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PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito della discussione del testo unificato dei progetti di legge costituzionale di iniziativa dei deputati: Trantino; Simeone; Selva; Frattini e Prestigiacomo; Lembo; Giovanardi e Sanza; di iniziativa del Governo; Boato: Modifica alla XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione.
ERNESTO BETTINELLI, Sottosegretario di Stato per la funzione pubblica. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la proposta di legge di integrazione costituzionale, elaborata dalla Commissione affari costituzionali ed illustrata dal relatore, onorevole Maselli, rappresenta un coerente aggiornamento della Carta. Dopo cinquant'anni esatti dalla sua entrata in vigore, si dichiara l'esaurimento della sanzione costituzionale dell'esilio e della perdita dei diritti civili e politici solennemente comminata nei confronti di un casato, già istituzione statutaria, per le storiche responsabilità politiche di chi l'ha impersonata durante il fascismo e dopo. Non ultima responsabilità quella conseguente alla grave violazione del patto di tregua istituzionale, sancito con il decreto legislativo luogotenenziale n.151 del 1944, avvenuta il 9 maggio 1946, quando Umberto, fino a quel momento luogotenente del Regno, assunse, proprio alla vigilia del referendum istituzionale, il titolo di re, in seguito alla illegittima ed eversiva abdicazione del padre Vittorio Emanuele III.
PRESIDENTE. Il primo iscritto a parlare è l'onorevole Lembo. Ne ha facoltà.
ALBERTO LEMBO. Signor Presidente, signor sottosegretario, la XIII disposizione transitoria della Costituzione italiana ha una storia molto lunga, troppo lunga, come tutta la storia della Costituzione della Repubblica italiana, di fatto immutabile per volontà dei costituenti ed alla faccia - come si dice - del principio della sovranità popolare.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Corsini. Ne ha facoltà.
PAOLO CORSINI. Signor Presidente, signor sottosegretario, signori colleghi, innanzitutto esprimo apprezzamento per la relazione estremamente limpida e motivata svolta dall'onorevole Maselli e così pure convinto sostegno alle argomentazioni testé esposte dal sottosegretario, professor Bettinelli, il quale si è peritato di suffragare le ragioni di fondo all'origine del testo presentato in quest'aula.
PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.
Ricordo che nella seduta del 12 giugno scorso è iniziata la discussione sulle linee generali con gli interventi dei relatori e che nella seduta del 1 luglio scorso è stata respinta la questione sospensiva n.1 presentata dai deputati Diliberto ed altri.
Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.
Una diversa soluzione giuridica, rivolta alla soppressione tout court dei primi due commi della XIII disposizione transitoria e finale, potrebbe prestarsi all'interpretazione di una rottura o quanto meno discontinuità rispetto alla volontà del costituente, quasi un giudizio postumo di inopportunità, se non addirittura una sorta di implicita, indulgente rivisitazione degli avvenimenti che hanno dato origine alla Repubblica. Una tale pretesa o tentazione sarebbe inaccettabile: il DNA della Costituzione antifascista e repubblicana non può essere alterato, neppure mezzo secolo dopo, attraverso la rimozione di norme qualificate transitorie e finali ma non affatto marginali. Abrogazione che, data la natura singolare ad personas delle norme stesse, si risolverebbe, appunto, nella eliminazione di un testo di grande significato storico ed emblematico.
La formula adottata dalla Commissione affari costituzionali della Camera, viceversa, non consente equivoco alcuno. Le sanzioni costituzionali non vengono rinnegate, ma si attesta che esse, dopo cinquant'anni, hanno ragionevolmente conseguito ed esaurito i loro effetti. Con ciò si esaltano anche i principi fondamentali della prima parte della Costituzione, quelli che riconoscono i diritti inviolabili
ed universali di qualsiasi persona umana, che non ammettono pene eterne o irreversibili e che richiamano i valori di integrazione nella comunità nazionale.
