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PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito della discussione del testo unificato dei progetti di legge costituzionale Trantino; Simeone; Selva; Frattini e Prestigiacomo; Lembo; Giovanardi e Sanza; di iniziativa del Governo; Boato: Modifica alla XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione.
GENNARO MALGIERI. Chiedo di parlare sull'ordine dei lavori.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
GENNARO MALGIERI. Vorrei un chiarimento sull'ordine dei lavori. A quanto mi è parso di capire, la seduta dovrebbe essere sospesa alle 14.
PRESIDENTE. Sì.
GENNARO MALGIERI. Per poi riprendere quando?
PRESIDENTE. Riprenderemo alle 15 o alle 15,30. Comunque, il prosieguo dei nostri lavori dipenderà dalla presenza dei deputati iscritti a parlare.
GENNARO MALGIERI. La ringrazio.
PRESIDENTE. Constato l'assenza degli onorevoli Grimaldi, Del Barone, Tassone, Orlando e Giovanardi, iscritti a parlare: si intende che vi abbiano rinunziato.
GENNARO MALGIERI. Signor Presidente, signor sottosegretario, onorevoli colleghi, quando il Governo, nell'aprile scorso, partecipò l'intenzione di adoperarsi per il rientro in Italia dei discendenti maschi di casa Savoia, fui tra coloro che gioirono, sembrandomi il mantenimento della XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione un'anticaglia giuridico-politica che certo non esalta le virtù civili del nostro popolo. Le polemiche, spesso becere e pretestuose, che in questi mesi hanno accompagnato la discussione sull'abrogazione della norma in questione hanno smorzato alquanto l'iniziale entusiasmo ed ora il testo unificato proposto dal relatore non mi rende più sereno. A proposito, non vedo il relatore Maselli, Presidente.
PRESIDENTE. C'è il presidente della Commissione.
ROSA JERVOLINO RUSSO, Presidente della I Commissione. Lo sostituisco io.
GENNARO MALGIERI. Chiedo scusa.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Novelli. Ne ha facoltà.
DIEGO NOVELLI. Presidente, colleghi, io ho considerato invece sbagliato, nella
GENNARO MALGIERI. I pazzi stanno dappertutto!
DIEGO NOVELLI. Lo so, è un partito internazionale ...
GENNARO MALGIERI. Non c'è dubbio!
DIEGO NOVELLI. Quando va bene appartengono alla maggioranza relativa e, quando va male, alla maggioranza assoluta!
PRESIDENTE. Come preannunciato, sospendo la seduta fino alle 15.
La seduta, sospesa alle 13,55 è ripresa alle 15,05.
PRESIDENTE. Constato l'assenza degli onorevoli Borghezio e Prestigiacomo, iscritti a parlare: s'intende che vi abbiano rinunziato.
PIER PAOLO CENTO. Signor Presidente, intervengo con un certo imbarazzo sul provvedimento al nostro esame. Sono trascorsi due mesi da quando è iniziato il dibattito sulla materia, prima con l'annuncio da parte del Governo della volontà di presentare un disegno di legge che, attraverso l'abrogazione della XIII disposizione transitoria della Costituzione, consentisse il rientro in Italia della famiglia Savoia, poi con la lettura del testo approvato dal Consiglio dei ministri, in cui si confermava questa volontà. Fin dal primo momento ho giudicato quella volontà inopportuna dal punto di vista politico, storicamente sbagliata ed anzi portatrice di un disegno - che peraltro si è manifestato e si sta manifestando in maniera più compiuta anche in altri campi - di revisione della storia e delle sue responsabilità, di quella che è stata la tragedia della seconda guerra mondiale e
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Simeone. Ne ha facoltà.
ALBERTO SIMEONE. Signor Presidente, onorevoli colleghi, intervengo perché ritengo necessario che si arrivi ad un atto di civiltà che viene reclamato da più parti. Per sgombrare il campo da ogni possibile dubbia interpretazione, annuncio anche che il mio voto sarà contrario su tutti gli emendamenti presentati al provvedimento alla nostra attenzione, ad eccezione di quello Armaroli 1.1, sul quale mi asterrò.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Colombo. Ne ha facoltà.
FURIO COLOMBO. Presidente, posso pregarla di specificare il primo nome?
PRESIDENTE. Ha la facoltà di parlare l'onorevole Furio Colombo.
FURIO COLOMBO. La ringrazio, Presidente.
PRESIDENTE. La prego di concludere, onorevole Furio Colombo.
FURIO COLOMBO. Presidente, le chiedo ancora un minuto di tolleranza...
PRESIDENTE. Purtroppo lei ha già esaurito il suo tempo.
FURIO COLOMBO... per offrire un dato al Governo. Faccio riferimento alla pagina 266 della guida del telefono di Ginevra, che mi induce a chiedere al Governo di discutere con i nuovi «rientrandi» - se si può usare questa espressione - dove e come intendono pagare le tasse. Dal loro modo di definirsi, infatti, vedo che si tratta di un certo signor Victor Emanuel de Savoie, con indirizzo e numero di telefono. Mi si potrebbe obiettare che a Ginevra il nome si riporta in francese. Ma questo ovviamente non è vero: non credo che Marcello Mastroianni si sia cambiato nome quando è andato a vivere e a fare il suo mestiere in Francia. Sulla stessa pagina dell'elenco telefonico di Ginevra vedo poi che c'è l'idraulico Savoia Luigi, che non ha mai cambiato il proprio nome per vivere a Ginevra, che ci sono i parrucchieri italiani Pasquale e Rosina, e Paolo, decoratore di interni e Salvatore, sarto: nessuno degli italiani che è andato a lavorare in quel paese ha sentito il bisogno di travestirsi da francese. Come mai questi eredi di casa Savoia che sono così ansiosi di tornare in Italia...
PRESIDENTE. Onorevole Furio Colombo, le chiedo scusa, ma deve davvero concludere.
FURIO COLOMBO. hanno sentito il bisogno di farsi passare per francesi? Glielo chieda il Governo e gli chieda dove e come intendano regolare i loro impegni fiscali quando torneranno da cittadini. Grazie.
PRESIDENTE. Constato l'assenza degli onorevoli Scoca, Cerulli Irelli, Menia e
DOMENICO IZZO. Signor Presidente, colleghi, l'argomento in discussione merita alcune riflessioni onde esprimere un voto motivato, consapevole e soprattutto razionalmente depurato da drammatizzazioni emotive.
PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.
Ricordo che nella seduta del 14 luglio scorso è proseguita la discussione sulle linee generali.
È iscritto a parlare l'onorevole Malgieri. Ne ha facoltà.
Noto con amarezza che ancora una volta il Parlamento è invitato a muoversi in una logica di compromesso per non turbare eccessivamente le labili coscienze di chi, ingiustificatamente, rimane avvinto ad una concezione della pratica politica come vendetta, sia pure di una vendetta da continuare ad esercitare contro chi non può in nessun modo farsi carico di responsabilità che non possono essere sue.
A costoro tuttavia sembra che neppure la formulazione del testo unificato, che comunque lascerebbe la XIII disposizione transitoria e finale al suo posto, come testimonianza storica, si è detto, ma svuotata di effetti sostanziali, vada bene; e continuano ostinatamente ad opporsi alla fine dell'esilio degli ultimi due eredi di casa Savoia.
Non ho ascoltato e non ho letto, a dire la verità, nobili motivazioni a suffragio del mantenimento di una norma barbara ed arcaica come la XIII disposizione costituzionale. Non sono state offerte prove inoppugnabili in ordine alla presunta pericolosità istituzionale di Vittorio Emanuele e di suo figlio Emanuele Filiberto. Ci si è rifugiati, da parte dei detrattori abituali della monarchia sabauda, in una generica condanna morale della dinastia, motivata con la sua compromissione con il regime fascista. Ma qui siamo nell'ambito del giudizio storico che, dopo più di cinquant'anni dalla fine dell'esperienza richiamata, dovrebbe essere formulato con animo più acconcio a comprendere le ragioni di quanto è accaduto in Italia dal 1922 al 1945, piuttosto che a demonizzare acriticamente un periodo storico.
