Seduta n. 230 del 16/7/1997

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Discussione della proposta di legge: S. 964 - Senatori CIRAMI ed altri: Modifica delle disposizioni del codice di procedura penale in tema di valutazione delle prove (approvata dalla II Commissione permanente del Senato) (3647); e delle concorrenti proposte di legge: ARMOSINO ed altri: Modifica dell'articolo 513 del codice di procedura penale, in materia di lettura delle dichiarazioni rese dall'imputato nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare (1863-bis); CARMELO CARRARA ed altri: Modifica dell'articolo 513 del codice di procedura penale, in materia di lettura delle dichiarazioni rese dall'imputato nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare (1870-bis) (ore 19,58).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della proposta di legge, già approvata dal Senato, di iniziativa dei senatori Cirami ed altri: Modifica delle disposizioni del codice di procedura penale in tema di valutazione delle prove e delle concorrenti proposte di legge di iniziativa dei deputati Armosino ed altri: Modifica dell'articolo 513 del codice di procedura penale, in materia di lettura delle dichiarazioni rese dall'imputato nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare; Carmelo Carrara ed altri: Modifica dell'articolo 513 del codice di procedura penale, in materia di lettura delle dichiarazioni rese dall'imputato nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare.
Avverto che la II Commissione (Giustizia) si intende autorizzata a riferire oralmente.
Informo che il presidente del gruppo misto ha chiesto l'ampliamento, senza limitazione nelle iscrizioni a parlare, ai sensi del comma 2 dell'articolo 83 del regolamento, della discussione sulle linee generali. Si è di conseguenza provveduto al contingentamento del relativo tempo, a norma dell'articolo 24, comma 6, del regolamento. Sulla base di tale contingentamento, la ripartizione del tempo a disposizione dei gruppi è la seguente:
sinistra democratica-l'Ulivo: 1 ora e 6 minuti;
forza Italia: 55 minuti;
alleanza nazionale: 49 minuti;
popolari e democratici-l'Ulivo: 44 minuti;
lega nord per l'indipendenza della Padania: 42 minuti;
misto: 41 minuti;


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rifondazione comunista-progressisti: 38 minuti;
CCD: 35 minuti;
rinnovamento italiano: 35 minuti.
Totale: 6 ore 45 minuti.

Avverto che sono state presentate la questione pregiudiziale di costituzionalità Piscitello ed altri e la questione pregiudiziale di merito Scozzari ed altri (vedi l'allegato A).
Constato l'assenza dell'onorevole Piscitello: s'intende che abbia rinunziato ad illustrare la sua questione pregiudiziale di costituzionalità.
L'onorevole Scozzari ha facoltà di illustrare la sua questione pregiudiziale di merito.

GIUSEPPE SCOZZARI. Rinuncio ad illustrarla.

PRESIDENTE. Sta bene.
Passiamo ai voti.
Pongo in votazione...

ALESSANDRO CÈ. Presidente, queste sono barzellette! Non si presentano le questioni pregiudiziali e poi non se ne parla neppure in aula. Sono barzellette! Questa non è una democrazia! Facciamo ridere il paese!

PRESIDENTE. Onorevole Cè, i presentatori non ci sono o non intendono illustrare il loro documento.
Indìco la votazione nominale, mediante procedimento elettronico, sulla questione pregiudiziale di costituzionalità Piscitello ed altri.
(Segue la votazione).

Dichiaro chiusa la votazione.
Comunico il risultato della votazione:


Presenti 376
Votanti 373
Astenuti 3
Maggioranza 187
Hanno votato 20
Hanno votato no 353
(La Camera respinge).

Indìco la votazione nominale, mediante procedimento elettronico, sulla questione pregiudiziale di merito Scozzari ed altri.
(Segue la votazione).

Dichiaro chiusa la votazione.
Comunico il risultato della votazione:


Presenti 383
Votanti 380
Astenuti 3
Maggioranza 191
Hanno votato 24
Hanno votato no 356
(La Camera respinge).

Avverto che da parte dei deputati Danieli ed altri è stata presentata una questione sospensiva. A norma del comma 3 dell'articolo 40 del regolamento, sulla questione sospensiva possono intervenire due deputati a favore e due deputati contro.
Nessuno chiedendo di parlare, passiamo ai voti.
Indìco la votazione nominale, mediante procedimento elettronico, sulla questione sospensiva presentata dall'onorevole Danieli.
(Segue la votazione).

Dichiaro chiusa la votazione.
Comunico il risultato della votazione:


Presenti 366
Votanti 360
Astenuti 6
Maggioranza 181
Hanno votato 13
Hanno votato no 347
(La Camera respinge).


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Colleghi, per questa sera le votazioni sono terminate.
Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Il relatore per la maggioranza, onorevole Mantovano, ha facoltà di svolgere la sua relazione.
Prego i colleghi di liberare l'emiciclo.

ALFREDO MANTOVANO, Relatore per la maggioranza. Signor Presidente, signori rappresentanti del Governo, onorevoli colleghi, il tema della valutazione delle prove nel processo penale è centrale e proprio per questo solleva problemi di contemperamento tra esigenze diverse, talora contrapposte. È sempre stato difficile, ma lo è ancora di più oggi, raggiungere un equilibrio soddisfacente tra il giusto processo e la giusta decisione, cioè tra la posizione di chi, chiamato a rispondere di uno o più reati, ha il diritto costituzionalmente tutelato di difendersi e la ricerca della verità sostanziale, che è il fine ineludibile del processo penale e che rappresenta un valore costituzionale altrettanto importante.
È difficile, in altri termini, correlare la decisione giudiziaria al dato storico che emerge dal contraddittorio tra le parti (la verità formale) ed al dato storico reale (la verità materiale), e se la prevalenza degli aspetti formalistici conduce ad un giudizio di mera apparenza, di fatto inutile, sarebbe inaccettabile e pericoloso dare spazio esclusivo agli aspetti sostanzialistici, senza alcun limite per il libero convincimento del giudice.
La conferma di questa difficoltà è rappresentata dai problemi affrontati nella discussione che inizia ora in quest'aula e che riguarda le modifiche apportate all'articolo 513 del codice di procedura penale dal disegno di legge dei senatori Cirami ed altri, approvato il 29 aprile 1997 in sede legislativa dalla Commissione giustizia del Senato. All'esame di tale disegno di legge è abbinato anche quello delle proposte di legge Carmelo Carrara ed altri e Armosino ed altri, che puntano a modificare l'articolo 513 in una direzione sostanzialmente conforme a quella prevista dal testo del Senato, mentre dalle proposte abbinate è stata stralciata la proposta di cambiare anche l'articolo 192 del codice per ragioni di speditezza.
È noto che la versione originaria del codice di procedura penale prevedeva, all'articolo 513, un regime differenziato per la lettura e quindi per l'utilizzazione delle dichiarazioni rese dall'imputato nel corso delle indagini, il quale non si presenta in dibattimento o comparendo si avvale della facoltà di non rispondere. La lettura era consentita senza limitazioni per l'imputato, mentre con riferimento alle persone indicate nell'articolo 210, cioè gli imputati in un procedimento connesso nei cui confronti si procedeva o si era proceduto separatamente, era possibile l'utilizzazione solo nell'ipotesi di mancata comparizione, ma non anche in quella di rifiuto di deporre.
Con la sentenza n.254 del 1992 la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità dell'articolo 513 nella parte in cui non contiene questa previsione.
In proposito la Corte, premessa la necessità di evitare la perdita di quanto acquisito prima del dibattimento che non sia più ripetibile in questa sede, ha osservato che le persone indicate nell'articolo 210 in relazione alla loro particolare e, per così dire, ibrida posizione hanno, sì, l'obbligo, a differenza dell'imputato, di presentarsi al giudice, ma sono assistiti da un difensore e, soprattutto, conservano la facoltà di non rispondere, tipica dell'imputato, e di ciò devono essere avvertiti.
In definitiva, anch'essi, come l'imputato, hanno la possibilità di sottrarsi, in tutto o in parte, all'esame, così determinando, nel caso avessero reso precedenti dichiarazioni, quel tipo di situazione che lo stesso legislatore delegato ha inteso qualificare come una ipotesi di impossibilità sopravvenuta di ripetizione dell'atto.
Ad avviso della Corte ciò determina una palese irragionevolezza, poiché la possibilità di lettura in dibattimento dipende dalla occasionale circostanza che


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nei loro confronti si proceda in un unico processo cumulativo, ovvero separatamente.
Ma la Corte non ha riscontrato alcun fondato motivo perché tale circostanza abbia influenza sul regime probatorio e conseguenze determinanti ai fini della decisione.
La sentenza della Consulta, giunta in un momento di particolare efferatezza dell'aggressione criminale di ogni tipo e, segnatamente, di quella della criminalità organizzata, è stata pubblicata contestualmente ad un'altra, la n.255 dello stesso giorno (il 3 giugno 1992), nella quale è stato più ampiamente sviluppato il principio della non dispersione dei mezzi di prova con riferimento agli atti assunti nel corso delle indagini. Questo principio è stato ribadito in più circostanze, in particolare con la sentenza n.60 del 1995 che, in applicazione dello stesso principio, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del comma 1 dell'articolo 513 nella parte in cui non prevede che il giudice, ricorrendo le condizioni, dispone che sia data lettura dei verbali delle dichiarazioni dell'imputato assunte dalla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero, nonché con la sentenza n.241 del 1994.
La difficoltà segnalata di ordine generale ad ottenere un equilibrio soddisfacente fra il giusto processo e la giusta decisione trova un terreno di verifica concreta proprio con riferimento all'articolo 513 ed alle disposizioni che ad esso si collegano.
È vero, infatti, che il mancato recupero delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini dall'imputato o dal coimputato ha come prezzo un serio abbassamento della quantità e della qualità del sapere da utilizzare ai fini della decisione e quindi impedisce o addirittura rende difficile l'accertamento della verità storica.
Ciò vale non solo per i grossi processi di criminalità, ma anche per la quotidiana ed ordinaria amministrazione della giustizia, allorché per giudizi relativi a reati concorsuali la chiamata in correità di chi in seguito decide di non sottoporsi all'esame dibattimentale ha un peso non decisivo ma neanche irrilevante.
D'altra parte, il reiterato ricorso alla lettura delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini in presenza del rifiuto di rispondere si è tradotto con troppa frequenza nella eliminazione di qualsiasi vaglio dibattimentale con effetti doppiamente negativi, sulla posizione degli imputati che in questo modo sono stati privati dell'esame in contraddittorio dei loro accusatori e della possibilità di confronti che presuppongono lo svolgimento dell'esame, ma con effetti negativi anche sulle decisioni del giudice, per il quale non è rassicurante fondare la definizione del processo su dichiarazioni scritte alla cui assunzione non ha assistito, in ordine alle quali non si è proceduto all'esame ed al controesame e sulle quali non ha potuto esercitare i poteri di cui all'articolo 507; dichiarazioni spesso non sovrapponibili con precisione, con particolari discordanti e quindi poco tranquillizzanti per un giudizio certo.
Esprime questo disagio una giurisprudenza che inizia ad affermarsi in sede di merito. Penso, fra le tante, ad una decisione del tribunale di Genova dell'aprile 1995, edita, secondo la quale la valutazione del contributo a fini probatori della semplice lettura delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini da imputati ai sensi dell'articolo 210, e che si siano avvalsi della facoltà di non rispondere, esige criteri di giudizio più rigorosi, poiché alla chiamata cosiddetta muta non si può attribuire la medesima efficacia probante della chiamata a raccolta nel pubblico contraddittorio. Le cautele supplementari impongono un'analisi più attenta delle dichiarazioni e l'esigenza di una maggiore qualità per gli elementi di giudizio idonei a riscontrare le dichiarazioni veicolate dai verbali, al fine di raggiungere il grado di sicurezza che occorre per affermare la responsabilità penale. Per una eterogenesi dei fini accade così che la moltiplicazione dell'assunzione dei verbali di dichiarazioni rese nel corso delle indagini conduce a sentenze assolutorie

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piuttosto che a sentenze di condanna, pur in presenza di chiamate in correità plurime, ma non precise o non concordanti, perché fra l'altro non sottoposte al vaglio del contraddittorio e non sollecitate al confronto con gli altri dichiaranti.
Con riferimento al lavoro svolto nelle passate settimane dalla Commissione giustizia, qualcuno ha definito questa discussione troppo rapida e tale da non aver consentito l'approfondimento che la delicatezza della materia esige; altri l'ha invece qualificata troppo lenta rispetto all'urgenza di approvare le modifiche dell'articolo 513. Non sono in grado di fornire statistiche: chi sostiene la tesi della lentezza dovrebbe constatare che pochi disegni di legge hanno esaurito in circa un mese di lavoro la discussione generale e l'esame di circa 1.200 emendamenti, come è accaduto nel nostro caso; chi, al contrario, si è lamentato della fretta, non ha che da sfogliare il verbale della Commissione per prendere atto della densità e dell'intensità del dibattito, certamente proporzionato all'importanza delle modifiche che ci si appresta ad approvare.
Ci stiamo occupando del cuore del processo penale, cioè del momento della formazione della prova, attorno al quale ruota la pretesa da parte dello Stato di accertare il fatto reato ed il diritto dell'accusato di far valere la propria estraneità agli addebiti mossi a suo carico. Questa importanza in sé è ragione più che valida per giustificare la precedenza rispetto ad altri atti legislativi e ad altri progetti di legge, pure attinenti ad aspetti rilevanti dell'ordinamento giudiziario ed all'accertamento degli illeciti. Ma vi è una ragione ulteriore che impone celerità senza che sia trascurato un approfondimento: le aule giudiziarie e coloro che ivi sono impegnati a diverso titolo intendono conoscere quale rito sarà applicato; in più di un caso viene segnalato il rinvio di processi importanti nell'attesa che siano conclusi i nostri lavori. Ulteriori ritardi nella definizione del testo allontanerebbero ad un momento non definito la certezza delle norme processuali da applicare ai giudizi in corso.
Nel merito seguirò quest'ordine: dapprima illustrerò le modifiche apportate all'articolo 513 dal disegno di legge approvato dal Senato, poi esporrò qualche osservazione su quel testo e contestualmente segnalerò gli aspetti sui quali la Commissione giustizia della Camera si è soffermata maggiormente ed ha cambiato l'articolato del Senato.
Con l'articolo 1 del disegno di legge approvato dal Senato viene riprodotto il comma 1 dell'articolo 513 nella formulazione vigente, in base alla quale, se l'imputato è contumace, assente o rifiuta di sottoporsi all'esame, il giudice dispone la lettura delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini; si aggiunge alla fine che tali dichiarazioni non possono essere utilizzate nei confronti di altri senza il loro consenso.
Più incisive sono state le integrazioni al comma 2 dello stesso articolo, per il quale il giudice, se le dichiarazioni sono state rese dai soggetti indicati nell'articolo 210, dispone, secondo i casi, o l'accompagnamento coattivo o l'esame a domicilio o la rogatoria internazionale, oppure l'esame in altro modo previsto dalla legge con le garanzie del contraddittorio. Se non è possibile ottenere la presenza del dichiarante, o se questi si avvale della facoltà di non rispondere, la norma oggi in vigore, così come modificata dalla sentenza n.254 del 1992 della Corte costituzionale, prevede che il giudice, sentite le parti, dispone la lettura delle dichiarazioni rese in precedenza.
La norma che si intende introdurre dispone fra il caso in cui non è possibile ottenere la presenza del dichiarante ed il caso in cui il dichiarante si avvale della facoltà di non rispondere. Nella prima ipotesi viene richiamato l'articolo 512, che consente la lettura degli atti assunti dalla polizia giudiziaria, dal pubblico ministero e dal giudice dell'udienza preliminare se ne è divenuta impossibile la ripetizione per fatti o circostanze imprevedibili. Nella seconda ipotesi può essere disposta la

