Seduta n. 214 del 19/6/1997

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Si riprende la discussione del documento di programmazione economico-finanziaria - Doc. LVII, n. 2 (ore 18,10).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole De Benetti. Ne ha facoltà.


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LINO DE BENETTI. Non sono molto attento alle categorie della necrofilia però, se a quelle devo richiamarmi, devo dire che questo Governo, sebbene faticosamente, sta cercando di mettere da parte e non di riesumare antichi cadaveri, per esempio per quanto riguarda l'immenso debito pubblico che i precedenti governi sono riusciti a far accumulare.
Come ho già avuto modo di dichiarare in Commissione, questo documento di programmazione economico-finanziaria ha un impianto forte, che io condivido, fatto naturalmente di indirizzi. Non debbo qui ripetere quanto i colleghi della maggioranza, i relatori ed i colleghi della Commissione bilancio hanno detto in senso costruttivo e positivo. Voglio allora esprimere, senza che appaia una sottovalutazione di quanto premesso, alcune critiche. Mi pare che vi siano qua e là, negli indirizzi di questo pur poderoso impianto, talune ambiguità e debolezze. Per utilizzare l'adagio di un'antica favola, mi pare di cogliere - non dum matura est, nolo acerba sumere - poco coraggio nell'affrontare alcuni nodi essenziali della nostra economia, della nostra finanza e della nostra socialità.
Ho fatto riferimento ad alcuni impianti che riguardano - così ho creduto di vedere, con gli occhi stessi del documento - l'Europa e il risanamento dei conti pubblici interni, la questione della crescita con alcuni accenni, per la prima volta, anche se molto deboli, allo sviluppo sostenibile, la questione dello Stato sociale e quella della fiscalità.
L'opera di risanamento deve essere perseguita di per sé. Ho parlato di alcune perplessità, signor rappresentante del Governo, perché qua e là mi sembra che la contestualità sia debole. Sono contento che ad Amsterdam sia stato firmato per prima cosa il patto di stabilità, perché il risanamento dei conti rappresenta, come minimo, il dovere sostanziale di ogni buona famiglia, se vogliamo tradurre rozzamente un concetto economico. Come ho detto pochi giorni fa nel corso della discussione di una mozione, per quanto riguarda l'Europa sono assolutamente convinto da sempre della necessità di un'Europa sociale, politica e sostenibile e ritengo che siano questi i veri indirizzi del mondo in cui viviamo, dell'Europa occidentale e dell'Italia; comunque il raggiungimento dei parametri di Maastricht, draconiani come sono, deve avvenire attraverso il risanamento della nostra economia, in modo chiaro e concreto, senza tergiversare su equilibri in questo momento impossibili.
Per quanto riguarda lo Stato sociale, sono convinto che esso non vada smantellato, come hanno affermato altri colleghi di destra e di sinistra. Smantellato no, ma modificato sì. Lo spaventoso deficit dell'INPS, i dati che abbiamo visto in questi giorni, i dati del CENSIS sui milioni di lavoratori in nero (quattro milioni, il 26 per cento del PIL sfugge a fisco e previdenza), l'esercito di giovani disoccupati, pensionati e cassintegrati (quasi la metà nel sud): come possiamo non pensare che questa spesa sociale non vada modificata e completamente ristrutturata? Tiepidi ed ambigui mi paiono alcuni indirizzi del DPEF. Lo Stato sociale non va modificato solo per ragioni demografiche, di tendenza, di trend, di aumento dell'età media.
L'ambiente e lo sviluppo sostenibile non rappresentano una variante in più. Sono presenti in varie pagine, per la prima volta nella storia dei vari governi - almeno la storia che conosco io, relativa alle ultime tre legislature - è presente la questione ambientale, ma ancora come una variabile, un diaframma qua e là. Lo sviluppo sostenibile, lo ripeto ancora una volta, fa parte del processo produttivo ed economico, della crescita del paese e dell'economia. Non è presente in questa struttura ed in questa forma, perché non sono chiariti gli incentivi alle imprese attraverso la riduzione degli oneri sociali, non vi è un chiaro collegamento con l'occupazione, non vi è alcun indirizzo da tradurre nel non sfruttamento delle risorse e degli ecosistemi. Tutti questi aspetti mancano. Basti pensare, per esempio, alla questione del mercato del lavoro. Si parla di formazione professionale, ma occorre individuare quali sono i canali di


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formazione professionale che aprono le condizioni del futuro. Ciò non avviene e non basta parlare in astratto.
Concludo le mie osservazioni, che richiederebbero una ben più lunga articolazione, sottolineando quanto ho premesso. La mia richiesta è che alla base della prossima finanziaria e dei provvedimenti del Governo vi sia la volontà di dare corpo agli indirizzi un po' deboli che mi fanno esprimere parecchie perplessità su questo documento di programmazione economico-finanziaria, che comunque condivido.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Testa. Ne ha facoltà.

LUCIO TESTA. Signor Presidente, colleghi, rappresentante del Governo, l'azione di risanamento del bilancio, dei conti pubblici e la marcia di avvicinamento all'unione monetaria europea segnano in questo dibattito e nel voto che si esprimerà domani un ulteriore, decisivo passo in avanti. È questa la chiave che dobbiamo attribuire prevalentemente al DPEF, inteso come momento importante di un lungo processo di risanamento per l'ingresso in Europa.
Le principali critiche che i colleghi delle opposizioni (sia del Polo sia della lega) hanno espresso su questo documento sono nate perché esso è stato considerato quasi come un episodio isolato dal contesto in cui il documento stesso va invece collocato, quasi come un atto a sé stante, non già come una parte integrante, necessaria, del lungo, faticoso e sicuramente difficile cammino verso la stabilità, la lotta all'inflazione e la ripresa economica.
Senza questo documento o con un documento diverso (sì, colleghi, perché gira anche qualche bozza alternativa) questi obiettivi sarebbero meno certi. Non voglio riproporvi cifre, percentuali, rapporti: ne abbiamo sentiti tanti in sede di audizioni, di relazioni e di osservazioni critiche, ma sta di fatto che abbiamo alcuni dati certi: la spesa pubblica è sotto controllo, è governata, il debito pubblico non cresce, anzi diminuisce, l'inflazione ha raggiunto livelli paragonabili a quelli di altre nazioni europee.
Dobbiamo essere sinceri con noi stessi, onorevoli colleghi; chi avrebbe mai creduto che avremmo raggiunto quest'anno un'inflazione pari all'1,8 per cento? Lo scorso anno questi obiettivi venivano giudicati come risibili; ricordo ancora alcune valutazioni ed alcune battute su di essi, ma oggi sono una realtà.
Le stesse cose potrebbero dirsi per i conti con l'estero, le ragioni di cambio all'interno dello SME; quando lo scorso anno nel documento di programmazione si proponeva di rientrare nello SME vi sono state battute e valutazioni di diverso tipo, ma la realtà ci propone oggi il pareggio dei conti con l'estero e la saldezza della lira, che acquista terreno nell'ambito dello SME. Sono fatti. Siamo nelle condizioni di richiedere al Governatore della Banca d'Italia una riduzione del tasso degli interessi, ancora un'altra riduzione.
È vero che il Governatore Fazio resiste per una serie di ragioni che ha ricordato nel corso delle audizioni svoltesi recentemente, ma la richiesta è plausibile, è fondata, mentre lo scorso anno non era né plausibile né fondata.
Cari colleghi delle opposizioni, misconoscere questi fatti significa misconoscere la realtà. Il DPEF non fotografa solo questi fatti, ma ci dice qualcosa di più: corregge prima della finanziaria (badate bene, nel mese di settembre) la rotta per rendere ancora più certi e sicuri questi obiettivi generali con una nuova manovra di 26.500 miliardi essenzialmente di carattere strutturale.
Noi abbiamo licenziato di recente una «manovrina», che non era di carattere strutturale; nessuno l'ha voluta far passare per tale. Colleghi dell'opposizione hanno irriso anche in questa situazione, dicendo che non era utile. Ma anche quello era un elemento del passaggio, del processo. Se noi guardiamo, dal 1992 in poi, dai primi feroci provvedimenti Amato, allo snodarsi del percorso di avvicinamento che i diversi governi hanno intrapreso - bisogna riconoscere che an