Comunque, ho ravvisato dell'altro nelle manifestate tendenze di chi si oppone alla rimozione della XIII disposizione. Ho ravvisato un'ostilità ideologica che ritenevo, forse ingenuamente, incompatibile con lo spirito del tempo e con il mutato clima generale. Tale ostilità mi sembra imponga anche a chi è favorevole all'abrogazione della norma in parola la recita di una commediola poco brillante - mi si consenta - cioè l'individuazione di un escamotage dialettico e giuridico per non scontentare nessuno: non mi sembra serio, non credo sia onorevole.
I mille anni di una dinastia che ha segnato la storia italiana ed ha unificato - comunque si voglia giudicare il percorso ed il metodo - il nostro paese creando lo Stato nazionale, non possono essere cancellati da quattro anatemi sconnessi riferiti anche in quest'aula da tristi epigoni del comunismo e fuori di qui da lividi eredi della tradizione azionista.
Il pregiudizio nei confronti dei Savoia continua a dominare, con un'accentuazione ideologica che non esito a definire ridicola e fuori del tempo. Un esempio? È stato detto qui dal sottosegretario per la funzione pubblica Ernesto Bettinelli che la formula in discussione intende risolvere la situazione umana di una famiglia italiana, da non considerare più come una
«casa». Infatti, ha affermato il sottosegretario, i Savoia per l'ordinamento italiano non sono una «casa» ma una famiglia, la quale appunto manifesta il comprensibile ed apprezzabile desiderio di entrare nel proprio paese di origine.
Ci si rende conto, signor sottosegretario, della grossolanità dell'affermazione? C'è qualcuno fuori di quest'aula che può prendere sul serio la cancellazione per meri motivi ideologici di una casa, di una dinastia? È questo il modo con cui la Repubblica dovrebbe riconciliarsi con il passato, con la storia complessiva di italiani? Ciò che chiede il sottosegretario e, attraverso di lui, il Governo non è accaduto in nessun paese europeo e, del resto, si inquadra in quell'esercizio di rescissione dei vincoli storici della comunità nazionale che ha portato l'Italia a non pensarsi più, ormai da tempo, unitariamente.
La moda della denigrazione complessiva, che in fondo ha legittimato per mezzo secolo il mantenimento della XIII disposizione, non nasce comunque oggi. Già nel 1959 il più grande storico di questo secolo, Gioacchino Volpe, osservava che la battaglia contro la monarchia in Italia non si è mantenuta, dopo il 1945 o il 1943, nei limiti giuridico-politico-istituzionali. I vivi - si sa - hanno sempre bisogno dei morti per costruire il loro presente quale che sia il linguaggio che si mette loro in bocca. Così, la battaglia si è estesa al campo storico con la conseguenza che tutti i Savoia, oltre che la monarchia italiana, sono stati epurati tutti: dal primo all'ultimo! Ed ora si pretende di rivolgere un giudizio storico negativo agli ultimi due re della dinastia sabauda per impedire, da parte di chi coltiva ancora sentimenti di vendetta, ai loro eredi di mettere piede in Italia. E si afferma che la storia non dovrebbe assolvere re Vittorio Emanuele III e re Umberto II per un'infinità di ragioni. D'accordo, il re firmò nel 1938 le famigerate leggi razziali, il capitolo più buio della nostra vicenda unitaria e di quell'atto porta intera la responsabilità che niente e nessuno potrà mai cancellare. Ma perché dimenticare, signor sottosegretario, onorevoli colleghi, che sua figlia, la principessa Mafalda di Savoia, dopo giorni di umiliazioni, di privazione e di dolori, morì a Buchenwald?
Sì, Vittorio Emanuele III strinse la mano, in alcune occasioni, ad Hitler, ma quanti altri regnanti o capi di Stato e di Governo lo fecero e non pagarono le persecuzioni naziste inflitte ad un principe acquisito a casa Savoia, come il principe d'Assia, sposo di Mafalda?
L'incendio del novecento non possiamo davvero estinguerlo con il risentimento. Ognuno di noi, di noi europei, si porta dentro una parte di tragedia che in nessun modo può essere giocata politicamente. E soprattutto a nessuno dovrebbe essere consentito di caricare sulle spalle di altri tragedie e responsabilità che non sono sue. Motivi civili, culturali, dovrebbero impedirlo. Quanto a quelli giuridici il discorso si fa più complesso...
L'esclusione di qualcuno dal territorio nazionale, come è avvenuto ed avviene per i Savoia, per puro spirito di vendetta politica, ancorché in deroga all'ordinamento generale, si configura come una autorottura della Costituzione ed è un vulnus che si reca al diritto delle genti, come hanno spiegato con dovizia di particolari giuristi quali Pierandrei e Mortati.
Ma c'è di più. La XIII disposizione transitoria e finale si palesa anche come una disposizione di carattere tipicamente sanzionatorio. E questo - come si osserva tra l'altro nel Commentario della Costituzione di Branca - indipendentemente dalla soluzione che si intenda dare al quesito se la scelta allora compiuta dovesse considerarsi come una conseguenza necessaria del referendum istituzionale o, piuttosto, imputabile soltanto al patrimonio ideologico di taluni costituenti.
Se si propende per questa seconda opzione, mi domando se quel patrimonio ideologico possa ancora condizionare la vita della Repubblica. Io ritengo di no. O, almeno, non può condizionarla che marginalmente.
C'è un'altra sensibilità, onorevoli colleghi, intorno a noi dovuta alla comparsa di
soggetti politicamente nuovi per i quali la pacificazione nazionale è un valore. Pertanto il mantenimento dell'ostracismo nei confronti di Casa Savoia non può considerarsi un vanto per la Repubblica. E la Repubblica, forte dei suoi valori e radicata nella coscienza del popolo, non può chiedere ai discendenti in esilio di Casa Savoia abiure o atti di sottomissione: può soltanto giudicare i loro comportamenti se conformi alla legalità repubblicana o meno.
Un paese civile come l'Austria non ha ritenuto di chiedere alcun pedaggio all'imperatrice Zita quanto è tornata a Vienna; anzi, l'ha onorata come una regnante nel giorno dei suoi solenni funerali svoltisi tra il duomo di Santo Stefano e la Kapuzinerkirke, prima di inumarla nella Kaisergruft dove riposano tutti gli imperatori e gli arciduchi d'Austria; funerali che videro riproporre il cerimoniale utilizzato l'ultima volta nel 1916 per l'imperatore Francesco Giuseppe. Così l'Austria si riconciliò con la sua storia.
Cinquant'anni di esilio, insomma, sono troppi. Perfino gli ateniesi limitavano a dieci anni l'ostracismo. E mentre vediamo i sovrani spodestati dell'Europa dell'est ritornare nei loro paesi liberati dal comunismo, noi stiamo ancora a chiederci se sia bene o se sia male che due signori, estranei alle decisioni dei loro avi, circolino liberamente in Italia, una nazione che è anche la loro nazione.
È stato detto, ed io lo condivido, che i valori repubblicani si rafforzano quando un popolo è capace di leggere la sua storia interamente, senza censure, raccordandosi con il proprio passato quale che esso sia, senza temere fantasmi e ritorni impossibili.
Tanto più una nazione è forte e coesa se riesce a vivere e a praticare la pacificazione. I comunisti e gli azionisti di oggi vadano a lezione da Palmiro Togliatti il quale, da ministro di grazia e giustizia, volle l'amnistia per i fascisti.
È un peccato che il nostro paese non abbia messo al servizio della conciliazione il culto della memoria, ma con furore giacobino le classi dirigenti italiane hanno addirittura usato i morti per combattere contese politiche spesso meschine. Così noi non abbiamo una nostra Arlington, come gli americani, o una valle de los Cajdos, come gli spagnoli, dove morti senza colore, e solamente americani e solamente spagnoli, riposano al di là degli odi e delle passioni per le quali caddero.
Ed è così che mi permetto di giudicare un'indecenza, frutto di questa XIII disposizione transitoria e finale, che per gli ultimi re d'Italia morti in esilio non si sia trovato il modo di seppellirli in patria. Il re Vittorio Emanuele riposa ad Alessandria d'Egitto, la regina Elena a Montpellier, il re Umberto ad Altacomba, in Savoia.
Ricordo che nel 1989 il sindaco comunista di Cettigne, all'inaugurazione del monumento alla regina Elena davanti al cimitero di Montpellier, disse: «Se proprio l'Italia non la vuole, ce la porteremo in Montenegro». I nostri governanti non provarono neppure un moto di vergogna.
