuberi» (così chiamati a seguito della mobilità in corso) hanno creato un clima di grandissima tensione.
Al riguardo vorrei ricordare che l'azienda fruisce di finanziamenti pubblici in varie forme (l'ultimo dei quali è quello di sostegno alla rottamazione). Tutto ciò in un contesto in cui per errori gestionali e strategie aziendali sbagliate si decide di ridurre gli organici, scegliendo quindi la strada più semplice, e si mettono in mobilità 1.430 lavoratori, con il rischio di fare di una delle aree più ricche, più sviluppate, e mi vien da dire più civili, del nostro paese, una sorta di deserto industriale.
Non so come commentare l'atteggiamento di un Parlamento impegnato per ore a discutere di problemi di questo tipo; non so bene se ci sia da ridere o da piangere. Tra l'altro credo che non si tratti di un accanimento ostile, preconcetto e pervicace nei confronti di persone specifiche, ossia dei Savoia, che in quanto tali non meriterebbero particolari attenzioni; credo però che il problema sia che i Savoia non sono personaggi politicamente, istituzionalmente, storicamente neutri. La loro storia, nel male più che nel bene, rimanda a nodi cruciali della storia di questo paese. Quindi non di perdono si deve trattare, ma della necessità di confermare valori che stanno alla base della nostra identità storica, tanto più che, come già è stato detto, l'oggetto del disegno di legge si iscrive in tendenze revisionistiche attraverso le quali si mettono in discussione valori fondanti della nostra storia e della nostra identità.
Credo comunque che sia necessario tentare quanto meno una ricostruzione dei fatti storici.
La questione del ritorno in Italia dell'ultimo dei Savoia e delle spoglie dei reali sta rappresentando uno spunto per dibattiti e ricerche sulla dinastia dei Savoia. In un contesto caratterizzato da una rete di comunicazioni sempre più legate all'immagine che coinvolge milioni di persone che ricevono informazioni tramite il video, positivo o negativo che sia, ciascuno di noi finisce sempre per aver bisogno di simboli, che facilmente materializza nella vita di determinati protagonisti. Se questo sia giusto o meno, non so, ma se si inserisce la vicenda in un quadro più vasto, vale a dire nelle attuali condizioni storiche, ambientali, economiche e politiche, la questione assume un altro significato.
Di fatto c'è oggi una ripresa di attenzione, o forse vi è più semplicemente della curiosità, nei confronti della vicenda storica di re, regine e case reali. È anche un momento in cui dilaga la moda delle biografie, che rappresenta la cartina di tornasole di una esigenza vastamente diffusa: conoscere attraverso la vita di un protagonista ambienti, situazioni e momenti che appartengono alla storia di un paese.
Ricordo che il 2 giugno 1946 il popolo italiano, mediante l'arma democratica del voto e con suffragio elettorale maschile e femminile applicato nazionalmente per la priva volta, fece liberamente la scelta repubblicana. Lo scarto di voti apparve allora tale da escludere di per sé la tesi secondo la quale ci sarebbero state manipolazioni: è proprio della natura di tali referendum, specialmente di quelli che pongono l'alternativa tra Repubblica o monarchia, che si verifichi un ballottaggio sul filo del rasoio. Ci furono momenti in cui il numero delle schede censite a favore della soluzione monarchica superava
quello dei voti all'Italia repubblicana. Ma il responso finale, vi ricordo, fu a favore della Repubblica.
In realtà quel voto rifletteva un sentimento molto diffuso, non soltanto nel sud, ma anche in varie parti dell'Italia settentrionale.
Un secolo di storia non era trascorso e non sarebbe potuto trascorrere senza lasciare tracce. Cento anni prima Carlo Alberto aveva concesso lo Statuto sotto la spinta delle tendenze costituzionali e dietro la pressione di moti popolari nettamente filorepubblicani. Da allora l'Italia aveva avuto una forma di governo monarchico-costituzionale, che in vario modo era stata applicata prima da Torino, poi da Firenze e quindi da Roma, e che venne apertamente violata con l'avvento del regime guidato da Benito Mussolini ed anche allora, pur dividendo il potere con il capo del fascismo, il re rappresentava un punto di riferimento.
Carlo Alberto, Vittorio Emanuele II, Umberto I, Vittorio Emanuele III, Umberto II: la serie ereditaria si ferma con quest'ultimo nome. Il passaggio dalla monarchia alla Repubblica non fu però facile, anche se fu incruento; molti infatti furono i momenti di tensione. L'Italia era ancora in piena guerra quando cadde il fascismo e si trovò a vivere esperienze costituzionali del tutto anomale tra invenzioni giuridiche e prassi da creare per assicurare il passaggio dei poteri. Ma l'origine dei Savoia risaliva a quasi dieci secoli prima, al lontano inizio del millennio: conti, duchi, principi, re di Sardegna prima e poi, dopo l'unità raggiunta sull'onda dell'impresa garibaldina oltre che per l'intervento dinastico, re d'Italia.
L'istituzione monarchica sopravvive in molti paesi europei. Anzi, proprio l'Europa occidentale è quella zona del mondo in cui c'è la più alta concentrazione di teste coronate. Ciò starebbe a dimostrare che ogni paese ha la propria specificità, le proprie istituzioni le quali, come avrebbe osservato qualcuno, camminano con le gambe degli uomini. Da noi, invece, il rifiuto della monarchia è stato netto: su di esso hanno pesato in primo luogo le compromissioni con la dittatura fascista e, quindi, la mancanza da parte del re della funzione di garante dell'ordinamento costituzionale. Al di là di ciò vi era il modo con cui si è arrivati all'unità d'Italia. È ben vero che il Risorgimento è stata opera di élite, ma sul moto complessivo che portò a Roma influì notevolmente un grande protagonista. Mi riferisco a Garibaldi, un uomo fortemente popolare, generoso, portatore anche di idee nuove e fiducioso nel «sol dell'avvenire». Si intende che il movimento tendenzialmente filorepubblicano fece degli errori ed ebbe momenti di grande ingenuità, ma influì anche sul corso futuro degli eventi e restò impresso nella coscienza popolare.
Il licenziamento della monarchia riguardava sia le ragioni determinatesi nel corso del ventennio sia in un passato storico più lontano, anzi proprio i Savoia compresero in ritardo l'importanza dell'unità d'Italia, legati com'erano ad un'origine casalinga, molto stretta, essendo un gruppo chiuso. Mentre comunque la formazione dei grandi Stati unitari europei seguiva una propria strada, da noi si ebbe in ritardo e tra troppe contraddizioni, perché una scelta moderna non portasse ad un'opzione per una nuova forma di governo, quale quella repubblicana.
Questa memoria storica non è in contrasto con le generose aperture della Repubblica verso una dinastia contro cui tutt'ora si rinnovano critiche severe. La Costituzione della Repubblica si è occupata della monarchia stabilendo che la forma repubblicana è irreversibile, in quanto non può essere sottoposta a procedura di revisione costituzionale e se ne occupa, con la XIII disposizione transitoria, su una parte della quale noi stiamo discutendo oggi.
Tralasciando ricostruzioni storiche troppo lontane e ponendo l'attenzione agli inizi del secolo, ricordo che Umberto I aveva messo al mondo un solo figlio, Vittorio Emanuele, al quale andava la successione al trono. Nato a Napoli l'11 novembre 1869, quando salì al trono, Vittorio Emanuele stava compiendo i trent'anni (era il luglio del 1900). Il
giovane re era destinato a vivere un periodo in cui avrebbe visto, con la partecipazione italiana, quattro guerre: la Libia, il primo conflitto mondiale, la Spagna e la seconda guerra mondiale.
L'infanzia di Vittorio Emanuele trascorse tra le amorose cure della regina Margherita e di nutrici; poi venne il momento dei tutor e degli insegnanti, scelti anch'essi con grande cura.
Figlio di una bella donna come Margherita e di un uomo abbastanza prestante come Umberto I, Vittorio Emanuele sembrava destinato ad avere un aspetto di tutto riguardo. Invece ci si accorse subito che era piccolo, molto al di sotto della media e non sarebbe stato probabilmente neppure in grado di estrarre la sciabola dal fodero. Con quel fisico sarebbe stato riformato alla visita militare. Il popolino romano lo chiamava «sciaboletta»; basso ma estremamente intelligente, si diceva, anche per contrastare le maldicenze o la concorrenza del ramo secondario dei Savoia.
In realtà, il principe di Napoli appariva provvisto di un grande senso di autocontrollo. Era riflessivo e persino freddo di carattere, un carattere introverso, anche se le sue preferenze e le sue avversioni politiche non era difficile intuirle. Salito al trono, aveva un esempio a cui fare riferimento; il padre, infatti, era stato ucciso. L'attentato non era stato un momento isolato, bensì il frammento di una situazione di profondo malcontento, persino esplosiva, che talora sboccava in gesti inconsulti fino al regicidio. Non c'era da prendere sotto gamba quello che stava avvenendo: la politica di repressione, con il momento culminante della strage di Milano, non poteva essere la via da seguire.
Dopo una fase interlocutoria e mentre si rafforzava nel paese il movimento operaio e sindacale, dopo l'avvio di un periodo nuovo apertosi con il Governo Zanardelli, promotore di uno dei primissimi tentativi a favore del divorzio, Vittorio Emanuele fece la sua scelta, chiamando Giovanni Giolitti. Che avesse molta simpatia per lo statista non è il caso di dirlo. Preferiva, oltre tutto, non farsi fotografare vicino a lui, essendo Giolitti altissimo di statura. Ma, non essendoci simpatia, Vittorio Emanuele dette via libera al Presidente del Consiglio ed ecco l'Italia giolittiana, la famosa «italietta», in cui la lira contava qualcosa; insomma, quello che venne detto il nuovo regno.
Di Giolitti il re poteva fidarsi. Era già stato Presidente del Consiglio senza troppa fortuna e piuttosto discusso, ma aveva una grande conoscenza dei meccanismi interni dello Stato. Soprattutto, agli occhi di Vittorio Emanuele, Giolitti aveva un punto all'attivo che nessuno poteva negare, essendo piemontese ed essendo la dinastia dei Savoia molto legata al Piemonte.