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che quello Berlusconi ha fatto alcuni passi, forse poi contraddetti da altri - possiamo notare, alla fine di questo processo, che: la pressione fiscale risulta alleggerita, sia pure di poco; la spesa in conto capitale non è diminuita, ma è aumentata; la spesa di parte corrente non è in espansione, ma è controllata (la spesa di parte corrente è controllata, anche grazie al blocco della cassa).
Noi abbiamo assunto una fisionomia agli occhi dei partner europei: la fisionomia di un Governo, di un Parlamento, di un popolo che ha appreso e coltiva la cultura della stabilità come un fatto acquisito; vi par poco?
Ora, l'altra faccia della medaglia di questo DPEF - e passo ad una parte più propositiva, se volete, anche di critica costruttiva, che però è stata già accolta in sede di valutazioni da parte del Governo e dei relatori in entrambe le Commissioni - riguarda lo sviluppo, la crescita economica, la crescita del PIL, la lotta alla disoccupazione, la valorizzazione del sommerso, la sua eventuale utilizzazione a fini positivi, la modernizzazione del paese e della pubblica amministrazione, l'efficienza delle strutture dello Stato. È verso questi obiettivi che nella risoluzione verranno date indicazioni positive; lo speriamo, lo chiediamo e l'impegno del Governo è in questo senso.
È vero: il problema dell'occupazione, dello sviluppo attraversa tutto il documento di programmazione economico-finanziaria, però manca un apposito, specifico capitolo su questo. Lo sviluppo e l'occupazione non possono poggiarsi di nuovo sul deficit di bilancio, sull'espansione della spesa pubblica ed è per questo che vi è un impegno ulteriore e una difficoltà ulteriore. Oggi questa linea di espansione dello sviluppo, la crescita del PIL e dell'occupazione non può basarsi, neanche per il sud, su un dilatarsi della spesa e non già sul riordino dei conti pubblici. Per questo, occorre promuovere una specifica politica per l'occupazione, attraverso programmi di intervento che riguardino: l'occupazione giovanile; le aree depresse, siano esse collocate al nord o al sud; un qualificato programma di formazione professionale; un rapporto diverso tra scuola e mondo produttivo. Nel corso delle audizioni abbiamo ricevuto indicazioni di notevole rilievo. Il presidente dell'ABI ci ha detto che per utilizzare la moneta unica occorrerà avere la capacità professionale di diverse migliaia di funzionari bancari in grado di alzare il telefono e di parlare nella lingua finanziaria - non tra dieci anni, ma dal prossimo anno! - e ci diceva che il sistema bancario, il mercato italiano del lavoro non è in grado di fornirli. Questo significa non gestire la moneta unica.
Mi avvio alla conclusione con una sottolineatura. È emerso con tutta evidenza e con tutta l'importanza che il fenomeno riveste il lavoro nero e l'occupazione occulta. I diversi studi di ricerca hanno rivelato la dimensione sicuramente eccezionale del fenomeno: si è parlato di circa 4 milioni e 100 mila posizioni.

PRESIDENTE. Onorevole Testa, dovrebbe concludere.

LUCIO TESTA. Chiedo espressamente che nella risoluzione questo problema venga affrontato e in qualche modo utilizzato e «nobilitato». È una grande risorsa per tutto il paese: meglio un occupato occulto che un disoccupato emerso (Applausi)!

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Apolloni. Ne ha facoltà.

DANIELE APOLLONI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor rappresentante del Governo, una attenta ed obiettiva analisi del documento di programmazione economico-finanziaria 1998-2000 mi ha lasciato quanto mai allarmato, esattamente come per quello discusso in quest'aula circa un anno fa. Un progetto che definire palesemente generico, inattendibile ed inadeguato è cosa di ordinaria amministrazione.
Non mi soffermerò particolarmente su premesse o introduzioni varie per iniziare a dipingere il catastrofico quadro economico in cui versa questo Stato alla deriva,


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chiamato Italia. Un quadro che lei, signor Presidente, e noi tutti conosciamo fin troppo bene. La lega nord per l'indipendenza della Padania dodici mesi fa sosteneva che la crescita del PIL sarebbe stata inferiore a quella calcolata fittiziamente dal Governo Prodi, e così è stato. L'obiettivo del 2 per cento previsto dal Governo per fine anno è rimasto un sogno.
Che dire allora della troppo ottimistica previsione di aumento dell'occupazione? Il DPEF è un documento troppo generale, che consente di fare poco in termini valutativi; un maggiore dettaglio sugli interventi che si vogliono fare consentirebbe una valutazione più approfondita. Questo la lega nord per l'indipendenza della Padania l'ha da sempre denunciato e sempre lo denuncerà fino alla fine, assai prossima, della dipendenza della Padania dallo Stato italiano.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE MARIO CLEMENTE MASTELLA (ore 18,30)

DANIELE APOLLONI. Quello del DPEF non rappresenta dunque che la classica farsa della mentalità politica italiana, che in parole povere rimanda, come al solito, alla manovra finanziaria le voci delle misure e degli interventi che il Governo Prodi dovrà adottare.
La finanziaria 1998 di quest'autunno fa già tremare i settori del lavoro e della produzione; i prospettati interventi sull'IVA, anche se una tantum, provocheranno tensioni inflattive; l'aumento dei prezzi si ripercuoterà sui tassi di interesse e nel cosiddetto medio periodo l'innalzamento delle aliquote tenderà a generare aumenti di spesa. Ricordo poi il prospettato adeguamento dei bolli e delle imposte in cifra fissa, l'introduzione di tasse ecologiche, la prospettiva della riforma del welfare, riguardante la correzione di 15 mila miliardi della spesa che interesserà per quasi 10 mila miliardi le prestazioni sociali, la prospettiva della fine dell'autonomia della Banca d'Italia, con annessa previsione di una norma costituzionale ad hoc; la dinamica del fabbisogno dell'insaziabile settore statale che si preannuncia come sempre catastrofico e catastrofico si preannuncia il tasso di crescita del prodotto interno lordo. È sufficiente solo pensare che per quest'anno si attendeva un incremento del PIL del 3,1 per cento, con conseguenti fabbisogni di 87 mila miliardi nel 1997 e di 63 mila miliardi nel 1998.
Il settore statale è quello in cui bisognerebbe concentrare i maggiori risparmi e nel quale occorrerebbe verificare e definire gli organigrammi ottimali, per poi adeguarvi il personale, in modo che tutti coloro che si trovano in uno stato di esubero vengano subito posti in mobilità ed assegnati a lavori socialmente utili.
Che dire poi della pressione tributaria, che definire maldistribuita oltreché onerosa per dipendenti e società di capitali, anche se assai meno per soggetti che danno luogo ad un livello di evasione assai superiore allo standard europeo, è dir poco? Per evitare questo rischio, le strade da seguire per avere una consistente riduzione del debito pubblico non sono molte. Da tempo la lega nord per l'indipendenza della Padania propone di passare da una gestione statale ad una federale, sopprimendo alcuni ministeri e lasciando nelle mani dello Stato solo la gestione di quelle spese che per le loro caratteristiche sono di interesse comune. Inoltre suggerisce di ridurre le spese correnti dello Stato e degli enti locali nel loro complesso e di accelerare i processi di privatizzazione, che possono comportare una riduzione dell'ammontare dello stock del debito, ma che man mano che interessano aziende e complessi redditizi produrranno l'effetto di contrarre le entrate correnti. Propone poi di procedere alla liquidazione del patrimonio immobiliare dello Stato che ammonterebbe, da stime, ad un terzo dell'intero ammontare del debito. Infine, reputa indispensabile l'abbassamento dei tassi di interesse.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, a proposito di Europa, l'Italia, al contrario della Padania, rimane ancora assai lontana dall'Unione monetaria e ne resterà


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fuori ancora per molto. L'Italia è lontana anni luce se confrontiamo il rapporto deficit della pubblica amministrazione-PIL e debito-PIL italiano con quello degli altri paesi europei.
Proprio il rapporto debito-PIL registra una lentezza nella propria riduzione da far rabbrividire, perché l'Italia, con il mese di giugno di quest'anno, ha toccato quota 4 milioni di miliardi per il fabbisogno della previdenza riguardante le pensioni. Si tratta di 4 milioni di miliardi che, sommati ai 2,4 milioni di miliardi del debito pubblico, diventano circa 6 milioni e mezzo di miliardi.
I parametri di Maastricht dovevano essere rispettati già trent'anni fa. Così facendo non avremmo addebitato ai nostri figli il catastrofico debito pubblico divenuto ormai insostenibile.
Per dare un'idea sintetica del peso del debito pubblico dell'Italia, senza ricorrere alle cifre stratosferiche di milioni di miliardi, basta ricordare che l'erario paga, in interessi, l'equivalente di 4 milioni di lire l'anno per ogni italiano, il che è un po' meno di quanto spende per l'assistenza e la previdenza sociale per ciascuno di noi.
Il debito pubblico dell'Italia aumenta alla velocità della luce ed accumula cifre spaventose solo per pagare gli interessi sui titoli pubblici, BOT e CCT. Ogni anno esso aumenta di 200 miliardi, cresce di 21 miliardi all'ora, di 350 milioni al minuto e di 58 milioni circa al secondo.
Un ammontare così cospicuo del debito pubblico è stata una caratteristica solo italiana. Con il passare degli anni, l'Italia, che non ha ancora saputo mettere in atto misure efficaci, sta diventando la pecora nera dei paesi sviluppati e sotto questo aspetto può invidiare numerosi paesi in via di sviluppo.
La verità è che l'Italia rimane un paese malgestito, che di questo passo, con questi documenti di programmazione economico-finanziaria così poco attendibili e senza riforme strutturali - fatto che meglio di qualunque altro esempio dimostra in che condizioni siete ormai ridotti - non riuscirà ad entrare in Europa.
Per quanto attiene alla disastrosa situazione del Mezzogiorno, dal documento di programmazione economico-finanziaria si evince chiaramente che si intende continuare a favorire la crescita dei consumi senza tuttavia finalmente dare vita ad un sistema atto a favorire una reale crescita dei consumi stessi ed uno sviluppo autonomo.
Ecco un'altra mal nata caratteristica di questo mal nato Governo! Tra le pieghe del documento di programmazione economico-finanziaria si legge ancora una volta che al sud ci saranno agevolazioni fiscali per le imprese che investono e creano nuova occupazione, mentre per il nord non è prevista alcuna agevolazione, solo tasse e controlli della Guardia di finanza. Per il sud la soluzione è quella del mercato, quella dell'adozione di una moneta propria, in modo da effettuare svalutazioni competitive, con il risultato di una maggiore responsabilizzazione del Mezzogiorno. Sarebbe un colpo mortale alla disoccupazione ed un irresistibile richiamo ad infiniti investimenti. L'unico modo per risolvere in fretta la situazione è ricorrere ad una separazione consensuale in cui la Padania adotti la moneta euro, cosa che i concittadini del sud potrebbero fare una volta rimesso a posto il loro sistema economico e produttivo.
Ritengo infine di primaria importanza che il Governo chiarisca l'articolazione degli interventi che la legge finanziaria dovrà contenere. Le incertezze profonde che attualmente stanno impedendo ai nostri tassi di interesse di scendere ulteriormente sarebbero superate; per quanto piccolo, sarebbe un passo nell'infinito cammino di questo Governo che sta rischiando davvero di illudere i giovani d'oggi e di domani, nonché i pensionati che fra un paio d'anni o poco meno saranno i primi a scendere in piazza per reclamare i propri diritti insieme agli appartenenti alle categorie più deboli.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Giannotti. Ne ha facoltà.