Ritornino, dunque, i vivi ed i morti. E si rimuova una disposizione anacronistica ed infelice. I Savoia, in quel cruciale 1938, concessero che i resti mortali dei loro nemici sconfitti 77 anni prima, Francesco II di Borbone e la sua sposa Maria Sofia Wittelsbach di Baviera, l'eroina di Gaeta, tornassero in Italia ed avessero sepoltura a Roma, nella chiesa nazionale delle Due Sicilie, in via Giulia. Il Governo della Repubblica italiana nel 1984 autorizzò la traslazione dei due sovrani di Borbone nella basilica di Santa Chiara a Napoli, dove riposano accanto ai loro avi. È possibile che soltanto ai Savoia debba applicarsi un'ingiusta damnatio memoriae, a testimonianza del fatto che il passato italiano non deve in alcun modo passare?
Credo sinceramente sia giunto il tempo di chiudere una non certo nobile pagina della nostra storia (Applausi dei deputati del gruppo di alleanza nazionale - Congratulazioni).
forma e nella sostanza, il provvedimento che il Governo aveva predisposto alla fine di aprile in merito alla questione di cui oggi stiamo discutendo. Lo voglio dire anche se si tratta di un problema superato, avendo la I Commissione (affari costituzionali) della Camera dei deputati licenziato un testo diverso da quello governativo. Debbo dire che l'intervento del sottosegretario, professor Bettinelli ha fatto piazza pulita di ogni equivoco; e lo ringrazio di ciò.
Vedete, colleghi, la confusione dei ruoli tra esecutivo e legislativo è sempre dannosa, tanto più in un momento come quello che stiamo vivendo che è caratterizzato dal dibattito sulle riforme istituzionali. Ogni invasione di campo non può non essere inopportuna, alimenta tensioni e polemiche che non giovano al buon governo. Quindi, questa inopportuna iniziativa del Governo ha costretto il Parlamento a prendere in considerazione l'argomento, con una procedura insolita, cioè accelerando i tempi e concedendo una sorta di corsia preferenziale all'iter di questa legge; tant'è che, a poche settimane da quell'infelice sortita del Governo, ci troviamo a discutere in aula del provvedimento.
Non conosco i sistemi attraverso i quali chi è chiamato a governare cerca di mantenere un contatto con la realtà del paese, cioè tra il cosiddetto Palazzo e la strada. Premetto che non amo gli atteggiamenti populisti e demagogici di chi, celandosi dietro ad una non meglio identificata «gente» (possibilmente pronunciata con tre «g», come faceva Funari in televisione), assume o non assume decisioni nell'esercizio del governo della cosa pubblica. Governare è innanzitutto assunzione di responsabilità, anche di atti non sempre piacevoli o popolari; come d'altra parte questo Governo ha giustamente dimostrato di saper fare in diverse occasioni.
Ma del caso di cui stiamo discutendo credo di poter affermare che alla grande opinione pubblica non interessa minimamente; anzi, stando ai commenti che ho potuto raccogliere in queste ultime settimane (come credo sia avvenuto a molti di voi colleghi, presenti e non presenti), questa iniziativa ha suscitato tra la cosiddetta «gente», tra l'opinione pubblica, irritazione, dissenso e anche vibrate proteste. Il giudizio di tanti cittadini, con i quali mi sono incontrato, si è espresso in questi termini: «Ma con tante questioni e problemi che assillano l'Italia, voi a Roma non avete nulla di meglio e di più urgente da discutere? Ma dove vivete?». Già, dove vivete? Me lo sono sentito chiedere nei giorni scorsi ad un congresso nazionale del sindacato librai, una piccola ma importante categoria di lavoratori e di piccoli imprenditori, i quali due mesi fa vennero a manifestare davanti a Montecitorio (erano oltre trecento e provenivano da tutta Italia). Una loro delegazione venne ricevuta da tutti i presidenti di gruppo e dal Presidente Violante; nel pomeriggio di quel giorno vi fu inoltre un'affollatissimo incontro con il Vicepresidente del Consiglio Veltroni: e tutti, dal Presidente della Camera ai capigruppo ed al Vicepresidente del Consiglio Veltroni, assicurarono loro che la legge che li riguardava, destinata a salvare decine di aziende, già presentata nell'altra legislatura, sarebbe stata celermente iscritta all'ordine del giorno dei lavori del Parlamento per essere approvata, visto tra l'altro che nessuna forza politica si era dichiarata contraria, prima della pausa estiva. Il presidente del sindacato librai, alla fine del loro congresso, salutandomi mi ha rivolto ironicamente le seguenti parole: «I Savoia non chiudono bottega e non vanno in cassa integrazione; potevano aspettare ancora qualche mese».
Chiedo scusa di questa digressione, ma l'ho fatta per rilevare il singolare modo di procedere da parte dell'organo chiamato a decidere il calendario dei nostri lavori.
Nel merito del provvedimento ho ben poche cose da dire, rilevando che il testo uscito dalla Commissione è decisamente migliore della primaria proposta; e per questo motivo ringrazio in modo particolare il relatore, onorevole Maselli.
Personalmente, ritenendo il problema un non problema, mi sono sempre disinteressato
di questa storia, sino a quando - scusate se riferisco un aneddoto personale - un paio di anni fa un collega giornalista di Famiglia cristiana mi trattenne per oltre mezz'ora al telefono per conoscere la mia opinione circa il rientro in Italia dei Savoia. Nel corso di quella lunga, amichevole, conversazione mi scapparono anche un paio di battute sulla figura di Vittorio Emanuele, coinvolto, come tutti sanno, in un episodio di cronaca nera dal quale poi è uscito formalmente assolto da un tribunale francese. Della nostra lunga conversazione, come spesso capita - sono un vecchio giornalista, quindi non mi scandalizzo di queste cose - aveva riportato nell'intervista attribuitami soltanto uno scherzoso mio riferimento all'uso delle armi e al tasso etilico, guadagnandomi così un'iniziativa giudiziaria da parte del signor - non so come chiamarlo diversamente - Vittorio Emanuele Savoia.
Al di là della vicenda personale, ciò che mi ha irritato enormemente, e credo abbia irritato anche la stragrande maggioranza degli italiani, è stato il tentativo goffo, grossolano, di rimettere in discussione il giudizio degli italiani che liberarono il nostro paese dai nazifascisti sulle malefatte dei re d'Italia (il giudizio dato dai nostri padri e dai nostri fratelli maggiori che parteciparono alla guerra antifascista); malefatte che nella vicenda della dittatura fascista assumono l'aspetto ripugnante del tradimento. A fare per primo questa pesante accusa non è stato uno storico di sinistra, un bieco bolscevico o comunista, ma uno dei più prestigiosi esponenti liberali del secondo risorgimento, niente meno che un nobile, il conte Carlo Sforza, ministro degli esteri nei primi Governi della liberazione. Al congresso della concentrazione antifascista - al quale ho appreso con piacere ha partecipato il padre della nostra presidente di Commissione -, che si tenne a Bari alla fine del gennaio 1944, il conte Sforza testualmente disse: «Vi sono delle cose sulle quali non possiamo transigere, e sono certe supreme verità morali e certe supreme sanzioni morali». Rivolto ai congressisti, aggiunse: «Con un esempio unico nella storia avete intentato un processo in cui il re è risultato colpevole e da cui è risultata la nostra maturità politica. Raramente nella storia si è visto un popolo intero, malgrado gli impacci, le frodi e gli obblighi di silenzio, che ha espresso così ampiamente la sua impressione di disgusto e di orrore verso un uomo come Vittorio Emanuele III cui si era affidato e che lo aveva tradito. La tragedia di questo disgraziato fu il suo incontro e il suo contatto per vent'anni con Mussolini. Trovò in Mussolini il suo maestro e credette, poiché non amava l'Italia, di aver trovato il rimedio meraviglioso di tenere bassi gli italiani per beffarli, per disprezzarli». Sono parole del conte Carlo Sforza.