La formula in discussione intende risolvere la situazione umana di una famiglia italiana, seppur particolare, in quanto nominata e riconosciuta dalla XIII disposizione finale e transitoria come «Casa». Ma ora, ai sensi della stessa Costituzione - che misconosce qualsiasi distinzione nobiliare, ai sensi della XIV disposizione transitoria e finale, dove, appunto, si puntualizza il principio di uguaglianza -, tale qualificazione perde qualsiasi attualità: i Savoia per l'ordinamento italiano non sono una «Casa», ma una famiglia. Una famiglia, appunto, che manifesta il comprensibile ed apprezzabile desiderio di entrare nel proprio paese d'origine, retto da una immodificabile, stabile, incontestata e comune democrazia repubblicana.
Ci sono quindi tutti i presupposti per affrontare la questione con umana serenità, senza astio, con rigore storico e giuridico.
Nella risentita relazione di minoranza svolta dall'onorevole Garra il 12 giugno scorso, si prospettavano critiche e riserve anche di metodo, alle quali è corretto da parte del Governo dare una non elusiva risposta, anche se più di un mese dopo. Il Governo - si è detto - con l'adesione alla formula proposta in Commissione affari costituzionali dal relatore Maselli avrebbe dato dimostrazione di incertezza e di incoerenza, rinunciando al proprio originario disegno di legge.
Tale obiezione è in verità insussistente. Ribadisco quanto già detto in Commissione.
Il Presidente del Consiglio Prodi ha voluto presentare un disegno di legge minimale per l'abrogazione del solo secondo comma della XIII disposizione, mosso soprattutto dall'intento di sollecitare la ripresa di una discussione parlamentare sulla questione, che sembrava languire. Nessuna aprioristica preclusione da parte del Presidente del Consiglio verso più adeguate soluzioni che fossero maturate durante il confronto in Parlamento. E proprio questo si è verificato in Commissione affari costituzionali; non vi è stata dunque alcuna collusione di intenti tra chi vi parla e il Presidente del Consiglio, come pure l'onorevole Garra ha supposto.
Anche la critica ad una presunta inadeguatezza tecnico-giuridica della formula in discussione non convince; la proposizione è chiara, precisa, univoca e comprensibile a tutti: le sanzioni costituzionali nei confronti di Casa Savoia cessano a partire dal 1 gennaio 1998 dopo cinquant'anni di applicazione.
Si è espressa perplessità, se non malcelato fastidio, sulla data indicata ed anche questo atteggiamento pare poco comprensibile, giacché si tratta di una data e di una ricorrenza che dovrebbero vedere uniti tutti coloro che siedono in questo Parlamento repubblicano.
Infine si è evocato il fantasma di un possibile referendum confermativo nel caso in cui le Camere non approvino la legge costituzionale in seconda lettura con la maggioranza auspicata dei due terzi. È questo invero uno scenario più curioso che drammatico, in quanto una tale ipotesi si potrebbe verificare soltanto per volontà e responsabilità di quei settori che da tempo insistono per la rimozione degli ostacoli normativi che impediscono il rientro della famiglia Savoia in Italia, mossi, come gli stessi settori hanno sostenuto, da esclusive ragioni di umanità e non da altre valutazioni di natura istituzionale.
Certamente la limpida formula esplicita accolta dalla maggioranza della Commissione affari costituzionali rimuove questi ostacoli, mantenendo peraltro intatte e visibili le ragioni storiche di una esclusione che si è protratta per cinquant'anni e che oggi ragionevolmente si possono considerare esaurite.
L'onorevole Maselli, nella sua pacata relazione, così intellettualmente generosa e puntuale, ha dimostrato che le ragioni della storia si possono conciliare senza forzature con le ragioni della pietas; ha ben interpretato la mitezza della nostra posizione che è pervasa dai valori della
convivenza e della non esclusione. Se questa rigorosa mitezza riuscisse ad affermarsi anche in questo confronto parlamentare non dovrebbe essere difficile arrivare ad una rapida approvazione della legge costituzionale di integrazione della XIII disposizione e rendere normale la situazione di una famiglia italiana senza procedere ad operazioni «chirurgiche» del testo costituzionale.