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lettura delle dichiarazioni solo sulla base dell'accordo delle parti, a meno che non si tratti di dichiarazioni assunte nel corso dell'incidente probatorio. A proposito di quest'ultimo, l'articolo 4 del disegno di legge del Senato ha introdotto il comma 2-bis dell'articolo 392, dilatando la possibilità per il pubblico ministero di richiederlo quando si deve procedere all'esame dell'indagato su fatti relativi alla responsabilità di altri, ovvero all'esame delle persone indicate nell'articolo 210.
L'articolo 5 del disegno di legge completa il quadro a proposito delle prove aggiunte con incidente probatorio. L'articolo 3 aggiunge un ulteriore periodo al comma 5 dell'articolo 238 riguardante l'utilizzabilità dei verbali delle prove assunte in altri procedimenti. Altri tre articoli completano il disegno di legge. L'articolo 6 aggiunge un periodo all'articolo 512-bis attinente alle dichiarazioni rese dal cittadino straniero se non è stato citato o se non è comparso pur essendo stato citato. L'articolo 7 è la norma transitoria che finora è stata, più delle altre disposizioni, al centro dell'attenzione del dibattito; riguarda cioè l'applicazione della nuova disciplina ai processi non ancora definiti con sentenza irrevocabile. I primi quattro commi scandiscono le differenti fasi del giudizio. Nessun problema si pone, ovviamente, se nel procedimento non è ancora intervenuta la richiesta di rinvio a giudizio. Il comma 1 consente al pubblico ministero di chiedere l'incidente probatorio in base al nuovo comma 2-bis dell'articolo 392 anche dopo la richiesta di rinvio a giudizio, ma nel termine di 60 giorni dall'entrata in vigore della legge in discussione. Il comma 2 prende in considerazione il giudizio di primo grado ancora in corso e stabilisce che, qualora sia già avvenuta la lettura dei verbali delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini dalle persone indicate dall'articolo 513 contro altri e senza il consenso di costoro, il giudice ne dispone la citazione per un nuovo esame, sempre che le parti lo chiedano. I commi 3 e 4 attengono, rispettivamente, al giudizio di appello ed al giudizio di rinvio a seguito di annullamento disposto dalla Cassazione, sempre che la decisione implichi l'utilizzazione delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini dalle persone indicate dall'articolo 513 contro altri e senza il consenso di costoro ed i motivi di appello facciano riferimento al contenuto di quelle dichiarazioni. Prevede, su istanza della parte interessata, la rinnovazione parziale del dibattimento per ottenere la citazione di chi aveva reso le dichiarazioni. Il comma 5 dell'articolo 7 stabilisce che cosa accade se le persone indicate dall'articolo 513 non si presentano, ovvero comparendo si avvalgono nuovamente della facoltà di non rispondere e recita testualmente: «le dichiarazioni rese in precedenza possono essere valutate come prova dei fatti in esse affermati, solo se la loro attendibilità sia confermata da altri elementi di prova, non desunti da dichiarazioni rese al pubblico ministero, alla polizia giudiziaria da questi delegata o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare, di cui sia stata data lettura ai sensi dell'articolo 513 del codice di procedura penale, nel testo vigente prima della data di entrata in vigore della presente legge».
L'articolo 8, infine, fissa l'entrata in vigore della legge al giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.
Seguendo l'ordine espositivo delle nuove norme, tenterò di enunciare i principali problemi che la Commissione ha affrontato e discusso, indicando contemporaneamente le soluzioni approvate, ovviamente senza avere la pretesa di esaurire l'elenco dei problemi. La prima questione che ci si è posta - prima non solo nell'articolazione del disegno di legge, ma anche dal punto di vista logico - riguarda la compatibilità della nuova disciplina con la giurisprudenza della Corte costituzionale che si è affermata a partire dal 1992 ed in particolare con le due sentenze prima ricordate (la n.254 del 1992 e la n.60 del 1995). Il nocciolo di entrambe le decisioni, ma anche di altre importanti che, pur non incidendo direttamente sul tema del nostro dibattito ne riecheggiano i termini, è il progressivo recupero al

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dibattimento della massa di informazioni probatorie accumulate nel corso delle indagini, teorizzato con l'elaborazione del principio della non dispersione dei mezzi probatori, e cioè il passaggio realizzato dalla Corte dalla tendenziale impermeabilità tra la fase investigativa e la fase dibattimentale alla tendenziale osmosi tra i due momenti. Si può discutere se la non dispersione dei mezzi probatori costituisca un principio costituzionale, e forse non andrebbe trascurata quella parte consistente della dottrina che ha avanzato dubbi sulla costruzione del principio. Dubbi, innanzitutto, di carattere metodologico, poiché un complesso di norme derogatorie rispetto al canone interpretativo fondamentale della separazione delle fasi, cioè un insieme circoscritto di specifiche eccezioni rispetto all'impianto del codice del 1988, è stato elevato a principio, e da esso è stata fatta derivare l'incostituzionalità delle norme che non vi si adeguino senza un giustificato motivo. Ciò che è sicuro è che oggi quel principio rappresenta un canone interpretativo sedimentato nelle scelte culturali della giurisprudenza non solo di legittimità e di merito, ma anzitutto costituzionale e quindi non se ne può prescindere.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE ALFREDO BIONDI (ore 20,17).

ALFREDO MANTOVANO, Relatore per la maggioranza. Il principio della non dispersione dei mezzi probatori è stato riaffermato fra l'altro dalla sentenza della Consulta n.241 del 1994 nella cui motivazione si può leggere tra l'altro che ad un ordinamento costituzionale che sancisce il principio di obbligatorietà dell'azione penale non sono consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di aggiustamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione. Con la conseguenza che, ove vi sia una presunzione di genuinità a favore di talune dichiarazioni rese anteriormente al dibattimento, risulta irragionevole escludere radicalmente ogni altra presunzione similare, come quella che empiricamente scaturisce quando si constata che la dichiarazione raccolta dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero è fornita di precisione, analiticità e concordanza con altri elementi di prova, ovvero quando vi sia la convinzione di una deposizione dibattimentale non genuina.
Nella decisione della Corte queste affermazioni valgono con riferimento alle dichiarazioni rese nel corso delle indagini dai testimoni e quindi al disposto del rinnovato articolo 500 del codice, commi 4 e 5, ma sono riprese a proposito delle dichiarazioni rese nel corso dell'indagine dagli imputati o dai soggetti indicati dall'articolo 210.
Una prima considerazione, non adeguatamente approfondita dalla giurisprudenza costituzionale, riguarda la parificazione che sotto questo profilo si realizza tra il testimone e l'imputato e quindi fra il verbale delle dichiarazioni rese originariamente dal soggetto informato sui fatti e il verbale dell'interrogatorio dell'indagato. Infatti, con riferimento a questa seconda tipologia di atti, ci si può chiedere se sia coerente con l'architettura del sistema aver configurato, muovendo dalla esigenza della non dispersione, il recupero in chiave probatoria di un sapere che in origine era privo delle connotazioni storico-rappresentative proprie della testimonianza e che invece si era strutturato in ossequio a scelte contingenti di natura eminentemente difensiva, essendo l'interrogatorio anzitutto uno strumento di difesa.
In altri termini, quello che può costituire oggetto di discussione è la portata della categoria della irripetibilità, la quale, in quanto costituisce una necessaria deroga all'assunzione orale, dovrebbe, in base alle osservazioni di una parte della dottrina, avere ad oggetto dati che hanno valore probatorio fin dall'origine, mentre non potrebbe trasformare in dati probatori dichiarazioni che hanno altre finalità, anzitutto quella di articolare una valida difesa della persona sottoposta alle indagini.


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Se i precetti costituzionali richiamati dalla Corte a fondamento del principio della non dispersione dei mezzi probatori trovano sede, in base alle indicazioni della stessa Corte, nei primi articoli della Costituzione, in particolare negli articoli 2 e 3 (dal momento che si fa riferimento alla tutela dei diritti inviolabili dell'uomo ed al principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge), è necessario, salve tutte le precisazioni di dettaglio, porsi i quesiti se l'impostazione di fondo dell'assetto normativo dato dal disegno di legge approvato dal Senato, ma soprattutto il testo votato in sede referente dalla Commissione giustizia della Camera...

PRESIDENTE. Onorevole Mantovano, mi dispiace molto interromperla, ma il tempo che ha a disposizione per la sua relazione è terminato. Dovrebbe sintetizzarla.

ALFREDO MANTOVANO, Relatore per la maggioranza. Non mi era stato comunicato.

PRESIDENTE. Mi dispiace molto. Gli incarichi peggiori capitano sempre a me. La prego di avviarsi alla conclusione.

ALFREDO MANTOVANO, Relatore per la maggioranza. In questo caso, chiedo alla Presidenza di essere autorizzato a consegnare considerazioni integrative della mia relazione perché siano pubblicate in calce al resoconto stenografico della seduta odierna.

PRESIDENTE. La Presidenza lo consente.
Ha facoltà di parlare il relatore di minoranza, onorevole Scozzari.

GIUSEPPE SCOZZARI, Relatore di minoranza. Presidente, onorevoli colleghi, rappresentante del Governo, il provvedimento licenziato dalla Commissione giustizia, relativo all'utilizzo delle dichiarazioni dell'imputato o degli imputati in procedimenti connessi in materia di responsabilità altrui, introduce nel nostro codice di procedura penale una novella che per noi avrà effetti molto gravi. Ci si renderà conto nei prossimi mesi, quando, sulla base delle nuove disposizioni, una nutrita serie di procedimenti penali relativi a reati di grave allarme sociale, quali quelli di mafia o quelli connessi alla corruzione politica, rischieranno di chiudersi con una nulla di fatto giudiziario.
Desidero, prima di andare avanti, fare una breve premessa: non abbiamo illustrato, come gruppo, le pregiudiziali non perché, come qualcuno ha malignamente pensato, siamo scappati via chissà per quali ragioni, ma perché purtroppo siamo stati chiamati a una riunione di maggioranza dell'Ulivo sulla giustizia, che qualcuno ha artatamente convocato in concomitanza con la discussione sull'articolo 513 del codice di procedura penale.
Le procure in prima linea nella lotta alla mafia e alla corruzione e l'associazione nazionale magistrati nei mesi scorsi hanno portato pacatamente a conoscenza del Parlamento le conseguenze della prevista riforma dell'articolo 513 del codice di procedura penale: un provvedimento che secondo noi mette in difficoltà molti importanti processi.
Nei mesi scorsi, alcuni politici e parlamentari che con molta onestà intellettuale hanno sostenuto questa modifica (altri però lo hanno fatto per fini personali e strumentali) hanno riscoperto il primato della politica, tendendo sempre di più a restringere l'autonomia, l'indipendenza e l'azione stessa della magistratura per chiudere spazi di manovra che hanno consentito di fare luce su tanti fatti di corruzione politica, che hanno segnato la vita amministrativa ed istituzionale del nostro paese.
Purtroppo il rischio è che la seconda repubblica, esattamente come la prima, tende a chiudersi in un sistema inattaccabile ed autoreferenziale. I motivi per i quali siamo contrari al provvedimento licenziato dalla Commissione giustizia della Camera li abbiamo resi noti attraverso una pratica che è quella ostruzionistica ma che con molta serenità posso dire che non ci appartiene: non appartiene


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per consuetudine alla nostra cultura. Ad essa abbiamo però dovuto far ricorso perché ci siamo trovati di fronte ad una strana e trasversale maggioranza che aveva in un primo tempo blindato il provvedimento approvato in sede deliberante dalla Commissione giustizia del Senato, e accettato solo successivamente qualche modifica che per l'ovvietà di essa avrebbe già dovuto essere approvata dalla Commissione, al Senato.
Per sgombrare il campo da possibili equivoci siamo convinti che il principio sancito nella proposta di legge è giusto, per carità! Deve essere infatti riconosciuto a tutti i cittadini il diritto di potersi difendere rispetto ad accuse penali, in condizioni di parità sostanziale con l'accusa, mediante un contraddittorio vero, in funzione del principio dell'oralità (un principio che ormai fa parte del nostro ordinamento a seguito del cosiddetto codice Vassalli, entrato in vigore nel 1989).
Nessuno intende mettere in discussione questo principio, nessuno però intende negare il fatto che l'attuale previsione, così come è stata novellata dal Senato (l'articolo 513), comprime certamente una parte dei diritti della difesa.
La soluzione che si vuole adottare, se dovesse essere approvato questo disegno di legge, rappresenta certamente un colpo di spugna, ben più grave del decreto Biondi - lei è Presidente di turno - emanato nell'estate del 1994. Questo è più grave perché sostanzialmente fa versare nella condizione di impunità alcuni illustri potenti di questo paese. Ma vediamo i motivi. Il vigente articolo 513, al primo comma, consente di leggere in dibattimento e quindi di allegare al fascicolo processuale le dichiarazioni rese dall'imputato nel corso delle fasi del procedimento precedente al dibattimento.
La sentenza n.60 del 1995 della Corte costituzionale ha consentito anche la lettura delle dichiarazioni rese dall'imputato alla polizia giudiziaria ove delegata dal pubblico ministero ai sensi dell'articolo 370, poiché tale interrogatorio è soggetto alle medesime prescrizioni di quello eseguito dai GIP o dal pubblico ministero. La sentenza citata ci pone nella direttrice tracciata dalla Corte, secondo la quale in varie disposizioni del codice di rito è rinvenibile il criterio tendente a contemperare il principio dell'oralità con l'esigenza di evitare l'inutilizzabilità, ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e che ciò sia ripetibile in questa sede.
La possibilità indicata dal comma 2 dell'articolo 513 in vigore consente la lettura anche delle dichiarazioni, cosiddette chiamate in correità-reità, rese da imputati in procedimenti connessi qualora sia impossibile la loro presenza. E ciò si deve al diretto intervento della Corte costituzionale.
Nella sentenza n.254 del 1992 la Corte, dopo aver sottolineato come il nuovo codice di rito penale veda con favore la separatezza dei processi, utile soprattutto ad una maggiore speditezza degli stessi, afferma che non può derivare da ciò una diversa valutazione degli atti processuali. In merito la sentenza afferma che la separazione dei processi discende da scelte o valutazioni convincenti di natura astrattamente processuale nei casi in cui si è in presenza di procedimenti che la legge qualifica connessi e quindi potenzialmente soggetti a trattazione cumulativa e non può ragionevolmente mutare il regime di leggibilità in dibattimento.
Il progetto di riforma dell'articolo 513, attualmente in esame, sposta decisamente a favore dell'oralità pura del dibattimento la normativa vigente, in contrasto con la linea tracciata dall'Alta Corte, senza alcuna forma di valutazione del lavoro istruttorio già svolto, senza considerazione degli effetti di stravolgimento delle strategie processuali già impostate dai pubblici ministeri né dei consistenti rischi di prescrizione di una nutrita serie di procedimenti, in particolare quelli relativi a Tangentopoli.
L'intero testo mostra una valutazione politica improntata a sfiducia verso il lavoro dei GIP e dei pubblici ministeri al punto da sorvolare su una serie di paradossi che la riforma, ove approvata, verrebbe a produrre. Il comma 1 dell'articolo