In pari tempo, stiamo assistendo in queste settimane su molti quotidiani e rotocalchi ad una ridicola rivisitazione della storia patria attraverso la quale si tenta di presentare casa Savoia - non la famiglia Savoia - per quella che non è stata nei secoli; mi spiace per il collega che mi ha preceduto. Io non sono uno storico e non ho nessuna ambizione di assumere atteggiamenti di questo tipo, ma sono un affezionato, anzi attento, direi curioso, lettore non solo di libri e di documenti - molti dei quali anche inediti - relativi alla storia della mia città e del Piemonte. Ebbene posso dirvi, con tutta serenità, senza odii, senza volontà vendicatrici, che all'Italia, non so per quale perversa ragione, è toccato avere, quale protagonista del processo di unificazione, una delle peggiori dinastie europee. Una corte che si è distinta nei secoli per grettezza, superstizione, bigottismo, viltà. Pensate che un duca, Carlo Emanuele III, preso da un fratesco bigottismo, fece bruciare, nel settecento, nella galleria dei Savoia dipinti di grandi maestri come il Veronese e il Tintoretto, poiché con le nudità raffigurate offendevano l'innocenza dei principini.
Caro collega, comunque è la storia del Risorgimento, che non è stata fatta da pazzi, che andrebbe finalmente rivisitata, per scoprire gli orrori, le nefandezze, le atrocità, le truffe consumati nel nome della patria. Decine di migliaia di giovani vite sono state bruciate con cinismo, con freddo calcolo politico, con egoistico sentimento, ricorrendo ai metodi più loschi come la corruzione, gli agenti segreti legati alla grande criminalità comune, i brogli elettorali durante i plebisciti, il trasformismo a livello internazionale. Questa è storia patria! Vi ricordo quando a Torino ed altrove si usavano i banditi per compiere certe basse operazioni.
Tante delle malefatte che abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, tante delle ragioni del degrado della politica, delle istituzioni e della pubblica amministrazione italiana di oggi hanno radici nel momento della formazione dello Stato unitario, che appunto ha avuto casa Savoia come punto di coagulo.
Ripeto, non è questa la sede né voglio assumere atteggiamenti che non mi competono, non ne ho il ruolo né i titoli. Basterebbe, comunque, ricordare i moti del 1821, di Carlo Alberto, quando si nascose sotto il nome del conte di Barge e mandò allo sfascio Santorre di Santarosa, poi scappò a Modena, ritornò e si rimangiò tutto quello che aveva detto (questa è storia patria, signori miei!); poi, dopo la sciagurata campagna del 1848-1849, vi fu la fuga ingloriosa: c'era un battello che lo aspettava a Nizza marittima, già dieci giorni prima. Infatti, prima della conclusione di quella terribile vicenda, il battello era già pronto a salpare per Oporto.
Una storia, per dirla con il Rosmini (faccio un'altra citazione richiamando certo non un estremista di sinistra, un giacobino, il buon Rosmini), «intessuta di viltà, servitù, mollezza, travolgendo in valore quello che era furore, in fortezza quello che era ferocia, in libertà la disunione e le ire».
Per carità di patria mi fermo qui, con una sola raccomandazione: se questi signori rientreranno in Italia grazie al provvedimento che stiamo discutendo e che io, per ragioni di buon gusto, non voterò, abbiano almeno l'umiltà o, meglio, il buon senso di farlo in punta di piedi. Nulla meglio del silenzio può giovare alla loro causa (Applausi).
È iscritto a parlare l'onorevole Cento. Ne ha facoltà.
delle leggi razziali, di quella che invece è stata la pagina gloriosa della liberazione dal nazifascismo e quindi della vittoria nel referendum con l'affermazione della struttura repubblicana come fondamento della nostra organizzazione costituzionale e sociale.
Fin dal primo momento ho ritenuto convintamente che il Governo, alla vigilia del 1 maggio, avesse il compito, il dovere e credo anche la disponibilità, in virtù del mandato parlamentare ricevuto nel momento del suo insediamento, di fare tutto tranne che entrare nel merito di una proposta così importante, lacerante e significativa dal punto di vista storico e giuridico.
In realtà, nel corso dell'iter del provvedimento la Commissione affari costituzionali ha introdotto delle modifiche e credo che di ciò bisogna dare atto alla Commissione stessa, al relatore Maselli ed al sottosegretario Bettinelli, il quale a nome del Governo ha dato un contributo forte affinché si passasse (e non era solo un artificio, ma un elemento sostanziale in termini giuridici, ma ancor più di giudizio storico e politico) da una norma di pura e semplice abrogazione - quasi una rottura della continuità costituzionale - della XIII disposizione transitoria, ad una valutazione sulla cessazione temporale degli effetti di quella norma transitoria nei riguardi della famiglia Savoia. Ciò partendo, prima ancora che da un giudizio storico e politico, da una convinzione di civiltà giuridica che ho ritrovato nelle parole del relatore e del sottosegretario Bettinelli. Mi riferisco alla convinzione che nessuna sanzione penale o di altro genere, addirittura costituzionale come quella prevista nel caso al nostro esame, possa e debba avere il carattere della sanzione perpetua, non revocabile, comunque non limitata in qualche modo nel tempo. Nel momento in cui, giustamente, questo Parlamento si è indignato per la pena di morte e il Senato si appresta ad approvare il disegno di legge che abolisce l'ergastolo, proprio in base ad una concezione delle sanzioni e delle pene per cui esse debbono comunque avere una limitatezza e consentire il reinserimento nel contesto civile e sociale del nostro paese, non possiamo non condividere l'opinione di chi afferma che l'esilio è una forma estrema, giusta e necessaria inserita nel nostro sistema costituzionale dopo le vicende di cinquant'anni fa, ma che è anche giusto non disconoscere quella sanzione introdotta nella norma costituzionale in stretto collegamento con la forma repubblicana della nostra democrazia e delle nostre istituzioni, stabilendo nel contempo una data possibile entro cui tale sanzione dell'esilio poteva considerarsi esaurita e la famiglia Savoia avrebbe potuto essere trattata al pari di tutte le famiglie italiane e i suoi membri al pari di tutti i cittadini italiani.
L'imbarazzo nasce perché sarebbe miope non riconoscere che questo cambiamento sostanziale intervenuto nel corso dell'iter del testo giunto all'esame dell'Assemblea non modifica anche la qualità e la quantità dei giudizi che si esprimono. Il punto focale, la differenza vera tra le due vicende così come sono state presentate dal Governo e come poi sono risultate dopo il lavoro in Commissione emerge dal fatto che esiste un relazione di minoranza, predisposta da chi, in maniera legittima ma certamente non condivisibile (almeno dal sottoscritto), ha concepito la possibilità della cancellazione della XIII disposizione transitoria non solo come un atto di umanitarismo nei confronti della famiglia Savoia (e quindi come revoca di una sanzione prevista dalla Costituzione), ma anche come strumento per rileggere la storia fino al punto che, il giorno dopo l'annuncio di questa iniziativa del Governo, quanti oggi sostengono una posizione di minoranza contraria al testo sono in gran parte gli stessi che, dopo l'abrogazione della XIII disposizione, vogliono anche l'abrogazione della norma che vieta la ricostituzione del partito fascista nel nostro paese. È chiaro il disegno politico e culturale, ma rimane il grande sconcerto per il fatto che il primo Governo di centro-sinistra del nostro paese possa non aver valutato, nel momento in cui il 30 aprile (se non
sbaglio) il Consiglio dei ministri approvò il disegno di legge, che quello sarebbe stato il segnale politico e l'uso politico della vicenda dell'abrogazione della XIII norma transitoria.
Di fronte a questo cambiamento di testo, esprimiamo una valutazione positiva e intendiamo sottolineare il ruolo che noi verdi abbiamo svolto in questa discussione, non solo perché il sottosegretario Bettinelli è in qualche modo vicino alla cultura ambientalista, ma anche perché il testo presentato al Senato dal capogruppo dei verdi Pieroni era molto simile al testo che poi è arrivato in quest'aula. Dobbiamo altresì sottolineare il contributo che è stato dato dal collega Boato.
Credo quindi che noi verdi abbiamo svolto una funzione importante nel cambiamento di rotta e di collocazione. In questa sede devo però dire che mantengo le mie perplessità sulla tempistica per l'approvazione del provvedimento in esame. Lo dico perché anzitutto nel nostro paese è in atto un grande dibattito sulle riforme costituzionali; logica, economia dei mezzi parlamentari e tempistica opportunamente ragionata avrebbe consigliato che la discussione sull'abrogazione, sulla modifica o sull'inserimento di commi aggiuntivi alle norme transitorie della Costituzione avvenisse dopo l'approvazione da parte della Camera e del Senato delle proposte di riforma della seconda parte della Costituzione. Avrebbe infatti collocato quel lavoro non sotto la spinta di un'esigenza usata politicamente in maniera distorta ma dentro un disegno di ridefinizione e di attualizzazione della nostra Costituzione che ultimava questo lavoro attraverso anche un intervento sulle norme transitorie dopo cinquantuno anni dalla loro entrata in vigore.