In questo spirito, con questa serenità, il Governo si augura che vengano superati gli emendamenti al testo in discussione: non solo quelli che insistono per l'abrogazione e la rimozione dei primi due commi della Costituzione, ma anche quello - pure sottoscritto da numerosi deputati - che introduce la condizione del giuramento di fedeltà alla Repubblica e alla sua Costituzione per rendere applicabile l'esaurimento della sanzione costituzionale.
Nella concezione costituzionale repubblicana rivolta all'affermazione di una convivenza democratica e aperta, il giuramento di fedeltà, più che un onere o una condizione, deve essere considerato un privilegio riservato soltanto ad alcune categorie di cittadini ed infatti l'articolo 54 della Costituzione stabilisce che la fedeltà alla Repubblica e l'osservanza della Costituzione e delle leggi è un dovere permanente e quotidiano per tutti i cittadini, ma la promessa solenne, attraverso il giuramento, di adempiere tale dovere con disciplina ed onore è prevista soltanto per i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche, e viene riservata alla legge l'individuazione dei casi e delle posizioni che giustificano la prestazione del giuramento.
Tali casi e posizioni sono stati previsti in via generale dall'articolo 11 del decreto del Presidente della Repubblica n.3 del 1957 per gli impiegati civili dello Stato. Si può anche rammentare come la recente legge n.127 del 1997 all'articolo 2 abbia riqualificato la solennità del giuramento per sindaci e presidenti delle province che lo prestano davanti ai rispettivi consigli.
La previsione di un giuramento straordinario per i Savoia è assolutamente ed evidentemente estranea alla prospettiva costituzionale. La solennità dell'adempimento cui si vorrebbe sottoporli, addirittura per scritto, con legge costituzionale, alla fine rimarcherebbe quella dignità di «casa», quello status particolare che, viceversa, occorre superare.
I Savoia rientrano in Italia come semplici cittadini e devono essere trattati al pari degli altri cittadini, come impone l'articolo 3, comma 1, della Costituzione.
Né potrebbero invocarsi a sostegno dell'emendamento proposto altre ipotesi ordinarie di giuramento previste dall'ordinamento, neppure quella disposta dall'articolo 10 della legge n.91 del 1992 per gli stranieri che, su loro richiesta, acquistano la cittadinanza italiana in seguito a decreto di concessione del Presidente della Repubblica, sussistendo il presupposto o della residenza legale nel territorio della Repubblica per un congruo numero di anni o di aver reso eminenti servizi all'Italia o di un eccezionale interesse dello Stato. In questa ipotesi il giuramento rappresenta dal punto di vista sostanziale la solenne conferma della volontà di una integrazione, che è già in atto, nella comunità nazionale da parte di chi ha richiesto liberamente la cittadinanza italiana. La situazione dei Savoia è ben diversa e non giustifica il privilegio del giuramento.
Signor Presidente, signore deputati, signori deputati, il Governo, per le ragioni appena esposte, raccomanda l'ampia approvazione della legge costituzionale in discussione. Essa, a ben vedere, non riguarda soltanto la conclusione di una vicenda singolare di singole persone che, con il rientro in Italia, si assumono o assumono la dignità di semplici cittadini italiani e che tale dignità riacquistata e riscoperta dovranno onorare nella vita quotidiana, ma più in generale conferma ed esalta, non solo per i Savoia, i valori della convivenza e della integrazione che sono fondamento irrinunciabile della nostra ormai matura democrazia repubblicana.
Vorrei partire proprio da questa affermazione per svolgere alcune considerazioni sull'illegittimità dello Stato repubblicano.