Il progetto di Giolitti era di allargare le basi dello Stato con il consenso di nuove forze e partiti popolari. Permanendo, sia pure con qualche adattamento, l'indifferentismo e il non impegno dei cattolici, Giolitti puntava sui socialisti. Presto il suo vero interlocutore sarebbe stato Filippo
Turati. Su quella scia, in seguito, Mario Missiroli parlerà di monarchia socialista, pur non credendo affatto al socialismo. Con l'appoggio del re, Giolitti sviluppò la sua politica di riforme, tenendo presente che il diffondersi delle Camere del lavoro, le prime delle quali risalivano al 1893, costituiva un fatto positivo.
Le istituzioni monarchiche non avevano nulla da temere. Abolite le leggi illiberali, Giolitti proseguiva nelle sue sperimentazioni e sapeva di aver acquisito il re alla sua politica. D'altronde, nessuno come lui conosceva gli umori del Parlamento; per cui sapeva cosa chiedere ad una maggioranza a seconda dei suoi orientamenti e, se questi gli erano contrari, otteneva il decreto di scioglimento, oppure passava la mano ad un luogotenente.
A Montecitorio andava aumentando il numero dei deputati socialisti, come era nei piani giolittiani. Lo statista piemontese invitava Vittorio Emanuele a non allarmarsi e faceva capire che era meglio avere i socialisti nel sistema piuttosto che gli internazionalisti ed i bakuniniani. Era con la loro partecipazione al Parlamento che già si era avuto un allargamento delle basi dello Stato. L'istituto monarchico - Giolitti ne era convinto - non avrebbe potuto che guadagnarne. Del resto, sembravano lontani i tempi in cui il deputato Falleroni, di ardente fede repubblicana, si rifiutò di giurare la fedeltà al re e fu espulso dall'aula.
Andrea Costa - il primo deputato socialista ad entrare in Parlamento - dopo alcune schermaglie aveva ceduto, passando al giuramento. Nessun socialista riprese a far polemiche nel momento - del tutto rituale - del giuramento, a cui si preferiva non dare importanza.
Quando si parlò di una candidatura di Andrea Costa alla Vicepresidenza della Camera, Vittorio Emanuele chiese a Giolitti se tale elezione era inevitabile; sapendo che, se avesse voluto, lo statista piemontese l'avrebbe impedita. Ma Giolitti rispose che proprio non c'era alcuna controindicazione; anzi, l'elezione dell'onorevole Costa a Vicepresidente avrebbe avuto ampia eco tra le moltitudini e, in pari tempo, sarebbe stata un elemento di alta opportunità politica per ciò che riguardava le ripercussioni in campo parlamentare. Il re non mosse altre obiezioni. Di modo che nel 1908 l'ex bakuniniano, Andrea Costa, già tante volte arrestato (talora per aver pronunziato la sola parola «socialismo»), venne eletto alla Vicepresidenza della Camera.
Egli stesso, del resto, sapeva che per la questione istituzionale vi erano nel popolo pareri diversi: repubblicani intransigenti erano gli operai e i contadini in varie regioni (l'Emilia innanzitutto); ma nel sud i contadini gridavano «Pane, lavoro e viva il re». Piuttosto, vi era da vedere in che modo fronteggiare l'assenteismo cattolico, perdurando il non «non expedit». Leone XIII, portatore di un messaggio sociale da parte della Chiesa, aveva mantenuto infatti aperto il conflitto con lo Stato.
Si disse che il re lasciava fare a Giolitti la politica interna, ma per le scelte internazionali voleva essere lui, Vittorio Emanuele, ad avere il maggior peso. Si parlò anche di manovre di riavvicinamento alla Francia e all'Inghilterra; il che voleva dire il cosiddetto «giro di valzer» rispetto agli alleati della triplice alleanza.
Con il kaiser i rapporti erano pessimi. Nel 1908, negli incontri di Venezia e di Brindisi, si stava per arrivare agli insulti.
Sull'avventura di Tripoli alcuni sostengono che fu il capolavoro del tandem Vittorio Emanuele-Giolitti. Dapprima venne giocata una difficile partita diplomatica con la Turchia, che aveva un'esperienza politica e militare tutt'altro che disprezzabile.
Toccò proprio all'antimilitarista Giovanni Giolitti accendere le polveri della guerra di Libia, allestendo un grosso esercito che si trovò alle prese con una resistenza tenace e con decisi contrattacchi anche da parte dei libici.
Giolitti poteva giustificare la sua impresa agli occhi delle grandi potenze osservando che la Francia e la Gran Bretagna avevano fatto quel che avevano voluto rispettivamente con Tunisi e con l'Egitto. A quel punto anche l'Italia doveva
muoversi. Dietro il tandem Vittorio Emanuele-Giolitti c'erano robusti interessi economici e finanziari. Decisamente a favore della guerra erano i grandi gruppi siderurgici e quelli bancari (il Banco di Roma in testa), ma aderì anche una parte della sinistra, come si vede con la scelta di Arturo Labriola, che considerava la conquista libica un modo per aprire un sicuro campo di lavoro a tanti diseredati meridionali. Il Mezzogiorno, e particolarmente la Sicilia, diceva, si difende militarmente ed economicamente con Tripoli.
La guerra di Libia fu probabilmente l'avvio di una nuova fase della storia. Ancora qualche anno e si avrà il primo conflitto mondiale. Giolitti sperava di ottenere parecchio con la neutralità, ma non aveva più fiducia nel re. Vittorio Emanuele considerava ormai superato lo statista piemontese, la cui stella era al tramonto; sotto la spinta del nazionalismo dette il Governo a Salandra e l'Italia si trovò così nella più sanguinosa guerra della sua storia.
Altri nomi, ormai, erano in primo piano, come Salandra, D'Annunzio e Cadorna. Dopo il generale Foglio, il re affidò a Luigi Cadorna l'incarico di capo di Stato maggiore. Cadorna impostò una strategia soprattutto difensiva, talora attaccando; ottenne anche dei successi militari, particolarmente nel Trentino e a Bainsizza. Era convinto che il filo spinato degli austriaci potesse essere travolto dal valore e dal petto dei soldati. Nelle trincee e negli assalti alla baionetta si accumularono centinaia di migliaia di morti. Poi venne Caporetto, l'Italia sembrò in ginocchio; divenne più che un'ipotesi la possibilità della sua resa, se ne parlò con gli alleati, ma Vittorio Emanuele respinse quell'eventualità. Il comando venne affidato al maresciallo Diaz, ci fu il Piave e poi Vittorio Veneto. L'Italia entrava nel novero delle nazioni vincitrici.
A Versailles si svolsero le trattative per la pace. Vittorio Emanuele Orlando, il presidente della vittoria, protestò per le ingiustizie che gli alleati riservarono all'Italia. Si cominciò a parlare allora di vittoria mutilata. I reduci tornarono dal fronte, l'Italia liberale sembrava in crisi, mentre guadagnava terreno il fascismo e la marcia su Roma travolse l'Italietta giolittiana.
Per passare ora ad avvenimenti più vicini, che hanno coinvolto drammaticamente esponenti di casa Savoia, vorrei ricordare la tragedia che colpì la principessa Mafalda. Il 28 agosto 1944, nel campo di concentramento di Buchenwald moriva la principessa Mafalda di Savoia. Non era sopravvissuta all'amputazione di un braccio resasi necessaria in seguito alle ferite riportate nel corso di un bombardamento. La morte avvenne nel postribolo delle SS dove era stata allestita la camera operatoria. A intervento avvenuto la principessa Mafalda era rimasta per quattro giorni tra la vita e la morte. L'operazione fu eseguita con scrupolo da medici tedeschi, anche se taluni aspetti della loro tecnica vennero criticati dall'inchiesta condotta da un chirurgo italiano. Venne utilizzata l'anestesia generale. Le condizioni di salute della principessa erano comunque troppo gravi per stenti, denutrizione ed altre sofferenze per poter superare i postumi dell'operazione. Mafalda aveva 42 anni, essendo nata il 19 novembre 1902, a Roma. Era la secondogenita di Vittorio Emanuele III, nata circa un anno dopo Iolanda e due anni prima del principe Umberto. Il 23 settembre 1926 si era sposata con Filippo d'Assia, principe tedesco; ebbe quattro figli: Maurizio, Enrico, Ottone ed Elisabetta. Registrata a Buchenwald con il suo vero nome, nel campo venne però chiamata e conosciuta come frau Von Weber. Sulla sua fossa, a Weimar, venne apposta la scritta: donna sconosciuta. Nel lager era stata riconosciuta da cinque prigionieri italiani. Era stata tenuta prigioniera in una baracca, quasi ai limiti del campo, confinante con l'area di un'industria militare, che fu l'obiettivo del bombardamento alleato. Era già apparsa stremata di forze; la sua ultima dimora fu il postribolo, dove, subito dopo l'intervento, restò fino alla morte. Non seppe mai perché l'avessero deportata a Buchenwald. Gli avvenimenti la sorpresero e le apparvero
incredibili. Anche se i Savoia erano ormai in rotta con i regime nazista e con Mussolini, aveva sempre creduto che l'aver sposato un principe tedesco fosse sufficiente a metterla al sicuro. Fu così che rinunciò a rifugiarsi in Vaticano, dove sarebbe stata ben accolta. Non si era mai occupata di politica; fece una sola sortita nel 1941 quando, per conto di Vittorio Emanuele III, contattò Michele di Montenegro affinché accettasse di salire sul trono montenegrino. La risposta fu negativa perché - a quanto pare di capire - il principe Michele non se la sentiva di diventare re di un piccolo regno, che rinasceva in condizioni tanto precarie. La missione di Mafalda fallì, né poteva essere diversamente, perché la principessa non era mai entrata in operazioni di questo genere. La vicenda, però, insospettì i servizi segreti tedeschi; la Gestapo prese nota, la principessa appariva infida, così come del resto erano tutti i Savoia. Vittorio Emanuele III, infatti, non aveva mai mostrato simpatia per Hitler, pur subendone il gioco.