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1 della novella attualmente in esame dispone che le dichiarazioni dell'imputato rese precedentemente al dibattimento, ove egli non voglia o non possa ripeterle, non possono essere acquisite come prova senza il consenso di coloro che sono chiamati in causa. Il nuovo comma 2, relativo agli imputati in procedimento connesso e che eseguono chiamate di correità o reità, dispone che le dichiarazioni da costoro rese prima del dibattimento non possono essere usate senza il consenso delle parti, mentre possono esserlo ove, per sopravvenuta impossibilità, il dichiarante non possa ripeterle. Saranno solo parzialmente utilizzabili le dichiarazioni rese nell'udienza preliminare nel corso della quale pur si attua il contraddittorio, sia pure nella forma di domande rivolte al giudice su istanza delle parti.
L'articolo 3 del progetto di riforma aggiunge un comma all'articolo 238 relativo all'utilizzazione dei verbali e di prove di altri procedimenti. Il nuovo comma aggiuntivo dispone che detti verbali, ove siano relativi a dichiarazioni di imputati in procedimenti connessi, possano essere utilizzati solo se il difensore dell'imputato ha partecipato alla loro assunzione.
Queste disposizioni si risolveranno nell'impossibilità di usare le dichiarazioni dell'imputato dai chiamanti qualora non ripetute in dibattimento, poiché nessun avvocato difensore accetterà di inserire nel fascicolo dibattimentale atti e documenti che peggiorino la posizione del loro assistito. L'effetto sarà quello di lasciare all'imputato la scelta esclusiva delle prove da portare a proprio carico. D'altro canto, in virtù dell'imparzialità - tra virgolette a volte - del pubblico ministero, saranno ammessi documenti presentati dalla difesa a discarico degli accusati.
La possibilità di ricorrere all'incidente probatorio per superare questo ostacolo è sostanzialmente impercorribile, poiché le chiamate in correità, in particolare nei processi ex articolo 416-bis del codice penale, cioè i processi di mafia, da assumere nel corso dell'incidente, possono essere numerose. Occorrerebbe convocare contemporaneamente tutti i difensori dei chiamati oltre ai loro assistiti. Inoltre si contraddirebbe il principio della separazione dei procedimenti sopra richiamato.
La complessità dell'operazione e gli ostacoli che ad essa potrebbe frapporre la difesa spingerebbero verso l'impossibilità di celebrare celermente i processi con numerosi imputati o connessi a numerosi altri senza considerare che il dichiarante, come spesso accade in linea generale, potrebbe avvalersi della facoltà di non rispondere già nell'incidente probatorio, rendendo nulle tutte le dichiarazioni precedenti.
Anche sotto il profilo difensivo la formulazione dell'articolo 4 presenta problemi nei nuovi procedimenti. La possibilità offerta dal progetto di ricorrere con maggiore facilità all'incidente probatorio avrà due effetti. In primo luogo, l'incidente, l'eccezione diventerà la regola in tutti i procedimenti nei quali, secondo la generica definizione dell'articolo 4, ad esso si ricorra ogni qualvolta il pubblico ministero, dominus quasi assoluto della possibilità di richiesta, abbia ragione di ritenere che tale persona possa sottrarsi all'esame dibattimentale, cioè sempre. In secondo luogo, il pubblico ministero potrà avvalersi di tale procedura anche all'inizio delle indagini, quando le parti (in particolare i difensori richiamati in reità o correità) non hanno conoscenza alcuna degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero e pertanto non hanno potuto raccogliere prove a discarico e, quindi, non possono sostenere il contraddittorio.
Poiché l'articolo 403 del codice di procedura penale stabilisce che l'incidente vale come prova nei confronti degli indagati, a patto che vi partecipino i loro difensori, la semplice presenza del difensore fa salve le dichiarazioni dei chiamanti anche se egli non è stato in grado di controbattere nulla.
Per quanto riguarda i processi in corso, faccio una breve parentesi per sottolineare che sarebbe grave se questa modifica venisse applicata senza una norma transitoria valida e in grado di

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separare il passato dal presente. Dalla norma transitoria deriva la quasi totale inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall'imputato di reato connesso al pubblico ministero o al GIP. Il pubblico ministero non potrà assicurare la sostenibilità dell'accusa, non sapendo quali carte saranno accolte; le assoluzioni potrebbero essere definitive con un paradosso, cioè con diritto alla richiesta dei danni. La pressione sui dichiaranti, in particolare dei clan mafiosi, ma anche quella più raffinata dei gruppi politico-affaristici, sarà scatenata a fronte della possibilità di inficiare il lavoro istruttorio.
Mi dispiace dire che la pressione è stata esercitata anche in questi giorni in sede parlamentare in relazione ad alcuni processi che vedono coinvolti colleghi parlamentari come imputati e colleghi parlamentari come difensori. Si è assistito ad uno strano sodalizio a favore della modifica di questa norma processuale. L'effetto potrebbe essere nefasto anche per i riti alternativi: l'inutilizzabilità delle dichiarazioni renderà più conveniente accedere al dibattimento, nel frattempo facendo pressioni sul dichiarante o sui suoi familiari; viceversa, come da noi più volte richiesto nel corso del dibattito in Commissione giustizia, si sarebbe dovuta limitare la facoltà concessa ai dichiaranti di non rispondere. In parte è già previsto per i collaboratori di giustizia; basterebbe prevedere l'obbligo di parlare per gli imputati di reato connesso. Per tutti gli altri imputati di reato connesso, anche quelli ostili, sarebbe sufficiente prevedere l'obbligo di deporre innanzi al giudice senza aggravamento della posizione processuale oppure potrebbe prevedersi che l'imputato, il quale non si sia avvalso della facoltà di non rispondere innanzi al pubblico ministero e al GIP, non possa più avvalersi per i medesimi fatti di tale facoltà dinnanzi al giudice nel corso del dibattimento dell'incidente probatorio. Questa mi sembra una soluzione equa e giusta.
Potrebbe rimarcarsi la differenza tra chiamata di correità e chiamata di reità eseguita da imputati, trovandosi questi ultimi in una situazione di testimoni. Con il loro obbligo potrebbero essere sancite le disposizioni relative a testimoni reticenti. La possibilità di non rispondere rimarrebbe per coloro che chiamano in correità da imputati, poiché infatti nessuno può essere obbligato a peggiorare la propria situazione.
Va ricordato che, se il dichiarante muore, le sue dichiarazioni sono ammesse; se rifiuta di rispondere, non sono ammesse. In entrambi i casi è impossibile interrogarlo in dibattimento e quindi che senso ha questa differenza, che senso hanno le conseguenze?
Un altro paradosso: se l'imputato tace, i verbali precedenti non possono essere usati; se parla e nega tutto ciò che è scritto nei verbali, questi ultimi possono essere usati come prova per contestare ciò che è detto. Tanto valeva allora adottare il metodo previsto dall'articolo 500 del codice di procedura penale secondo il quale, in caso di mancato esame del testimone imputato, i verbali entrano a far parte delle prove ove sussistano elementi che ne confermino la validità o il testimone sia stato minacciato e abbia avuto offerte in denaro o di altro tipo da lasciare all'apprezzamento del giudice.
Il relatore ha espresso alcune osservazioni sulla riforma; tuttavia quanto ho detto è stato fatto presente in Commissione giustizia. Le osservazioni sono state accolte da un punto di vista politico dal relatore, il quale ha posto correttamente in campo numerosi problemi creati dalla riforma. Il relatore per la maggioranza è stato obiettivo, dobbiamo dargliene atto, anche se per altro verso ha rimarcato il valore politico del voto quasi unanime con cui il progetto...

ALFREDO MANTOVANO, Relatore per la maggioranza. Almeno questo lo posso dire: che non sono per la maggioranza!

GIUSEPPE SCOZZARI, Relatore di minoranza. ... è stato approvato dal Senato, quasi che la Camera non fosse a sua volta sovrana.


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ALFREDO MANTOVANO, Relatore per la maggioranza. È lui della maggioranza!

GIUSEPPE SCOZZARI, Relatore di minoranza. Intendevo dire relatore... della maggioranza di consensi attorno al provvedimento e peraltro, collega Mantovano, sei indicato come relatore per la maggioranza, sempre se non sbaglio, signor Presidente.

PRESIDENTE. Nelle sue funzioni, di maggioranza pro tempore.

GIUSEPPE SCOZZARI, Relatore di minoranza. Come io sono di minoranza pro tempore, almeno spero.

PRESIDENTE. Può darsi che le cose cambino!

GIUSEPPE SCOZZARI, Relatore di minoranza. In dettaglio il relatore ha osservato innanzitutto come il nuovo articolo 513 si pone chiaramente in contrasto con il principio più volte espresso dalla Corte costituzionale relativo alla non dispersione dei mezzi di prova.
Sono segnalate infatti: la circostanza per cui è data all'imputato la scelta di quali dichiarazioni utilizzare a proprio carico; la necessità di una maggiore distinzione del trattamento processuale tra coloro che chiamano a reità e coloro che chiamano in correità, avvicinandosi la situazione processuale dei primi a quella dei testimoni e come tali impossibilitati a non rispondere; la possibilità di superare i problemi posti dal nuovo articolo 513, circoscrivendo l'opzione del rifiuto a rispondere al momento iniziale e rendendo tale opzione definitiva: se il soggetto decide di rispondere non potrà più tornare sui propri passi; la possibilità di rendere utilizzabili le dichiarazioni rese nell'udienza preliminare; la possibilità e forse la necessità di evitare la completa inutilizzabilità, a fronte di accertate violenze, minacce, offerte di denaro, oppure ove sussistano concreti elementi a conferma dell'attendibilità delle dichiarazioni; i gravissimi problemi che verranno prodotti nei meccanismi già farraginosi del processo penale dall'enorme dilatazione dell'incidente probatorio delle norme di transizione; l'inutilità e la pericolosità della norma transitoria, a fronte della constatazione che essa dispone l'utilizzabilità delle dichiarazioni se suffragate da altri elementi di prova, con la conseguenza che sulla base di mere occasionalità due soggetti siano giudicati nello stesso momento in base a criteri di prova completamente diversi.
Non accetto la motivazione dell'urgenza data dal relatore per la maggioranza ma anche da molti colleghi. Sostenendo che bisogna fare in fretta e subito, qualcuno ha detto che ci sono molti processi penali sospesi. Ritengo che il legislatore debba occuparsi non di situazioni singole o specifiche ma, nel momento in cui fa una legge, debba avere come obiettivo la generalità e l'astrattezza della stessa. La legge è destinata al complesso dei processi, al processo penale, ad un codice che deve essere astratto, generale ed obiettivo.
Non mi interessa se qualche magistrato ha sospeso qualche processo. È sbagliato sospendere processi perché la Camera sta discutendo questa o quell'altra riforma; è sbagliato perché oggi la legge esiste e bisogna applicarla. Una discussione alla Camera o al Senato non sospende l'efficacia di una legge, almeno così ho appreso all'università. La discussione in Parlamento può essere importante per il paese, per il dibattito politico nel paese, nel mondo forense o nel mondo giudiziario; non può avere efficacia esterna né forza giuridica. Nel momento in cui, cambiando gli equilibri, questa maggioranza dovesse rendersi conto che non è utile la riforma, potrebbe decidere di abortire questa riforma.
Allora, è stato grave aver sospeso dei processi in attesa che una riforma forse venisse fatta dalla maggioranza.
Mi rendo conto di dire cose poco piacevoli ai colleghi della destra; il Presidente sarà così cortese da invitarmi a concludere quando il mio tempo sarà concluso.


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PRESIDENTE. Il suo tempo è già decorso, ma io sono di manica larga, più garantista di lei.

GIUSEPPE SCOZZARI, Relatore di minoranza. In contrasto con quanto esposto, il relatore ha concluso dicendo che non avrebbe presentato emendamenti per mantenere la massima imparzialità.
Sono questi i motivi per i quali riteniamo che sia sbagliato approvare la riforma, che avrà effetti negativi nel paese e in alcuni processi importanti, una riforma che garantirà ancora soglie di impunità ad alcuni potenti di questo paese.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il sottosegretario di Stato per la giustizia.

FRANCO CORLEONE, Sottosegretario di Stato per la giustizia. Mi riservo di intervenire in sede di replica, signor Presidente.

PRESIDENTE. Il primo iscritto a parlare è l'onorevole Giuliano. Ne ha facoltà.

PASQUALE GIULIANO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, innanzitutto intendo porgere un ringraziamento personale e a nome del mio gruppo al relatore per la maggioranza Mantovano che, con grande professionalità, con grande rigore e con grande contributo di scienza ha svolto un lavoro veramente difficile. Egli è stato un punto di riferimento per tutta la Commissione, dimostrando un'imparzialità ed un rigore che gli fanno veramente onore; desidero pertanto ringraziarlo di cuore pubblicamente anche a nome del mio gruppo.
La proposta di legge che stiamo discutendo ha ricevuto in Commissione un esame approfondito, per certi aspetti anche un po' tumultuoso, al di là di certe pratiche ostruzionistiche che sono state adottate ed anche al di là di certi emendamenti che a volte hanno fatto sorgere il sospetto che chi li proponeva non si fosse reso conto della materia che stavamo trattando. Forse si è cercata una passerella, una ribalta; forse si aveva bisogno di una certa visibilità e si temeva una riforma di grande civiltà giuridica che potesse vanificare certe strategie processuali perverse, passate e in atto, che hanno preparato, o stavano preparando, carriere politiche che rischiavano di crollare da un momento all'altro. Mi riferisco alle carriere politiche nate all'ombra di certe corti, dalle quali non possono che prendere le distanze coloro i quali sono abituati a chiedere prestiti offrendo idonee garanzie e pagando i relativi interessi, coloro i quali sono abituati a vestirsi non in boutique senza pagare, ma in supermercati, pagando regolarmente senza ottenere altri vantaggi che certe posizioni illecitamente provocavano.
Al di là di questa brevissima divagazione, intendo svolgere solo considerazioni di ordine politico. Il provvedimento, ripeto, ha ricevuto in Commissione un approfondimento notevole; si è svolto in quella sede un dibattito molto qualificato. Considerazioni politiche sono state espresse da tutti i gruppi ed io mi richiamo alle stesse, anche perché sugli emendamenti si è registrata una notevole convergenza. Tuttavia, le considerazioni politiche non possono prescindere da una premessa di ordine tecnico sulla quale non si può non convenire. Il modello tendenzialmente accusatorio, in vigore dal 24 ottobre 1989, ha sancito un principio importantissimo: il diritto alla prova, di cui all'articolo 190 del codice di procedura penale. Questa disponibilità alla prova - principio che irradia tutto il codice - significa anche necessariamente un diritto al contraddittorio e un diritto alla oralità, principi di rilievo costituzionale dai quali non ci si può allontanare o che certamente non possono entrare in contrasto con qualche altro principio che non ha un vero e proprio rilievo costituzionale, anche se di fatto si è teso a costituzionalizzarlo con la famosa sentenza della Corte del 1992, che ha dato rilievo, in questo senso, ai mezzi di conservazione della prova.
Cosa si vuole in effetti raggiungere? Evitare che non vi sia un confronto


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dibattimentale - in sintesi, un principio di grande elementarietà e di grande civiltà giuridica -; evitare, quindi, che le dichiarazioni rese al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria possano assurgere a dignità di prova nel momento in cui esse vengono raccolte quando l'indagato è sicuramente in condizioni non di serenità, pertanto in condizioni di subire quel metus che può portare a risultati che certamente non coincidono o non favoriscono l'accertamento della verità.
Quindi, si tratta di un principio di grande evidenza e di grande elementarità. Si vuole dunque evitare uno sbilanciamento a favore dell'accusa e riaffermare il principio di cui all'articolo 24 sulla ineludibilità e sulla sacralità del diritto alla difesa in ogni stato e grado del processo.
Ebbene, su tale principio tutti sono d'accordo, o almeno si sono dichiarati d'accordo. Anche le considerazioni svolte dal relatore di minoranza non si distaccano da questo sostanziale accordo; considerazioni in base alle quali in effetti - forse per un mio limite - non sono riuscito a percepire le ragioni della contrarietà. Già il paragone con il decreto Biondi dimostra che si è parlato di una cosa che non si conosce. Non sono certo qui a fare il difensore d'ufficio dell'ex ministro Biondi, non ne ho né la capacità né certamente egli ne ha bisogno...

PRESIDENTE. Non è detto, al giorno d'oggi ...!