VASCO GIANNOTTI. Signor Presidente, mentre è aperto il confronto tra


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Governo e forze sociali sulla riforma dello Stato sociale, mi sembra un'occasione quanto mai opportuna che anche il Parlamento, discutendo del documento di programmazione economico-finanziaria, possa misurarsi su questo problema, decidendo l'ambito di compatibilità tra risorse da destinare e quantità e qualità di servizi da garantire ai cittadini. Voglio affrontare brevemente e schematicamente tale questione da un'angolatura particolare, quella dei servizi sanitari e degli interventi nel sociale, quelli cioè che servono perché anche i più deboli, coloro che hanno meno chance abbiano accesso almeno ai più elementari diritti di cittadinanza. Ebbene, nel documento di programmazione economico-finanziaria, sia pure nell'ambito di un quadro rigoroso di azioni necessarie per seguire il necessario obiettivo di risanamento e sia pure all'interno di un'ottica, assolutamente da condividere, di partecipazione piena dell'Italia al processo di integrazione europea, il Governo (sottolineo che si tratta di una scelta importantissima) opera una correzione di posizione rispetto a quanto previsto nel documento Onofri. Mi riferisco alla quantità delle risorse da destinare allo Stato sociale. Sappiamo che per il complesso di prestazioni sociali oggi si spende circa un quarto del PIL, non certo di più rispetto alla media della spesa dei paesi europei.
Giusto mi sembra l'orientamento espresso nel documento di programmazione economico-finanziaria, là dove si dice che il problema oggi non è quello di ridurre l'ammontare delle risorse complessive, quanto invece una diversa redistribuzione tra le diverse finalità.
È una novità importante questa, ma qui vedo anche una sfida, per noi e per il Parlamento. L'alternativa non è più, come sembrava nei mesi passati, tra lo smantellare pezzi importanti dello Stato sociale oppure difendere ciò che oggi c'è: la linea del documento ci spinge invece ad una coraggiosa opera di innovazione, con l'obiettivo di includere tra i destinatari dei servizi del welfare anche coloro che oggi ingiustamente ne sono fuori. Mi riferisco, in particolare, alle giovani generazioni.
In quest'ottica voglio affrontare alcuni problemi specifici. Prendiamo ad esempio il capitolo della sanità. In questo caso si verifica addirittura un'inversione più marcata rispetto alla tendenza degli anni passati, quando la sottostima del fondo sanitario nazionale ha permesso l'aggravarsi del fenomeno dei debiti pregressi, che gravano pesantemente sui bilanci della regione. Ora si dice espressamente che bisogna adeguare gli stanziamenti del fondo sanitario nazionale in misura tale da evitare, nel rispetto dei rigorosi vincoli finanziari, il continuo formarsi di disavanzi sommersi, da far ripianare poi a posteriori. È un'importante inversione di tendenza.
Tutto bene, dunque? No, perché, nonostante gli interventi di razionalizzazione e di lotta agli sprechi che nella sanità sono stati fatti anche quest'anno con la legge finanziaria, penso che si debba e si possa incidere ancora di più per ottenere più efficienza e lo spostamento di risorse da un settore all'altro. Penso alla spesa ospedaliera, attualmente in Italia vicina al 60 per cento del fondo sanitario nazionale, molto più alta della media europea, enormemente maggiore delle previsioni dell'organizzazione mondiale della sanità, che prevede ottimalmente il 45 per cento di spesa ospedaliera.
Perché tutto questo è accaduto? Perché con il riordino del sistema sanitario (leggi n.502 e 517) e con i tagli della spesa sanitaria siamo oggi al 4,9 per cento del prodotto interno lordo. Ebbene, abbiamo inciso sull'equilibrio previsto dalla legge n.833 tra prevenzione, territorio ed ospedale, e abbiamo fatto sì che la sanità diventasse troppo «ospedalocentrica», con il risultato di un drenaggio di risorse, anche perché l'ospedalizzazione impropria è il frutto di insufficienti presidi nel territorio.
Riformare - ecco il punto - e innovare significa affrontare in modo moderno il problema sempre più grave della non autosufficienza. Mi riferisco non solo all'handicap ma anche al fenomeno esponenziale

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della non autosufficienza degli anziani. Che fare quando c'è un anziano non autosufficiente? O si scarica il peso sulla famiglia, con ciò che ne deriva, ovvero si riempiono le corsie dell'ospedale. Ecco l'ospedalizzazione impropria.
Nel documento di programmazione economico-finanziaria c'è un giusto cenno al fondo per la non autosufficienza, guardando quello che si sta facendo in Germania: un servizio a rete sul territorio per integrare sociale e sanitario, per un'assistenza domiciliare agli anziani che garantisca un'assistenza personalizzata qualitativamente superiore e un risparmio di risorse. I dati dimostrano che un anziano ben assistito a casa domiciliarmente costa 150-200 mila lire al giorno mentre in ospedale costa il doppio, così come costa il doppio in una residenza sociale per anziani. Ecco allora un esempio: aumentare la qualità dell'intervento, incidere e risparmiare sulla spesa.
Altro esempio. Per il sistema assistenziale spendiamo oggi complessivamente più di 80 mila miliardi, ma per l'80 per cento si tratta di trasferimenti monetari, con un incerto confine sul terreno dell'equità, tenendo conto delle difficoltà nell'accertamento dei redditi sia individuali che familiari. Su tale tematica il Parlamento sta lavorando, e bene; ad esempio la Commissione affari sociali è ad un livello di avanzata elaborazione per la riforma dell'assistenza e lo sforzo è quello di spostare risorse dai trasferimenti monetari ad un sistema a rete di servizi nel territorio, attivando il principio della sussidiarietà. In questo quadro bisogna collocare un istituto importante, nuovo, previsto dal DPEF, quello del minimo vitale, seppure con un avvio sperimentale e per così dire corretto, facendo riferimento cioè al principio di cittadinanza, nel senso che questo deve essere un istituto di promozione del diritto di cittadinanza, mutuato però con la disponibilità di coloro che non hanno bisogno di partecipare a programmi di formazioni individuali o a lavori socialmente utili.
Il Governo sta facendo molto per la promozione di nuove politiche sociali: basti pensare al capitolo sui bambini. Al riguardo è all'esame del Parlamento l'importante provvedimento relativo ai diritti per l'infanzia e per l'adolescenza, ed il Governo ha licenziato un piano nazionale di azione per l'infanzia. Faccio inoltre riferimento alla Conferenza nazionale di Napoli sulle tossicodipendenze e ancora al disegno di legge per le agevolazioni fiscali alle giovani coppie. In sostanza, si va nella direzione di un quadro di interventi organici, al fine di intervenire soprattutto nelle aree del disagio più grandi.
In questo quadro, ritengo che quanto previsto dal documento di programmazione economico-finanziaria, cioè l'istituzione per la prima volta di un fondo sociale nazionale per l'assistenza, così come è previsto per il fondo sanitario, rappresenti un fatto molto importante, a sostegno di interventi innovativi in modo che, secondo il principio di sussidiarietà con gli enti decentrati si riesca, appunto, a gestire progetti sociali europei anche con l'obiettivo di concorrere ad ottenere maggiori finanziamenti. Ritengo pertanto di poter dire, a partire da questi due segmenti importanti di Stato sociale - cioè la sanità e le politiche sociali - che quanto prevede il documento di programmazione economico-finanziaria è coerente con gli elementi di novità già introdotti dal Governo, va nella direzione, ripeto, di superare quel dissidio che è sembrato essere inevitabile - o smantellamento, oppure mantenimento di ciò che c'è - ed apre la strada ad una coraggiosa opera di rinnovamento e di innovazione (Applausi dei deputati del gruppo della sinistra democratica-l'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Cicu. Ne ha facoltà.

SALVATORE CICU. Signor Presidente, il gruppo di forza Italia ritiene, anche con riferimento alle considerazioni svolte dal collega che mi ha preceduto, che ci si trovi invece di fronte a molta demagogia, a poche scelte coraggiose e soprattutto ad una linea di grande incoerenza rispetto alle promesse di un programma elettorale.