Un pesante complesso di elementi negativi è infatti riferibile al periodo 2 giugno 1946 - 1 gennaio 1948, date che indicano, la prima, il giorno del referendum istituzionale e delle elezioni per l'Assemblea costituente e la seconda l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana. Non si tratta certo di una scoperta, ma troppo spesso ci si è rifiutati di riconsiderare i vizi da me esposti in varie occasioni e che il solo decorso del tempo non ha certamente potuto sanare.
Nella seduta del 21 gennaio 1997, tanto per riferirmi ad uno di questi interventi, avevo ricordato che il 2 giugno 1946 si era svolta un duplice votazione, una sulla forma istituzionale dello Stato e l'altra consistente nella elezione dell'Assemblea costituente.
Per quanto riguarda il cosiddetto referendum tra monarchia e repubblica, è meglio non addentrarci. Come ho già detto, conosciamo bene il ruolo giocato in quella circostanza dalle «calcolatrici» di Romita, espressione molto divertente ma che fa riferimento a fatti definiti in modo molto meno eufemistico.
Credo che ormai nessuno più difenda la legittimità di quel risultato. C'è di peggio; mi riferisco non tanto al risultato del referendum istituzionale sopra citato, ma all'elezione dell'Assemblea costituente che nasce pesantemente viziata. Risultano infatti (cito dati ufficiali di allora) 28.005.449 iscritti nelle liste, di cui 24.947.187 elettori effettivamente votanti. C'è un altro dato a cui nessuno fa riferimento, il fatto che manchino agli elettori ammessi al voto oltre 2.200.000 nomi. Per l'esattezza, sommando un dato esatto - 1.516.043 - e uno stimato ma molto vicino alla realtà - 750.000 - si ottiene la somma di 2.266.043 elettori non iscritti e quindi impossibilitati a votare.
Tale circostanza fu fatta presente da più parti in varie sedi, ma i partiti di Governo di allora - democrazia cristiana, partito socialista e partito comunista - quelli che diedero vita a larga maggioranza alla Carta costituzionale italiana, non ritennero che questa importantissima tornata elettorale si dovesse svolgere in una situazione di tranquillità e con la possibilità della partecipazione di tutti, bensì al più presto possibile. Visto che anche il Governo fa riferimento a date a suo parere incautamente scelte per atti operati dal sovrano regnante, altre date sono state imposte dal Governo, non tenendo conto però (e i dati sono dell'Istituto centrale di statistica) che risultano 1.516.043 italiani che non poterono votare perché circa 250.000 erano ancora prigionieri di guerra, ai quali bisogna aggiungere gli sfollati, i cittadini all'estero, i discriminati, gli epurati, quelli in carcere, quelli privati del diritto di voto, eccetera. Faccio grazia degli errori nella trasmissione dei certificati, uno dei quali, molto divertente, è riferito a Vittorio Emanuele III, che non votò al referendum, ma che si vide recapitare due certificati elettorali.
Ciò che è peggio però (questo dato serve a raggiungere i 2.266.043 elettori mancanti) è che un decreto legislativo emanato dal Governo di allora, e recante la data del 16 marzo 1946, prevedeva l'esplicito rinvio delle elezioni relativamente ai collegi della provincia di Bolzano e della Venezia-Giulia e di Zara, per un totale di quasi 750.000 elettori. Queste elezioni ovviamente non sono mai state fatte e quindi, con un provvedimento di legge, sono stati esclusi alcuni italiani - parecchi - dalla partecipazione al voto.
Risulta quindi, ed è un dato inoppugnabile, cari colleghi, che il 7-8 per cento
dell'intero corpo elettorale italiano non sia stato nelle condizioni di poter prendere parte a quella votazione. Quindi pongo la seguente domanda: quale legittimità ha quella Assemblea costituente alla cui composizione non ha potuto partecipare il complesso del corpo elettorale degli italiani? Di conseguenza quale legittimità ha la Carta costituzionale che entra in vigore il 1 gennaio 1948 e contiene, in particolare gli articoli 1, 5 e 139, articoli «bloccati» sui quali non sarà possibile intervenire perché postulano determinati elementi?