Secondo elemento di forte perplessità: se è vera ed è convincente la non umanità della norma dell'esilio perpetuo richiamato dalla nostra Costituzione, è anche vero che ben altre riforme sul terreno delle norme perpetue la Camera ed il Senato forse avrebbero dovuto fare prima e in maniera tempestiva, al fine di dare un segnale di civiltà giuridica che non fosse distorto, ad hoc per la famiglia Savoia, ma che riguardasse la complessità della nostra comunità.
Non so se nei prossimi giorni, prima della pausa estiva, riusciremo ad approvare in aula questo provvedimento, però mi auguro che il testo definitivo sia varato dopo l'eliminazione dal nostro codice della pena dell'ergastolo da parte della Camera e del Senato. Infatti, se civiltà giuridica è quella secondo cui l'esilio è una pena inumana per il suo carattere perpetuo, diamo un segnale e facciamola arrivare alla complessità della nostra comunanza.
Per questi motivi mantengo forti perplessità sull'insieme del testo, pur valutando positivamente la differenza esistente tra la proposta iniziale e quella pervenuta in aula.
Onorevole Presidente, nel breve tempo che mi è concesso cercherò di motivare la mia posizione, non perché intenda solennizzarla oltre misura ma in quanto ho la presunzione di ritenere che essa possa rappresentare un elemento di novità da sottoporre alla riflessione di tutti i colleghi.
Alla proposta di abrogare la XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione sono stati attribuiti molteplici significati, collegati molto spesso all'intento di limitarne l'efficacia o di ricondurne l'ambito di applicazione a criteri volti ad introdurre permalose ed illogiche puntualizzazioni. Tale impostazione, rinvenibile non soltanto nel testo approvato
dalla Commissione ma anche negli emendamenti presentati, ha di fatto appannato l'intento fondamentale che ha ispirato le proposte di legge presentate in materia (io stesso ho sottoscritto la proposta di legge n.921), compresa quella inopportuna e sicuramente superflua di iniziativa del Governo.
L'intento fondamentale che ha mosso i proponenti o per lo meno chi vi parla ed i colleghi di alleanza nazionale è chiaro, limpido, evidentissimo. L'abrogazione della XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione è un atto di civiltà, niente altro che un atto di civiltà. Sotto questo profilo, chiunque intenda condizionare l'adozione del provvedimento a permalose puntualizzazioni, a speciali limiti o a speciosi cavilli più politici che tecnici dimostra certamente di non aver compreso lo spirito di un'iniziativa rispetto alla quale non ha più alcun senso avvertire timori o rivangare rancori che fanno ormai parte della nostra storia e che non possono assolutamente avere alcuna proiezione in un sistema che, per quanto imperfetto e ancora alla ricerca di un'organica definizione, è comunque saldamente ancorato ai principi del confronto democratico, principi dai quali ricava la sua forza ed il suo alimento.
Se, dunque, il Parlamento intende sanzionare questo atto di civiltà, lo faccia in termini categorici, deliberando l'abrogazione della XIII disposizione nel suo complesso, salvo a valutare con attenzione la proposta di cui all'emendamento Armaroli e Menia 1.1, che limita la caducazione normativa ai primi due commi, in considerazione dei problemi che l'abrogazione del terzo comma potrebbe far insorgere. Sulla proposta contenuta nell'emendamento presentato dai miei colleghi di gruppo - ripeto - mi asterrò, pur comprendendone le ragioni di fondo, perché - lo ribadisco - sono convinto che gli atti di civiltà non debbano e non possano essere condizionati e che i problemi che ne potrebbero derivare vadano affrontati in modo specifico e tempestivo, senza tuttavia attribuire ad essi un inopportuno carattere di ostacolo o di insormontabile difficoltà.
Un'ultima considerazione vorrei dedicarla a tutti coloro che negli ultimi tempi hanno contribuito ad elevare a sport nazionale il «tiro ai Savoia». Gli atti di civiltà, come quello che - spero - ci stiamo accingendo a ratificare, proprio perché tali, non possono essere legati a valutazioni contingenti sulle persone che in questa fase storica portano un certo cognome. Se lo facessimo, avremmo mille motivi per soprassedere all'abrogazione della XIII disposizione.
Ma non compete certo ai promotori degli atti di civiltà la valutazione sulla probità degli individui, anche perché, se si procedesse in questo senso, anch'io, che pure ho presentato fin dall'inizio di questa legislatura una proposta di legge per l'abrogazione della XIII disposizione, avrei tanti argomenti da proporre, non soltanto con riferimento all'atteggiamento dei Savoia viventi o al ruolo della monarchia sabauda nel ventennio fascista (unici aspetti ai quali si è limitata la critica accesa di taluni settori) ma, anche e soprattutto, avendo riguardo al ruolo dei Savoia all'atto dell'unificazione dello Stato italiano.
A tale proposito, colgo l'occasione per invitare il Governo, in particolare il ministro della pubblica istruzione, a creare le premesse e le condizioni perché, a partire dalle scuole di ogni ordine e grado, fino a giungere a tutti gli ambiti storici e culturali, si possa realizzare una rilettura ed un approfondimento degli eventi storici che hanno preceduto l'unificazione del nostro paese - unificazione che va difesa contro ogni tentativo secessionista - sotto un'unica bandiera. Se si accedesse all'invito a rileggere senza alcun preconcetto gli eventi che precedettero quella che da molti studiosi è stata definita la «mala unità», non si potrebbe infatti prescindere dal considerare che nel contesto di quei drammatici anni molte, moltissime vite furono sacrificate sull'altare dell'unificazione,
non perché a quest'ultima aspirassero, ma perché si trovarono ad esserne incolpevoli vittime.
È giunto il tempo allora, onorevole Presidente, e l'occasione di oggi ce ne offre il destro, per integrare letture imposteci per più di un secolo dai poteri costituiti con altre letture dolosamente stipate nei cassetti dei monopolisti culturali del nostro paese. Se si creeranno le condizioni per realizzare tale obiettivo, emergerà un quadro della genesi della nostra unità non così idilliaco ed eroico quale quello tramandatoci dai canali di informazione ufficiale e si scoprirà che molte popolazioni, in specie quelle meridionali, si ritrovarono sotto il vessillo dei Savoia non perché lo volessero ma perché la cupidigia di potere e l'arroganza di chi improvvidamente aveva ritenuto di anticipare certi eventi (che la storia, in ogni caso, avrebbe sicuramente determinato per effetto esclusivo del trascorre degli anni) avevano avuto un peso determinante in quella direzione.
E allora tra i morti di chi aveva invaso un regno in armi e quelli, militari ma soprattutto civili, che la loro vita sacrificarono, dovrà essere segnato un elemento di differenziazione, non per dividere ma per unire in maniera ancora più coesa. Obiettivo questo che non può prescindere dalla verità e che - anche se potrebbe sembrare paradossale, con riferimento alla vicenda di cui ci stiamo occupando - è comunque compatibile con qualsiasi iniziativa che rappresenti, così come quella che ci accingiamo a concretizzare, un atto di civiltà, solo un atto di civiltà.
Ma è un atto di civiltà ricordare anche Casalduni e Pontelandolfo, due splendidi comuni in provincia di Benevento che pagarono in maniera disumana la fedeltà ad un altro re di suoi figli che vennero definiti briganti, mentre erano solo e semplicemente patrioti o, per usare un sostantivo più attuale e meno retorico, partigiani.
Ma ai partigiani di Casalduni e Pontelandolfo non sono state concesse medaglie; non ci sono state commemorazioni, né celebrazioni. Solo un oblio, un colpevole oblio che è necessario rimuovere per restituire quella dignità che loro spetta di diritto.
Eppure in quei lontani anni in cui si andava realizzando l'unità d'Italia non mancava qualche voce che tentava di stabilire una verità storica. È il caso del deputato milanese Giuseppe Ferrari che, nella seduta del 2 dicembre 1861 («tornata» si diceva allora), tra l'altro, così si esprimeva parlando dell'armata piemontese: «Voi l'avete lanciata in numero scarso, insufficiente, esposta a rovesci in faccia a insidiosi nemici; voi l'avete messa nella situazione tragica di sorpassare ogni forza umana, supplendo all'insufficienza col terrore pur sempre legittimo dove milita il sacro diritto della bandiera e della rivoluzione.