PASQUALE GIULIANO. Debbo ricordare che il decreto Biondi tese ad evitare che la carcerazione preventiva diventasse una regola del processo. Si parla di garantismo, di trasparenza, di principi costituzionali; si dimentica però questo aspetto importantissimo. E la riforma della quale stiamo discutendo tende a ripristinare un principio di civiltà giuridica che purtroppo è stato calpestato per anni e che bisogna reintegrare in maniera forte e decisa.
Se ho ben compreso, il maggior contrasto si manifesta proprio sulla norma transitoria. Tuttavia, al di là di un qualsiasi richiamo a qualche noto brocardo latino, il buon senso e l'equilibrio devono portarci a ragionare in una certa direzione. È mai possibile che, nel momento in cui si riconosce la civiltà giuridica di tale principio, nel momento in cui si riconosce la bontà di ciò che si afferma, nel medesimo tempo si nega che questo principio possa essere esteso ai procedimenti pendenti? Si avrebbe, dunque, un doppio binario, un doppio regime a seconda dell'epoca in cui un procedimento è stato avviato. Mi sembra - ripeto - al di là di qualsiasi principio che non richiamo nemmeno, una conclusione di vera e propria schizofrenia e di sostanziale indubbia ingiustizia.
Questa riforma è stata sì avversata ed è stata avversata in maniera perversa, cattiva ed arrabbiata; si sono addirittura tirati fuori dati falsi, si è gridato allo scandalo e si è innescata una campagna di stampa scandalistica. Si è per esempio affermato che questa riforma avrebbe portato alla prescrizione, alla scarcerazione. Ebbene, i dati che ci sono stati trasmessi dal ministro, che li ha raccolti corte d'appello per corte d'appello, hanno dimostrato, in maniera evidente e plateale, quanto fosse pretestuosa tale giustificazione. Il rischio di eventuali prescrizioni riguarderebbe meno di trecento processi, vale a dire lo 0,005 per cento dei processi penali pendenti. Inoltre, si tratta di una percentuale ricavata in base ad una visione acritica di quei dati; chi infatti li ha letti con attenzione verificando le annotazioni fatte a margine - come chi vi parla e l'onorevole Mantovano - ha poi dovuto concludere che le prescrizioni non sarebbero dipese da tale riforma, ma si sarebbero potute verificare per ragioni che nulla hanno a che vedere con la modifica dell'articolo 513; addirittura erano stati indicati come passibili di prescrizione reati imprescrittibili o che si sarebbero prescritti nel 2007 o nel 2010.
Venuto meno il facile alibi della scarcerazione e della prescrizione è comparso un nuovo concetto: lo scompaginamento di strategie processuali. Cosa significa tale espressione? E cosa significa la strategia


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processuale quando essa è stata effettuata con la finalità di raggiungere determinati traguardi? Di cosa si ha paura? Cosa si teme possa venire fuori? Si teme che determinate dichiarazioni e determinati interrogatori siano stati resi e raccolti in maniera non legittima, non chiara, approfittando di situazioni di vera e propria subornazione, di condizioni psicologiche senz'altro infelici?
Abbiamo assistito ad una campagna di stampa da parte dei superprocuratori «modello lusso» o «modello esportazione», che ha sollecitato varie reazioni, poi improvvisamente è calato il silenzio, perché di fronte a certe evidenze, di fronte ad un ripristino di un principio giuridico, forse la cosa migliore era il silenzio, anche se gli avvenimenti di queste ultime ore ci danno la conferma dei sospetti che ho poc'anzi esposto. Devo dire, per la verità, che da parte dell'associazione nazionale magistrati, che aveva affrontato il problema con un certo equilibrio, è venuta una reazione tutto sommata equilibrata. Si è riconosciuto che questo principio era di fondamentale importanza e civiltà, e sono giunti suggerimenti, che potevano essere accolti e discussi, ma che certamente non tendevano a demolire o a creare una vera e propria barricata per il ripristino del principio in questione.
Sulla riforma di cui si parla forza Italia si è misurata con le altre forze politiche ed ha superato certe prevenzioni che aveva posto all'inizio perché temeva che la riforma potesse scivolare. Lo ha dimostrato nel momento in cui ha accettato di discutere e di collaborare in maniera fattiva e professionalmente alta per migliorare il provvedimento laddove andava migliorato e laddove è stato migliorato con l'accoglimento di alcuni emendamenti. Verso questa riforma e verso questi principi noi esprimiamo la nostra piena e convinta adesione, nella certezza morale e giuridica che sia una riforma dovuta. Una riforma che si è fatta attendere, ma che ora il Parlamento deve affrontare sia in questa sede sia, ci auguriamo nel modo più celere possibile, al Senato, quando il provvedimento tornerà nell'altro ramo del Parlamento.

PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Giuliano, anche per la sua precisazione, che mi è sembrata opportuna.
È iscritto a parlare l'onorevole Meloni. Ne ha facoltà.

GIOVANNI MELONI. Presidente, anch'io, senza spendere troppe parole sul punto, ritengo che la riforma in esame sia necessaria ed urgente, per le ragioni esposte dai colleghi già intervenuti e perché un principio di civiltà giuridica in qualche modo la richiede e la impone.
Noi siamo del parere che se tale riforma non venisse approvata le stesse affermazioni che si fanno, ad esempio nei lavori della Commissione bicamerale, e che puntano a costituzionalizzare il principio accusatorio, sarebbero fortemente indebolite e rese poco credibili. Siamo anche del parere, per venire al testo in discussione, che la Commissione giustizia della Camera abbia svolto, rispetto al testo pervenuto dal Senato, un lavoro che non esito a giudicare molto importante, un lavoro di precisazione e di completezza che a nostro avviso deve essere valorizzato al massimo.
Detto questo, e senza volermi ulteriormente dilungare sul punto, credo che dobbiamo anche tenere conto dei problemi che il passaggio ad un altro regime comporta. Onorevole Giuliano, ho ascoltato con molta attenzione ciò che lei ha detto e quanto si afferma in questi giorni a proposito della norma transitoria, che è la questione più discussa.
A me sembra si possa pacatamente ragionare sul fatto che la questione non è se i processi che sono interessati corrispondono allo 0,05 per cento dei processi penali pendenti, quanto piuttosto quali processi sono interessati e quali possono essere gli esiti in relazione a certi processi, processi di mafia, processi che riguardano le indagini sulla corruzione.
Se la riforma così come è ipotizzata afferma un principio di civiltà giuridica, è


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assolutamente necessario che esso entri in conflitto - possiamo noi accettare che esso entri in conflitto - con l'altro, che è quello che la giustizia segua, effettivamente, il suo corso, segnatamente per le questioni che hanno maggiore rilevanza per la società? È necessario che questi due principi - credo entrambi indiscutibili per tutti - entrino in conflitto o c'è la possibilità di trovare una soluzione?
Io credo che tale soluzione vada cercata. Noi - faccio solo un esempio - ne discuteremo in sede di esame degli emendamenti. Rispetto ad un certo tipo di criminalità sappiamo bene che potrebbe risultare impossibile che le prove acquisite vengano acquisite nuovamente. Sappiamo bene che è possibile che, in processi di questo genere, atti di violenza o di minaccia impediscano che le prove acquisite in precedenza possano essere nuovamente acquisite nei processi che devono essere ancora celebrati.
Si può, per esempio, introdurre una correzione per tener conto del fatto che sono eventualmente intervenuti atti di violenza o di minaccia o anche una «campagna acquisti» nei confronti di soggetti che possono a questo essere particolarmente esposti.
Credo che in tale ottica si possa tentare di trovare un punto di equilibrio che consenta di salvare, senza far entrare in conflitto i principi, tutto quello che è necessario salvare, perché processi particolarmente delicati non abbiano a subire una sostanziale vanificazione.
Abbiamo ferma intenzione di lavorare in questa direzione e ci aspettiamo che su tale terreno si possa tutti insieme convergere: ci sembrerebbe una vittoria importante di tutti, se così riuscissimo a fare.
Nel momento in cui è confermato ciò che tutti sappiamo e cioè che, nonostante i meriti che la magistratura ha acquisito nel particolare campo della lotta contro la corruzione, la corruzione continua - vi sono segnali importanti che lo confermano -, può questo Parlamento assumere una decisione che possa anche solo parzialmente presentarsi come lassista rispetto al problema? Credo che questo sarebbe fortemente sbagliato. Ritengo infatti che non vi sia bisogno di far entrare in conflitto quei principi per evitare tale esito. So bene che i principi antichi, ed in particolare quello al quale faceva riferimento poc'anzi l'onorevole Giuliano, relativo al tempo che regge l'atto, sono importanti e non chiedo certamente che siano cancellati. Mi pare possibile, attraverso l'esame degli emendamenti, trovare una soluzione unitaria che porti a salvaguardare con forme particolari le prove acquisite, conducendo i giudici ad una valutazione che consenta che i processi non vengano compromessi dalla riforma.

PASQUALE GIULIANO. Doppio regime, allora?

GIOVANNI MELONI. Non sto parlando di un doppio regime, ma di soluzioni intermedie; ci siamo impegnati a presentare alcuni emendamenti che vanno in questa direzione e che, proprio per quanto sto dicendo, pregherei i colleghi di valutare all'interno dello sforzo che credo debba essere compiuto. Non mi sembra impossibile raggiungere questo risultato; mi sembra invece difficile sostenere rigidamente il principio del tempus regit actum, pretermettendo ogni considerazione su quanto in questo caso potrebbe determinare l'applicazione rigida di questo principio.
Non voglio entrare nel merito degli emendamenti che abbiamo presentato, cosa che farò nella fase della loro illustrazione, ma ritengo che si possa trovare una soluzione. Il principio che deve essere rispettato è un altro. Vi è stata una norma che ha consentito ai giudici di svolgere le indagini in un certo modo perché la norma diceva quello che diceva; certamente, anche la sentenza...

SERGIO COLA. Il magistrato, non il giudice!

GIOVANNI MELONI. Mi riferisco al giudice ed alla norma perché, quando interviene la sentenza della Corte costituzionale, la norma va intesa in quel modo


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perché alla sentenza della Corte non ci si può sottrarre: dunque è quella la norma. Quindi la norma era quella ed il magistrato, ma poi in realtà anche il giudice (perché è quest'ultimo a dover valutare la prova)...

SERGIO COLA. È quello il guaio!

GIOVANNI MELONI. Certo. Il giudice si trovava a fare i conti, nella propria attività, con quella norma. Adesso noi cambiamo la regola ed è giusto che ciò avvenga: sarebbe assurdo sostenere che, siccome vi sono sempre dei giochi aperti, non si possono cambiare le regole quando si sta giocando. In realtà non si cambia la regola se non giocando; tuttavia mi sembra che nella ricerca di una soluzione dobbiamo tener presente la considerazione che il magistrato ha impostato l'indagine in un certo modo perché così stabiliva la norma, interpretata o meno dalla Corte costituzionale.
In conclusione credo che la soluzione possa essere trovata e che sarebbe estremamente importante se riuscissimo a farlo tutti insieme ed a pervenire ad una riforma della materia.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Borghezio. Ne ha facoltà.

MARIO BORGHEZIO. Vorrei innanzitutto precisare che l'unico ed esclusivo fine dell'atteggiamento che il gruppo della lega nord per l'indipendenza della Padania ha deciso di assumere nei confronti di questo provvedimento è quello di evitare ogni possibile pericolo che le nuove norme in materia danneggino indebitamente i numerosi processi in atto per i reati di corruzione, che devono poter essere celebrati regolarmente e senza intoppi (ci corre qui l'obbligo di sottolineare la gravità del fatto che nell'attuale situazione dell'ordinamento giudiziario i processi non vengano celebrati). Riteniamo soprattutto che si debba evitare con il massimo scrupolo, anche correndo il rischio di sacrificare qualche pur importantissimo principio di civiltà giuridica, che la celebrazione e la prosecuzione di tanti importanti processi contro la criminalità organizzata venga sospesa, danneggiata o annullata.
Dal punto di vista politico ci corre inoltre il dovere di sottolineare il fatto quanto meno stupefacente che Polo ed Ulivo (o, almeno, la grandissima parte dei due schieramenti, perché mi pare che le voci discordi siano estremamente esigue) siano riusciti in un termine sostanzialmente molto breve a trovare un accordo ideale su un tema pur così spinoso e delicato come quello che, come abbiamo ascoltato questa sera nel corso del dibattito, coinvolge principi fondamentali del processo, di civiltà giuridica. Ci sembra un po' strana questa sintonia improvvisamente trovata fra parti politiche che non più tardi di alcuni mesi fa (poco più di un anno) si sono scontrate in maniera così aspra su un tema fondamentale come quello della giustizia. Questo basta a determinare il nostro atteggiamento di grandi diffidenza ed attenzione critica. Sono questi, e non altri, i motivi che ci hanno indotto ad attivarci per riportare in Assemblea la discussione sul progetto di legge che riforma l'articolo 513 del codice di procedura penale.
Secondo il testo attualmente in vigore il giudice può dare lettura in aula delle dichiarazioni rese in istruttoria dai testimoni, dagli imputati di reato connesso o dai collaboratori di giustizia qualora non sia possibile ascoltarli nel corso del dibattimento. Si tratta di una disciplina che è stata ritenuta un ostacolo alla ricerca della verità, adducendo il fatto che la prova è costituita in buona parte dalle dichiarazioni non rese nell'esame incrociato condotto da accusa e difesa davanti al giudice, ma per così dire sigillate in verbali di interrogatorio acquisiti in maniera unilaterale dal pubblico ministero o dai funzionari della polizia giudiziaria.
Sulla base di queste considerazioni, anche in forza di un dibattito sicuramente importante e degno della massima attenzione della dottrina, si è ritenuto necessario riformare l'articolo de quo prevedendo che il coimputato, o l'imputato di


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reato connesso, sia tenuto a riconfermare nel dibattimento quanto già rivelato al pubblico ministero sul conto dell'imputato all'inizio della vicenda, durante l'indagine o nella cosiddetta udienza preliminare, pena l'inutilizzabilità delle sue dichiarazioni. In pratica, chi accusa qualcuno di fronte al PM dovrà poi ribadire le sue dichiarazioni in un'aula di tribunale, presenti gli avvocati difensori dell'imputato, che potranno così esercitare il loro diritto di controinterrogarlo.
Ma la riforma - che, ripeto, forze politiche ritenute così inconciliabili, così impermeabili le une alle altre vogliono concordemente far passare - non sembra tenere in considerazione il fatto che la norma, dettata tra l'altro dall'emergenza antimafia, ha pur costituito un'arma efficace per contrastare la criminalità organizzata.
Qui voglio aprire una parentesi. Abbiamo svolto fino adesso una serie di considerazioni importanti, ma, tranne qualche velato accenno, mi è sembrato che non vi sia stata da parte di tutti la consapevolezza che stiamo discutendo di norme che dovranno essere applicate in processi di criminalità organizzata, nei quali si verificano fatti di intimidazione a testimoni, che attengono più al far west che non ad un paese democratico occidentale. Stiamo parlando in un'aula parlamentare di uno Stato che qualche giorno fa ha deciso di mandare l'esercito a presidiare una delle sue regioni. Non stiamo parlando di norme che devono essere applicate in Svezia o in Svizzera. Questo sia detto tra parentesi.
Dicevo che si tratta di una norma efficace perché consente la lettura delle dichiarazioni rese al pubblico ministero (e quindi la loro utilizzabilità nel processo) anche dalle persone dissociate dai reati di criminalità organizzata, che tuttavia decidono in seguito di ritrattare le proprie dichiarazioni a causa delle minacce o delle pressioni indebite cui vengono sottoposte.
Questi sono i motivi delle preoccupazioni che sono al centro della nostra attenzione e in ordine alle quali sono stati rivolti i numerosi emendamenti che abbiamo presentato.
Riteniamo che la parziale correzione apportata durante l'esame in Commissione all'articolo 3 non sia convincente, perché inserisce nel dibattimento le prove assunte con l'incidente probatorio o nell'udienza preliminare da coimputato o imputati di reato connesso, solamente nei confronti degli imputati i cui difensori abbiano partecipano alla relativa assunzione. Ne deriva che tali dichiarazioni avranno dignità di prova e saranno utilizzabili solo se in quella sede la difesa era presente a tutela dell'imputato.
Ma i dubbi prevalenti sorgono in noi dalle ripercussioni che la nuova disciplina così disegnata avrà sui processi in corso (ne facevo cenno in premessa), determinando il rischio di tante condanne inique in forza di prove raccolte nel segreto delle indagini preliminari. Si sarebbe potuto scegliere infatti, a nostro avviso, una via più opportuna, rendendo utilizzabili, anche solo a livello dei dibattimenti in corso, le dichiarazioni già rese durante l'attività inquirente della pubblica accusa, ma non confermate durante il processo dibattimentale perché i dichiaranti si sono rifiutati di rispondere e di ripetere le accuse, a seguito di minacce ed intimidazioni. È prevalsa una linea diversa, da parte di gruppi che hanno determinato la bocciatura di emendamenti diretti proprio a salvare in ogni caso i verbali dei testimoni e dei coimputati oggetto di minacce prima del dibattimento. E questo - ripeto - è uno degli aspetti più inquietanti di questa norma, sui quali riteniamo doveroso assumere un atteggiamento critico, di controllo e di contrasto, se necessario anche ricorrendo a forme parlamentari di ostruzionismo.
La formula di compromesso prescelta in Commissione prevede che per i processi pendenti le dichiarazioni non confermate al dibattimento potranno essere utilizzate solo se altrimenti riscontrabili - con una formulazione, quindi, molto dubbia - e poi con il «contentino» finale, che sembra un escamotage per sedare le polemiche

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circa il rischio di lungaggini processuali e quindi di prescrizione, del congelamento per sei mesi dei termini di prescrizione. Quindi, bloccando il percorso dei processi aperti, per dar tempo - da non conteggiarsi ai fini dei termini - a questa riacquisizione delle prove secondo il principio del contraddittorio. Ma non occorre essere degli addetti ai lavori, è sufficiente essere un signor Brambilla di turno (parlo di un signor Brambilla che abbia avuto, per sua sfortuna, la ventura di essere protagonista di vicende come quelle che accadono a qualsiasi cittadino della nostra Repubblica, che si trovi ad essere protagonista di un procedimento giudiziario) per rendersi conto che a fronte dei tempi della giustizia, che è eufemistico definire biblici, un termine di questo genere risulta a colpo d'occhio angusto per mettere al riparo dalla prescrizione processi di grande importanza e rilievo come quelli che stanno a cuore della generalità, all'interesse diffuso, allo sguardo direi preoccupato dell'opinione pubblica, dei cittadini, dei contribuenti di questo Stato, della gente onesta e pulita che guarda ai nostri lavori e ci chiede di essere tutelata in questi diritti fondamentali perché dovrebbero preservare lo Stato di diritto e il principio di legalità. Diritti importanti al pari di quei principi nei cui confronti tutti noi (ed io in particolare) ci inchiniamo, e che tuttavia devono essere adeguatamente contemperati con queste esigenze.
In conclusione, ricordo che i processi interessati dal provvedimento in esame sono oltre 900, 262 dei quali sono a rischio di prescrizione e 180 a rischio di scarcerazione. Tenendo conto della gravità e dell'importanza di alcuni processi a carico della criminalità organizzata di stampo mafioso, questi dati sono sufficienti a determinare l'atteggiamento di forte opposizione della lega nord per l'indipendenza della Padania.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Cola. Ne ha facoltà.