Dopo l'armistizio, ci fu la guerra, ma già il 10 settembre Vittorio Emanuele III si era messa in salvo sul Baionetta. Nel frattempo, però, il clima che si respirava a Roma avrebbe dovuto ammonirlo. L'8 settembre si era sparato a Porta San Paolo, vi erano stati i primi rastrellamenti. Chi comandava erano i nazisti, contro cui, dopo l'8 settembre, era scesa in campo la famiglia reale. Per le SS arrestarla fu un gioco, cadde facilmente nel tranello e d'altronde non c'era nessuno che avrebbe potuto adeguatamente difenderla. Quando fu invitata a recarsi all'ambasciata tedesca per poter ricevere una telefonata di suo marito, la principessa non intuì il tranello né si lascio dissuadere dal dirigente di polizia. Alla buona fede della principessa, i nazisti risposero predisponendo accuratamente la sua cattura e le varie tappe della deportazione. Hitler aveva seguito personalmente gli sviluppi della vicenda ispirato dall'odio che nutriva per i Savoia, che lo avevano tradito. Avrebbe potuto predisporre l'arresto della principessa per fare di lei un ostaggio; ma la deportazione nel campo di sterminio di Buchenwald conferma che Mafalda era già stata condannata a morte. Proprio Hitler, il quale, secondo varie testimonianze, considerava ormai Mafalda una principessa tedesca, riservava alla sventurata la più dura condanna. Se Amedeo, duca d'Aosta, era deceduto in un campo di prigionia inglese, ma nella sua dignità di soldato, ben diversa sorte era riservata a lei, una donna, la secondogenita di Vittorio Emanuele, sposa di un nobile tedesco.
La salma della principessa venne identificata circa un anno dopo la morte da italiani deportati nel campo di Weimar. La notizia, quando giunse in Italia, suscitò profonda emozione.
Per certi aspetti il destino della principessa Mafalda appare quasi un simbolo di una tragedia, quella della guerra, nata dalla politica di potenza delle dittature, che aveva colpito anche la famiglia reale; una sorte spietata che risale alla ferocia ed alla stupidità di Hitler e dei massimi dirigenti del Reich. Al tempo stesso furono le circostanze che seguirono la fuga del re a rendere possibile, ma fin troppo facile, la cattura della sola esponente della famiglia reale che fosse restata a Roma.
A proposito dei rapporti tra monarchia e fascismo, ricordo che Vittorio Emanuele disse a Mussolini prima della famosa riunione del Gran Consiglio del 25 luglio: «Lei ha un solo amico e sono io». Lo disse anche dopo, in una situazione diversa, quando, in sostanza, fece arrestare il capo del fascismo salito al vertice dello Stato.
Fu come se Mussolini fosse stato preso in contropiede dagli eventi. Non c'era stato segno che facesse pensare che sospettasse quanto stava per accadere, né credeva che il colpo di grazia gli sarebbe venuto proprio dal re. Era però al sovrano che con l'ordine del giorno del Gran Consiglio erano tornati i poteri costituzionali.
Il 19 luglio c'era stato l'incontro con Hitler nei pressi di Treviso. Un colloquio che aveva lasciato le cose come stavano,
con qualche aspra critica in più da parte del dittatore tedesco verso il capo del fascismo italiano.
Era il giorno del primo bombardamento di Roma con il quale il quartiere di San Lorenzo fu completamente distrutto. Tra le macerie si recarono re Vittorio Emanuele, il principe Umberto, la principessa Maria José, nonché il Papa con la tonaca macchiata di sangue. La situazione stava precipitando e l'iniziativa passava al Quirinale.
Già da qualche tempo il re aveva pensato di tagliare i ponti con Mussolini, rinunciando però ad agire e rinviando sempre. Ora i giochi erano fatti, il dimissionamento c'era anche se si trattava di vedere le successive procedure. Di certo il re non poteva più rinviare; oltre tutto, gli alleati erano sbarcati in Sicilia, con Patton e Montgomery che dirigevano le operazioni.
Il re aveva messo da parte Mussolini e lo aveva posto con le spalle al muro. Egli sentì taluni consiglieri, soprattutto Badoglio, ed anche l'ex Presidente del Consiglio e collare dell'Annunziata, Ivanoe Bonomi, uno dei leader più apprezzati dell'antifascismo. Si consultò anche con Orlando.
Secondo Badoglio, licenziando e facendo arrestare Mussolini, il re agì all'improvviso, una tesi che porta a tutto merito di Vittorio Emanuele e dei suoi più fidati consiglieri l'operazione che condusse alla caduta del regime.
In modo diverso la pensava, invece, l'ex Presidente del Consiglio Bonomi, pronto a sostenere...
Signor Presidente, concludo questa ricostruzione storica che potrebbe durare all'infinito, motivando le ragioni dell'opposizione mia personale e del mio gruppo (Applausi dei deputati del gruppo di rifondazione comunista-progressisti).
Sono già stati espressi in sede di Commissione affari costituzionali e in quest'aula durante la discussione generale sentimenti di disagio, imbarazzo, disappunto, tristezza da parte di numerosi colleghi che hanno preso la parola su questo argomento.
A queste irrecintabili espressioni del proprio sentire che caratterizzano il comportamento di tali colleghi e che trovano il mio personale apprezzamento, vorrei fosse aggiunto lo sdegno mio e di quanti - è una larga moltitudine di italiani, credetemi -, uomini e donne in carne ed ossa, sentono riaprirsi nella pelle antiche ferite che pensavano rimarginate per sempre dopo l'approvazione della Costituzione.
Sentono riaprirsi queste ferite in ossequio ad una concezione politicistica per la quale la virtualità, l'immagine massmediatica, il baratto, lo scambio sembrano prevalere sul merito delle questioni, sulle nostre radici, sulla nostra storia, sulla nostra memoria.
Niente di nuovo sotto il sole, per la verità. Come ci ricorda il costituzionalista professor Gianni Ferrara, si ripete una caratteristica tipica e ricorrente della storia nazionale italiana: questo è un paese in cui certa parte delle classi dirigenti a più riprese e in diverse occasioni ha manifestato la propria propensione a mescolare i principi, le regole, il significato delle vicende storiche con il sugo di pomodoro. Così oggi per ragioni di mero calcolo politico l'esilio dei Savoia non fa
più parte di quelle questioni di fondo che danno significato compiuto alla storia repubblicana, ma diventa l'ingrediente di una bella pizza napoletana, denominata pacificazione nazionale.
È difficile contestare tale affermazione e in questo contesto ciò che meraviglia maggiormente non sono le aspirazioni e le pretese della destra, così come viene, del resto, testimoniato dalla presentazione di varie proposte di legge da parte di deputati di alleanza nazionale, di forza Italia, della lega nord per l'indipendenza della Padania e del centro cristiano democratico. Ciò che ci sembra francamente incomprensibile è l'iniziativa del Governo su questo terreno. Cosa vuol dire? Vuol forse significare che il Governo non ha la facoltà o, meglio, la potestà di intervenire con un proprio disegno di legge su una questione la cui delicatezza politico-costituzionale non può sfuggire a nessuno di noi? Certamente no. Nessuno di noi sostiene, né vuole sostenere, una simile assurdità. Ciò che però ci sembra francamente incomprensibile è il fatto che il Governo abbia talmente subito le pressioni e le iniziative della destra da metabolizzare una concezione culturale, prima ancora che politica, che nessuna forma di revisionismo, né di malcelato senso umanitario, può assolutamente occultare.
A noi pare che questa iniziativa alluda, maggiormente, ad una bassa e pessima concezione dell'attività politica più che ad uno spirito umanitario o ad una riconciliazione con casa Savoia, di cui nessuno di noi avverte né la necessità né l'opportunità. Che poi il Governo si sia occupato di questa questione nella seduta del Consiglio dei ministri precedente il 1 maggio, non può che colpire negativamente, tanto che persino una persona pacata e misurata, la cui rigorosità è largamente apprezzata, com'è la presidente della I Commissione affari costituzionali, onorevole Jervolino, non ha potuto non rilevare - come risulta dal verbale della Commissione del 28 maggio 1997 - la propria sorpresa di fronte al fatto che, in tale circostanza, il Governo si fosse occupato dei discendenti di casa Savoia e non di occupazione.
Anche a noi, anche a me pare che nell'agenda del Governo Prodi quella di oggi non rappresenti una priorità. Non credo che in nessuno dei comizi tenuti dall'onorevole Presidente del Consiglio durante il suo tour elettorale prima del 21 aprile abbia discusso, o perché sollecitato dall'auditorio o per sua naturale e spontanea disponibilità, sul rientro dei Savoia in Italia. Ben altri erano e ben altri sono i problemi sollevati dalla popolazione italiana. Ben altre sono le questioni che la nostra collettività deve affrontare quotidianamente e che spesso, maledettamente troppo spesso, non trovano una risposta esauriente negli atti del Governo e del Parlamento. Ben altre sono le attese e le speranze di chi ha scelto l'Ulivo e rifondazione comunista anziché il cosiddetto Polo delle libertà o la lega nord nelle elezioni del 21 aprile.
E quelle attese si fondano sulle promesse e sulle indicazioni programmatiche esposte in quella campagna elettorale. Esse pongono con grande forza, all'ordine del giorno dell'azione governativa e parlamentare, questioni quali la difesa, la tutela e la riforma dello Stato sociale, che, a partire dalla discussione della legge finanziaria per l'anno 1998, che presto affronteremo in quest'aula, ponga, nell'allargamento delle protezioni sociali, nel dispiego di una politica economica espansiva, con al centro il nodo nevralgico della disoccupazione di massa, nella ricerca di un allargamento degli spazi di democrazia, nonostante i non esaltanti risultati della bicamerale, elementi di grande significanza politica e democratica. Ed invece ci ritroviamo a parlare d'altro. Ci troviamo a discutere di una questione che, per usare le parole dell'onorevole Novelli, alla grande opinione pubblica non interessa minimamente.