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Ciò lo si rileva dall'esame del documento di programmazione economico-finanziaria, soprattutto quando lo si sottopone ad una verifica attraverso due profili: il confronto con gli altri paesi europei - dal quale l'Italia esce a pezzi - e soprattutto il piano della spesa sociale e dell'occupazione. Dal primo punto di vista, infatti, l'OCSE ha rilevato che il rapporto tra la spesa sociale e il prodotto interno lordo rischia di superare il 114 per cento, mentre dal secondo punto di vista occorre rimarcare che purtroppo non si registra alcun miglioramento dei dati sull'occupazione.
L'azione del Governo Prodi è ormai sotto gli occhi di tutti; da più di un anno non ha conseguito alcun risultato nel campo economico, ma soprattutto ogni volta annuncia di voler sgravare i cittadini da un certo tipo di tassazione e inevitabilmente la pressione fiscale, dopo che il Governo e lo stesso Presidente del Consiglio lo hanno annunciato, sale.
Noi riteniamo che, al di là dell'aumento del carico tributario, gli strumenti che si vogliono configurare non siano quelli più idonei a trovare soluzioni efficaci e soprattutto coerenti rispetto alla situazione drammatica che il paese vive. Dal documento di programmazione economico-finanziaria risulta che nel 1997 vi saranno maggiori entrate per circa 51 mila miliardi e che le spese dovrebbero crescere di 22 mila miliardi. Tutto può dirsi, perciò, fuorché che il documento preveda una riduzione della spesa pubblica.
In definitiva, riteniamo che gli obiettivi che il Governo si pone non siano adeguati a risolvere alcuno dei grandi drammatici problemi esistenti nel paese. Il Governo Prodi, invece di affrontare tali questioni, continua a spremere le famiglie e le imprese senza ridurre la spesa pubblica, venendo meno, in questo modo, a quello che è un programma enunciato.
Vorrei brevemente soffermarmi sulla situazione che il paese vive nella diversificazione tra dramma del meridione e la richiesta, da parte di una rappresentanza politica, di rottura tra nord e sud. Riteniamo che tutto ciò sia addebitabile alla mancanza di coraggio dell'azione politica ed economica nel paese, perché arrivano notizie catastrofiche dal Mezzogiorno. Lo SVIMEZ, anticipando il suo tradizionale rapporto, ci informa che nel 1996 l'economia meridionale appare in uno stato fallimentare: gli investimenti si sono ridotti dello 0,2 per cento, i disoccupati sono aumentati dello 0,2 per cento, il prodotto lordo pro capite corrisponde ormai a poco più della metà di quello del centro-nord. Negli stessi giorni il presidente del CNEL, Giuseppe De Rita, comunicava ai senatori della commissione bilancio che il Mezzogiorno è allo sbando, perché il passaggio dall'intervento straordinario a quello ordinario non ha funzionato. È un sud ormai alla deriva, orfano delle istituzioni.
Molti però dimenticano che nel sud un'intera classe dirigente è stata spazzata via con il compiacimento della gente meridionale; uomini che per anni e decenni hanno controllato i punti strategici della vita politica italiana a Roma e nei feudi di provenienza, sono sotto processo, costretti a vita privata. C'è un risveglio, una ritrovata dignità che nel sud sta emergendo sempre di più. Il Mezzogiorno ha imparato a vivere, pur con grandi sacrifici rispetto al precedente sistema, senza le passate protezioni clientelari. Per la prima volta da decenni è venuto meno nella parte più debole e vulnerabile della nazione quel collaudato e ostacolato sistema del sottogoverno e dell'assistenzialismo. Eppure il sud - e concludo - non ha pianto, non ha strepitato, non ha innescato alcuna polveriera; dignitosamente cerca di rimboccarsi le maniche per sopravvivere.
Mi auguro che il Governo colga tale dignità e non aspetti che anche nel sud si inneschi la polveriera (Applausi dei deputati del gruppo di forza Italia).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Boccia. Ne ha facoltà.

ANTONIO BOCCIA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, emeriti rappresentanti


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del Governo, un anno fa di questi tempi, in maniera più forte e chiara proprio nella discussione sul DPEF 1997-1999, negli interventi dell'opposizione, in presenza del lucido itinerario politico-programmatico del Governo Prodi per rafforzare il processo di risanamento economico e finanziario, per avviare la riforma dello Stato, per entrare - come si dice - in Europa con i primi ed a fronte alta, per promuovere la ripresa dello sviluppo e dell'occupazione, venivano preannunziate sciagure di ogni sorta. Sono stati infatti dipinti quadri foschi e bui per il futuro; erano annunziate catastrofi. La solita Cassandra prevedeva la malasorte: a dicembre la maggioranza sarebbe caduta sotto i colpi della destra e a marzo Prodi avrebbe ceduto definitivamente e disonorevolmente la guida del Governo.
In quest'aula e nel paese, insomma, la maggioranza del centro-sinistra era presentata come una disgrazia della quale ci si doveva liberare presto, in quanto la sua linea strategica e tattica era destinata ad un assoluto fallimento.
È trascorso solo un anno e, in primo luogo, gli indicatori di convergenza mostrano che l'inflazione è scesa, rispettivamente nel 1995, 1996 e 1997 dal 5,4 al 4 ed al 2,5 per cento, con un tasso tendenziale per il 1998 dell'1,8.
Il rapporto tra indebitamento netto e PIL è sceso dal 7 al 6,7, quindi al 3 per cento, con un tasso tendenziale del 2,8. Il rapporto tra debito e PIL è passato dal 124,4 al 123,8 ed ancora al 122,6, con un tasso tendenziale del 121,1. I tassi di interesse a lungo termine sono i seguenti: 12,2, 9,4 e, nel primo trimestre 1997, 7,3.
Vorrei sottolineare, in primo luogo, che l'Italia preme per l'euro, mentre altri mostrano titubanze per via dei problemi che non hanno saputo ancora risolvere.
In secondo luogo, che la riforma dello Stato è nelle leggi già approvate dal Parlamento, nel proficuo lavoro in atto nella bicamerale per le riforma della Costituzione.
In terzo luogo, che le linee tendenziali ed anche quelle programmate confermano indici e risultati complessivamente favorevoli con l'avvio, seppur timido, della ripresa e l'inversione del ciclo. Finalmente, vi è anche qualche segnale positivo nei valori della disoccupazione.
Inoltre, il Governo ha superato momenti difficili, sottoposto a colpi al limite del comportamento democratico, mai riscontrati nella storia della Repubblica; ciò nonostante è qui, forte della sua compatta maggioranza e confortato da un clima più sereno nel lavoro delle Camere, grazie anche al respiro ampio ed aperto del confronto in atto con l'opposizione. Il tutto con la realizzazione di un quadro di stabilità che dà certezza ai mercati e procura fiducia nell'«azienda Italia», con non pochi effetti generali benefici.
Ed allora, senza enfasi - perché siamo solo all'inizio; ci sono cinque anni di tempo e dobbiamo avere la consapevolezza delle difficoltà -, mi pare sia giusto riconoscere i meriti di Prodi, del suo Governo, della sua maggioranza e della sua linea politico-programmatica, rivolgergli un sentito apprezzamento, ringraziarlo per quanto sta facendo ed incoraggiarlo ad andare avanti sulla strada tracciata.
Nel programma dell'Ulivo Prodi aveva scritto che vi sarebbero stati due anni di sacrifici e che con l'ingresso in Europa avrebbe avuto avvio una fase di crescita e di sviluppo per l'Italia; individuava il percorso di risanamento economico come prima fase della conquista di tutti i parametri nei tempi stabiliti a Maastricht e, come ultima fase, la ripresa dopo l'ingresso dell'Italia in Europa.
In quel programma si indicava anche la delicatezza del percorso, chiarendo che a fianco della necessità di aumentare la competitività del sistema economico vi era la necessità forte di mantenere la qualità e la quantità dello Stato sociale che il nostro paese aveva faticosamente conquistato.
Noi popolari ci siamo ritrovati in quel programma, non soltanto perché lo aveva scritto Prodi, che è anche un leader del nostro partito, il leader della nostra lista alle elezioni, ma soprattutto perché tra le teorie liberiste e quelle stataliste ritrovavamo lo spirito della Rerum novarum, il

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principio, e l'obiettivo allo stesso tempo, della giustizia sociale, un punto forte di aggancio per il nostro impegno, la nostra presenza e l'affermazione della nostra specificità e identità nell'ambito della coalizione di centro-sinistra.
Noi popolari trovavamo in quel programma di risanamento economico, di ingresso in Europa e di ripresa dello sviluppo i contenuti, le proposte, i metodi propri di quell'internazionalismo, di quell'europeismo degasperiano che condiziona anche la vita del paese, pur di conquistare spazi di presenza in un contesto più ampio, non soltanto economico e di mercato, ma anche politico. Trovavamo in quel programma l'interclassismo proprio di una proposta ideale e politica, di un progetto che ci contraddistingue, quella ricerca del bene comune che è fondamento della nostra scelta, dell'impegno in politica. Registravamo in quel programma, nell'incontro di volontà e di impegno con i democratici e con tutti i partiti dell'Ulivo, la convergenza di idealità tutta nostra, di centralità della persona umana, con le visioni laiche e della sinistra democratica di difesa dei diritti umani di tutti i cittadini.
In quel programma, in quel patto elettorale, abbiamo letto positivamente le linee guida dell'azione del Governo Prodi, la politica dei redditi, di tutti i redditi, un programma, una strategia che proponeva ed affermava la necessità di ricercare la mediazione tra tutti gli interessi sociali in campo, contro ogni spinta massimalista. Si trattava di una politica mite e temperata, di una strategia tendente a salvaguardare il tessuto umano della società italiana, dunque di una strategia che non passava sui cadaveri dei più deboli, neppure nel nobile intento di perseguire il benessere complessivo della nazione. Insomma, una strategia che prendeva in proporzione a quello che ciascuno ha e ridistribuiva dando qualcosa di più a chi ha meno: questa è la nostra linea dello sviluppo nella solidarietà.
Queste sono le ragioni per le quali i popolari, che ispirano la propria azione ai principi della dottrina sociale della Chiesa, si sono ritrovati nel programma del Governo. Ora si citano Tony Blair, Jospin, ora si scopre ad Amsterdam che non ci sono solo i parametri di convergenza e l'Europa dei banchieri, ma anche le politiche di coesione e l'Europa dei popoli, con i loro travagli ed in testa il problema dell'occupazione dei propri figli. Mi sia consentito, senza presunzione e con un pizzico di orgoglio nazionale, citare, tout court, Prodi, i cattolici democratici italiani, l'Ulivo, antesignani europei di questo processo.
Nel documento di programmazione economico-finanziaria per il triennio 1998-2000 si perseguono, infatti, il risanamento economico-finanziario e la partecipazione all'unione monetaria sin dall'inizio come condizioni essenziali per la ripresa della crescita dell'Italia e dell'occupazione, soprattutto dei giovani, per mantenere un livello alto di civiltà e di qualità della vita faticosamente conquistati nella seconda metà di questo secolo e per dare sicurezza alla comunità nazionale sul proprio futuro. Nel documento di programmazione economico-finanziario, pur tra tante apprensioni e qualche fiducia nella speranza, si punta sempre a manovre equilibrate; manovre per il triennio 1998-2000 mirate alla ricerca di un punto di equilibrio tra la necessità di accrescere le entrate e quella di ridurre le spese, tra il bisogno di richiedere sacrifici ai cittadini e la necessità di contenere il disavanzo pubblico; manovre equilibrate, che distribuiscono ancora quote necessarie di sacrificio, perché puntano ad una prospettiva di sicurezza e di certezza per il nostro paese.
In questo spirito, signor Presidente e colleghi, vorrei fare poche battute sul Mezzogiorno, sulla questione meridionale e sulla questione settentrionale, sul perché a nostro avviso esse sono connesse e perché entrambe sono a carattere nazionale: sono la nostra questione, l'unica; non esiste il problema della questione settentrionale perché essa nasce e si alimenta da quella meridionale. Esiste allora un problema nazionale, che questo documento di programmazione economico-finanziaria affronta con prudenza, senza