Questa Carta costituzionale è quindi chiaramente viziata per la mancata partecipazione corale; non solo, essa non ha mai ricevuto un crisma di legalità o una sanzione di legittimità, in quanto il corpo elettorale italiano non è mai stato chiamato né a sanzionare né a ratificare né comunque mai a pronunciarsi nel merito (mi riferisco al corpo elettorale italiano nel suo complesso).
Signor Presidente, onorevoli colleghi, quando, nell'estate dell'anno scorso, si poteva aprire questa fase di revisione assolutamente necessaria - questo è l'unico punto sul quale concordiamo tutti - e quindi affrontare una revisione a tutto campo, con il conforto del suffragio universale elettorale, che finalmente poteva esservi, lo si volle impedire.
Si disse quindi «no» ad una revisione a tutto campo e «no» ad un voto popolare, come poteva essere quello per l'elezione dell'Assemblea costituente. Si volle prendere il ferro vecchio - espressione che ho usato già in altre occasioni con molta soddisfazione - della Costituzione del 1948 per modificarlo, ma stando bene attenti a non modificarlo troppo, in modo da mantenerne ferma la prima parte, quella che, in barba alla sovranità popolare, stabilisce per esempio il principio di un'Italia una e indivisibile; mi riferisco anche all'articolo 139 e al fatto che l'Italia - Stato che si vanta di ciò - ha abolito la pena di morte ma ha mantenuto fino ad oggi quella dell'esilio.
A tale riguardo ricordo che le disposizioni transitorie della Costituzione sono state escluse dall'opera per volontà esplicita dell'attuale maggioranza di Governo. Gli atti relativi sono a disposizione di tutti: noi del gruppo della lega nord per l'indipendenza della Padania ci eravamo attivati in questo senso, ma i nostri emendamenti sono stati respinti.
Onorevoli colleghi, dopo che i vincitori, in nome di un presunto mandato popolare, hanno giudicato e condannato, ora si vuole, in modo sospetto almeno per quanto riguarda le motivazioni ed ambiguo nel metodo, procedere ad una limitata revisione che, facendo cessare gli effetti del primo e del secondo comma della XIII disposizione transitoria della Costituzione, dopo aver ribadito la condanna storica di casa Savoia permetta di fare oggetto i membri maschi di tale casa viventi in esilio di un provvedimento di grazia.
Non voglio entrare nel merito di valutazioni storiche, che mi sembrano del tutto fuori luogo e che sono già state fatte da altri colleghi nella discussione che si è svolta in sede di I Commissione. Non voglio farlo anche perché si fa riferimento a discendenti di re costituzionali, affiancati da governi, da ministri e da corpi legislativi; parecchie centinaia di persone, per non dire migliaia, che con la loro azione e la loro responsabilità hanno affiancato l'operato di questi sovrani. Mi pare che non siano mai esistite norme transitorie per loro e per i loro discendenti.
Cambiando piano di confronto, dal 1948 ad oggi molte cose sono avvenute, particolarmente sul piano dei rapporti e degli impegni internazionali, dall'adesione dell'Italia all'ONU ad una serie di accordi e trattati, tra cui cito quello di Strasburgo del 1963, ratificato dallo Stato italiano nel 1982, e quelli di Maastricht e Schengen.Lo Stato italiano si sottrae al rispetto di principi internazionali di diritto, dai diritti individuali di libertà al diritto all'autodeterminazione dei popoli (articoli 5 e 139 della Costituzione).
L'abrogazione della XIII disposizione transitoria è solo un piccolo atto di aggiustamento di un carrozzone di norme costituzionali spesso superate, avulse dalla
realtà della società italiana di oggi: dal problema del federalismo alla ricerca di norme elettorali adeguate ad una società molto diversa da quella di cinquant'anni fa, da cui ha ereditato una Costituzione che qualcuno ancora si ostina a mantenere immutata nella sua sostanza. Il risultato a cui è pervenuta la Commissione bicamerale, almeno stando al testo che verrà presentato al Parlamento, mi pare dia ragione a questa osservazione.