SERGIO COLA. A quest'ora sarebbe veramente un fuor d'opera intrattenersi sulle tematiche che sono state così ben esposte dal relatore per la maggioranza e contrastate in modo altrettanto compiuto dal relatore di minoranza.
Mi limiterò a fare qui alcune notazioni di carattere politico, dopo aver ascoltato la relazione di minoranza e alcuni interventi, in particolare quelli dell'onorevole Giuliano e Meloni.
Con riferimento all'intervento dell'onorevole Scozzari devo dire che è veramente un miracolo, un miracolo che forse ci lascia sperare per il futuro, il fatto che oggi ci troviamo di fronte a una maggioranza (che è molto consistente, se è vero che raggiunge quasi il 90 per cento dei componenti della Camera): una maggioranza che non coincide con quella del Governo ma con quella della coscienza delle persone veramente probe sotto tutti i punti di vista, delle persone non forcaiole, delle persone non giustizialiste, che hanno l'accertamento e l'affermazione della verità, secondo determinati criteri, al di sopra di tutto e di tutti. Come questa maggioranza inorgoglisce me così dovrebbe inorgoglire tutti coloro che ne fanno parte. È una questione di civiltà!
All'onorevole Scozzari, che non è qui presente e che ho sempre stimato e apprezzato per l'approfondimento delle tematiche in materia di giustizia, debbo dire che oggi forse egli mi ha deluso perché a me è sembrato parlare non in nome proprio ma in nome e per conto di altri. Mi è sembrato sostenere delle tesi che ho sentito affermare da parte di alcune procure della Repubblica. Ebbene, egli le ha ripetute negli stessi termini. Si tratta di tesi che non riguardano affatto il principio di civiltà giuridica che vorremmo affermare con la modifica dell'articolo 513 del codice di procedura penale; tesi assai meschine e che riguardano fatti contingenti. Quasi quasi sembra che si stia per riformare questo articolo 513 per fare un piacere a qualcuno. Non è questa la mentalità, non è questo lo spirito che devono caratterizzare chi vi sta parlando e quanti fanno parte di questa maggioranza,


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che raggiunge quasi il 90 per cento. Noi siamo qui solamente per affermare dei principi di civiltà giuridica.
Ritengo che una democrazia possa proclamarsi compiuta nel vero senso della parola quando combatte le illegalità non attraverso altre illegalità, ma quando, nel combattere le illegalità, mette a disposizione anche di chi vuol travolgere la democrazia gli strumenti di garanzia della democrazia stessa. Anche nella fase dell'emergenza tutto questo secondo me si deve verificare. Perciò non posso assolutamente condividere determinate impostazioni come quella dell'onorevole Meloni, che qualche secondo fa a proposito non dico della conservazione della prova, ma della esigenza nel periodo transitorio di dover rispettare le regole, sostiene che il magistrato, e io dico il pubblico ministero, che ha acquisito una prova nel corso delle indagini preliminari nell'ambito di quanto previsto dall'articolo 513 così come formulato fino ad oggi, non può essere deluso, non può essere disarcionato.

GIOVANNI MELONI. Non il magistrato...

SERGIO COLA. No, e sa per quale motivo? Per un motivo molto semplice: il pubblico ministero che acquisisce una prova nell'ambito delle indagini preliminari per norma si dovrebbe aspettare che questa circostanza accusatoria - non la definiamo prova, perché la prova si forma in dibattimento e nel contraddittorio delle parti - sia sottoposta a verifica, soprattutto alla presenza del difensore e nell'ambito del contraddittorio delle parti, ad esame ed a controesame per evidenziarne le lacune, la non affidabilità, la non attendibilità. Forse il pubblico ministero, che aveva acquisito una prova nell'ambito dell'attuale formulazione dell'articolo 513, si aspettava che il dichiarante si rifiutasse di rispondere perché questa prova poi entrasse nel processo senza essere sottoposta ad alcun tipo di controllo? Mi pare non sia questo il discorso, non sia questa la logica che ha potuto ispirare il pubblico ministero con questo tipo di regime. Si è trattato invece di una logica di civiltà giuridica. In altre parole, il pubblico ministero, che ha acquisito quella prova, si aspettava che essa fosse sottoposta a controllo nell'ambito del dibattimento e certamente non che fosse acquisita a fronte del rifiuto. È un discorso di una tale chiarezza da non ammettere alcun tipo di replica.
Perché allora si vuol dire che un imputato, che ha avuto la disavventura di essere condannato sulla base di una prova acquisita nella fase delle indagini preliminari ed immessa nella fase processuale attraverso il rifiuto, non sarebbe soggetto, con il processo ancora pendente, ad una disparità di trattamento inammissibile? Per quale ragione? Per salvare dei processi che forse hanno sancito la condanna di qualche politico o di qualche personaggio che interessa all'opposizione o interessa alla maggioranza? Ciò è vergognoso, è scandaloso, è contro ogni principio di uguaglianza e di civiltà giuridica. Mi rifiuto di fare un ragionamento del genere. Se vogliamo sviluppare un ragionamento più alto, dobbiamo affermare un principio di civiltà senza alcun tipo di eccezione.
Vorrei andare al di là di queste affermazioni. Si è parlato del principio della conservazione della prova. Non possiamo non ritenere prevalente l'altro principio, quello dell'acquisizione della prova nel contraddittorio delle parti, non possiamo non ritenere prevalente l'articolo 24 della Costituzione, non possiamo non ritenere prevalente quanto sancito dall'articolo 6, comma 3, lettera d), della Convenzione europea dei diritti dell'uomo nella parte in cui riconosce il diritto dell'accusato ad interrogare o far interrogare i testimoni a carico e ad ottenere la convocazione e l'interrogatorio di quelli a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico.
Presidente, ho presentato una proposta di legge per far sì che questo tipo di illegalità che, se è servita forse a superare o a limitare i danni di una fase di emergenza, non è certamente servita per affermare la nostra civiltà giuridica. Ho fatto una proposta di legge nella quale


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propongo l'ampliamento dei casi di revisione quando vi sia una condanna da parte dell'Alta corte di giustizia. Come ella mi insegna, signor Presidente, forte della sua preparazione ed esperienza, di fronte alla sentenza passata in giudicato e quindi di fronte al pronunciato di legittimità della Corte di cassazione, non abbiamo strumenti per reagire. Quante volte lei, io e quanti praticano quotidianamente le aule di giustizia abbiamo avuto modo di leggere sentenze della Corte di cassazione scandalose nelle quali si ribadiva il fatto di calpestare i diritti dell'individuo! Ho presentato quella proposta di legge proprio per porre un riparo a tale situazione e ne chiederò quanto prima la procedura d'urgenza, vista la situazione che si registra nel nostro paese. L'Italia è al primo posto tra i paesi dell'Unione per le condanne dell'Alta corte di giustizia che fino ad ora sono state 814; segue poi la Francia, a grande distanza, con 114 condanne e poi ancora la Germania con 14 condanne. Ho richiamato questi dati per dimostrare come vengano calpestati quotidianamente i diritti del cittadino.
Lasciamo stare dunque la politica, lasciamo stare gli interessi di bottega e cerchiamo di fare i legislatori nel vero senso della parola. Se vogliamo ottenere questo obiettivo, non possiamo che farlo affermando in ogni occasione determinati principi di civiltà giuridica; a quello sancito dall'articolo 513 non potremo giammai rinunciare.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Li Calzi. Ne ha facoltà.

MARIANNA LI CALZI. Signor Presidente, poiché sono impegnata in altra sede e anche al fine di non sconvolgere l'ordine degli interventi, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto stenografico della seduta odierna del testo del mio intervento.

PRESIDENTE. La Presidenza lo consente.
È iscritto a parlare l'onorevole Miraglia Del Giudice. Ne ha facoltà.

NICOLA MIRAGLIA DEL GIUDICE. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la riforma dell'articolo 513 del codice di procedura penale aveva trovato l'assenso quasi unanime in Commissione giustizia e soltanto eventi successivi presso l'opinione pubblica hanno fatto sì che alcuni deputati raccogliessero le firme per portare il provvedimento, che la Commissione aveva valutato attentamente (poiché tutti gli emendamenti presentati erano stati discussi e votati), al cospetto dell'Assemblea per arrivare ad una decisione.
Ancora una volta quindi si è inserita l'opinione pubblica in una discussione che doveva affrontare il Parlamento e che aveva per oggetto i diritti fondamentali della libertà della persona, primo tra i quali la libertà nel processo penale, quasi che l'opinione pubblica potesse distinguere tra un giusto processo ed uno non giusto con riferimento ad una norma del codice di procedura penale. L'opinione pubblica però è un concetto astratto perché, se si frantumasse in tanti singoli cittadini e ciascuno fosse oggetto o soggetto del processo penale (trovandosi in un'aula a difendersi da accuse alle quali non può neppure rispondere perché la persona che lo accusa non è presente in aula), non so se potrebbe continuare a sostenere che la modifica dell'articolo 513 è stata richiesta solo per salvaguardare determinati interessi criminali.
Se spiegassimo ai singoli cittadini il significato dell'articolo 513 ed i motivi per i quali vogliamo modificarlo, penso che nessuno potrebbe affermare che stiamo commettendo un errore. Dobbiamo invece evitare che si commettano errori ed orrori di carattere giudiziario, dobbiamo evitare che la prova si formi soltanto nelle stanze del pubblico ministero, senza che la difesa abbia la possibilità di controbattere alle dichiarazioni accusatorie di collaboratori di giustizia.
Dobbiamo evitare che si possa arrivare ad una sentenza di condanna che penalizzi la persona nel bene forse più importante, la libertà personale, senza che a questa persona sia data la possibilità di


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difendersi in un contraddittorio, che rappresenta il principio di civiltà nel processo penale.
La relazione dell'onorevole Mantovano, cui va una testimonianza di affetto e gratitudine perché sia in Commissione sia in Assemblea ha presentato una relazione ben motivata, ha preso in considerazione tutti gli aspetti relativi all'articolo 513, la cui modifica è stata valutata con grande serietà in Commissione; a mio avviso, non c'erano neppure gli elementi per portarla all'esame dell'Assemblea, trattandosi di una norma di giustizia. Tanto varrebbe, altrimenti, tornare al vecchio giudice istruttore; è inutile parlare del nuovo processo penale, dove la prova si forma nel dibattimento: sarebbe stato meglio tornare al vecchio sistema inquisitorio dove il giudice istruttore - almeno un giudice, non un pubblico ministero, che è una parte - acquisiva le dichiarazioni che poi costituivano prova, ma con altri sistemi di garanzia.
Con il nuovo processo penale abbiamo voluto fare un passo avanti e ci siamo invece trovati a fare due passi indietro, perché in quel caso il giudice istruttore era giudice terzo, che raccoglieva la prova; in questo caso c'è una parte, il pubblico ministero, che raccoglie la prova e la porta in dibattimento e questo atto, che dovrebbe essere fonte di prova, diventa prova, perché la persona che dovrebbe confermare le dichiarazioni non si presenta ed alla difesa non è data la possibilità di controbatterle.
La norma, così come modificata, rappresenta un segnale di civiltà e giustizia ed è per questo motivo che il gruppo del CCD non ha presentato emendamenti e voterà senza esitazioni la modifica dell'articolo 513 del codice di procedura penale.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Carotti. Ne ha facoltà.

PIETRO CAROTTI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, ricordo che, quando iniziò il dibattito che è durato circa un decennio sulla necessità di introdurre un rito accusatorio ritenuto realizzazione dei principi costituzionali più aderenti ai retropensieri dei padri costituenti, si era giunti ad una accesissima discussione dottrinaria per vedere quale fosse il punto di incontro tra alcune fasce di inquinamento inquisitorio che comunque permanevano nella legge delega e quali invece gli elementi di portata innovativa dirompente che potessero spendere in termini giuridicamente moderni un tasso di accusatorietà che riuscisse a qualificare l'intero sistema.
Come molti di noi, ho partecipato a riunioni, tavole rotonde, dibattiti, conferenze e quant'altro, e ricordo che tutti gli operatori, di qualunque estrazione culturale, avevano espresso la diagnosi, purtroppo naufragata perché spesso solo la storia supera la logica in senso negativo, che il principio di oralità e di formazione dibattimentale della prova fosse il segnale decisivo che faceva considerare passato ormai alla storia giuridica e alla buia tradizione medievale il portato di una cultura che aveva prodotto norme processuali in un periodo caratterizzato da autoritarismo e da principi ritenuti superati con la Costituzione repubblicana.
Il principale conforto che trovo nella mia esposizione, conscio che la mia pretesa può naufragare nella realtà, è la speranza di far riflettere coloro i quali ritengono invece che non sia possibile intervenire mentre il gioco è in atto - rubo la metafora all'onorevole Meloni - se non attraverso l'introduzione di una norma transitoria che comunque cerchi di conciliare questo periodo di passaggio tra un recupero di civiltà e una fase che ha caratterizzato un'emergenza che deve essere cancellata.
La coerenza ed anche, per così dire, la prospettiva, il senso di insieme, l'obbligo per il legislatore di produrre norme rispondenti non soltanto all'esigenza processuale in termini riduttivi, cioè mirata alla presenza di alcuni procedimenti, è affermazione che mi ha lasciato piuttosto perplesso. Ricordo che nelle aule universitarie abbiamo imparato che tanto più grave è il reato, tanto più rigorosa deve essere la prova. Non credo che si possa