Allora, perché? A che serve, dunque, l'atto sovrano di dare la grazia ai discendenti della vergognosa dinastia dei Savoia? A che cosa serve se non ad accompagnare la corsa politica al revisionismo
storico? Serve forse a dire, come sosteneva in un mirabile editoriale de il Manifesto Valentino Parlato, che i lager di Hitler erano uguali ai gulag di Stalin, che l'olocausto è discutibile e che, in fondo, la seconda guerra mondiale e i suoi 40 milioni di morti sono stati un errore di tutti? E che forse sarebbe stata la stessa cosa se, invece, di Roosevelt, Churchill, De Gaulle avessero vinto Hitler e Mussolini? A questo serve? Vorrei sperare di no, vorrei ancora credere che nell'attuale deriva culturale non si sia dimenticato che l'Italia è nata democratica quando ha cacciato il re che aveva dato il potere a Mussolini!
So bene che da alcune parti si afferma che con questo atto, cancellando l'esilio dei discendenti dei Savoia, si compie un atto degno di un paese maturo. Ma sul serio qualcuno può sostenere che questo atto storico-politico, qual è la grazia concessa alla famiglia Savoia, sia riconducibile ad una decisione buonista, degna di un rotocalco patinato, nell'ordine delle questioni quotidiane dopo oltre 50 anni di storia repubblicana? Qualcuno può tranquillamente sostenere che la dinastia non c'entra, che le sue colpe storiche sono fuori discussione, che l'umana generosità verso i rampolli della monarchia, come vengono chiamati dagli organi di stampa e dai mass media, non intacca i pilastri della democrazia e non ferisce alcuna memoria. Ebbene, no, sono convinto di no: quest'atto, questa triste vicenda, la ferisce e la cancella insieme - più dell'esilio - perché, come ha ricordato il rabbino capo di Roma, Elio Toaff, l'onta indelebile della firma di Vittorio Emanuele III sulle leggi razziali del regime fascista, che fu all'origine di così numerosi lutti, sopraffazioni e violenze per gli ebrei italiani, pesa e continuerà a pesare sui discendenti di casa Savoia. È bene non dimenticarlo mai, perché la belva razziale che dorme in determinati ambienti o in taluni personaggi può sempre svegliarsi all'improvviso. Bisogna ricordare, vigilare, perché la storia ci insegna che, quando la belva si risveglia, fa incommensurabili danni. È difficile non trovarsi d'accordo con queste parole, con questa denuncia, per cui male si spiega il clima frizzante che si è creato intorno a questa triste vicenda.
Il rientro della famiglia Savoia in Italia sembra costituire un evento taumaturgico nel processo di realizzazione della nuova Repubblica; sembra costituire quasi un elemento catartico, un elemento prepolitico, che agisce a livello simbolico sull'immaginario del corpo sociale prima ancora di costituire una trasformazione di senso nella Costituzione materiale del nostro paese. Il loro rientro sembra «squadernare» la capacità dell'attuale destra politica di agire da protagonista nei cambiamenti istituzionali che sono attualmente in atto. Non a caso l'eliminazione delle norme transitorie e finali della Costituzione ha costituito da sempre una rivendicazione storica delle destre di questo paese, quelle che un tempo erano fuori dal cosiddetto arco costituzionale ed agivano - da questa condizione e da questa situazione oggettiva di esclusione dal patto sociale siglato nel dopoguerra - per scardinare il tessuto democratico ed immaginare un nuovo ordine costituzionale.
Tuttavia questa non è una rivendicazione storicamente, intimamente eversiva solo della destra missina: credo che in ciò influisca anche la tradizione gollista, cioè la destra pulita (perché, nonostante tutto, antifascista) della tradizione europea. Il gollismo realizza infatti quell'attenzione al nuovo ordine democraticamente misurato, presidenzialista ed antiparlamentarista, capace allo stesso tempo di rimuovere il passato legato a Vichy senza affrontare le responsabilità collettive dell'errore fascista francese, come dimostra la vicenda Papon, in nome della migliore tradizione nazionale.
Ha sempre suscitato fascino, il gollismo, fra gli attivisti della destra italiana, come ricorda quel movimento neogollista fondato nel 1964 da Randolfo Pacciardi in nome di una nuova repubblica. Ed è un'eco gollista il richiamo alla riconciliazione quando si parla di Savoia; riconciliazione, ecco l'altra parola magica, capace di evocare il revisionismo della memoria
lacerata, anche qui in nome della migliore tradizione nazionale, accarezzata persino da alte cariche dello Stato, più e più volte, come un vero e proprio leit motiv in questa legislatura.
Ho premesso questo proprio per cercare di capire l'affanno per il rientro della famiglia Savoia, che sembra coinvolgere gran parte del ceto politico italiano e che vede febbricitanti proprio le forze di destra, quelle che hanno lavato a Fiuggi i panni sporchi del ventennio e dell'orrore di Salò e che hanno ora la possibilità storica di firmare, da coprotagoniste, il passaggio istituzionale e costituzionale che si sta producendo in bicamerale.
È per questo che a mio avviso il rientro dei Savoia, al di là delle motivazioni umanitarie che vengono dalle ugole destre, e al di là del politicismo di scambio dei «soloni» del nuovo sottovuoto, rappresenta un motivo di taumaturgia politica.
È stato detto: bello è dimenticare e perdonare, se si potesse. Ma questo diritto spetta alle vittime. Peccato però che le vittime non possano più esercitarlo. Allora dobbiamo ritornare alla Costituente, dobbiamo cercare di capire quelle parole stampate in coda alla Carta fondamentale di questo paese. A sentire molti commentatori e molti sostenitori del rientro, sembra che ci si trovi di fronte semplicemente ad un gesto emotivo, ad un gesto quasi vendicativo, legato alla congiuntura politica e sociale, un gesto chirurgico agitato in occasione della nascita della Repubblica. Certo, questo gesto ha anche una valenza simbolica, perché drammatica e di popolo era la svolta di regime compiuta, conquistata, e non sarò certo io a negare questa grande ed elementare verità.
Non a caso la XIII disposizione in questione segue il divieto perentorio, assoluto, sancito dalla Costituzione repubblicana, di riorganizzare, come prevede la XII disposizione più volte ricordata in quest'aula, sotto qualsiasi forma il disciolto partito fascista. E nonostante questo, altissima è stata la prudenza - per usare un eufemismo - nell'applicazione, malgrado le leggi emanate in attuazione della XII disposizione, come la legge n.645 del 1952 e la legge n.152 del 1975.
Memorabile fu - e come non ricordarlo - la discussione del progetto di legge per lo scioglimento del movimento sociale italiano presentato da Ferruccio Parri dopo la lunga e documentata serie di attentati e di squadrismo verificatasi fra il 1953 e il 1961. Allora il relatore di maggioranza, il democristiano Zotta, propose il non passaggio alla discussione degli articoli, determinando il rigetto degli stessi.
Ma quelli erano gli anni del puntello missino ai monocolori democristiani, gli anni dello scambio torbido tra governabilità e agibilità democratica, gli anni che, per dirla con Pasolini, si potrebbero ricordare come quelli del trionfo del fascismo e dell'antifascismo.
E così il connubio tra giurisprudenza costituzionale e opportunità politica ha costruito una particolare attenzione nell'applicazione di questa pur perentoria normativa. Ma con la XIII disposizione, invece, quella riguardante i Savoia, no. Si deve fare in fretta. Non sembra esserci spazio per riflettere, per comprendere, per capire, per approfondire maggiormente. Spesso il richiamo alla transitorietà delle norme costituzionali viene usato come giustificazione. Dopo cinquant'anni - si dice - di tempo ne è passato, le istituzioni sono più forti, la situazione è cambiata; è giunto il momento di sollevare la Costituzione, forte di questo tempo, dal carico transitorio delle disposizioni.
Di questo si potrebbe discutere. Basterebbe ripercorrere la storia di questo paese dal dopoguerra ad oggi, dalla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 all'interregno di Licio Gelli, dal Governo Tambroni del 1960 all'inquietante andreottismo siciliano, per svelare il pericolo costante, la fragilità permanente a cui le classi dominanti hanno sottoposto questo paese. Si potrebbero persino riaprire le pagine degli anni del terrorismo, agitate sempre e con grande enfasi, da tutte le cariche dello Stato come grande vittoria democratica per scorgere la smorfia mostruosa
a cui è stato sottoposto il nostro ordinamento democratico e costituzionale. Una smorfia che continua nelle carceri e nell'esilio per centinaia di persone che sembrano destinate a pagare anche per la cattiva coscienza dei cattivi maestri democratici come se la P38 di cossighiana memoria continuasse ad essere puntata per far fuoco sulle tante Giorgiana Masi, protagonista degli anni settanta.
Ma in ogni caso credo che non sia questo il senso della transitorietà delle norme immaginate dai nostri padri costituenti, tanto più per la XII, XIII, e XIV disposizione. In questa coda costituzionale vi sono contenute disposizioni non solo di trapasso da un regime costituzionale ad un altro, momentanee come nel caso delle disposizioni I, II, III ed altre, che scandiscono con tempi precisi e limitati una transizione necessaria, puntellate da regole a tempo. No! Qui si è voluto espressamente indicare i segni, le coordinate politiche a cui la Repubblica non vuole in alcun modo e mai più guardare, salvo cambio di regime. Sembra di leggere un tratteggio in negativo della Repubblica, ciò che la Repubblica non vuole essere; segni che non potevano comparire così espressamente, ripeto, nel corpo costituzionale che filologicamente indica ciò che un regime è e vuole essere, come esprime magnificamente l'architettura costituzionale della prima parte della Carta.
Per questo ritengo che la transitorietà delle norme assuma un valore che va al di là di un marchingegno a breve tempo. Sono disposizioni finali, come più volte è stato ribadito in quest'aula, con valenza perentoria, prima di tutto, prima cioè di essere transitorie.