In proposito vorrei fare riferimento all'emendamento presentato dal collega Fontan ed all'intervento svolto dall'onorevole Borghezio in sede di discussione della legge costituzionale istitutiva della Commissione bicamerale, per richiedere che nell'attività di tale organo venisse ricompresa anche la competenza sulle norme transitorie. Così non è stato e l'emendamento è stato respinto a larghissima maggioranza. Questo è un segnale di quanto forte sia la volontà di rivedere in profondità la Costituzione!
Aggiungo ancora che, a correzione ed integrazione del testo proposto dal relatore, abbiamo presentato un ordine del giorno, rinunciando ad intervenire con emendamenti; quindi, quelli citati prima non sono ad iniziativa di deputati del nostro gruppo. L'ordine del giorno che abbiamo presentato ha risvolti di diritto internazionale che esamineremo al momento della sua trattazione.
Per concludere dirò che se è assurdo che siano ancora in vigore le norme transitorie della Costituzione del 1948, è altrettanto assurdo che lo Stato italiano si sottragga al rispetto di principi e trattati internazionali facendo della violazione degli elementari diritti dei singoli e dei popoli uno dei suoi fondamenti.
Signor Presidente, signor sottosegretario, colleghi, si abbia il coraggio di eliminare l'esilio, ma si abbia anche il coraggio di accettare il principio dell'autodeterminazione dei popoli, se si vuole che la Costituzione della Repubblica italiana sia qualcosa di più e di diverso da quella gabbia in cui i costituenti ci hanno chiuso nel 1948!
Credo che per esprimere una valutazione equanime e ponderata sul progetto di legge costituzionale in esame occorra interrogarci sulle ragioni e sulla natura del primo e del secondo comma della XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione italiana. Nel manifestare il nostro consenso al testo che l'onorevole Maselli ha presentato in aula, intendiamo parimenti dissipare dubbi od equivoci che possano eventualmente insorgere circa le nostre intenzioni. Non si tratta, infatti, di assegnare il significato di una sorta di «perdono storico» rispetto alle responsabilità che la ricostruzione critica e il giudizio del paese hanno addebitato all'operato di casa Savoia almeno a partire dall'inizio degli anni venti; responsabilità riconoscibili nella colpa del sostegno attribuito alla marea montante del fascismo e all'affermazione della dittatura, cui si aggiunge l'onta della sottoscrizione degli atti - estremamente vergognosi - della legislazione razziale del 1938, rispetto alla quale disponiamo oggi di una saggistica storiografica che ci fornisce gli elementi di un giudizio del tutto irremovibile. Gli studi di Levi o di Sarfatti, le ricerche di De Felice o di Tranfaglia, le stesse pubblicazioni edite dalla Camera dei deputati ci forniscono infatti una materia rispetto alla quale non possiamo modificare un giudizio che ha il sapore di una sanzione senza appello. Allo stesso modo, come richiamava or ora il sottosegretario Bettinelli, la rottura della tregua luogotenenziale offre ulteriori elementi ad un giudizio negativo e severo.
Né attribuiamo al testo che intendiamo sostenere il significato di una sorta di «amnistia costituzionale», in quanto l'aggiunta di un quarto comma non vuole rappresentare o costituire la riparazione di un torto o, per altri versi, il riconoscimento di una scelta compiuta nel 1948 che potrebbe oggi sembrare immotivata agli occhi di taluni. Basta aver ascoltato gli argomenti, si fa per dire, addotti dall'onorevole Lembo.
Vogliamo piuttosto riconfermare in questa sede le ragioni che furono all'origine della stesura di questa XIII disposizione finale e transitoria. Essa non fu certo dovuta ad un atto di acredine o ad una sorta di vendetta, fu piuttosto l'espressione di una stagione politica nella quale la Repubblica italiana trovava il proprio fondamento di legittimazione etica e politica.