«Senza dubbio dispregevoli e miseri sono gli scarsi militi del brigantaggio, ma sono figli delle montagne, inaccessibili nelle ritirate, formidabili nelle sorprese; sono scarsi, ma a cavallo ... e capaci di moltiplicarsi subitamente e di attorniare ogni gruppo di soldati, traendo seco una folla di villici sparsi nelle campagne dove sembrano contadini. Sono briganti, ma il suolo li favorisce a' tale che una capitale proporzionatamente grande due volte più di Parigi e un perpetuo dispotismo furono sempre necessari per tener libere le vette di tante montagne. Sono briganti, ma ad ogni rivoluzione di Napoli essi pullulano come una forza politica. Nei tempi del malgoverno essi pullulano come i vermi in un corpo ulcerato, e tanto nel 1799, quanto nel 1814, i padri degli attuali combattenti riconducevano i Borboni sul trono di Napoli. Sono briganti, ma hanno una bandiera, sussidi potenti che possono ingannare l'ignoranza generale; sono briganti, ma numerosi sono i sacerdoti che i nostri tribunali proscrivono come emissari a sostegno della passata tirannia; sono briganti, ma il partito borbonico sussiste; la sua astensione è visibile in ogni elezione. Le imposte, la guerra, mille incertezze possono alterare ad ogni tratto la proporzione delle forze in un popolo ancora più mutabile del francese. Sono briganti, ma infine prevalenti contro i
militi non sostenuti dalla polizia, né dai bureaux in gran parte invasi dai borbonici». E Giuseppe Ferrari ancora continua: «Intendete le tragedie che si svolgono al seguito delle nostre stesse vittorie. Nel turbinio degli avvenimenti le nuove s'ingrandiscono, le morti si moltiplicano nelle immaginazioni del volgo, il terrore prende mille forme, il silenzio paralizza la lingua del cittadino che, reclamando, teme di essere sospetto, e la confusione giunge a tal punto che io a Napoli non poteva sapere come Pontelandolfo, una città di 5.000 abitanti, fosse stata trattata. Io ho dovuto intraprendere un viaggio per verificare il fatto cogli occhi miei».
E continua: «Quante scene di orrore! Qui due vecchie periscono nell'incendio; là alcuni sono fucilati - giustamente, se volete - ma sono fucilati; gli orecchini sono strappati alle donne, i saccomanni frugano ogni angolo; il generale, l'uffiziale non possono essere dappertutto: si è in mezzo alle fiamme, si sente la voce terribile.
«Mai non dimenticherò il 14 agosto, mi diceva un garibaldino di Pontelandolfo. Sul limitare di una delle tre case eccettuate dall'incendio, egli gridava ai villici di accorrere, li nascondeva nelle cantine e, mentre si affannava per sottrarre i conterranei alla morte, vacillante, insanguinata, una fanciulla si trascinava da lui fucilata nella spalla perché aveva voluto salvare l'onore e, quando si vedeva sicura, cadeva per terra e vi rimaneva per sempre».
Questo era il popolo liberatore, questo era l'esercito piemontese che si abbandonava ai più squallidi atti di rappresaglia. Eppure quella voce - che non era una voce solitaria - di Giuseppe Ferrari già allora cercava di stabilire una verità che mi auguro possa venir fuori in tutta la sua portata.
Ancora di più ciò rappresenta un fatto di civiltà. Francesco II, ultimo re borbonico, nel settembre 1860, andando via da Napoli per organizzare l'ultima resistenza a Gaeta, diceva ai napoletani: «A Napoli non rimarranno nemmeno gli occhi per piangere». Da quell'unità d'Italia cominciò la piaga, la questione meridionale. E le parole profetiche di Francesco II sono di una attualità stupefacente, se guardiamo com'è Napoli oggi. Già capitale di un regno, ora Napoli è capitale del crimine: una città assediata dalla camorra, offesa da una disoccupazione che le assegna anche in questo campo un triste primato. Una città che vive drammaticamente la vita quotidiana con un hinterland che ogni giorno conta i morti ammazzati.
Ma il viaggio nella memoria non deve essere fuga nel passato dove attingere odio, ma proiezione in avanti per creare definitivamente la pacificazione: questo sì che è un atto di civiltà!
Il mio primo sentimento nel prendere la parola su questo tema, signor Presidente, sottosegretario Bettinelli, presidente Jervolino Russo, è di disappunto e di tristezza.
Stiamo usando tempo prezioso in quest'aula, in chiusura di un periodo di attività legislativa molto intenso e pesante, per discutere di una questione che - con il permesso del ministro Berlinguer che ha abolito gli scrutini autunnali - avremmo potuto benissimo rinviare ad ottobre. Lo meritava la qualità morale della situazione che stiamo trattando e della famiglia di cui stiamo parlando e lo meritava soprattutto l'urgenza delle cose che stiamo discutendo in questo periodo e tentando di concludere prima della pausa di agosto.
Ognuno di noi ha la sua lamentela e la sua ansia, che resterà implacata: penso ad una legge di soli tre articoli, concordata con l'opposizione, sulla preparazione specialistica dei giovani medici, che avremmo
potuto - se avessimo discusso qui oggi in tutti i suoi aspetti preliminari - votare martedì in pochi minuti, mettendo un'intera categoria di decine di migliaia di medici in condizione di funzionare. E stiamo perdendo il tempo su questo tema!
È un risentimento e un rimprovero che faccio volentieri e di cuore al Governo: non avrebbe dovuto - è stato già detto dall'onorevole Novelli - invadere un campo, quello della materia costituzionale, che è di competenza del Parlamento; meno che mai avrebbe dovuto farlo in questa circostanza.
Dunque, stiamo perdendo del tempo: vediamo di includere questo sentimento di tristezza per il tempo male usato cercando almeno di trovare punti di chiarimento sulla questione. Siamo qui dunque a discutere del rientro dei Savoia in Italia ed allora è giusto mettere quel nome e la decisione che ci viene chiesta nel giusto quadro di riferimento storico. Per revocare quell'esilio siamo costretti a ripensare alle cause di quell'esilio: esse sono gravissime, uniche in Europa.
È stato detto in quest'aula che una situazione come quella dell'esilio non esiste in tutta Europa; ebbene, una situazione come quella che i Savoia hanno creato per l'Italia non esiste ed è unica in Europa!
Per questo invito il Governo, i colleghi, coloro che ne parlano e ne scrivono a rimuovere il tono lieve che dedicano a questa abrogazione o a questo lasciar cadere la XIII disposizione transitoria come se fosse una bizzarria del tempo. Quello è stato invece un tempo in cui è cominciata - benché fatalmente lentissima - la riappacificazione tra tutti gli italiani, iniziata, come ha ricordato anche l'onorevole Malgieri, con l'amnistia di Togliatti.
Proprio in quel tempo si poteva non comminare quell'esilio? Non posso dire molti tra noi, visto che siamo in pochi, in ogni caso coloro che leggeranno queste parole converranno che gli storici più seri e spassionati sulla vita italiana degli anni di guerra e dell'immediato dopoguerra, sono, in generale, di scuola inglese. Ebbene, io non ho mai trovato in alcun testo non italiano, che riguardi quegli anni, nelle ricostruzioni accurate e ricche di descrizioni, qualcuno sostenere che la disposizione dell'esilio per gli eredi maschi di casa Savoia sia stata una bizzarria, una stranezza o una anomalia: in quegli anni, in quel contesto, in quella Costituzione, in quell'Italia che rinasceva dal suo disastro!
Presidente, stiamo parlando della dinastia che ha lasciato cicatrici - le più gravi -, anzi sfregi profondi nella storia e nell'immagine del nostro paese. Vittorio Emanuele III è l'unico re d'Europa ad aver firmato le leggi razziali, revocando in questo modo garanzie e diritti ad una parte dei cittadini italiani, quelli di origine ebrea.