«I membri e i discendenti di Casa Savoia non sono elettori e non possono ricoprire uffici pubblici né cariche elettive», così afferma il primo comma della XIII disposizione. I costituenti hanno scelto di partire da qui, dal bando dei diritti civili, dell'elettorato attivo e passivo: il cuore della democrazia, quasi a dire che i Savoia rappresentano qualcosa d'altro, di diverso, di intimamente avverso dalla democrazia.
Non occorre andare lontano; non occorre andare alle giornate dell'8 e del 9 maggio 1898, alle cannonate contro la folla dello zelante generale Bava Beccaris e agli applausi reali del Savoia Umberto, già fautore della repressione e dell'autoritarismo poliziesco! Lui non conobbe l'esilio, se questo può essere di sollievo al pronipote! Fu semplicemente sufficiente un anarchico venuto dagli Stati Uniti, in nome di una vendetta romantica, e romanticamente guaritrice di un così profondo dolore sociale. No! I costituenti non hanno guardato così lontano, è bastato loro uno sguardo alle spalle, al 28 ottobre 1922 quando il Savoia, nonno del reuccio in attesa, non firmò il decreto di stato d'assedio che gli venne sottoposto dal primo ministro e chiamò Benito Mussolini al potere. In questo modo, come giustamente scrive il giurista Paolo Barile, la corona violò, da un lato, la norma consuetudinaria che non le permetteva di rifiutare l'emanazione dei decreti di emergenza proposti dal Governo e, dall'altro, quella che non le permetteva di scegliere il Primo ministro in una corrente di minoranza assoluta in Parlamento, qual era il partito fascista.
Una monarchia sprezzante delle regole democratiche, dunque, spalancò le porte al fascismo, pur conoscendo la scia di violenze squadristiche operate nei mesi precedenti dalle camicie nere; una monarchia che divise e condivise le responsabilità della condotta dello Stato in una sorta di diarchia, dimenticando la sua funzione di tutrice dello Statuto, la allora Carta costituzionale. E le condivise fino in fondo quelle responsabilità, fino alle atroci guerre coloniali, pur di avere il simulacro di una corona imperiale ammorbata dal gas nervino usato in Abissinia, sino all'infamia di apporre la propria firma alle leggi razziali del 1938. Sono quelle leggi, per riprendere le parole pronunciate dalla presidente Jervolino in Commissione, che eliminano gli ebrei dalle scuole sia come insegnanti sia come allievi; quelle leggi che espellevano gli ebrei stranieri revocando la cittadinanza italiana a coloro che la avevano ottenuta
dopo il 1 gennaio 1919, colpendo in particolare gli ebrei alto atesini, triestini, giuliani e dalmati; quelle leggi che vietavano i matrimoni misti; quelle leggi che eliminavano gli ebrei dalle Forze armate, dalle industrie, dal commercio, dalle professioni sia come lavoratori dipendenti che come lavoratori autonomi; quelle leggi che limitavano la proprietà immobiliare degli ebrei e che diminuivano la loro capacità giuridica in materia di patria potestà, di adozione, di tutela, di affiliazione; quelle leggi che eliminavano gli ebrei dalle pubbliche amministrazioni.
Sono quelle leggi che ora il nipotino ginevrino, oggetto della nostra discussione, dimentica. Non capisce le domande, sfotte la memoria, non ritiene gravi né conosce il significato di scuse ai suoi connazionali per aver avallato e acconsentito a dei crimini contro l'umanità. Perché, mentre il terzo dei Vittorio Emanuele firmava l'infamia delle leggi razziali, vi erano regnanti in esilio e con le stelle gialle appuntate al petto. È vero, infatti, che la dignità è cosa rara sotto le corone, ma quando c'è, questa viene riconosciuta. Non è certamente il caso della famiglia Savoia, che riuscì a tacere su tutti i crimini, sui 5.619 oppositori condannati dal tribunale speciale per la difesa dello Stato nel corso di quindici anni, sui 27.735 anni di carcere erogati, sulle migliaia di persone perseguitate. Ma lui è lo stesso infame monarca che permise la guerra, che aspettò sino al 25 luglio 1943 per revocare Mussolini dalla carica di Primo ministro, nell'illusione di restaurare quel governo monarchico puro previsto dallo statuto albertino.
È lo stesso viscido monarca che, allarmatosi di fronte alle manifestazioni popolari di giubilo per la caduta del fascismo, ordinò tramite il ministro dell'interno ad esercito e pubblica sicurezza di - sono parole testuali - «agire con la massima energia perché l'attuale agitazione non degeneri in movimento comunista o sovversivo», facendo in questo modo scattare una sanguinosa repressione ovunque.
È lo stesso monarca che fuggì vigliaccamente sotto la protezione degli alleati l'8 settembre, lasciando un intero paese allo sbando sotto rappresaglia. È lo stesso monarca che il 9 maggio 1946 abdica a favore del figlio, un altro Umberto, compiendo un nuovo colpo di Stato alla vigilia del referendum del 2 giugno, perché non ne avrebbe potuto più compiere legalmente alcun altro. Ma gli andò male, per fortuna, perché perse quel referendum e due anni dopo potè entrare in vigore anche quella XIII disposizione costituzionale che oggi qualcuno qui vorrebbe abrogare.
Tutto questo spiega il bando che qui è contenuto, la ripulsa, lo schifo di fronte a dei monarchi indegni e pronti a soffocare in ogni momento lo spirito della democrazia. Non che siano cambiati, se si pensa alle nobili imprese compiute dall'erede mancato, il quarto dei Vittorio Emanuele, il nipote smemorato e presuntuoso.
Se i nostri padri costituenti non dimenticarono il tanfo complice del terzo Vittorio Emanuele, la famiglia di Dirk Hammer non dimenticherà mai quel fucile puntato dal quarto, quel cowboy sabaudo dell'isola di Cavallo. È la protervia di questi signori dal sangue regalmente tumefatto che dovrebbe rendere la XIII disposizione costituzionale ancora per molto tempo finale e lungamente transitoria.
C'è una logica allora, nell'apposizione del secondo comma della XIII disposizione costituzionale: «Agli ex re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi sono vietati l'ingresso ed il soggiorno nel territorio nazionale», perché diventa un'indicazione conseguenziale, sviscera la naturalità della loro indesideratezza in questo paese. Non a caso i costituenti inserirono nell'elenco non solo gli ex re, ma anche le loro consorti e, soprattutto, i loro discendenti maschi. Un cavallo di battaglia monarchico, che più volte affiora con grandi vapori sensazionalistici, è la messa in discussione del risultato referendario del 1946, come ricordava prima l'onorevole
Strambi, i sospetti di conteggi imbrogliati, facendo sempre finta di dimenticare che, se anche aggiungessimo i risultati accertati dalla Corte di cassazione nei verbali del 10 e del 18 giugno 1946, se aggiungessimo al quorum per il calcolo della maggioranza le schede nulle e bianche, ci accorgeremmo che il risultato non sarebbe cambiato. Eppure, non una parola da nessuno dei membri della famigliuola ex reale; nemmeno dal reuccio cowboy scalpitante è venuto il riconoscimento della Repubblica e di rinuncia perenne a qualsiasi pretesa da qualsiasi ruolo regale. Nessuna parola. Continuano a preferire le smemoratezza, a disprezzare i fondamenti, non rinunciano nemmeno ai titoli, come peraltro previsto dalla XIV delle disposizioni transitorie e finali. A proposito, a quando una proposta di abolizione anche di questa?
Nell'epopea della riconciliazione, dove assassini ed assassinati, vittime e carnefici, complici e patrioti, briganti e partigiani si confondono inesorabilmente, in questo teatrino della seconda Repubblica abbiamo dovuto leggere le lettere, inviate persino da alte personalità del Governo, che si rivolgevano al cowboy savoiardo con altisonanti «Sua Altezza». La nuova Repubblica, fondata sulla virtualità della riconciliazione, nasce smemorata, ritornano i titoli, tanto per far segnare un altro punto nell'opera di ricostruzione dell'immaginario sociale del senso comune, proprio alla destra del suo firmamento culturale e mentale.
Speriamo che non si passi alla restituzione dei beni, quelli indicati dal III comma della XIII disposizione: «I beni, esistenti nel territorio nazionale, degli ex re di Casa Savoia, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi, sono avocati allo Stato. I trasferimenti e le costituzioni di diritti reali sui beni stessi, che siano avvenuti dopo il 2 giugno 1946, sono nulli».
Allora sappia, semmai questa proposta di legge dovesse trovare il consenso necessario in quest'aula, sappia il reuccio mancato, così spregiudicato nel rivendicare un diritto ed un trono invisibilmente futuribile, che ha anche un obbligo solenne, perché l'obbligo di fedeltà alla Repubblica grava su tutti, secondo quanto previsto dall'articolo 54 della Costituzione. Questo perché, seguendo un altro ragionamento del costituzionalista Paolo Barile, le associazioni possono tendere a diventare contropoteri dello Stato stesso. La risposta positiva è stata contestata sulla base di una pretesa incertezza di che cosa sia la fedeltà, ma la replica prova troppo.
Se così fosse, questo dovere costituzionale sarebbe da considerare praticamente come non scritto. E allora, piuttosto che risolverlo nella semplice osservanza della Costituzione e delle leggi, un dovere che lo stesso articolo 54 aggiunge a quello di fedeltà, conviene vederlo come ispiratore di una lealtà di comportamento, in particolare delle associazioni, lealtà che infatti è la ratio che ha dettato le norme definitorie delle associazioni segrete.
Non si tiri in ballo, per favore, la libertà di pensiero, perché la risposta negativa prevale in un eventuale collegamento con l'articolo 54. Ma, come sottolinea ancora il Barile, qualche eccezione potrà farsi per coloro che sono soggetti a causa delle funzioni ricoperte ad una fedeltà che è stata chiamata qualificata. In ogni caso, un'eccezione generale è prevista in Costituzione, in armonia con l'obbligo di fedeltà alla Repubblica contro l'espressione del pensiero fascista.