Del resto stupisce che alcuni colleghi, anziché addebitarci i nostri torti, ci imputino le nostre ragioni, così come taluno oggi afferma di non essere più fascista, ma nello stesso tempo critica la cosiddetta prima Repubblica in ragione del fatto che è stata, appunto, sorretta e si è costituita nel paradigma antifascista.
Trovo abbastanza contraddittori ed insostenibili gli argomenti portati dall'onorevole Lembo. Conoscevo molte tipologie della figura politica del leghista; conoscevo il leghista localista, federalista, autonomista, indipendentista, secessionista; oggi ho potuto conoscere, in quest'aula, anche la figura del leghista monarchico: in realtà la monarchia, sia per l'esperienza storica della vicenda risorgimentale sia per quanto la dinastia dei Savoia rappresenta nell'immaginario collettivo degli italiani, rimanda in modo inequivocabile all'idea ed al fatto dell'unità nazionale del nostro paese.
A me viene il dubbio che giochi qualcosa di non detto nell'immaginario politico dell'onorevole Lembo. Infatti, nel momento in cui ci si proclama leghisti monarchici, in qualche misura si pensa ad una sorta di Bossi re della Padania, ad un sovrano incostituzionale. Del resto, per chi pensa al proprio partito nei termini della prospettazione di una presenza unica a dinamica totalitaria, così come la lega si presenta nella cosiddetta Padania, tale sospetto troverebbe fondamento. L'onorevole Lembo, d'altra parte, ha avuto il coraggio, o forse la spudoratezza, di utilizzare un'espressione che è suonata estremamente cupa, quando ha recentemente parlato di lobby ebraica. Evidentemente per lui è passata invano la lezione giuridica, storica e morale di esponenti altissimi del pensiero liberale come Ruffini o Croce i quali, esprimendo un giudizio di insieme sulla vicenda dei Savoia in Italia nel corso del novecento, hanno espresso una sanzione critica e senza rimedio.
Forse l'onorevole Lembo non ha avuto occasione di leggere il recente, piccolo, splendido scritto di Rosetta Loy, la quale ci ricorda che: «Brucia dirlo, ma un orlo nero continuerà a segnare i nostri giorni senza memoria e senza storia».
Non è un caso - lo richiamava opportunamente il collega Maselli - che altre Costituzioni, quelle di paesi che hanno conosciuto il cono d'ombra del fascismo e del nazismo, portino il richiamo a date storiche che costituiscono termini post quem tali da rappresentare riferimenti in nessun modo superabili o eludibili.
Come dicevo, è opportuno interrogarci sulla natura del primo e del secondo comma della disposizione XIII finale e transitoria, perché non vi è dubbio che le norme contenute in questi testi denotano un carattere eccezionale. Esse inducono a chiederci se l'interdizione del territorio sia tuttora politicamente e giuridicamente giustificata. In effetti, l'esclusione dal territorio consiste in una deroga alle regole generali; ma non esiste, nella storia e nella tradizione della cultura occidentale, un'interpretazione o una gestione dell'esilio come misura di sicurezza politica che non abbia un limite o un termine temporale. Trovo dunque del tutto consentaneo a questa argomentazione il fatto che si definisca una data, peraltro del valore emblematico: 1 gennaio 1998, data che segna tutto un cinquantennio, per riattivare un diritto la cui delimitazione scaturiva dalla specifica contingenza storica e
politica nella quale la norma costituzionale veniva fissata. Questa deroga può certamente aver vita nell'ordinamento solo in quanto disposta con una norma di rango costituzionale. Se fosse invece stabilita con una disposizione di legge ordinaria si tratterebbe, allora sì, di quella sorta di Verfassungselbdurchbrechung, cioè di autorottura della Costituzione di cui alcuni hanno parlato. Ciò senza contare le convenzioni internazionali, cui aderisce attualmente l'Italia, in materia di diritti umani e civili.