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enfasi, senza pretendere di dare risposte assolute alle problematiche che si stanno sviluppando e per le quali la letteratura è ormai ampia, ma indicando soluzioni concrete che - ne sono certo - possono ancora farci guardare avanti con speranza ed anche con qualche certezza (Applausi dei deputati del gruppo dei popolari e democratici-l'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Peretti. Ne ha facoltà.

ETTORE PERETTI. Signor Presidente, colleghi, signor rappresentante del Governo, il documento di programmazione economico-finanziaria dovrebbe rispondere allo scopo fondamentale di inquadrare gli interventi legislativi in materia di bilancio e di finanza pubblica in una più generale decisione politica e programmatica. Questo almeno era l'intendimento del legislatore al momento del varo della legge n.468 del 1978; tuttavia, alla luce dei contenuti del documento di programmazione economico-finanziaria che oggi è all'esame dell'Assemblea, si può dire che quegli intendimenti sono stati del tutto disattesi.
Ritengo che ai margini di questa discussione debba essere prodotta una riflessione sull'effettiva capacità di programmazione da parte del Governo nelle materie economico-finanziarie e, di conseguenza, sulla reale efficacia di questo procedimento. Questo perché, alla luce delle profonde trasformazioni della tecnologia, della dinamica sociale e dell'economia, è proprio la capacità degli Stati e dei governi ad essere messa in discussione nel processo di governo dell'economia.
Mi sembra questa una considerazione preliminare importante, in parte di natura tecnicistica, ma soprattutto di natura politica per le conseguenze che richiama.
Una seconda considerazione preliminare riguarda il contesto sociale ed economico nel quale questo documento di programmazione economico-finanziaria si inserisce: chi pensava che dal Consiglio europeo di Amsterdam potessero uscire un rallentamento ed un'attenuazione del processo di costruzione della moneta unica subisce oggi una profonda delusione. La costruzione dell'euro procede secondo il calendario e secondo i criteri già stabiliti; il patto di stabilità è confermato, nonostante i tentativi di condizionamento del governo francese, e la richiesta di abbinare al patto di stabilità norme di flessibilità ed impegni per la soluzione del problema dell'occupazione non è ancora sufficientemente esplicita, tanto da non impegnare in alcuna misura le istituzioni europee. Ciò per dire che le risposte ad un virtuoso sistema di finanza pubblica e ad un non rinviabile impegno per favorire l'occupazione vengono rimandate ai destini dei singoli Stati ed alla loro capacità di modernizzare le loro istituzioni politiche ed economiche. È quasi una coincidenza che il dibattito sulla riforma dello Stato sociale che si è aperto ieri e si è in parte già chiuso con uno scontro tra Governo e sindacati, abbia ripreso vigore solo all'indomani delle decisioni del vertice europeo. Questo per dire che ci sembra del tutto improprio che per mesi sia stato alimentato proprio dal Governo il dibattito sulla riforma dello Stato sociale (ricordo che la commissione Onofri è stata voluta proprio dal Governo ed è stata chiamata proprio dal Governo commissione per l'analisi delle compatibilità macroeconomiche della spesa sociale) e che proprio il Governo abbia ritenuto non più eludibile il problema della riforma legato al contenimento della finanza pubblica, ma che poi nel documento di programmazione economico-finanziaria nulla si dica degli intendimenti del Governo su questa materia. Tutto ciò è contraddittorio, penalizzante ed in sé molto grave.
In terzo luogo ci sembra del tutto negativo che il Governo non intenda assumere alcun tipo di posizione in merito al legame esistente tra le questioni di natura economica e quelle legate alla riforma delle istituzioni, posto che la spinta alle riforme nasce proprio dalla constatazione delle profonde trasformazioni che hanno caratterizzato la nostra società e la nostra economia. Un'altra


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considerazione, che riguarda squisitamente l'aspetto politico, fa riferimento alla genericità ed alla universalità del documento di programmazione economico-finanziaria che, in quanto tale, prefigura una surrettizia richiesta della maggioranza al Governo (da questo prontamente accolta) di non approfondire i nodi di conflittualità politica, che sono innanzitutto nodi interni al blocco politico di maggioranza, ma che riguardano anche gli ambienti sociali di riferimento. Non appaia quindi ai colleghi del tutto sorprendente che anche oggi, in questa discussione, si perpetui il parallelismo dei tavoli di confronto, quello sostanziale tra Governo e sindacati fuori dal Parlamento e quello istituzionale tra le forze politiche all'interno di quest'aula, alla quale in realtà da tempo ha segnato solo potere di ratifica.
Mi chiedo inoltre quale possa essere il contenuto e la credibilità del piano di rientro invocato dall'Unione europea ma non ancora predisposto dal Governo italiano vista l'irrilevanza di questo documento che (come già sottolineato e come ricorderò ancora più avanti) non chiarisce i nodi della politica di bilancio e di modernizzazione del sistema istituzionale ed economico, fondamentali presupposti per poter centrare stabilmente la moneta unica e soprattutto per poter essere tranquillizzati dal fatto che la moneta unica, una volta avviata, costituisca veramente un fattore di sviluppo del nostro paese e non, viceversa, risulti un elemento di ulteriore squilibrio e di accentuazione delle nostre già forti contraddizioni. Sarebbe inoltre di estremo interesse che nel documento di programmazione economico-finanziaria fossero inserite le linee di una riflessione, altrettanto necessaria quanto quella sullo Stato sociale e sulle istituzioni, che riguardi il modello produttivo del nostro paese. Questo perché alcuni provvedimenti, l'interesse di alcuni grandi gruppi industriali in grado di condizionare il Governo più delle stesse organizzazioni degli imprenditori cui appartengono e la presenza, nella maggioranza, di una forza neocomunista, fanno pensare che l'Italia sia un paese ancora in attesa di una nuova industrializzazione pesante e non abbia ancora capito che invece la strada per uscire dalla stagnazione economica e dalla disoccupazione deve riportare il nostro tessuto produttivo più in aderenza con le nostre potenzialità, la nostra vocazione e le risorse di cui disponiamo. È questo un cambio culturale e di mentalità che meriterebbe di essere maggiormente considerato e perseguito.
Quanto alle valutazioni puntuali di critica del documento oggi in esame, penso non sarebbe un esercizio inutile riportare le valutazioni che le Commissioni di merito hanno espresso, qualcuna anche bocciandolo, soprattutto nel segnalare il ritardo e l'inerzia con i quali il Governo ottempera agli impegni ed agli adempimenti di natura legislativa e amministrativa, tanto da risultare evidente la scarsa reattività del Governo stesso alle sollecitazioni più innovative e alle misure più urgenti e più evidenti.
Nel documento di programmazione economico-finanziaria ci risultano poco coerenti con l'attuale quadro macroeconomico, e quindi poco credibili, le previsioni della crescita del prodotto interno lordo e dell'inflazione, indicate per il 1997, rispettivamente, pari all'1,2 per cento e al 2,5 per cento e per il 1998 al 2 per cento e all'1,8 per cento. Risulterebbe più prudente una stima della crescita del prodotto interno lordo pari all'1 per cento nel 1997 e all'1,8 per cento nel 1998.
Inoltre, riteniamo del tutto infondate le previsioni del documento sul tasso di disoccupazione. Anche la scommessa del Governo sul continuo calo dei tassi di interesse, al quale legare il maggior contributo nella riduzione del deficit di bilancio, è fuori luogo, come è sostenuto anche da autorevoli osservatori esterni e dallo stesso Governatore della Banca d'Italia.
Un'ultima annotazione riguarda la struttura dei provvedimenti della sessione di bilancio. Riteniamo scorretto che il Governo non abbia voluto inserire nel documento, come invece richiede l'articolo