Lavorare per la ricostruzione del fascismo o per la restaurazione monarchica sono così le due discriminanti di rilevanza costituzionale. Questo è un passaggio che difficilmente si ricorda: anche l'attività monarchica, pur nell'accezione, come dimostra la legge del 3 dicembre 1947, n.1546, legge ordinaria votata dall'Assemblea costituente. È meglio ricordarlo allo smemorato erede che ama i fucili e che tanto somiglia a quel contrabbandiere regale di Leka I, cacciato a furor di popolo fuori dall'Albania, sconvolta dalla guerra civile, nei mesi scorsi.
Nessuna paura però. Non credo che Vittorio Emanuele, detto il quarto, possa realmente costituire un pericolo per questo paese. Forse rappresenta, sì, un pericolo
per i cittadini inermi quando gira con i suoi fucili. Ma credo sia giusto dover ricordare tutto e ricordarlo anche a quest'Assemblea. È prima di tutto un dovere. Sono anche convinto che Pasolini avesse ragione nel temere molto gli antifascismi archeologici, che poi sono un buon pretesto per procurarsi una patente di antifascismo reale.
Sono convinto, insomma, che il fascismo del ventennio sia una parentesi chiusa e sia fortunatamente, definitivamente e storicamente non riproponibile; non lo era neppure negli anni sessanta. Persino quello del generale De Lorenzo e di Valerio Borghese erano già un'altra cosa. Eppure c'è qualcosa di maledettamente repellente in questo sbracciarsi per il ritorno dei Savoia, nella febbre di questo ceto politico, al quale può sembrare barattabile qualsiasi cosa. Ed è repellente il richiamo piagnucoloso ad una patria a cui sono stati intimamente avversi: sarebbe il loro un ritorno all'inferno.
È chiara dunque la nostra presa di distanza da questo fenomeno assai poco edificante; almeno tale è il nostro giudizio. Non solo dunque dichiariamo la nostra totale estraneità ad un simile coro polifonico che appare quanto mai stonato, ma la nostra ferma contrapposizione ad una deriva politico-culturale che, nella sua folle corsa, sembra travolgere ogni punto di riferimento ed ogni giudizio di valore. Il fatto poi di non essere da soli a sostenere una simile battaglia, ma di avere al fianco molti spiriti liberi e democratici, che non accettano la resa, che non si piegano al libero corso degli eventi, anche quando questi si presentano in forme tumultuosamente devastanti, non può che fare piacere e rafforzare la nostra convinzione a ricercare ogni espediente, ogni forma per impedire che questa proposta di legge trovi l'approvazione dell'Assemblea (Applausi dei deputati del gruppo di rifondazione comunista-progressisti e di deputati della sinistra democratica-l'Ulivo).
Quali ragioni spinsero i costituenti ad indicare misure così nette e chiare nei confronti dei membri e dei discendenti di casa Savoia? Innanzitutto la volontà di voltare pagina nella travagliata e relativamente breve vicenda storica dello Stato unitario italiano; soprattutto dopo l'esito inequivocabile del referendum popolare del 2 giugno 1946. Era questa una necessità che nasceva da precise vicende politiche che avevano contrassegnato la prima metà del ventesimo secolo e che facevano gravare su casa Savoia pesanti responsabilità politiche e morali, nella successione di fatti che avevano portato all'avvento del fascismo, alla costruzione di una feroce dittatura antipopolare, all'attuazione di una rinnovata politica imperialista ed aggressiva nei confronti di altri paesi e popoli europei ed africani, fino a culminare nella emanazione di leggi razziali e nel disastro della seconda guerra mondiale.
Il giudizio della storia e della volontà popolare su quelle vicende ha avuto una sanzione inequivocabile, che riteniamo non necessiti di essere sottoposta a revisione alcuna, quale che sia la lunghezza temporale che ci separa da quelle vicende e quali che siano le ragioni di carattere genericamente umanitario che sembrerebbero poter spingere nella direzione di una parziale attenuazione delle conseguenze
derivanti dal dettato della XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione italiana.
La nostra valutazione, in ogni caso, è che nessuna ragione valida sia nel frattempo intercorsa, tale da giustificare una revisione del dettato costituzionale, proprio alla luce dell'entità delle responsabilità storiche che gravano su casa Savoia, sia alla luce della necessità attuale di aprire una nuova stagione di sviluppo democratico del nostro paese.
Non è superfluo in tale prospettiva ricordare alcune delle drammatiche vicende storiche politiche che ci fecero precipitare verso il più grande disastro del ventesimo secolo: la seconda guerra mondiale! L'avvento del fascismo fu un fatto drammatico che anticipò questo disastro. Ai primi di agosto del 1922, Facta presentò al Parlamento il suo nuovo Ministero: fu l'ultimo prima del gabinetto Mussolini.
È utile, per comprendere l'atteggiamento di casa Savoia in tale circostanza, ricordare il giudizio dato da uno storico, Denis Mack Smith nella sua Storia d'Italia: «È particolarmente importante osservare quale fosse l'atteggiamento del re, poiché questa fu una di quelle occasioni in cui la sua condotta fu decisiva. Se Vittorio Emanuele e il suo Governo avessero agito di concerto contro il fascismo, tutto avrebbe potuto ancora essere salvato perché il sovrano poteva ancora contare sulla fedeltà dell'esercito e del Senato ed il Governo su quella della polizia. Ma Vittorio Emanuele non si era preoccupato di tenersi in contatto con quei gruppi di opposizione che un giorno avrebbe forse dovuto chiamare al potere: per molti anni non aveva neppure visto Sonnino o Giolitti, nelle fasi in cui non erano stati in carica. La sua sensibilità politica si era a tal punto offuscata in due decenni di prassi trasformista che non riusciva a capire perché Turati e Mussolini non dovessero risolvere la crisi accettando di far parte dello stesso gabinetto. Sembra che il ministro della realcasa Pasqualini fosse un oppositore del fascismo, ma la regina madre Margherita ne era invece una fautrice entusiasta e scoperta, e sia l'uno che l'altra si allarmarono allorché i socialisti repubblicani divennero il partito più grande in Parlamento. Il re era altresì spaventato dalla possibilità che qualora si fosse opposto ai fascisti, questi potessero deporlo e conferire la corona al ramo cadetto della famiglia reale, che aveva come capo l'assai più simpatico e prestante duca d'Aosta. In ultima analisi non vi è dubbio alcuno che il re porti intera la responsabilità del suo gesto finale perché agì contro il parere del Governo».
Fin qui le parole dello storico. Infatti, quando, a marcia su Roma avviata, il capo del governo Facta si recò a Palazzo reale per ottenere la promessa ratifica del sovrano al decreto di proclamazione dello stato d'assedio, il re rifiutò di firmare.
Vittorio Emanuele era al corrente del fatto che i rivoltosi stavano marciando su Roma. I suoi ministri, unanimemente, e i suoi consiglieri militari gli assicurarono che l'ordine sarebbe stato ristabilito se egli avesse firmato il decreto. Il suo rifiuto non fu solo una violazione della prassi costituzionale, ma determinò anche il successo dell'insurrezione fascista. Esso convinse le autorità locali che il Governo non avrebbe fatto nulla per fermare il fascismo e le stesse autorità modificarono il loro atteggiamento in conformità della nuova situazione creatasi e delle nuove dislocazioni dei poteri.
Mussolini ebbe allora la certezza che il re, avendo ceduto una volta alle sue minacce, sarebbe stato costretto a cedere anche in seguito, in quanto, con il suo atto, si era reso complice della illegalità e l'unica alternativa per lui sarebbe stata l'abdicazione. Fu così che su richiesta del re, De Vecchi telefonò da Palazzo reale a Mussolini per invitarlo a venire a Roma e Mussolini insistette perché gli fosse conferito ufficialmente, per telegramma, l'incarico di formare il Governo, a scanso di ogni sorpresa. E il telegramma richiesto venne infine mandato.
Nella mattina del 30 ottobre Mussolini giunse in un vagone letto alla stazione di Roma. Da quel momento, come capo dello Stato, il re si renderà responsabile di tutti
gli atti con cui il regime fascista caratterizzerà la propria azione di Governo, dalle leggi razziali del 1938, dalle guerre coloniali del 1935, alla partecipazione, in forma offensiva alla seconda guerra mondiale. Uno dei segni più odiosi della politica della dittatura fascista fu l'imitazione delle leggi razziali tedesche.
Secondo il censimento del 1931 c'erano solo cinquantamila ebrei in Italia, anche se in seguito erano stati accolti molti altri che vi avevano cercato rifugio dalle persecuzioni di Hitler. Anche alcuni gerarchi fascisti erano ebrei. Con la conquista dell'Africa, che portò nuovi incroci, aumentarono le ragioni di un'intensa campagna razziale. Con la visita di Hitler nel maggio del 1938 in Italia i due paesi decisero di armonizzare la loro politica interna oltre che quella estera. Nel mese di luglio dello stesso anno tutti i giornali dovettero pubblicare una dichiarazione di professori universitari di chiara fama che scoprirono all'improvviso che gli italiani erano ariani nordici e ammonivano la gente a guardarsi dal pericolo degli ebrei.
Molti studiosi di fama mondiale dovettero lasciare il loro posto. La legge stabiliva che gli ebrei non potessero esercitare le professioni di giornalista, di insegnante, di notaio. Gli immigrati in data recente dovevano essere espulsi. Era fatto divieto agli ebrei di frequentare le scuole pubbliche; essi non potevano accedere all'università, né far registrare i loro numeri telefonici nell'elenco ufficiale. Infine, buona parte delle loro proprietà vennero confiscate. La razza italiana doveva essere preservata nella sua purezza, dalle contaminazioni di elementi inferiori e pertanto i matrimoni misti, con appartenenti ad altre razze, non avrebbero più potuto essere validamente contratti, se non con speciale autorizzazione. I matrimoni o il concubinato con gli indigeni dell'Africa vennero dichiarati punibili con una pena fino a cinque anni di reclusione.