Queste convenzioni non negano a ciascun Stato il diritto di regolamentare l'accesso al proprio territorio, ma consentono di farlo solo con norme generali ed astratte, non discriminatorie né ad personam. D'altra parte, il potere di escludere dal territorio riguarda essenzialmente gli stranieri, cioè coloro che per definizione non fanno parte della Comunità nazionale. Quanto ai cittadini, invece, il diritto al territorio è uno degli elementi caratteristici ed essenziali dello status di cittadinanza e la Costituzione italiana, pur privando i Savoia di una serie di diritti, non li ha privati di quello di cittadinanza, che tuttora conservano.
Possiamo dire pertanto che l'esclusione dal territorio, nella misura in cui la si è voluta considerare una sanzione afflittiva piuttosto che una misura preventiva contro tentativi di restaurazione monarchica, rappresenta una deroga anche al principio, ugualmente essenziale, di uno Stato di diritto, per cui, al di fuori della serie dei rapporti patrimoniali, responsabilità e sanzione hanno un carattere strettamente personale. Del resto, a me pare che valga un'ulteriore considerazione, frutto di una constatazione ovvia, e cioè che quanto meno sia dubbia la possibilità di configurare l'esclusione dal territorio come una sanzione afflittiva permanente, duratura ed irrevocabile, comunicabile a discendenti personalmente incolpevoli. Ciò risalta a maggior ragione in piena evidenza se si considera che in questa Camera siede, ad esempio, una discendente di Benito Mussolini, un protagonista degli stessi casi cui allude la vicenda storica della monarchia italiana. L'interdizione dal territorio quanto ai discendenti trova dunque la sua più appropriata configurazione giuridica e storico-politica se intesa come misura preventiva contro eventuali tentativi di restaurazione monarchica, che non mi pare siano oggi all'ordine del giorno. Sembra infatti evidente che, a distanza di mezzo secolo, il contesto storico, politico e sociale è radicalmente mutato. Sono scomparsi i protagonisti, non vi è più un partito dichiaratamente monarchico che, peraltro, fino a quando è esistito ha ricevuto legittimazione democratica ed ha partecipato alle campagne elettorali.
A noi pare, quindi, che oggi mantenere l'esclusione dal territorio sia un anacronismo, cioè che non vi sia più proporzione tra la deroga ai principi di uguaglianza e di libertà delle persone e l'interesse, non più minacciato, della Repubblica a conservare se stessa. L'iniziativa assunta dal Governo, dal Governo di una Repubblica unita, forte della sua tolleranza non sottintende né comporta alcuna revisione, dunque, dei giudizi etico-politici su vicende a tutti note e ormai consegnate ad una storia che ha visto i protagonisti «affidati ai tempi ed ai tribunali loro», come scrisse opportunamente Benedetto Croce; una storia che non è mai giustiziera, ma che serve a capire, a spiegare e comprendere.
Infine, una considerazione conclusiva. Ritengo che sia stato opportuno l'inserimento di un quarto comma, il quale fa cessare gli effetti del primo e del secondo a partire dalla data indicata nel testo, perché non reputo che la nuova fase della vita pubblica del nostro paese, la seconda fase della storia repubblicana, possa trovare fondamento in una sorta di delegittimazione di quel fondamento etico-politico rappresentato dalla stagione costituente della Resistenza e della lotta di liberazione. Non credo cioè che si possa costruire o pensare di costruire in Italia una seconda Repubblica negando quelle ragioni della prima che hanno una valenza metastorica e transpolitica, che hanno avuto fondamento in una stagione
straordinaria di eticità pubblica e delle quali è tuttora valida l'ispirazione. Un ispirazione cui vogliamo garantire una sua perduranza, al di là del tempo, dei giorni in cui ci apprestiamo a votare il provvedimento in esame.