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3 della legge poc'anzi ricordata, l'elenco dei disegni di legge collegati. Non vorremmo che questa maggioranza e questo Governo si apprestassero a calpestare nuovamente le prerogative di rappresentanza del Parlamento, come hanno già fatto nella sessione di bilancio precedente.
La sintesi di queste considerazioni è stata inserita in maniera unitaria da tutte le forze del Polo nella premessa alla risoluzione presentata alla Camera sul DPEF. Nella risoluzione, proprio per dare al documento di programmazione economico-finanziaria il contenuto di un vero documento di programmazione, il Governo dovrebbe impegnarsi: a correggere le previsioni macroeconomiche di crescita, di inflazione e di occupazione in modo più realistico; a non presentare disegni di legge collegati in spregio al dispositivo secondo il quale la finanziaria non si deve occupare di norme e provvedimenti non pertinenti con le finalità stringenti di bilancio; a rendere più espliciti gli interventi di risanamento della finanza pubblica, evitando misure una tantum, inasprimenti fiscali e contabilità creativa; a ridefinire un modello economico e produttivo del nostro paese compatibile con l'esigenza di creare nuova occupazione anche attraverso l'abolizione delle rigidità normative in tema di lavoro; a definire un progetto di riequilibrio del sistema previdenziale che non preveda aumenti di contributi, compreso quello di solidarietà; infine a presentare all'Unione europea un piano di convergenza credibile per garantire una credibile partecipazione dell'Italia alla moneta unica ed evitare turbolenze valutarie sulla lira.
Abbiamo denunciato più volte il nodo politico che impedisce a questo Governo di svolgere un'azione più credibile, quel nodo (cioè la partecipazione dei neocomunisti alla maggioranza), nascosto in campagna elettorale ai cittadini con l'accordo di desistenza, temiamo possa colpire ancora e possa far mancare al nostro paese l'appuntamento storico con la sua necessaria modernizzazione.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Bastianoni. Ne ha facoltà.

STEFANO BASTIANONI. Signor Presidente, colleghi, il DPEF relativo alla manovra di finanza pubblica per gli anni 1998-2000 si può definire un documento per obiettivi. Le indicazioni fornite possono pertanto apparire - è stato rilevato anche dalle opposizioni - di ordine generale e prive talvolta di impegni più stringenti e dettagliati per quanto riguarda l'azione di Governo.
Credo tuttavia si possa affermare che l'Italia ha intrapreso un percorso virtuoso. Certamente, alle linee di indirizzo, alle previsioni governative dovranno seguire puntuali realizzazioni e fatti concreti. E credo anche che al raggiungimento degli obiettivi richiamati nel documento - cioè la partecipazione all'unione economica e monetaria europea e il risanamento della finanza pubblica - debbano concorrere naturalmente il Governo e la maggioranza, ma anche l'intero Parlamento o almeno i gruppi più responsabili. Il confronto, pur naturalmente nella sua immancabile vivacità e differenziazione, dovrà produrre uno sforzo da parte di tutti a comprendere le ragioni forti che sono alla base delle scelte da compiere.
Uno dei pilastri portanti di questo documento riguarda i temi strettamente connessi dell'occupazione e della riforma dello Stato sociale, che comporta interventi riguardanti il mercato del lavoro, l'assistenza e il sistema pensionistico.
L'emergenza occupazione resta la prima preoccupazione: la necessità di riconoscere i diritti di cittadinanza, in una Repubblica fondata sul lavoro, agli esclusi, ai senza lavoro. Un sistema di Stato sociale che sin qui ha tutelato solo gli interni al mondo del lavoro, cioè i già garantiti, non solo non risponde a criteri di equità sociale, ma è divenuto finanziariamente insostenibile nel suo attuale assetto. La ristrutturazione della spesa sociale dovrà quindi essere realizzata in modo da affrontare e da affermare nuove opportunità per sviluppare l'occupazione.


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Peraltro, l'occupazione è già stata al centro di un accordo, quello per il lavoro tra Governo e parti sociali del 24 settembre scorso, che è in fase di attuazione. L'impianto di tale accordo comprende tra l'altro incentivi alla formazione, l'elevamento dell'obbligo scolastico, misure per favorire l'apprendistato, i contratti di formazione lavoro, il part-time, i contratti a tempo determinato. In sostanza, si riconosce strategicità all'elemento della formazione - certamente, nel medio e lungo periodo - per la creazione di nuovi posti di lavoro. Quindi, questo elemento diventa centrale nella strategia per l'occupazione.
Certamente, un grande aiuto per affrontare questa emergenza è stato fornito proprio in questi giorni, anzi ieri, dall'approvazione definitiva da parte del Senato del pacchetto Treu, che contiene misure importanti a favore dell'occupazione ed in particolare introduce per la prima volta nell'ordinamento italiano - ponendoci così al pari delle nazioni europee più progredite - misure concernenti il lavoro interinale. Si tratta di un'importante innovazione, in un mercato del lavoro peraltro molto rigido. Sappiamo che lo stesso sistema del collocamento pubblico non risponde più all'esigenza di offrire opportunità di lavoro, a causa della esclusività della mano pubblica. Quindi, occorre anche in questo senso muoversi per introdurre elementi privatistici per quanto riguarda l'incontro tra domanda e offerta, soprattutto a livello di mercato del lavoro locale, legato al territorio: quindi, fine del monopolio pubblico e apertura a soggetti privati.
Un altro elemento importante, che è stato più volte richiamato anche in quest'aula, deve essere quello della riforma dei lavori socialmente utili e di pubblica utilità, che devono evolvere verso iniziative davvero capaci di autosostenersi, per non alimentare aspettative che non possono poi essere sostenute se non con il concorso pubblico.
Quindi, si vede, emerge uno sforzo da questo documento di programmazione economico-finanziaria. Insieme dobbiamo riconoscere e ricordare, sempre in tema di lavoro, che un contributo importante è stato apportato dal sistema della piccola e media impresa e, in particolare, dell'artigianato, allo sviluppo di molte regioni. Ricordo la straordinaria vitalità che questo sistema ha saputo dare alla crescita del tessuto economico e quindi dell'occupazione. Occorre quindi favorire il sistema della piccola impresa e dell'artigianato attraverso interventi mirati e incentivi finalizzati all'introduzione di innovazioni tecnologiche, tesi a favorire l'accesso al credito, alla prestazione di garanzie fideiussorie per le piccole imprese che spesso devono prestare al sistema creditizio garanzie sproporzionate rispetto alle loro possibilità. Credo cioè che attraverso un sistema mirato di incentivi sia possibile favorire l'occupazione.
C'è poi il discorso dell'assistenza, peraltro ben ricordato nel documento; discorso che deve trovare una separazione rispetto alla spesa previdenziale; deve quindi anche finire un sistema che in passato ha favorito, per esempio, l'accesso ai prepensionamenti.
Credo che in un sistema di politica attiva le misure da adottare debbano essere correlate, come ho detto poc'anzi, alla formazione e non alla «uscita» dal mercato del lavoro, mettendo cioè fuori mercato persone che poi troveranno naturalmente lavoro nel sommerso o in altro modo. Occorrerà superare il divieto di cumulo del lavoro e della pensione, un limite, questo, legato alla scorsa finanziaria. Questo cumulo deve invece essere riconosciuto, magari attraverso una fiscalità più onerosa ma comunque non reso impossibile.
In passato è stato dato molto denaro alle grandi imprese che ne hanno fatto un uso distorto: ebbene, diamolo invece alle famiglie, e soprattutto alle famiglie che hanno figli, perché possano condurre una vita dignitosa e decorosa supplendo anche a molti limiti pubblici. Oggi la famiglia è costretta in molti casi a prestare servizi che il pubblico non è in grado di effettuare. Occorre dunque investire in questa direzione e trasferire risorse in maniera mirata ed opportuna.

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C'è poi il discorso concernente il sistema previdenziale, in cui si registra un progressivo aggravamento della spesa; anche per esso si deve trovare un intervento preciso e chiaro. In questo giorni è stato avviato un confronto con il sindacato. Mi auguro che davvero il sindacato non voglia essere una parte conservatrice di alcuni istituti che si vogliono difendere ad ogni costo. In passato il sindacato ha conseguito coraggiosi accordi, soprattutto per quanto riguarda la politica dei redditi. Ecco, noi ci aspettiamo che il sindacato dia un segnale forte e che non si metta invece a difendere, magari, una base che oggi è sempre più costituita da pensionati o pensionandi; si tratta quindi di recuperare anche un interesse generale da parte di coloro che non avendo lavoro non fanno parte della base associativa.
Credo quindi che le terapie settoriali proposte si riconnettano ad un programma di ampia portata tracciato nel documento. Ovviamente questo impegno non ci garantisce ancora di essere tra i primi nella moneta unica europea. Gli italiani peraltro non sono disponibili a sostenere altri sacrifici che non siano iscritti in un processo credibile di modernizzazione del paese.
Nell'indicare la strada da percorrere dobbiamo quindi cercare il massimo consenso nell'esercizio delle responsabilità che ci competono. Questa può essere l'occasione per un grande patto nazionale che esprima equilibri più giusti per l'oggi, ma validi soprattutto per le giovani generazioni.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Susini. Ne ha facoltà.