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combattere la criminalità, neppure quella organizzata, attraverso un abbassamento della soglia di accertamento della verità. Se così fosse, vi sarebbe una confusione di idee che andrebbe veramente risolta. Si arriva a far interferire la fase sostanziale con la fase processuale; ciò riporta molto indietro il dibattito giuridico rispetto al quale il nostro paese, grazie anche ad interventi di giuristi che hanno fatto la nostra storia negli ultimi trenta, quaranta anni, ha fornito un contributo che ci pone addirittura a livelli di avanguardia sotto questo aspetto nei confronti dei paesi d'oltreoceano e dei paesi europei.
Mi scuso se dovrò fare dei riferimenti, anche perché non utilizzerò tutto il tempo che ci è stato assegnato. Quella a nostro esame è una materia fondamentale che a mio avviso misura anche, ma non solo, scelte di tipo politico; al riguardo condivido l'affermazione di chi ha detto che in questo settore non si può parlare di logica di schieramento. Qui sono in gioco principi che vanno osservati in maniera orizzontale, secondo la propria visione, la propria coscienza, la propria scienza ed anche la propria consapevolezza di fornire un servizio di restituzione alla normalità che in tema di diritti è fondamentale per qualunque paese abbia pretese di appartenere ad un consesso civile.
La legge delega, all'articolo 2, comma 3, faceva riferimento alla partecipazione dell'accusa e della difesa, su basi di parità, in ogni stato e grado del procedimento (intendendo con ciò ovviamente anche la fase delle indagini preliminari, altrimenti la terminologia sarebbe stata diversa). Questo è un principio che viene persino recepito nella riforma della seconda parte della Costituzione, che approveremo in tempi ragionevoli e che comunque ci pone l'obbligo di legiferare in senso che non sia anticostituzionale prima ancora che la riforma venga varata. Infatti, al quarto comma dell'articolo 119, così come previsto nel progetto di legge costituzionale - è vero che siamo a livello di semplice proposta che potrà essere modificata dall'Assemblea - si legge che il procedimento si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità, secondo il principio della oralità e davanti a giudice imparziale. Segnalo per la memoria dell'Assemblea e per coloro che non sono addetti ai lavori che in maniera ragionata si è usato il termine «procedimento» e non «processo», proprio per comprendere anche quella fase nella quale il contraddittorio, cioè il segmento processuale pubblico ancora non è venuto a giuridica esistenza.
Ebbene, siamo convinti che sia un principio di civiltà, tanto che rimettiamo mano alla Costituzione per elevarlo a livello di costituzionalità, quello per il quale vi debba essere una partecipazione in condizione di assoluta parità anche nella fase procedimentale per quanto riguarda il punto fondamentale di ogni processo penale, cioè quello della raccolta della prova. Sul principio susseguente sarebbe forse stato opportuno intervenire in questa sede; probabilmente il difetto fondamentale del legislatore è quello di non avere mai una visione organica in relazione a determinate riforme che potrebbero toccare e ritoccare alcuni principi, che sono come dei vasi comunicanti, come un equilibrio di forze, per cui non è possibile attingere ad uno senza provocare conseguenze più o meno dannose, più o meno favorevoli, rispetto agli altri punti che sono invece ignorati e rimandati sempre ad altro esame. Mi riferisco all'altro principio sancito del diritto alla prova. Vassalli diceva che ci si difende provando, però bisogna avere un diritto alla prova che, in un regime accusatorio, sia posto in condizione di parità rispetto alla possibilità dell'accusa. Il discorso che ne è derivato e che poi ha catturato l'interesse del dibattito politico su questa materia, che fa riferimento sostanzialmente alla parte della transitorietà della disciplina che dovremmo andare a sconvolgere, a mio avviso presenta dei vizi concettuali di fondo che debbono essere tenuti presente da coloro i quali ritengono si debba intervenire attraverso la salvaguardia di un preteso principio il cui livello costituzionale è tutto da discutere, tanto che saggiamente, in coerenza con il comma 3 dell'articolo 2, la parte normativa

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del nostro codice processuale non prevedeva affatto la possibilità di utilizzare le dichiarazioni di imputato di reato connesso o collegato quando questi si rifiutava di rispondere, quindi, tutto sommato, esercitava un sacrosanto diritto, che è anche quello al silenzio.
Nel 1992 è intervenuta la Corte costituzionale arrivando a lacerare - secondo me - un tessuto che ha mal resistito perché era stato disegnato per altre vicende processuali e per altri principi. Si è così giunti a rendere indispensabile un intervento che non posso leggere in sintonia con l'onorevole Meloni - che pure stimo in maniera somma - il quale addirittura, con un'affermazione alquanto discutibile, ha affermato che non si tratta tanto di un problema di verifica statistica dei procedimenti ai quali andiamo ad attingere, quanto di una verifica elettiva per vedere quali procedimenti sarebbero stati toccati dall'eventuale riforma. Un legislatore che si pone il problema di quali processi possano essere interessati da una riforma ha un'idea molto confusa della divisione dei poteri. Noi dobbiamo predisporre leggi che valgano per tutti, per tutti i processi, per tutti i reati e per tutti i cittadini. I giudici, poi, valuteranno come applicare le norme, che noi approviamo, nelle singole realtà; ovviamente è una ricerca, non certo della verità, poiché questa compete al Padreterno, ma di ciò che noi chiamiamo la certezza.
Ricordo di aver letto con molta angoscia, ma anche con piacere la pubblicazione degli atti integrali del processo agli untori. Chiedo scusa ai colleghi se mi abbandono a qualche reminiscenza, che è comunque utile.

PRESIDENTE. Tanto siamo in famiglia...!

PIETRO CAROTTI. Ho la consolazione, Presidente, che, a fronte della possibilità astratta di annoiare 630 colleghi, in effetti ne annoio solo una decina, considerato che gli altri sono tutti assenti. Vado quindi avanti tranquillamente: vorrà dire che gli appassionati della questione avranno la pazienza di leggere il resoconto stenografico.
Ebbene, già ai tempi di Irnerio da Bologna, di Farinaccio e di altri, si segnalava quanto fosse presente la necessità di assoluta diffidenza nei riguardi della chiamata in correità. Tanto è ciò vero che per arrivare a far assumere diritto, dignità e livello di prova alle dichiarazioni - e parlo di processi del 1630 - nei riguardi della persona chiamata in correità o, peggio ancora, indicata in reità, vi era addirittura la possibilità di ricorrere alla tortura. Si riteneva cioè che fosse talmente sospetta la fonte di provenienza che, se l'accusa non veniva confermata attraverso l'applicazione «de li tormenti» - come venivano definiti allora - non vi sarebbe stata la possibilità di utilizzare...

PRESIDENTE. Potete presentare un emendamento...!

PIETRO CAROTTI. ... la dichiarazione resa nella fase che precedeva quell'ulteriore appendice pseudo-pubblica che era tipica del processo dell'epoca.
Ovviamente oggi abbiamo un'attenzione particolare, siamo di fronte, vorrei dire, all'indispensabilità di risarcire una situazione paradossale che si è verificata soltanto nel nostro paese. Non esiste esempio di rito accusatorio, nemmeno mediato qual è il nostro, nel quale vi sia la possibilità di riciclaggio in chiave probatoria di quello che avrebbe dovuto essere un esclusivo elemento investigativo.
Ricordo all'Assemblea che addirittura si ponevano dei filtri persino nel dibattito che precedeva l'entrata in vigore del codice di procedura penale, circa la possibilità di utilizzare e di considerare nell'udienza preliminare ai fini della decisione sulla sentenza di non luogo a procedere, prova piena, indizio o quant'altro, tutto il materiale raccolto nella parte delle indagini preliminari, che veniva affidato al segmento assolutamente privo di contraddittorio. Oggi, ci troviamo con un'interpretazione della Corte costituzionale che ha aperto orizzonti senza confini all'accusa. Trovo di scarsa consistenza


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l'obiezione circa il pericolo di vedere oggi sottoposto a minaccia, a violenza o a promessa di denaro, quell'imputato di reato connesso il quale abbia rilasciato dichiarazioni e che oggi potrebbe ricevere una pressione, che renderebbe inquinata o sospetta la sua reiterazione nella fase dibattimentale.
Vorrei rivolgere una domanda ai miei illustri contraddittori, entrando anche nel merito di processi attuali, senza fare riferimenti che possano far sorgere il sospetto di indicazione politica. Richiamo, per esempio, il procedimento, le indagini preliminari che si stanno svolgendo presso la procura di Roma a proposito dell'omicidio compiuto all'università La Sapienza. Mi domando quanti di noi sarebbero paghi di vedere condannati o assolti quei due indagati sulla scorta di dichiarazioni rese da imputati di reati connessi, senza che i difensori avessero avuto - per avventura - la possibilità di controinterrogare e di vedere i testi, che sono fondamentali, confrontarsi in una cross examination degna di tale nome. Così come, proprio per evitare il pericolo che vi fosse in futuro una sottoposizione a pressione, già il nostro legislatore del 1989 aveva disegnato nella norma che prevedeva l'incidente probatorio una possibilità che secondo me era un'indicazione di correttezza per la procura della Repubblica che svolgeva indagini, segnatamente nei processi di mafia, di corruzione e, vorrei aggiungere, in quelli per rapina, estorsione, sequestro di persona. Noi abbiamo una specie di monodirezione su tutte le linee interpretative che dietro ai processi vedono soltanto delle persone. Io non sono abituato a questo. Per mia fortuna, avendo sempre esercitato nella materia penale, mi sono abituato a vedere soltanto le carte, perché se dovessi essere coinvolto dal punto di vista emotivo dovrei certamente cambiare mestiere, un po' come il medico che, se fosse coinvolto, avrebbe il bisturi che trema.
Chiedo allora se sia vero o meno che l'incidente probatorio, già come è adesso vigente, consentiva alla procura della Repubblica la possibilità di anticipare il segmento di contraddittorio quando vi erano fondati motivi che la prova raccolta in epoca successiva fosse inquinata da minaccia, da violenza o, comunque, da altri elementi che non consentissero un'acquisizione genuina. Credo sia patrimonio culturale di noi tutti la constatazione che l'incidente probatorio come istituto è andato verso il totale fallimento proprio perché vi è stata la possibilità per la procura della Repubblica di utilizzare le attività di indagine che venivano svolte all'interno del regime, questo sì, vetero-inquisitorio, senza bisogno di ricorrere all'incidente probatorio. Infatti, questo meccanismo, che consentiva l'acquisizione degli interrogatori e di avvalersene poi in fase dibattimentale tutte le volte in cui vi era la possibilità che l'indagato di reato connesso si avvalesse della facoltà di non rispondere, è un sistema che dobbiamo assolutamente respingere.
Tanto più dobbiamo respingerlo quanto più sono gravi i processi interessati, come dicevo prima ricordando quello che ormai è patrimonio comune, ossia che la gravità del reato deve acuire la ricerca della verità e, quindi, l'affermazione di responsabilità deve essere agganciata ad un'argomentazione probatoria, ad una stratificazione di indizi, che debbono avere tutte le caratteristiche, e che non consenta discussioni.
A questo proposito sorge il problema fondamentale della normativa in esame. Tralascio l'articolato che, tutto sommato, ha determinato una sorta di unanimità anche sotto il profilo correttivo e concordo con chi ha affermato che noi abbiamo sentitamente migliorato il testo del Senato, sotto il profilo non soltanto formale, ma anche per alcuni ritocchi che hanno certamente un profilo sostanziale e colgo anch'io l'occasione per ringraziare il relatore. Peraltro, mi fa piacere che egli sia stato equivocato come relatore per la maggioranza da parte del relatore in dissenso. Ciò infatti contribuisce a confermare il giudizio che io ho del relatore, di persona che con la sua assoluta neutralità è riuscita a svolgere il suo compito addirittura facendo appannare la sua provenienza

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politica perché non ha sposato una tesi preconcetta, ma il provvedimento nei suoi contenuti giuridici.
Credo allora sia doveroso da parte di noi tutti, quale che siano le posizioni e l'esito di questo provvedimento, rendere omaggio all'intelligenza ed al grande acume critico che ha guidato il relatore nel segnalare e sollevare problemi. Egli è restato in quella posizione, un po' di limbo istituzionale, che è tipica della persona che deve sostenere la proposta di legge senza risentire un effetto indotto dal suo retroterra culturale e politico, venendo alle argomentazioni che sono state usate per dire che ormai eravamo tutti consapevoli, almeno la maggior parte di noi (qualche passaggio che mi ha fatto sorgere il sospetto che alcuni deputati vorrebbe addirittura conservare l'esistente, ma anche in coloro che hanno condotto una legittima, apprezzabile battaglia per respingere la normativa nei termini in cui viene oggi discussa, mi è parso di comprendere quel dato, semmai sarò smentito dai loro interventi), del fatto che le regole vanno cambiate o, per essere più precisi, che vanno ripristinate regole che erano state completamente dismesse attraverso un'interpretazione disinvolta; un'interpretazione che risentiva troppo della pressione psicologica dell'emergenza, che aveva molto più di inquisitorio di quanto non volesse mascherare e che secondo la mia valutazione ha prodotto risultati, anche in termini di condanne non passate in giudicato, che sono discutibili. Se infatti il discorso del non cambiare le regole vale (perché si afferma che vi è stata una strategia offensiva che ha tenuto conto dell'esistente e non ha utilizzato altri strumenti, per cui oggi ci si trova di fronte ad un cambiamento delle regole che non si può effettuare mentre la partita è in corso e quindi si danneggia un patrimonio e il principio di conservazione della prova), ricordo che oggi vi è la possibilità di rinnovare la prova nel dibattimento. Noi, cioè, abbiamo la condizione, la descrizione, e la legge prevede la possibilità, anzi direi l'indispensabilità, se si ritiene di dover utilizzare un certo mezzo di prova e l'esito dello stesso, di poter finalmente uscire dalle segrete stanze, di arrivare in pubblico dibattimento e di confrontarsi con la difesa per verificare se, per avventura, le prove vengono o non vengono.
Ma il discorso è veramente pericoloso, onorevoli colleghi. Se temiamo che il cambiamento delle regole possa produrre delle conseguenze, significa che abbiamo il timore che, al di là delle dichiarazioni rese senza alcuna garanzia, non vi sia nessun altro elemento di riscontro che consenta di confermare una condanna già emessa. Se questo è vero, mi preoccuperei molto. Credo che il dovere di un legislatore, se si rende conto che vi sono soggetti che sono stati condannati sulla base di un principio incivile, sia quello di riparare; non abbiamo invece il dovere di conservare l'esistente solo perché ha prodotto comunque un risultato. Questo è esattamente il contrario del principio di giustizia.
Come si può sostenere (non mi vengono termini molto delicati, perché sono coinvolto da fedi giuridiche che risalgono a tante generazioni che mi hanno preceduto) che l'unico punto fondamentale che risolverebbe il problema è quello di garantire che la prova non deve comunque essere rinnovata quando vi è il sospetto che il soggetto venga sottoposto a minaccia, a violenza o addirittura all'offerta di prestazioni di denaro? Anche l'argomento relativo ai riti alternativi non soltanto è insignificante, ma secondo me addirittura controproducente per i sostenitori della linea opposta a quella che io sostengo.
Vorrei intanto chiedere una cosa. Tecnicamente (perché dobbiamo confezionare un prodotto normativo che venga interpretato dai magistrati per la divisione dei poteri a cui ho accennato all'inizio) chi decide se la minaccia è intervenuta o no? Quali sono le modalità di accertamento della violenza o della minaccia? Dovremmo addirittura immaginare che, se vi è la prova di una prestazione di denaro, rispetto alla necessità di avere altri benefici di tipo processuale si deve ritenere inquinata iuris et de iure la rinnovazione, proprio nella fase della centralità di determinazione