Nel maggio 1940, alla vigilia dell'entrata in guerra dell'Italia, molti italiani contavano sul re, nonostante le malefatte del passato, affinché fosse evitata quella che si preannunciava - anche per ragione tecnico-militari - come una tragica decisione. Il capo della polizia era convinto che già in quel momento sarebbe stato possibile arrestare Mussolini. Badoglio e lo stato maggiore osservarono che l'esercito disponeva di pochissimi blindati e carri armati e di poco più di un migliaio di aerei da combattimento. Ma alla fine di maggio, Mussolini superò le obiezioni, assumendo personalmente l'alto comando delle Forze armate, senza che da parte di Vittorio Emanuele e di Badoglio venisse una reale opposizione, vista, tra l'altro, l'ennesima e spudorata violazione della costituzione allora vigente, dell'articolo 5 dello Statuto - che attribuiva al re, come Capo dello Stato, il comando delle Forze armate - avvenuta con l'assunzione da parte del Presidente del Consiglio del supremo comando delle Forze armate.
Si giunse, così, all'annuncio della dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940. Solo tre anni dopo, quando il paese era ormai distrutto e sconfitto, avendo pagato un altissimo tributo di sangue, alle 6 del mattino del 25 luglio 1943, Vittorio Emanuele troverà la forza e la volontà di ordinare ai carabinieri di arrestare Mussolini nel cortile della residenza privata del re, riassumendo il comando effettivo delle Forze armate in base all'articolo 5 dello Statuto, nonché l'iniziativa suprema di decisione, per tanto tempo delegata al dittatore, che le istituzioni del Regno gli attribuivano. Ma era ormai troppo tardi. Il fascismo fu sostituito da un'autocrazia monarchica fondata sull'esercito, sulla polizia e sulla burocrazia. Il re diede ad Hitler garanzie e la sua parola d'onore che non nutriva alcuna intenzione di abbandonare l'asse. Quando, infine, l'8 settembre Badoglio concordò un armistizio con gli alleati, che stavano per passare dalla Sicilia sul continente, iniziò l'ultimo atto della tragedia. Il re e Badoglio, dopo aver inizialmente promesso di appoggiare tale passaggio, rinnegarono la promessa ed all'ultimo momento chiesero agli alleati di annullare una progettata iniziativa militare in direzione di Roma. Il 9 settembre, fuggirono precipitosamente verso sud e l'esercito italiano, privo di ordini e
perfino di un comandante, resistette eroicamente ai tedeschi per alcuni giorni; poi, fu però costretto ad arrendersi.
Le forze tedesche occuparono Roma e quindi l'intera penisola fino a Napoli dove un'insurrezione popolare - le famose quattro giornate - contribuì decisamente a respingere i tedesche e ad invertire, con il concorso degli alleati, le sorti della guerra.
Il resto è storia che non riguarda più la casa Savoia; è la storia di un esercito di popolo, i partigiani, che hanno riconquistato l'onore e la dignità del nostro paese; storia sfociata in un referendum popolare il 2 giugno 1946. Tale referendum ha dato legittimità e base costituzionale alla Repubblica democratica ed antifascista. Non a caso, ma per tutte le vicende storiche che ho ricordato, la sua legge fondamentale, la Costituzione comprende la XIII disposizione finale, di cui oggi stiamo discutendo.
Certo, ci si può interrogare sul fatto che il tempo che scorre, l'avvenuto consolidamento dell'ordinamento democratico, ragioni umanitarie rendano modificabile o superabile la norma costituzionale indicata. Ma, per quello che ci riguarda, proprio da questi interrogativi traiamo la conferma della sua permanente attualità e validità. Il tempo che scorre non ha cancellato il ricordo di una tragedia storica, quale il fascismo e la guerra sono stati, che ha segnato pesantemente decine di milioni di uomini e di donne in tutto il mondo.
La condanna inequivocabile di coloro che ne furono la causa, gli artefici, i protagonisti deve continuare a rimanere scolpita nel testo costituzionale dello Stato italiano.
L'avvenuto consolidamento dell'ordinamento democratico non è stato un processo lineare ed indolore, ma il frutto di una lotta pluridecennale condotta dai lavoratori, dal movimento operaio e democratico del nostro paese contro le più volte risorgenti forze del passato che, nei loro piani di destabilizzazione democratica, non hanno mancato di far vivere al nostro popolo ed al paese nuove tragiche pagine di sangue e di terrore.
Le ragioni umanitarie che sono ben presenti a coloro che sono stati vittime delle più feroci violazioni dei diritti umani richiederebbero che per essere valido motivo per superare i divieti costituzionalmente sanciti fossero almeno confortate da un pubblico riconoscimento delle proprie responsabilità storiche da parte degli esponenti dei Savoia nei drammi e nelle sofferenze subite dal popolo italiano a causa del fascismo e della guerra.
Per queste ragioni riteniamo valida ed attuale la XIII disposizione finale della nostra Costituzione e di segno ambiguo ed inquietante una sua modificazione o peggio abrogazione.
Per questi motivi il 30 giugno 1997 il consiglio comunale di Torino, città medaglia d'oro della Resistenza, ha approvato un ordine del giorno contro il rientro in Italia dei Savoia che afferma: «Il consiglio comunale di Torino, città medaglia d'oro della Resistenza, appreso che in queste ore il Parlamento è in procinto di votare la modifica della XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione, concernente il divieto ai membri di casa Savoia di godere dei diritti politici e di entrare e soggiornare nel territorio nazionale, ricordato che i discendenti di casa Savoia, a partire dall'ex re Umberto II e sino ad oggi, non hanno mai espresso un chiaro riconoscimento della legittimità politica e costituzionale dell'instaurazione della Repubblica italiana; ricordato inoltre che da parte dei suddetti membri di casa Savoia non sono mai venute esplicite e sincere autocritiche sul ruolo storico avuto dalla dinastia, ed in particolare ad opera di
Vittorio Emanuele III, sulle tragiche vicende dell'Italia contemporanea, il consiglio comunale di Torino ritiene opportuno ricordare le più gravi deviazioni di quella legalità statutaria che il re si era impegnato a rispettare per sé e per i suoi discendenti e cioè: l'apertura e la conduzione di trattative diplomatiche segrete all'insaputa del Parlamento, a maggioranza neutralista, per determinare l'entrata in guerra dell'Italia nel 1915; il rifiuto di firmare il decreto di stato d'assedio proposto dal Governo Facta per fermare la marcia su Roma degli squadristi fascisti ed il conseguente incarico al loro capo, Benito Mussolini, di formare un nuovo Governo imposto dal ricatto sedizioso; l'assoluta inerzia dopo il delitto Matteotti e nonostante l'evidente responsabilità del Governo fascista, nel prendere un'iniziativa volta a ripristinare la legalità costituzionale; l'avallo dato alle leggi liberticide del gennaio 1926, che contraddicevano norme fondamentali dello Statuto albertino; l'avallo dato alle leggi razziali del 1938 che gravi ed infauste conseguenze ebbero per il popolo italiano, dando così avvio successivamente alla deportazione nei campi di sterminio; la piena adesione a tutte le guerre di aggressione promosse dal fascismo (Etiopia, Spagna, seconda guerra mondiale); l'ignominiosa fuga da Roma l'8 settembre 1943 con conseguente disorientamento e sfacelo delle Forze armate italiane di fronte all'invasione tedesca».
Conclude pertanto, il consiglio comunale di Torino, esprimendo la più netta disapprovazione all'iniziativa di modifica della predetta XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione.
Fino a qui il pronunciamento del consiglio comunale, di un'assemblea democraticamente eletta dai cittadini in una città che con i Savoia ha forse più di altre avuto a che fare.
Come ci dicono le cronache, che noi non vorremmo veder realizzate, «a volte ritornano». Questo erede della casa Savoia, Vittorio Emanuele, che alcuni vorrebbero veder tornare, è stato erede bambino di una casata senza regno, poi play-boy non brillantissimo ed amante di fuoriserie con attitudine ad uscire di strada, poi ancora imputato d'omicidio con ai polsi le manette della gendarmerie; ora è pretendente, se non proprio al trono, almeno ad un posto al Pantheon per i suoi morti.
Vittorio Emanuele di Savoia potrebbe rientrare presto, chissà, in un'Italia diventata un paese normale, anche se gaffe al telegiornale troppo simili a giudizi storici insensati non lo aiuteranno su questo cammino.
L'erede del re d'Italia è però soprattutto un uomo d'affari (non sufficientemente si è parlato di questa sua attività). Sarebbe probabilmente giusto dire che i Savoia forse sono già in Italia con le loro attività economiche. Sotto queste vesti è già rientrato nel paese l'erede dei Savoia: è rientrato ed anzi non ne è mai uscito. Ha già conquistato il posto nella storia d'Italia, forse non nella storia alta, quella dei suoi avi, ma almeno in quella invisibile e sotterranea, quella che ha a che fare con lobby riservate, logge segrete, aristocrazie occulte impegnate in affari internazionali sul crinale dell'illegalità.
«Questa grande dinastia che per secoli ha regnato su Chambery e dintorni...», come scriveva Carlo Emilio Gadda, ha trovato tardivamente un uomo capace di andare oltre i confini, di aggirarli, anzi, con l'aiuto di qualche finanziaria off-shore.
Da giovane, dopo una carriera scolastica un po' difficile, si preparò con metodo a divenire cultore dello champagne e dei vini pregiati. Allora era chiamato dagli amici «Toto la manivelle», qualcosa come «Vittorino il volante», per qualche malaugurata uscita di strada alla guida delle sue auto.
Poi, ormai diventato cittadino del mondo, cominciò a collezionare conchiglie, prese il brevetto di pilota, acquistò un biplano con una testa di tigre disegnata sulla fusoliera. Infine si fece manager per ricostruire il patrimonio di famiglia. Professione: mediatore d'affari, piazzista di lusso, ponte nobile tra grandi imprese
occidentali e satrapie orientali, sempre all'ombra di qualche consorteria politico-affaristica.
I quarti di nobiltà di Vittorio Emanuele costituiscono il valore aggiunto, sono la griffe che garantisce, se non una particolare abilità manageriale, almeno l'accesso ai personaggi utili, alle lobby giuste.