Si dimentica facilmente e continuamente, come se ci fosse una sorta di categoria a parte, che si trattava di cittadini italiani con i quali quel re era impegnato da un giuramento di lealtà a garantire protezione e diritti; dunque, con quella firma il danno che è stato compiuto, ma anche la vergogna che è stata portata sull'Italia, è molto più grave di quello commesso dagli stessi che hanno voluto e redatto quelle leggi, perché il monarca era il garante dei cittadini italiani. Egli ha deliberatamente abbandonato migliaia di cittadini italiani, sottraendo la sua protezione e la sua garanzia; quindi ha una responsabilità specifica gravissima, impossible da cancellare.
Ed è per questo che nonostante, anzi a causa della stima grandissima che il sottosegretario Bettinelli merita ed ha da me, come credo l'abbia anche da questo Parlamento, ho trovato disorientante lo stile di serenità e di pacifico, rasserenante invito incluso nelle sue parole. Mi mancava e mi manca il senso di dramma della storia, il senso della tragedia realmente accaduta.
Qui si è detto: ma ha pagato con la morte di una sorella! Ma in quale tragedia - per usare i grandi modelli della storia - greca o shakespeariana troveremmo che un atto delittuoso compiuto
da un monarca responsabile diventa meno grave per il fatto di aver comportato anche la morte di un congiunto?
È un caso classico, semmai, di vendetta della storia, di tragedia nella tragedia, è un caso che rende ancora più evidente la drammaticità e la gravità di quello che è stato fatto; non è una attenuante, bensì un'aggravante che una principessa Savoia abbia trovato la morte esattamente nei modi che quel re aveva consentito per i suoi cittadini firmando quelle leggi. È un contrappasso shakespeariano pauroso ed è un peccato che non sia stato notato! Ed è quel Vittorio Emanuele III, della cui tumulazione ci troviamo qui a parlare, come se non avessimo niente di meglio da fare, l'unico re ad aver abbandonato il suo paese, le sue forze armate con un tradimento ed una fuga che resteranno indimenticate nella storia: soldati e ufficiali abbandonati allo sbando, alla cattura, alla prigionia, alla fucilazione. Nessun paese in Europa ha avuto una sua casa regnante che ha tanto demeritato di fronte al suo popolo, in una situazione di tale gravità da non lasciarsi facilmente circoscrivere nella storia.
Si dice: le colpe dei padri non ricadano sui figli. È vero, è un principio umano e civile; lo stesso principio però vuole che i figli siano informati, vuole che sappiano, che si rendano conto. Avrebbe potuto benissimo accadere che noi ci trovassimo in questa situazione, non particolarmente lieta, non certamente da celebrare, avendo di fronte a noi persone serene, civili, persone che amano e coltivano l'aspetto privato della propria vita, sentono e conoscono il peso che la loro famiglia si porta sulle spalle, persone che sanno che per tanti italiani ancora in vita quel nome porta lutto, persone che ricordano che quel nome ha portato sfortuna all'Italia. Costoro avrebbero potuto signorilmente avere un atteggiamento di riserbo, di basso profilo, un atteggiamento di cittadini privati che semplicemente da italiani vogliono ritornare nel proprio paese.
Purtroppo questa non è la situazione, non è affatto ciò che è accaduto. Il più anziano dei due, tra gli eredi che aspirano a tornare, prima che qualche consigliere glielo impedisse, ci ha dimostrato tristemente e spaventosamente di non avere mai letto un libro dal 1950 ai giorni nostri, di non avere seguito i dibattiti sui giornali, di non aver letto la stampa straniera, di non aver letto un libro svizzero, francese o americano su che cosa siano state le leggi razziali nel mondo e quella parte di leggi razziali con cui il suo antenato ha privato alcune migliaia di cittadini italiani dei loro diritti. Costui ha detto, prima che potessero impedirglielo, che quelle leggi sono poca cosa.
Non è cosa facile da dimenticare, né una frasetta del genere si corregge con il comunicato stampa la mattina seguente. Questo ci dà l'indicazione di una terribile mancanza di realismo, di rapporto con la realtà e di rapporto con la verità, fatto, questo, che crea problemi che non possiamo ignorare in questo contesto.
E poi se prendiamo il più giovane, il quale dovrebbe essere il più immune, il più estraneo (tanto più che di solito parla di sport) viene il momento terribile di dover constatare che una bassa qualità morale gira per i corridoi e le stanze di questa famiglia. Mi riferisco ad una intervista pubblicata dal Corriere della Sera (mai smentita, a differenza di quella del padre) domenica 15 giugno. Leggo: «Quindi se in Italia» - sono parole di questo signore Emanuele Filiberto, venticinquenne, commentatore sportivo della RAI - «sono d'accordo, devono dire: abbiamo fatto un errore ....». Noi, la Repubblica italiana deve dire a questo ragazzino, erede di colui che ha abbandonato l'esercito italiano allo sbando, erede dei morti di Cefalonia, erede degli stermini dei campi di concentramento, di aver compiuto un errore, deve dire: adesso potete rientrare!
Dopo di che, gli è stata posta una domanda su ciò che il padre aveva detto sulle leggi razziali. Chiedo scusa al Presidente, ma devo leggere testualmente la frase pronunciata da quel personaggio: «Una domanda così in realtà significa
prendere per il c». E noi, rappresentanti della Repubblica italiana, stiamo trattando come una normale famiglia italiana questi due signori!
Sottosegretario Bettinelli, pur sapendo che la ispirano sentimenti buoni e condivisibili, umani e di rasserenamento e di non conflitto per il futuro della Repubblica, pur sapendo quanto seriamente motivato sia ciò che lei ha detto in quest'aula e quanto sia motivato da una ricerca di serenità ciò che ha fatto la Commissione affari costituzionali nel proporre la strada del lasciar scadere piuttosto che abrogare la tredicesima disposizione transitoria e finale della Costituzione, mi domando se si possa affermare tranquillamente che ci troviamo di fronte ad una famiglia italiana. Non credo! Purtroppo, infatti, la bassa qualità morale continua ad aggirarsi nei pressi di questa famiglia. Ed è bene non dimenticarlo in momenti in cui stupidi fantasmi si aggirano e si fanno vedere qua e là tentando di fare danno! Non ci ha provato forse quel personaggio ignobile che va in giro con il nome di re Leka, tentando una pagliacciata per le strade di Tirana, essendo armato di due rivoltelle e seguito da uno stuolo di persone (una delle quali ha perduto la vita)? Credo che in quell'occasione vi sia stata una sola vittima perché in qualche modo il ridicolo ha prevalso sul tragico!
Ancora esistono queste cose. In tempi di comunicazione di massa esiste la forza dei bassi valori morali e l'intensa circolarità dei concetti stupidi e delle immagini volgari e di secondo ordine. Dobbiamo sapere questi fatti! Non saranno certo i soli personaggi volgari e di secondo ordine che entreranno a far parte del nostro paese, ma essi si portano addosso un nome! È bene ricordare che le due cose insieme qualche danno lo possono fare.
Noi siamo in quest'aula ad interrompere d'urgenza il nostro lavoro per far tornare quegli individui in Italia. Io penso e ho già detto che quest'urgenza è un errore! Penso e ribadisco che sia stato necessario evocare la storia non per dire che la memoria debba durare in eterno e che vi sono cose che non possono essere perdonate mai: questo si può e si deve dire soltanto e soprattutto dell'olocausto, cioè in quel caso in cui vi sono delle vittime che non possono perdonare perché non sono più in vita per poterlo fare! Non sarebbe questo il problema, per grave che sia l'eredità che si porta addosso quel nome; ma lo è per l'aria di pretesa con cui si aggirano e per quel «tamburellare» alle porte della Repubblica come se spettasse loro che le porte si aprano e che si stendano davanti a loro tappeti rossi! Non solo, ma lo è per le frasi che pronunciano, per il modo con il quale ci propongono, sempre con arroganza, la loro pretesa di rientrare in Italia!
Sottosegretario Bettinelli, io amo immaginare che la tipica famiglia italiana sia del tipo di quelle che hanno dischiuso le porte delle proprie case, rischiando la vita, per salvare un cittadino ebreo e un vicino di casa, per ospitare qualcuno che stava per essere ucciso! Io amo pensare che la tipica famiglia italiana sia quella che l'8 settembre ha aperto le porte della propria casa per vestire da civili i soldati in fuga, per impedire che fossero catturati, fucilati o portati in Germania per essere sterminati e per impedire che diventassero «preda» di un eccidio fra italiani e italiani! Io amo pensare che quella sia la tipica famiglia italiana, e non quella di cui ci stiamo occupando oggi!