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e ricostruzione del passato? E questo dovremmo farlo attraverso un dibattito che interviene fra le parti (tra le quali non rientra la terza parte che è l'imputato di reato connesso)? Una delle parti in conflitto sarebbe il difensore dell'imputato chiamato in correità, o comunque indicato in reità da coloro che sono stati definiti dalla nostra storia giuridica persone sospette, la cui attendibilità va verificata con una griglia estremamente acuita. E poi dovremmo arrivare a fare un processo nel processo, nel quale, per avventura, arriva una informativa di polizia che afferma che Tizio è stato raggiunto da una telefonata minatoria, per cui de plano introduciamo questa possibilità di correttivo che diventa molto peggiore del male? Perché, onorevoli colleghi?
Questo è stato uno degli argomenti decisivi che ha orientato la mia persona e orienterà il mio gruppo (mi auguro in maniera unanime, ma non ho ragione di credere il contrario, anche se non è un problema di gruppi, perché se vi saranno deputati che ragioneranno diversamente avranno da parte mia il massimo rispetto, come tutti gli altri che oggi sono schierati su un altro versante). Nell'ipotesi in cui si dica che Tizio è stato sottoposto a minaccia o, peggio ancora, a violenza, e nel momento in cui quest'ultima diventa oggetto di ordinanza di accertamento incidentale nel processo penale, ciò ovviamente non può non produrre anche una remissione degli atti alla procura della Repubblica.
Parliamo infatti di reati che in nove casi su dieci sono perseguibili d'ufficio.
Supponiamo che si arrivi alla condanna attraverso l'utilizzazione di una dichiarazione resa in fase antecedente e che non viene reiterata perché si assume da informativa di polizia giudiziaria che il soggetto, ex articolo 210, è stato sottoposto a minaccia; supponiamo che dopo il giudicato della prima sentenza venga accertato che non era vero il fatto storico della minaccia: qual è la soluzione giuridica? Come si esce da un bivio che, addirittura, creerebbe delle pregiudiziali?
Non siamo nel diritto civile, nel quale si può decidere incidenter tantum. Certo, anche il diritto penale conosce la possibilità di arrivare a conclusioni incidentali, però qui parliamo del nodo, dell'anima del processo. Da chi dovrebbe giungere la segnalazione, se non dalla procura della Repubblica? Anche qui si dà una vernice di contraddittorio, che però interviene dopo che la procura ha gettato sul banco del contraddittorio stesso l'eventuale minaccia, violenza o promessa di denaro avanzata non si sa da chi a danno di chi. A meno che non si voglia giungere alla paradossale conclusione che occorrerà aspettare che passi in giudicato il procedimento incidentale perché esso possa essere utilizzato come prova piena, ex articolo 238, nel processo principale.
Questa è una strada che va respinta e, se andiamo a vedere i numeri e, in maniera ponderata, i danni che produrrebbe l'introduzione di una norma di tale tipo, vedremmo che essi sono di gran lunga superiori ai benefici.
Allo stesso modo va respinto l'altro argomento di imponente portata suggestiva, ma di assoluta inconsistenza giuridica, che viene un po' ribaltato - scusatemi se banalizzo - come una minaccia in coloro che ragionano come faccio io: tutto sommato, l'eventuale approvazione del testo nella formulazione che ci viene presentata, soprattutto per quanto riguarda la disposizione transitoria, porterà ad un abbassamento di consensi nei riti alternativi. In buona sostanza, il procuratore della Repubblica non accederà al patteggiamento perché vorrà spendere nel dibattimento la dichiarazione che altrimenti rischierebbe di non potere utilizzare (se la riforma andrà nella direzione che io auspico).
Vogliamo prospettarci anche l'ipotesi contraria? Non è forse vero che esiste, quanto meno, un legittimo sospetto che si possa arrivare al patteggiamento sulla scorta della possibilità di utilizzare quelle dichiarazioni con la ragionevole speranza che il soggetto si sottrarrà all'esame dibattimentale? È o non è vero che noi, in caso di dubbio, dobbiamo comunque seguire

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il favor rei anche in materia processuale? È o non è fondato il timore di coloro che credono che sia possibile seguire l'unione di due punti, non per linea diretta, ma per linea che Einstein definirebbe non curva in senso geometrico, quanto piuttosto - come la intendo io - con molte anse, passaggi ed anelli, mentre ciò finirebbe forse per mortificare l'intera riforma?
Concludo credendo di bene interpretare coloro che hanno proposto la legge facendosi portatori di un interesse che deve intervenire nel corrente, nell'immediato: deve riparare eventuali errori.
Dobbiamo convincerci che il processo accusatorio ha dei costi, che a volte possono essere di difficile accettazione ma che, comunque, non possono sacrificare i principi. Se approviamo una norma transitoria, non facciamo altro che creare un'ulteriore linea di prosecuzione di una fase di inciviltà che invece dovrebbe essere superata attraverso la pronuncia del Parlamento nei termini che io auspico.
Presidente, onorevoli colleghi, preannuncio che, pur avendo massima disponibilità nei confronti di qualunque tipo di correzione formale, su questo nodo fondamentale non vi saranno incertezze. Se dovessimo arrivare a creare una norma che, addirittura, si proponeva come possibilità di entrare a regime, tanto varrebbe non approvare la legge e tornare all'articolo 513 così come è disegnato oggi.
Vi ringrazio per l'attenzione.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Cento. Ne ha facoltà.

PIER PAOLO CENTO. Sarò molto breve, data l'ora, limitandomi ad affermare alcuni principi e ad esporre l'orientamento dei parlamentari verdi su questa importante riforma. Innanzitutto credo che quest'ultima sia una dimostrazione di civiltà, dopo anni in cui, in virtù di sentenze della Corte costituzionale, si erano affermati principi e metodi in contrasto con il nuovo codice di procedura penale ed in contrasto con i principi cardine di un processo penale fondato sull'oralità e sulla parità delle parti in contraddittorio nella formazione delle prove. È infatti evidente che, con la sentenza della Corte costituzionale, si era concretizzata una violazione, seppur legittimata da un clima di emergenza e dalla necessità di far prevalere il principio della verità, o della presunta verità, rispetto ai processi.
Oggi finalmente ritorna di attualità, attraverso la proposta di riforma dell'articolo 513, la necessità di ristabilire che il processo penale si fonda su due principi essenziali e fondamentali da cui far discendere l'accertamento della verità. Quest'ultima non è in contrapposizione con l'affermazione dei principi che stavano all'origine del nuovo codice di procedura penale e credo che bene facciamo, al pari del Senato, ad intervenire ristabilendo che le prove si assumono in una posizione di parità tra le parti e che il principio del contraddittorio dà validità alla verità delle stesse prove assunte a fondamento di una sentenza penale.
Certo, quando si parla di principi, che spesso, come ora, sono calati in un certo momento storico, ci si interseca con le vicende umane e quotidiane della giustizia; un buon Parlamento, però, non deve farsi prendere la mano dalle vicende storiche, individuali e collettive, che riguardano segmenti di società del nostro paese. Si deve sempre far prevalere, come principio di valutazione, se una riforma sia utile a rendere la giustizia più equa e più consona ai criteri di riforma del codice di procedura penale, oppure se sia sbagliata, inutile e devastante per l'apparato giudiziario. Nel caso al nostro esame credo che la risposta non possa che essere affermativa: questa è una riforma utile, che rende la giustizia più equa e capace di inserirsi in continuità con i principi fondanti del codice di procedura penale.
Se questo è il principio assunto da tutti, anche da parte dei colleghi che hanno condotto la battaglia ostruzionistica prima in Commissione e poi presentando alcune centinaia di emendamenti in aula, credo che nessuno possa affermare in buona fede che la riforma dell'articolo


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513 non sia giusta, corretta ed in sintonia con le ispirazioni del nuovo codice di procedura penale, che ristabilisce un principio di correttezza nell'acquisizione delle prove. Se questo è vero, è altrettanto vero che questa riforma deve valere; e non suona scandalo il fatto che valga, con alcuni correttivi, anche per i processi in corso.
Se vi è qualcuno che ha il diritto di alzare la voce e di essere scandalizzato, è semmai chi è stato già condannato in virtù di una vecchia concezione dell'articolo 513, per cui bastava rilasciare al pubblico ministero od alla polizia giudiziaria alcune dichiarazioni che subito queste venivano assunte come prove, ed in virtù di questo si era condannati. Se vi è qualcuno che ha il diritto di alzare la voce, è proprio chi è già stato condannato dopo che il Parlamento unanimemente, al di là delle diverse posizioni, oggi afferma che questa riforma è giusta. Infatti ci si poteva svegliare prima. Ci si poteva accorgere prima di quella che era una contraddizione all'interno del nostro sistema e dell'intervento della Corte costituzionale.
Nei processi in corso è un principio sacrosanto di correttezza processuale il fatto che, se si interviene con una riforma processuale importante come quella dell'acquisizione delle prove e della loro validità, questa debba valere nel processo in corso; bene ha fatto la Commissione e bene farà, credo, domani l'Assemblea nel confermare il principio che intervenendo nei processi in corso l'unica tutela da porre sia quella di far sì che questa norma giusta ed equa non sia utilizzata per ampliare i ritardi del nostro sistema processuale (che, fatemelo dire, non dipendono dall'acquisizione delle prove nel pubblico contraddittorio in un dibattimento). Qualora tale previsione potesse essere utilizzata come elemento per ritardare e rendere più vicina la prescrizione per alcuni processi - eccellenti e non - di questo paese, bene ha fatto la Commissione giustizia della Camera - e bene farà domani l'Assemblea - a confermare il principio della sospensione della prescrizione per il tempo necessario all'acquisizione delle prove. È infatti evidente che ad un principio equo non può essere sottomesso un uso strumentale del principio stesso per salvare interessi particolari di pochi, oggi, che niente hanno a che vedere con la giustizia ed il suo funzionamento.
La norma uscita dalla Commissione mi sembra dunque complessivamente equilibrata e risponde alla doppia esigenza di intervenire nel principio e nella salvaguardia dello stesso e della sua applicazione anche per i processi in corso senza un uso strumentale. Bene farà l'Assemblea a valutare con attenzione eventuali altri emendamenti che in quest'ottica possano non stravolgere il testo approvato dalla Commissione giustizia ma rafforzare i due elementi di cui ho parlato. Nessuno sconto e nessun uso strumentale a chi oggi è sotto processo, ma nello stesso tempo affermazione e salvaguardia di quelli che sono diritti condivisi da tutti.
Vi è poi il problema dell'eventuale binario parallelo per i processi della grande criminalità organizzata. Mi sono fatto in proposito una convinzione. Ho presentato proprio oggi un'interrogazione a fronte di una notizia a mio avviso scandalosa data ieri da persona che peraltro stimo, il procuratore antimafia Vigna, il quale ha reso noto che tra i tanti dati in possesso della direzione antimafia vi sono anche quelli di 80 mila cittadini (così ho appreso dai giornali e dalle agenzie di ieri) che non hanno alcuna condanna o procedimento penale in corso. Immaginate se un paese, pur nella giustezza e nella necessità di una lotta dura alla criminalità organizzata, può consentire che 80 mila cittadini senza procedimenti penali siano inseriti, a chissà quale titolo, entro le banche dati. Il principio della necessità della lotta dura alla mafia ed alla criminalità organizzata non può, neanche nell'ambito della riforma dell'articolo 513, stabilire doppi canali o doppi binari per cui possono esservi norme processuali applicabili per alcuni processi e norme applicabili per altri. Ci troveremmo ancora una volta in una logica

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emergenziale per cui, magari, tra qualche anno, chi verrà dopo di noi in quest'aula sarà costretto ad intervenire per riparare i torti di un sistema che viaggia su binari paralleli, alcuni ordinari, alcuni emergenziali, ma sostanzialmente prevedendo uno stravolgimento dei nostri principi fondamentali: in questo caso del processo penale, in generale delle norme giuridiche.
Credo quindi che siano necessari grande equilibrio, grande attenzione, grande capacità da parte dell'Assemblea di procedere in tempi rapidi. Non ho personalmente sottoscritto la richiesta di riportare in aula anziché procedere all'esame in sede legislativa in Commissione, ma sono grato ai parlamentari che hanno avanzato tale richiesta. È questo un dibattito che è bene si svolga in aula, al di là della presenza numerica; è infatti un dato politico importante che sia l'Assemblea nella pienezza dei suoi poteri ad intervenire nel momento in cui si discute, si vota e vengono prese le decisioni. Però, non ci possono essere ritardi strumentali. Non ci può essere un uso strumentale da parte di chi, conducendo una legittima battaglia politica da alcune parti anche di questo Parlamento - e figuriamoci se chi parla può non condividere quella legittima battaglia politica -, vuole utilizzare gli strumenti del diritto e in particolare di quello processuale per rafforzare quella battaglia politica. Sono due aspetti separati, su cui dobbiamo avere la capacità di mantenere una separazione di giudizio e di valutazione. Guai se fossimo in presenza di un Parlamento che fa o non fa le leggi a seconda degli interessi di questo o di quell'altro. Semmai, il rammarico è che la riforma dell'articolo 513 venga portata solo oggi alla discussione in aula. Semmai, il rammarico è per le centinaia e centinaia di cittadini extracomunitari che ogni giorno vengono condannati solo in virtù delle dichiarazioni assunte dalla polizia giudiziaria, in processi dove neanche la difesa viene garantita. Allora, rispetto a quei casi, credo che la vera colpa di questo Parlamento e di questa classe politica sia di non aver sollevato e sollecitato una discussione per una riforma seria e rigorosa, partendo dalla giustizia quotidiana, quella applicata per tutti i cittadini.
Certo, oggi arriva e non si può non farla solo perché forse - io non credo, anzi sono convinto che non sarà così - qualche potente se ne potrà avvantaggiare. Noi creiamo le condizioni per una riforma che rende la giustizia e il sistema processuale più vicino a tutti i cittadini, anche a chi vi parla, anche a chi magari ascolta da Radio radicale questo dibattito, svolto da pochi all'interno dell'aula, ma forse ascoltato da migliaia di cittadini che seguono i problemi della giustizia e il modo in cui il Parlamento li affronta.
Quindi, il giudizio dei parlamentari verdi è di sostanziale condivisione del lavoro fatto all'interno della Commissione. Certamente, anche tra di noi ci sono stati parlamentari che, a titolo personale, hanno firmato emendamenti in virtù di una sbagliata idea dell'ostruzionismo parlamentare, che non si fa sulle regole processuali, ma sui problemi di sostanza. Magari, sarebbe stato più piacevole e anche più coraggioso vederlo in atto oggi, quando abbiamo approvato il provvedimento - quello, sì, scandaloso - sul rapporto tra la RAI di Stato e la Fininvest.
Dove stavano tutti coloro che fanno della battaglia contro una parte politica la propria bandiera, nel momento in cui veniva approvato un provvedimento che certamente non fa onore a questo Parlamento? Io mi sono astenuto proprio per segnalare questo disagio. Quella forse era la sede per fare battaglie. Certo, non si fanno battaglie ostruzionistiche sulla pelle dei cittadini che hanno a che fare con la giustizia. Non si fanno le battaglie ostruzionistiche sui principi fondamentali del nostro sistema processuale.
Quindi, i parlamentari verdi esprimono un giudizio positivo su questo provvedimento ed effettueranno un'attenta valutazione degli emendamenti, quelli sostanziali e non strumentali, per rendere più efficace la riforma dell'articolo 513, da fare ora e subito per tutti i processi, salvaguardandosi ovviamente da un possibile

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uso strumentale, attraverso norme già in gran parte inserite nel testo approvato dalla Commissione giustizia della Camera e con altre che potranno essere inserite attraverso la discussione che si svolgerà domani in sede di esame degli emendamenti.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Veltri. Ne ha facoltà.