MARCO SUSINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, le linee del documento di programmazione economico-finanziaria confermano e rafforzano le scelte che il Governo ha messo in campo nel corso dell'anno e ripropongono le finalità fondamentali del suo programma di sviluppo economico: la partecipazione del paese all'Unione economica e monetaria ed il risanamento della finanza pubblica; due obiettivi che si integrano e si completano a vicenda e che investono in modo determinante le prospettive di sviluppo del paese per un periodo molto lungo.
Nessuno di noi avrebbe scommesso un anno fa che questo paese, ancora sconvolto dal sisma di Tangentopoli, oppresso da un debito pubblico enorme, fuori dal sistema monetario e con un tasso di inflazione più che doppio rispetto ai nostri partner, potesse oggi essere pienamente in gioco per centrare l'obiettivo dell'integrazione monetaria, un obiettivo che allora pareva irrimediabilmente fuori dalla nostra portata. Oggi sono altri paesi, nei confronti dei quali l'Italia appariva come un vaso di coccio tra i vasi di ferro, che rimettono con qualche affanno in discussione i tempi e i modi dell'integrazione monetaria.
Credo che tutto ciò non sia frutto della casualità, né di circostanze particolarmente fortunose od eccezionali, ma vada invece ascritto ad una politica che ha saputo indirizzare con forza la barra del risanamento nel quadro di una strategia di concertazione sociale, che è una delle condizioni essenziali per proseguire un cammino virtuoso.
Certo, è stato un lavoro molto duro quello che il Governo si è imposto, un lavoro improntato a scelte e a criteri di grande rigore e di grande severità. Non è stato uno scherzo mettere in campo, sia pure a più riprese, manovre finanziarie per quasi 100 mila miliardi. Eppure si è riusciti a farlo e, permettetemi di sottolinearlo perché è un dato politico di straordinario rilievo, lo si è fatto riuscendo a salvaguardare nella sostanza le prestazioni sociali essenziali, i redditi più bassi, portando l'inflazione ai livelli degli anni sessanta, determinando la stabilità del cambio, allineando l'economia del paese su tanti punti essenziali ai vincoli e ai parametri previsti dal Trattato di Maastricht.
L'Europa è ora davvero a portata di mano, ma il cammino da percorrere, lo sappiamo, è ancora impegnativo e non privo di asperità. Eppure non può essere sottovalutato che, grazie alle scelte che si


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sono messe in campo, l'inflazione è calata di quasi tre punti in percentuale e che l'anno prossimo lo Stato pagherà qualcosa come 45 mila miliardi in meno di interessi sul debito pubblico, che il rapporto tra debito pubblico e PIL si è ridotto di quattro punti, senza che questa gigantesca operazione di risanamento si sia tradotta in una minore uguaglianza sociale, come invece sembrava che fosse legge economica e obbligo politico. Questa è una linea che ha pagato, dunque, ed è una linea che con il documento di programmazione economico-finanziaria vogliamo, infatti, consolidare e rafforzare.
Non si dica che, peraltro, non si è affrontata in modo serio ed efficace la struttura della spesa nel nostro paese. I 130 mila miliardi di avanzo primario sono lì a testimoniare che lo Stato italiano, al netto, senza il peso del debito, riesce ora a spendere meno di quanto incassa.
Del resto il documento di programmazione economico-finanziaria indica correttamente due strumenti fondamentali per dare ancora maggiore incisività e strutturalità alla politica del risanamento: da un lato, individuando l'esigenza di una ulteriore riduzione della spesa corrente, che può essere attuata attraverso una rete di interventi di riorganizzazione, di razionalizzazione e di risparmio nella gestione delle amministrazioni pubbliche, nell'utilizzo del personale, nel riordino dei trasferimenti alle poste e alle ferrovie, nonché in una incisiva riforma del bilancio dello Stato e nella ridefinizione su base concertata dei rapporti con le regioni e gli enti locali; dall'altro lato, riuscendo a stabilizzare la quota delle prestazioni sociali sul prodotto interno lordo ai livelli del 1996-1997.
Vorrei sottolineare a questo specifico proposito tre elementi di riflessione politica che a me sembrano particolarmente rilevanti. In primo luogo, è un fatto estremamente positivo che il Governo e le organizzazioni sindacali abbiano stabilito la cornice generale, il quadro macroeconomico entro il quale si dovrà poi dipanare la discussione nel merito sulla riforma dello Stato sociale.
Naturalmente l'avvio polemico del confronto, che sembra essersi registrato ieri, non inficia questo dato politico essenziale, ed a chi ironizza su un presunto ruolo pervasivo delle organizzazioni sindacali nella vita politica del paese vorrei semplicemente ricordare che la concertazione tra le parti sociali è stata in questi anni uno strumento indispensabile, senza il quale l'Italia non sarebbe certo riuscita ad uscire dal tunnel.
In secondo luogo, nel documento di programmazione economico-finanziaria sono richiamate correttamente le ragioni che impongono una riforma dello Stato sociale, ragioni che risiedono nell'esigenza di far fronte ai profondi mutamenti intervenuti nella vita economica e sociale, di rispondere alle domande nuove evocate dall'innovazione tecnologica, dai mutamenti demografici, dall'esigenza di ampliare l'area dei diritti di cittadinanza e di restringere quella forbice che si sta delineando tra le fasce sociali più garantite e quelle più deboli ed emarginate.
È in questo contesto che credo si ponga anche il problema del riequilibrio della spesa pensionistica, puntando ad una riduzione tendenziale di questa sul prodotto interno lordo e ricercando, sempre attraverso il confronto con le parti sociali, soluzioni che possano nel contempo ridurre la spesa pensionistica e soddisfare condizioni di equità tra generazioni diverse.
Il PDS sostiene con convinzione questa impostazione, perché siamo dell'opinione che una sinistra davvero moderna debba avere la consapevolezza che un approccio di mera conservazione dello statu quo non solo sarebbe una posizione sbagliata in sé, ma finirebbe inevitabilmente per essere speculare a chi da destra vuole invece smantellare brutalmente lo Stato sociale e, con esso, le conquiste più avanzate. Il principio accettato da tutti, che quindi presiede il confronto che si è aperto in questi giorni, è che la spesa previdenziale deve muoversi in linea con il prodotto interno lordo, non lo deve sopravanzare. Questo è già un punto di partenza importante, perché è una scelta che servirà

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ad impedire che la previdenza nel futuro possa fagocitare risorse che sono necessarie altrove. È un paletto significativo in un paese che vede, purtroppo, l'esistenza contemporanea di quarantacinquenni pensionati, i quali magari integrano il loro reddito con il lavoro nero, e persone di trenta e passa anni, per di più scolarizzate, ancora fuori dal mercato del lavoro e senza reddito.
Si pone, accanto a tutto ciò, un problema di attenzione e di sostegno (lo ha rilevato il relatore e con lui altri colleghi) alla creazione di ricchezza, alla limitazione della domanda interna e dei consumi. È un problema reale di prima grandezza che non vogliamo assolutamente sottovalutare e che reclama un forte rilancio di una politica attiva per il lavoro e l'occupazione.
Chi sostiene che il basso tasso di crescita che ha segnato l'economia italiana in questi anni sarebbe la conseguenza di una politica del Governo tesa a frenare e ad imbrigliare lo sviluppo, credo che faccia un'affermazione non corretta e in larga misura infondata. L'alto tasso di disoccupazione ed il basso indice di crescita sono in gran parte il frutto di una congiuntura che in forme e modi diversi ha colpito e colpisce tutti i paesi europei. Ne è conferma l'impegnativa risoluzione con la quale su questi temi si è concluso nei giorni scorsi il vertice di Amsterdam.
Sono inoltre convinto che se scantonassimo da quella linea di rigore e di severità che, in una parola, ha permesso al paese di ricostruirsi un prestigio internazionale, di darsi una stabilità economica, anche le previsioni di crescita per gli anni a venire (che pure sono contenute in una valutazione molto prudente) non solo avrebbero un segno negativo, ma subirebbero una ulteriore caduta. Quello della crescita e della produzione è un problema reale nel Mezzogiorno d'Italia e in tante aree depresse. L'esigenza è dunque quella di mettere in rete tutte le iniziative, avviate o da avviare, che possano tendere, oltre che al miglioramento delle infrastrutture, al sostegno e alla promozione dell'imprenditoria locale: in una parola fare ogni sforzo per tener premuto l'acceleratore sulle politiche di sviluppo, di sostegno alle imprese. Un segno positivo viene anche dalla politica delle entrate con un abbassamento della pressione fiscale che sarà compensata da una lotta maggiore alla erosione fiscale.

MASSIMO MARIA BERRUTI. Ma cosa dice? «Abbassamento della pressione fiscale»!

MARCO SUSINI. Anche questa scelta, nonostante l'irritazione del collega, può contribuire a consolidare un sentimento, un'aspettativa fiduciosa...

MASSIMO MARIA BERRUTI. Stai dicendo bugie!

MARCO SUSINI... verso un paese che ha dimostrato di saper imboccare una strada, che oggi intende percorrere fino in fondo (Applausi dei deputati del gruppo della sinistra democratica-l'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Pagliuca. Ne ha facoltà.
Onorevole Berruti, consenta al suo collega di gruppo di intervenire.