Per questa ragione, mi dispiace che il Parlamento italiano segua con tanto impeto la questione in esame. Desidero ribadire il mio dispiacere e la mia protesta per il dover procedere con tanta fretta a fare qualcosa che non è così urgente rispetto a ciò che ci chiedono i cittadini e coloro che ci hanno eletti. Penso però che la Camera seguirà la strada indicata dalla Commissione affari costituzionali e ritengo che quanto l'opposizione afferma rappresenti pensieri e posizioni che hanno la loro legittimità e la loro rispettabilità nella storia. Dunque non si tratta di una lotta in Parlamento, ma si tratta di capire bene cosa stiamo
per fare. Credo che il Governo debba mettersi in condizioni di trattare questo rientro.
In primo luogo alcuni di noi, anzi tanti di noi, sottosegretario Bettinelli e presidente Jervolino, hanno chiesto che si aggiunga la seguente frase: «La disposizione cessa di avere effetto nei confronti di coloro, tra i discendenti maschi della famiglia Savoia, che prestino giuramento di fedeltà alla Repubblica». A noi sembra che questo sia irrinunciabile. È vero, è fondata l'obiezione del sottosegretario Bettinelli secondo la quale il giuramento in Italia è un onore; starei per dire purtroppo, perché negli altri paesi tutti giurano: giurano i bambini il primo giorno di scuola, giurano gli insegnanti. Così come noi adesso abbiamo iniziato con orgoglio ad esporre il tricolore, dovremmo iniziare con orgoglio a legare noi stessi alla nostra Repubblica con un giuramento. Poniamo che questo rappresenti al momento un ostacolo insuperabile; io non lo so, ma certamente farò quel che potrò, insieme agli altri cento deputati dell'Ulivo che hanno firmato quella richiesta, affinché la stessa sia accolta. Gli avvocati nei processi usano l'espressione «in subordine»; ebbene, io credo che il Governo in subordine non possa rinunciare a richiedere un'esplicita e formale rinuncia ad ogni pretesa dinastica, credo che questo debba essere fatto. È vero che i night club diventerebbero i luoghi per il nuovo tipo di comizi; è vero che una vita mondana non vede l'ora di scatenarsi di fronte a questi rientri, ma vorrei anche ricordare al Governo che per esempio nel paese di Santa Teresa di Gallura il 12 agosto si preparano solenni festeggiamenti per il ritorno degli eredi di casa Savoia. Mi dicono membri del consiglio comunale che il paese non si sta dedicando ad altro che ai solenni festeggiamenti per il rientro in Italia degli eredi di quel personaggio di casa Savoia! E volete che Santa Teresa di Gallura rimanga l'unico luogo in cui questo accade? Avrà certamente degli imitatori, tanti imitatori; ci troveremo in un paese in festa cinquant'anni dopo la proclamazione della Repubblica!
Cananzi, iscritti a parlare: si intende che vi abbiano rinunziato.
È iscritto a parlare l'onorevole Domenico Izzo. Ne ha facoltà.
Mi pare opportuno precisare, non certo a beneficio degli onorevoli deputati ma di quanti non sono cultori di storia patria, che la famiglia di cui si parla porta il cognome Carignano e non Savoia, in quanto questi ultimi, gente più seria ancorché soldati di ventura, si estinsero con Vittorio Emanuele I ed il di lui fratello Carlo Felice, morti entrambi senza eredi maschi. Dal matrimonio di una principessa di Savoia con un principe di Carignano trae origine la casa regnante in Italia fino al 2 giugno 1946. Il primo erede di questa dinastia, Carlo Alberto, al di là della retorica patriottarda dei vecchi sussidiari di quinta elementare, più che di grandi slanci ideali diede prova di ambivalenza, condita da una buona dose di opportunismo, ereditato probabilmente dai propri antenati materni.
Il padre della patria e re galantuomo, Vittorio Emanuele II, si vide piovere sul capo un regno formatosi più per il convergere di interessi sovranazionali, governati magari dal grande ingegno del Cavour e nobilitati dal sacrificio di tanti sinceri patrioti, che non per le proprie capacità di coagulare le aspirazioni di buona parte dell'aristocrazia intellettuale dell'epoca.
Quanto al galantuomo, poi, vorrei dire che ai nostri tempi avrebbe ricevuto certamente la condanna e la sanzione di organismi internazionali per aver sferrato a freddo attacchi militari contro Stati sovrani per puri fini espansionistici e di conquista. Forse, l'unica umana solidarietà può essere offerta a quest'uomo per non essere rimasto insensibile alle grazie della bella Rosina.
Il seguito di questa storia di famiglia è costellato di atti autoritari come l'ordine di sparare sulla folla a Milano, impartito da Umberto I al generale Bava Beccaris, o di grande cinismo ed ingratitudine, come la scelta di Vittorio Emanuele III di non partecipare ai funerali di Giovanni Giolitti, che per quasi vent'anni aveva lealmente servito la corona e l'Italia; o addirittura di viltà, come il rifiuto di firmare lo stato d'assedio di Roma verso cui marciavano le camicie nere fasciste. Vi è, fra l'altro, colleghi, chi sostiene che un solo colpo di cannone avrebbe disperso quella pittoresca armata Brancaleone e risparmiato all'Italia successivi lutti e rovine. O ancora, sempre da parte del re soldato, il non aver saputo affrontare forse anche un plotone d'esecuzione nazista per salvare l'onore proprio, della dinastia e della patria ed aver preferito invece la fuga precipitosa, quanto indecorosa, a Brindisi.
Colleghi, di questi uomini e di questa storia si parla, non di re amati e capaci di suscitare un sentimento di consenso forse anche nostalgico verso l'istituto monastico. Le motivazioni che indussero i costituenti ad introdurre i commi primo e secondo della XIII disposizione transitoria (transitoria appunto, ovvero a termine) furono scritte nel momento in cui il paese appariva spaccato, diviso. Il paese vedeva nascere una democrazia che non aveva ancora consolidato il proprio ruolo ed i propri valori. Bene, dunque, si fece allora ad introdurre le norme di cui parliamo nella XIII disposizione transitoria della nostra Costituzione.
Quale significato avrebbe però mantenere oggi in vita queste norme, se non la dimostrazione che noi siamo un paese che non ha la convinzione della forza e del radicamento di quei valori e di quella cultura che ha imposto con la lotta e con la resistenza? Sarebbe un grave errore politico quello di negare il rientro a questa famiglia, definitivamente ed irrevocabilmente discriminata dalla storia, poiché noi non temiamo un revisionismo storico che pure vediamo strisciare; non lo temiamo per la forza della nostra cultura, delle nostre idee e dei nostri valori.
È la convinzione della nostra forza che ci fa esprimere convintamente un «sì» sul provvedimento varato dalla Commissione affari costituzionali. È questa, colleghi, la ragione di fondo del nostro orientamento e credo non siano condivisibili le posizioni di chi ritiene che costoro debbano prestare giuramento alla Repubblica. Perché, infatti, fare di questi cittadini che per il giudizio della storia sono forse meno uguali degli altri, cittadini più uguali degli altri? Sono semplicemente uguali.
Perché poi chiedere la rinuncia ai loro diritti ereditari? Come è possibile rinunciare a qualcosa che non si possiede? Costoro non possono rinunciare a qualcosa di cui li ha privati il voto del popolo italiano sovrano, che noi rappresentiamo nel nostro Parlamento. Ecco le ragioni per cui, con pacatezza ma con ragionevolezza e senza alcuna forma di emotività, sono convinto che il Parlamento della Repubblica debba offrire la dimostrazione tangibile di avere così alto il senso del proprio essere, della propria storia, della propria funzione e della propria capacità di rappresentanza da non lasciarsi coinvolgere, come purtroppo accade spesso nel nostro paese, da argomenti che non sono seri, facendoli apparire tali. Il rischio che corriamo è che prima o poi potremmo metterci a parlare del rientro dei Borboni o di altre facezie di questa natura.
Chiedo ai colleghi che leggeranno le poche cose che ho detto di non appassionarsi e non dividersi più su questioni che non possono dividere il paese a distanza di cinquant'anni. Noi siamo più forti di questa gente che è stata definitivamente marcata e segnata dalla storia (Applausi dei deputati del gruppo dei popolari e democratici-l'Ulivo).
Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.