ELIO VELTRI. Signor Presidente, inizio questo mio intervento con un richiamo al regolamento e precisamente all'articolo 92, che recita testualmente: «Quando un progetto di legge riguardi questioni che non hanno speciale rilevanza di ordine generale il Presidente può proporre alla Camera che il progetto sia assegnato ad una Commissione permanente o speciale, in sede legislativa». Ora, tutti i colleghi che sono intervenuti hanno detto che non solo questo provvedimento ha una grandissima rilevanza generale, ma addirittura investe principi di civiltà giuridica (e questi ultimi sono addirittura universali).
Perché faccio questo richiamo al regolamento, signor Presidente? Al contrario del collega Cola, che vanta una maggioranza di oltre il 90 per cento per giustificare la giustezza dei provvedimenti, io sono spaventato da queste maggioranze; non vi ho mai partecipato, le ho combattute in tutta la mia vita e quando su provvedimenti di questo tipo (su quello concernente le televisioni ho fatto in tempo solamente a dire e a votare contro) si determinano maggioranze così larghe, comincio a temere per le regole ed anche per il regolamento. Ed è per questo che ho iniziato il mio intervento leggendo l'articolo 92 del regolamento!
Mi auguro che sui provvedimenti a venire, maggioranze di questa vastità e larghissime intese non se ne determinino tante: questo, infatti, sarebbe un segnale estremamente preoccupante. Ho sempre detto e non ho avuto motivo di cambiare opinione che la democrazia è conflittuale. Ribadisco questa mia opinione.
Anch'io sono d'accordo sul principio giusto di civiltà giuridica; però come hanno sottolineato altri colleghi, in particolare gli onorevoli Meloni e Cento, c'è da chiedersi se per caso questo principio giusto di civiltà giuridica non sia sottomesso a contingenze politiche attuali, a contingenze e ad utilità di gruppi e di singoli. Debbo dire con grande chiarezza e con grande lealtà che, pur avendo ascoltato tanti interventi, non sono riusciti a convincermi, ed io sono una persona di buona volontà: ascolto e mi faccio convincere. Non sono riusciti a convincermi. Ebbene, se mi rimane solo il sospetto che un grande principio di civiltà giuridica viene piegato per interessi contingenti, allora mi ribello e dico che ciò è inaccettabile. Non ci sto!
Detto questo, debbo anche aggiungere che francamente non riesco a convincermi che questa sia una riforma prioritaria, così importante, urgente e straordinaria. Gli unici che l'hanno sostenuta sono l'onorevole Previti (ricordo un suo libro e debbo dire che l'onorevole Previti è stato molto ascoltato; due o tre anni fa aveva detto: guardate, nel prossimo Parlamento occupatevi dell'articolo 513; il consiglio è stato seguito) e poi cinque esimi senatori. Non vedo cioè proposte di legge che recano centinaia di firme. Come mai? È mai possibile che non ci abbia pensato nessuno? Ed allora è difficile convincermi in queste condizioni.
Mi dispiace la sottovalutazione di colleghi della maggioranza, che stimo moltissimo. Neanche loro sono riusciti a convincermi. Del resto nella stessa maggioranza c'è poi chi, in privato, dice che ciò sarà devastante. Ma allora ditelo in pubblico, ditelo nell'aula, assumetevene la responsabilità!
Quella in esame è una questione politica e non giuridica, per pochi addetti ai lavori. Una questione che dunque va trattata politicamente: è questa la ragione per la quale abbiamo chiesto di discuterla qui. Pensavo che la discussione si sarebbe svolta la mattina presto, di notte speravo proprio di no. In ogni caso il voto ci sarà di giorno e ognuno di noi, pacatamente, si assumerà le proprie responsabilità.


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PASQUALE GIULIANO. La notte porta consiglio!

ELIO VELTRI. Io di notte dormo.
Francamente debbo condividere l'opinione dei giuristi che dicono che non si possono cambiare le regole mentre si gioca la partita. Presidente, ne ho ascoltati tanti!

PRESIDENTE. È successo tante volte che queste venissero cambiate mentre c'erano i processi. Per esempio, con riferimento ai termini di custodia.

ELIO VELTRI. Presidente, ha ragione. Io ne ho ascoltati tanti e ho letto anche ripetuti interventi riportati dai giornali. Le inchieste sono state condotte con certe regole e adesso, in corso d'opera, noi cambiamo le regole, ma quello che è più preoccupante - e non si può far finta che il problema non esista - è che il ministro della giustizia ci ha fornito i dati. Quando lo ha fatto è stato insultato ed è stato attaccato persino da una persona composta e serena come il relatore che ha avvertito la necessità di fare un comunicato pubblico. Ebbene, io mi fido dei dati del ministro della giustizia, Mantovano, non perché non mi fidi di te, ma perché tu non hai gli strumenti, mentre lui dispone degli strumenti necessari per fare il censimento. E siccome mi fido dei dati del ministro della giustizia, sono preoccupatissimo.
I processi interessati da tali norme sono novecento, signor Presidente. Qui si blocca tutto. Lasciamo stare la possibilità che ci siano questioni contingenti di potenti, come ha detto qualcuno, anzi mettiamo che non ci siano. Penso infatti che se si manifestasse a qualcuno di questi l'intenzione di porre mano alla riforma dell'articolo 513 per avvantaggiarlo, questi risponderebbe di non essere d'accordo, di voler dimostrare la capacità di essere rigidi rispetto a vicende del genere. Penso che le persone in questione si direbbero scandalizzate. Io ne sono convinto, ci mancherebbe altro! Sono cose che può fare un deputato non di primo rilievo, ma chi riveste grandi responsabilità, chi fa il padre costituente non ci pensa neanche! Non è che non ci pensa, non ci vuole pensare!
Ritengo però che sarà bloccata la giustizia con gravi conseguenze. Il ministro Flick ha detto che novecentosei processi...

PASQUALE GIULIANO. Novecentosei interessati all'applicazione della norma. Gli strumenti bisogna saperli suonare, caro Feltri.

ELIO VELTRI. Veltri, come il veltro dantesco.
Duecentosessantasei a rischio di prescrizione e centottanta a rischio - cito testualmente i dati riportati dal ministro - di scarcerazione. Ho fatto il conto con la matita e ho visto che la somma porta a 3.300 imputati. Andate a sentire nelle condizioni attuali, con l'estate di mezzo e poi le ferie, tutti questi imputati!
Vi è un'altra questione, che per la verità ha sollevato anche il relatore: siamo sicuri che la Corte costituzionale non interverrà un'altra volta? Siamo proprio certi che non avremo ancora una volta in testa la mannaia della Corte costituzionale? Perché l'Alta Corte ha detto che le prove sono valide se l'imputato di reato connesso viene sentito dal pubblico ministero davanti al suo avvocato. Non è che ci andava da solo, abbiate pazienza!
Non vorrei quindi che il fatto di potersi avvalere della facoltà di non parlare - però devo dire che ieri o l'altro ieri a Milano in un processo importante un colonnello della finanza non se ne è avvalso e quindi speriamo bene - producesse determinate conseguenze. È stato scritto da alcuni dei magistrati più noti ed autorevoli del paese quanto segue: «A quel punto il processo sfugge dalle mani della difesa e dell'accusa e decide l'esito del processo l'imputato di reato connesso». Forse che questi pubblici ministeri hanno detto una stravaganza? Ho le fotocopie dei giornali nella cartella. Hanno detto una stravaganza?


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GIULIANO PISAPIA. Però è quello che avviene oggi: sono loro che decidono!

ELIO VELTRI. Questo lo ha scritto il capo della procura di Palermo e lo ha scritto anche il vicecapo della procura di Milano.

PASQUALE GIULIANO. Guarda un po' che combinazione!

ELIO VELTRI. Può darsi pure che abbiano detto delle stravaganze, ma io non ci credo; quindi anche i colleghi che ritengono, diversamente da me, che questa sia una riforma strutturale, di principio, dovrebbero riflettere su quello che non Elio Veltri, ma alcuni magistrati, sicuramente competenti che lavorano sul campo, hanno scritto.
Si è detto che è una cosa terribile essere condannati solo perché uno si presenta in aula, depone davanti al pubblico ministero e poi si avvale della facoltà di non parlare. È vero tutto questo ed a questo sono molto sensibile; vorrei sapere però quanti casi di questo genere si siano verificati, e lo chiedo per mettere a posto la mia coscienza. Comunque il giudice ha sempre la possibilità di vagliare le prove e di non prendere per «oro colato» quello che gli viene «propinato».
Mi avvio a conclusione in considerazione dell'ora tarda e del fatto che alcuni colleghi sono impegnati nella discussione sul processo accusatorio, che fa riferimento al processo di tipo americano, dove si arriva al dibattimento sei o sette volte su cento e dove ci arrivano solo i ricchi e i divi del cinema, perché gli altri patteggiano tutto. A tale proposito vorrei ricordare che un esimio professore di diritto penale di un'università italiana mi spiegava che gli unici che hanno saputo utilizzare il processo accusatorio italiano sono stati i pubblici ministeri delle procure, ed è questa una delle ragioni per cui a Milano si è potuto fare Mani Pulite, mentre quelli che scrivevano la legge non si rendevano conto che forse davano maggior potere di prima ai pubblici ministeri. Ma lasciamo perdere...
Tranne qualche caso, come è capitato a me oggi, ogni volta che il Governo presenta provvedimenti che non possiamo conoscere in dettaglio, per solidarietà di maggioranza alziamo la mano per votare. Ora il ministro della giustizia, che è un tecnico, ha presentato al Senato un emendamento che, nell'ottica della necessità di modificare l'articolo in questione, lascia fuori i procedimenti in corso. Questa proposta del ministro della giustizia, che è anche professore di diritto penale e al quale tutti riconoscono competenza, è anch'essa stravagante? Ma io da chi mi devo far convincere, signor Presidente, dal ministro della giustizia o dal collega Giuliano? Ho grande rispetto per il collega Giuliano, ma il ministro della giustizia è un tecnico noto ed in più è il ministro della giustizia del mio Governo, che io sostengo. Le posizioni del collega Giuliano vengono annullate da quelle del collega Caselli: un magistrato da una parte e un magistrato dall'altra, e così si annullano, ma io chi ascolto? Non dico neppure che dovrei seguire la posizione di D'Ambrosio, perché il rapporto sarebbe di due a uno, quindi ascolto il ministro della giustizia perché faccio politica e mi trovo in quest'aula; ascolto il ministro del mio Governo. Quindi ho ripresentato il mio emendamento.
Colleghi, possiamo ritirare tutti gli emendamenti di carattere ostruzionistico purché ci mettiamo d'accordo su due o tre modifiche di sostanza. Tra l'altro mi dicono che vi è stato un incontro tra i rappresentanti degli avvocati e dell'Associazione nazionale magistrati allo scopo di trovare una soluzione per la legge a regime che potrebbe essere del seguente tenore: se un imputato di reato connesso parla, poi deve farlo anche in dibattimento, altrimenti è meglio che non parli mai. Io avevo proposto anche questa soluzione che però, detta da me, appariva stravagante, mentre ora sembra che si possa giungere all'accordo su questa ipotesi. Non lo so se sia vero, può darsi che non lo sia, ma credo che il problema possa essere risolto tranquillamente: votiamo.


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Il testo, come è stato detto da altri, anziché prevedere sei mesi per l'interruzione dei termini, lascia tutto il tempo necessario. In secondo luogo, poiché nessuno vuole pensare che si vuole fare una legge per voler favorire qualcuno - lungi da noi un pensiero di questo tipo - lasciamo fuori i processi in corso. Non c'è problema. Quest'ipotesi l'ha proposta, con argomentazioni, il ministro della giustizia e quindi poiché questo è il Governo che sostengo con forte convinzione - non perché faccia tutto bene, ma perché sono seduto di là e guardo spesso di fronte - faccio mio l'emendamento del ministro della giustizia e mi batterò perché passi.
Se la Commissione, nella sua autorevolezza, è d'accordo su questa posizione - per quanto mi riguarda farò di tutto per convincere i miei colleghi - ritireremo tutti gli emendamenti di natura ostruzionistica; risolveremo così il problema nel giro di due ore.
Spero che la notte porti consiglio. Vedo il collega Giuliano che sta pensando: spero che rifletta seriamente e che domani dia, in sede di Comitato dei nove, una risposta positiva.

PASQUALE GIULIANO. I suoi interventi, onorevole Veltri, fanno sempre pensare.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Simeone. Ne ha facoltà.

ALBERTO SIMEONE. Signor Presidente, sarò breve anche per evitare di rovinare quanto di mirabile - questo aggettivo non è assolutamente fuori luogo - è stato fatto dall'onorevole Mantovano e nella sua relazione finale ed in quella iniziale, nonché in tutto il lavoro svolto in Commissione.
La novella dell'articolo 513 credo che abbia raggiunto tutti i suoi obiettivi, ripristinando le regole del giusto processo, riequilibrando le posizioni processuali dell'accusa e della difesa, recuperando la fase dibattimentale come momento principale di formazione della prova, consacrando definitivamente il principio della oralità del dibattimento nel contraddittorio delle parti come piena attuazione del principio accusatorio del processo penale e come ampia garanzia dei diritti della difesa e dell'imputato.
Mi auguro che interventi demolitori, come quelli fatti con la sentenza n.254 del 3 giugno 1992 e con la n.60 del 20 febbraio 1985 da parte della Corte costituzionale, non ce ne siano più, perché quelle sentenze certamente andavano ad indebolire ed affievolire il principio del contraddittorio e dell'oralità del dibattimento inteso come momento pregnante per la fase delicata della formazione del dibattimento quale parte principale del processo.
Tali sentenze lo resero affievolito, ma forse avevano una loro ragion d'essere, se andiamo a verificare sul piano storico-temporale il periodo in cui le stesse producevano i loro effetti. Ci troviamo negli anni 1992-1995, ossia quando ci fu un'esplosione della criminalità organizzata e forse l'efferatezza più bestiale, le modalità di esecuzione più bestiali di certi delitti di mafia e anche di quelli non riconducibili alla malavita organizzata.
Nell'attuale fase politica e storica, al di là di situazioni assolutamente contingenti che sono quelle di allarme sociale legate ad un particolare settore o ad una particolare zona del territorio nazionale, quindi una pericolosità sociale ed una pericolosità territoriale che possono essere sempre contenute con interventi legislativi ad hoc speciali o eccezionali, è certamente necessario rivisitare la problematica della valutazione della prova in generale, proprio con il recupero definitivo del valore del contraddittorio e della fase dell'istruttoria dibattimentale. Il dibattito che si è svolto in Commissione è stato forse fin troppo rapido rispetto ai tempi che hanno riguardato altri provvedimenti, ma nello stesso tempo è stato profondo, intenso, rigoroso sul piano meramente giuridico ed ha riguardato il cuore del processo penale, il punto focale del processo, cioè il momento


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della formazione della prova. Ben venga allora all'esame del Parlamento, signor Presidente, onorevoli colleghi, anche la modifica dell'articolo 192 del codice di procedura penale, proprio per l'affermazione definitiva di quello Stato di diritto che tanto auspichiamo e la consacrazione veramente definitiva a democratico di un paese che anche in un passato assai recente ha tentato, senza riuscirvi, di divenire tale.
Con il nuovo testo dell'articolo 513 del codice di procedura penale penso sia compiutamente realizzata l'armonizzazione tra la cultura della difesa sociale e quella del garantismo individuale. E così la presunzione di innocenza in rapporto all'onere della prova di colpevolezza della pubblica accusa va ad inserirsi in un nuovo modello processuale che esalta il principio della centralità del dibattimento, senza andare assolutamente a mortificare il principio della non dispersione dei mezzi di prova in una visione veramente nuova, veramente grande che è quella, appunto, di una saggia politica in materia. Certamente è da ritenere, allora, falsa la preoccupazione di un presunto vulnerato principio dei mezzi probatori. È un principio che non viene assolutamente appannato, eliminato, dalla positivizzazione del nuovo testo dell'articolo 513 del codice di procedura penale.
Quindi, a prescindere dalla valutazione se tale principio abbia o non abbia valore o rango costituzionale, vi è da dire che sul principio testé enunciato deve essere privilegiato quello di cui all'articolo 24 della Costituzione che, da ultimo, deve esplicitarsi nella estrinsecazione del diritto soggettivo all'accoglimento della domanda di contraddittorio ed alla affermazione massima del principio della oralità del processo e della centralità del dibattimento, quale momento culminante, focale, essenziale ai fini della formazione della prova per l'affermazione di una responsabilità penale con l'inevitabile, definitiva marginalizzazione dell'ipotesi di riconoscimento di fonti accusatorie formate e prodotte al di fuori del dibattimento, nell'ambito, appunto, della fase delle indagini preliminari. È un principio, questo, di grande civiltà giuridica e l'entrata definitiva, la costituzionalizzazione di questo principio penso vada a ripagare tutti coloro che hanno atteso per anni un cambiamento dell'articolo 513, che oltre tutto non faceva parte dell'impianto originario del nuovo codice di procedura penale che nel 1988 vide il varo nel nostro paese.
È un grande principio di civiltà che mi auguro possa accompagnarsi ad altri provvedimenti sui quali saremo certamente chiamati a decidere in tempi veramente brevi. Mi auguro inoltre che il principio della civiltà giuridica vada sempre a contrassegnare, a connotare tutti i provvedimenti che giungeranno all'esame del Parlamento. Forse, così, si sarà veramente compiuto quel cammino al quale tutti auspichiamo di poter dare nuova linfa ma soprattutto di poter dare compiutezza, tale da far sì che il paese si avvii a diventare, e diventi, realmente Stato di diritto.

PRESIDENTE. Constato l'assenza dei deputati Borrometi e Pecoraro Scanio, iscritti a parlare: si intende che vi abbiano rinunziato.
Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.
Il seguito del dibattito è rinviato alla seduta di domani.

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