Negli anni settanta fu preso sotto l'ala dal conte Corrado Agusta, allora padrone della fabbrica di elicotteri e mercante internazionale di armi. Come consulente dell'Agusta il principe vendette parecchio materiale allo scià di Persia Reza Pahlavi, amico di famiglia in quanto nobile e ancor più in quanto corteggiatore di Gabriella di Savoia.
Secondo i documenti processuali raccolti dal giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni, però, non di soli elicotteri si occupava Vittorio Emanuele, ma di traffico d'armi e di triangolazioni proibite: centinaia di elicotteri Agusta 205 e Agusta 206, sistemi d'arma e pezzi di ricambio partivano dall'Italia, destinati ufficialmente all'Iran dello scià, ma finivano in Giordania o all'OLP; indirizzati alla Malesia e a Singapore arrivavano, invece, in Sudafrica o a Taiwan.L'inchiesta di Mastelloni coinvolgeva generali, politici, agenti segreti. Approdò alla procura di Roma e lì, come consuetudine in quegli anni, si insabbiò.
Oltre che l'Agusta, nel giro di affari era coinvolta la statunitense Bell, quella degli elicotteri d'assalto Cobra, e le armi giravano il mondo, Somalia, Congo, Zaire. A vederci chiaro provò anche il giudice di Trento, Carlo Palermo, che sperava di far luce su un doppio traffico: armi dall'occidente al medio oriente, droga in direzione opposta. Ma anche Palermo fu bloccato, e in malo modo. Il pretendente al trono, del resto, era attorniato e ben sostenuto da una compagnia di personaggi eccellenti, come si conviene nei commerci internazionali d'armi: faccendieri, politici, militari, uomini dell'intelligence. Tra gli altri, attorno a Vittorio Emanuele c'erano il colonnello Massimo Pugliese, fedelissimo di casa Savoia, già responsabile del centro di controspionaggio di Cagliari, il generale Giuseppe Santovito, detto Bourbon, direttore del SISMI (il servizio segreto militare), l'ex attore Rossano Brazzi, massone, approdato dal cinema all'entourage di un altro attore, il Presidente degli Stati Uniti Ronald Regan.Una variopinta ma potente compagnia di giro.
I servizi segreti italiani vegliavano sugli affari, in stretto collegamento con gli uomini della CIA e della NSA, le due massime agenzie di spionaggio americane. E poi si scoprì che anche Vittorio Emanuele, come tutti gli altri membri di questo club atlantico della politica e degli affari, faceva parte della loggia P2. Alla lettera S dell'elenco sequestrato nel marzo 1981 dai magistrati Giuliano Turone e Gherardo Colombo nella villa di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi, si legge: «Savoia Vittorio Emanuele, casella postale 842, Ginevra». Tessera n.1621. In una delle cartelle allegate, poi, sempre alla lettera S, insieme a Sindona Michele, banchiere, Stammati Gaetano, ministro, Santovito Giuseppe ed altri, compare il nome «Savoia Vittorio, n.516». Il principe aveva raggiunto il terzo grado della gerarchia massonica, quello di maestro, e oltre che della P2 era entrato a far parte anche di un altro esclusivo club massonico, la super loggia di Montecarlo: almeno secondo quanto testimonia nell'ottobre 1987 Nara Lazzerini, intima amica di Gelli: «Licio mi disse che della loggia facevano parte anche Vittorio Emanuele di Savoia e il principe Ranieri».
Un rapporto del SISDE (il servizio segreto civile) del 1982, informa che ai vertici della loggia di Montecarlo, insieme a Gelli, vi erano Enrico Frittoli, ragioniere, titolare di una società di import-export con sede nel Principato e «uomo di fiducia del trafficante internazionale d'armi Samule Cummings, presidente della Inter Arms di Londra». Il solito cocktail forte di politica, affari e nobiltà.
Con le logge internazionali il pretendente al trono ebbe a che fare anche dopo la caduta del muro di Berlino, nel 1989, quando alcuni circoli massonici internazionali misero a punto progetti che prevedevano niente meno che il ritorno sul
trono di alcuni monarchi europei. Le ipotesi erano la restaurazione della corona in Romania oppure in Ungheria, paesi da cui il re era stato cacciato dai comunisti, ma era stata presa in considerazione anche la possibilità di un ritorno delle famiglie reali in Grecia e in Italia. I progetti, come al solito, mischiavano gli affari alla politica: alla fine furono realizzati solo i primi, nelle fragili economie dei paesi ex comunisti. Ma un rapporto riservato del Viminale, del marzo 1993, riporta le dichiarazioni informali di un collaboratore di giustizia, il quale racconta di una riunione avvenuta a Barcellona, con la partecipazione delle famiglie Villaverde, Orleans, Leida D'Aragona e Savoia. Un ruolo importante in questi piani era stato giocato dal principe Giovanni Alliata di Montereale, siciliano, massone, piduista, legato a Cosa nostra, ma anche agli ambienti dell'intelligence americana e all'eversione della destra italiana. Del resto l'amministratore dei beni di casa Savoia, l'avvocato Carlo D'Amelio, era presidente del CMC, la filiazione di un'agenzia che secondo il giudice Palermo era una «creatura della CIA, istituita per coprire i finanziamenti dei servizi segreti americani in Italia per attività anticomuniste».
Vittorio Emanuele comunque, già alla fine degli anni settanta, aveva realizzato la sua apertura a sinistra. Scenario: isola di Cavallo in Corsica; protagonista: Silvano Larini, amico di Bettino Craxi e di Silvio Berlusconi e gran cassiere dei socialisti. A Cavallo passavano le vacanze sia Larini che il principe; all'inizio, in verità, il bon vivant Larini frequentava Marina Doria, la consorte del principe. Poi, da cosa nasce cosa, ed i due decidono di lanciare l'isoletta come esclusivo paradiso di vacanze. Ancora una volta Vittorio Emanuele, con il suo blasone da rotocalco, funziona come spot pubblicitario per una selezionata folla di nuovi ricchi e tangentomani a caccia di parenti per entrare nel jet set. Peccato che un colpo di fucile nell'agosto 1978 abbia rovinato quasi tutto: un litigio ad alto tasso alcolico con il playboy Nicky Pende, uno sparo nella notte e la morte di un giovane velista tedesco, Dick Hammer, che dormiva tranquillo su una barca. Il processo in Francia mandò libero il principe (sola condanna: sei mesi con la condizionale per porto d'armi abusivo) con qualche protesta dell'opinione pubblica e l'indignazione dei parenti della vittima.
Ma Vittorio Emanuele, all'epoca della sentenza francese, era già entrato, grazie a Larini, nel giro di quella che è stata chiamata l'internazionale socialista delle tangenti, un network europeo di affari per finanziare la politica, secondo le ammissioni di alcuni protagonisti, che coinvolgeva francesi, spagnoli, italiani e valloni, con buoni conti nella Banque internationale di Lussemburgo. Su Craxi, Vittorio Emanuele rilasciò ai giornali italiani dichiarazioni semplicemente entusastiche. Ma erano altri tempi.
In Iran il principe che non può tornare in Italia lavorò anche per conto di imprese dello Stato in cui non può entrare: Italimpianti e Condotte, entrambe aziende IRI. A Bandar Abbas gli italiani buttarono parecchi miliardi pubblici per costruire un'acciaieria (Italimpianti) e un porto (Condotte). Fu un disastro industriale, ma fece girare parecchi soldi. Tanto che alla fine scoppiarono litigi per la spartizione delle mediazioni tra l'erede Savoia e un armatore genovese, Enrico De Franceschini. Qualche giornalista andò a curiosare nel fiume di dollari e tangenti che uscirono da quelle imprese sbagliate e a Bahamas scoprì una società, la Financial, che sarebbe controllata da Vittorio Emanuele. Vero? Falso? Il principe non si abbassa a parlare di questi particolari materiali e i banchieri delle Bahamas, si sa, non dimenticano certo di lavorare in uno dei più riservati paradisi fiscali del mondo.
Più soft l'altro business che il principe tentò in Iran: un'impresa editoriale, in società con Angelo Rizzoli e Bruno Tassan Din, compagni di lista P2. La Rizzoli allora era nelle mani del banchiere Roberto Calvi, che morì sotto un ponte di Londra, travolto da un crack miliardario. Così anche il lavoro in Iran andò buttato.
Ma Vittorio Emanuele non è tipo da scoraggiarsi per qualche fallimento. Chiusa l'avventura persiana dopo la cacciata dello Scià e l'arrivo di Khomeini, si riciclò in altri paesi del vicino oriente, Egitto, Giordania, Israele. Re Hussein di Giordania è un amico, naturalmente. Ma il principe considera amici anche l'ex presidente egiziano Sadat, poi ucciso, il Presidente palestinese Yasser Arafat, il dittatore iracheno Saddam Hussein.
Nel 1995 si recò in Iraq dicendo di rappresentare aziende italiane: «Ma no, niente elicotteri, niente armi. Tecnologia agricola, invece, trattori, strumentazioni. Superato l'embargo, l'Iraq di Saddam tornerà benestante e competitivo.
Non finì bene il progetto di sfruttamento turistico di Manoel Island, un'isoletta davanti a Malta. Alla fine degli anni ottanta il principe mise a punto, durante le vacanze invernali passate a Gstaad, un piano per realizzare nell'isoletta un porto turistico, 400 ville extralusso, alberghi, campi da golf, un casinò. Investimento: 200 miliardi di lire dell'epoca.
Questi e tanti altri avvenimenti sono l'identikit del rampollo della casa Savoia, degno erede di affari privati e di disastri per il nostro popolo e per il nostro paese, così come lo furono gli antesignani della casata di cui è erede.
Per queste ragioni di carattere storico ed attuale e di necessità di aderenza e fedeltà ai principi costitutivi della Repubblica italiana, noi ribadiamo la nostra opposizione alla revisione, o peggio, all'abrogazione della XIII disposizione transitoria finale della Costituzione della Repubblica democratica antifascista (Applausi dei deputati del gruppo di rifondazione comunista-progressisti).