NICOLA PAGLIUCA. Signor Presidente, signori del Governo, il DPEF 1998-2000, in discussione in questo Parlamento, sembra l'ennesima versione del libro dei sogni e delle bugie che il Governo Prodi ha iniziato a scrivere dall'aprile 1996. Così come il DPEF 1997-1999, presentato a luglio 1996 e fondato su previsioni erronee, ha costretto il Governo a manovre aggiuntive pari ad 1,5 volte quelle annunciate - ricordiamo che la manovra di fine d'anno è stata doppia rispetto a quella prevista qualche mese prima e come all'inizio del 1997 è stato necessario intervenire in correzione sui conti pubblici per altri 15 mila miliardi - anche il DPEF 1998-2000 costringerà il Governo a nuove manovre.
Uno degli errori ricorrenti è quello relativo al tasso di crescita del PIL, che nel luglio del 1996 veniva preventivato


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pari all'1,2 per cento ed è stato a fine anno pari allo 0,8 per cento; per il 1997 veniva previsto un tasso di crescita del 2 per cento, rettificato poi nell'1,2, mentre non supererà lo 0,8; per il 1998 viene previsto un tasso del 2 per cento e non supererà l'1,7.
Questi errori sono le bugie a cui mi riferivo in apertura, che hanno consentito a questo Governo di fare manovre e manovrine giustificate dall'urgenza, e che hanno inciso in modo sostanziale sulle tasse e sull'aumento della pressione fiscale, deprimendo l'economia reale.
La diminuzione del tasso d'inflazione è dovuto ad una diminuzione dei consumi interni, ad una mancata crescita dello sviluppo, degli investimenti e delle esportazioni, che si accentuerà ancora di più perché il DPEF prevede incrementi anche nelle aliquote IVA e quindi comporta una diminuzione della capacità di spesa delle famiglie, oltre che una tensione inflattiva. Ricordiamoci quello che è successo quando il Governo Dini ha operato in questa direzione.
Il documento è ancora un libro dei sogni quando, come è successo finora, promette occupazione e recupero di sviluppo, specie nel Mezzogiorno mentre non riuscirà a raggiungere l'obiettivo. Le anticipazioni dei dati Svimez sulla povertà e sulla concentrazione della stessa non lasciano dubbi circa la tenuta di dette politiche. D'altronde, è emblematico quanto sta avvenendo in Basilicata, a proposito dei fondi stanziati dalla legge n.488, che verranno decurtati di oltre il 40 per cento nel piano di riparto per l'anno in corso, solo perché viene attribuito a questa regione un tasso di crescita del PIL pari al 3,9 per cento, senza tener conto che questo è il frutto della presenza dello stabilimento FIAT di Melfi, il cui valore aggiunto va in altre parti dell'Italia.
Non si tiene conto, infatti, del tasso di disoccupazione, che è pari a tutte le altre regioni del Mezzogiorno, del gap sui tassi di interesse, di quattro punti superiori rispetto a quelli medi in Italia, della moria delle piccole imprese, misurabile attraverso i dati delle camere di commercio.
Allora, signor Presidente, signori del Governo, un documento di programmazione economico-finanziaria dovrebbe essere innanzitutto veritiero e nel contempo contenere linee strategiche e programmi coerenti con la loro fase attuativa e con i tempi e gli obiettivi che si propongono, perché siano assicurati all'Italia non solo l'entrata in Europa, ma lo sviluppo dell'economia reale in tutte le regioni, nella consapevolezza che alcuni problemi politici, quali quelli derivanti dal divario nord-sud, possono risolversi solo con politiche di sviluppo armonico.
Questo documento di programmazione economico-finanziaria, signori del Governo, non è lo strumento attraverso cui si realizza questo tipo di processo di integrazione. Ancora una volta andiamo nella direzione sbagliata, per cui credo sia arrivato il momento per il Governo di prendere coscienza della necessità per tutti gli italiani di conoscere la verità, per sapere in quale direzione bisogna andare (Applausi dei deputati del gruppo di forza Italia).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Sbarbati. Ne ha facoltà.

LUCIANA SBARBATI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, dico subito che per quanto riguarda le considerazioni di carattere generale sul documento di programmazione economico-finanziaria, nonché sulle valutazioni di merito rispetto al costrutto generale, all'impianto economico e al progetto politico ad esso sotteso, mi ritrovo perfettamente nelle considerazioni svolte poc'anzi dal collega Testa, appartenente al mio stesso gruppo. Non affronterò, pertanto, le varie parti di cui il documento è composto e l'ordito complessivo che è stato ampiamente illustrato e valutato, ripeto, dal collega Testa, che fa parte, tra l'altro, della Commissione bilancio.
Al di là delle considerazioni che riguardano l'impianto generale del documento di programmazione economico-finanziaria, i risultati a cui è arrivata l'azione di Governo sul piano della lotta


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all'inflazione, del riordino dei conti pubblici, di rientro del deficit - che non possono che farci piacere e che forse sono molto più lusinghieri di quanto avremmo sperato - devo comunque aprire una parentesi non del tutto positiva di valutazioni rispetto ai settori della scuola, della cultura e della ricerca.
Come componenti dello schieramento di maggioranza avevamo evidenziato al Governo e al Presidente del Consiglio che bisognava avere una maggiore aderenza rispetto al progetto politico e al programma che il Governo si era dato, che vedeva tra le priorità il settore della scuola. Fin dagli scorsi mesi di settembre e di ottobre, nell'accordo siglato con le parti sociali il Governo aveva sostenuto che la priorità della nazione era, appunto, la formazione per l'occupazione. Avevamo chiesto che vi fosse, una volta tanto, un'inversione di tendenza nel documento di programmazione economico-finanziaria, che desse la misura che qualcosa effettivamente stava cambiando e che c'era nel Governo, oltre che nel Parlamento qualcosa di mutato rispetto alla cultura, alla scuola e alla formazione dei giovani, cioè una diversa sensibilità che a mio avviso non può che significare procedere con una cultura di progetto e di investimenti.
Così non è stato, e lo dico con profondo rammarico, perché proprio in occasione del parere di merito della Commissione cultura, alla quale appartengo, non ho potuto esprimere un voto favorevole per le considerazioni che esporrò. Ho constatato infatti con dispiacere che il Governo ha inserito la scuola, la cultura, nelle cosiddette riforme strutturali; per chi ha competenza di bilancio sa che naturalmente questo non può che significare tagli e ulteriori ridimensionamenti. Mi chiedo allora cosa ne faremo della nostra scuola, della scuola pubblica, della formazione, in un paese in cui un progetto per la formazione viene considerato, solo e semplicemente, dal punto di vista di riforme che possono essere ordinamentali, ma mai, o quasi, dal punto di vista delle riforme che devono avere anche lo spessore della qualità. Tuttavia è proprio la qualità che fa una riforma, non è sempre l'ordinamento, le due cose quanto meno vanno abbinate. Nell'aver fatto questa operazione, sia pure condendola con un po' di salsa per quanto riguarda le riforme annunciate e presentate, che a nostro avviso sono troppe, «caricate» in maniera massiccia e intempestiva una sull'altra, che non danno al Parlamento il respiro culturale, i tempi e la consapevolezza adeguata per poter procedere ad una valutazione di merito approfondita, in modo anche di intervenire per rivedere e modificare parti che non possono essere da tutti condivise; ebbene, nel fare ciò, non mi sembra si sia seguita un'impostazione saggia.
Non mi sembra neppure saggio aver inserito alcune proposte di riforma esclusivamente di pertinenza governativa, quando presso la Commissione cultura giacciono da tempo proposte qualificate di iniziativa parlamentare, sottoscritte da tutti i gruppi politici, maggioranza e opposizione, che sono arrivate al capolinea, ma che non decollano per una certa resistenza da parte del Governo, che francamente non riusciamo a capire.
Anche poc'anzi ho segnalato in sede di Conferenza dei presidenti di gruppo al rappresentante del Governo, all'onorevole Bogi che cura i rapporti con il Parlamento, il fatto che vi è una resistenza da parte del Tesoro del tutto incomprensibile ed assolutamente inaccettabile rispetto alla possibilità di procedere a valutare nel merito riforme importanti come quella dell'accademia e dei conservatori e come quella relativa all'introduzione della seconda lingua comunitaria.
Poi si afferma che il Parlamento non produce; però, nel momento in cui lo fa, viene ostacolato e vi è una resistenza sorda, che dura da mesi, assolutamente inaccettabile e che va denunciata dai banchi della maggioranza o da quelli dell'opposizione: non ha importanza.
È infatti la coscienza, il senso del dovere, il senso civile, l'amore per la scuola e soprattutto la disponibilità nei confronti di questo mondo della formazione

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e dell'istruzione che ci deve rendere consapevoli del fatto che su tale terreno non si può tenere il gioco a nessuno e che non c'è la priorità del Governo rispetto al Parlamento; semmai vi è la priorità di quest'ultimo rispetto all'esecutivo. Dunque, quando il Parlamento produce, il Governo deve assecondarlo, soprattutto quando vi è la consapevolezza della collegialità assoluta, giacché nessuno si è tirato indietro.
Ho voluto approfittare, forse un po' troppo e forse in maniera molto calda, della discussione sul DPEF per denunciare e per segnalare al Governo - che ancora una volta è troppo distratto e me ne dispiace: questo sta a significare quanto la scuola sia al primo posto per questo Governo (Applausi di deputati del gruppo di forza Italia) - che la situazione è assolutamente insostenibile, così come non è accettabile che in queste riforme strutturali siano state inserite solo e semplicemente le proposte venute dal Governo, per le quali ancora non abbiamo nemmeno trovato una via d'uscita per l'ingorgo parlamentare che esse hanno prodotto.
Mi auguro che in quest'aula si svolga un dibattito serrato su mozioni, sia di destra, sia di centro-sinistra, concernenti problemi che sono essenziali per la nostra scuola. Mi auguro che vi sia, alla fine di un dibattito che ci vede tutti molto attenti alle questioni che seguiamo in maniera approfondita anche dal punto di vista professionale oltre che politico, una consapevolezza diversa. Troppo spesso, infatti, ci troviamo a dare un voto che entra nella routine di un andazzo che a livello generale comunque bisogna seguire, perché si deve in ogni caso perseguire un obiettivo, che naturalmente sottoscriviamo pienamente, quello dell'Europa, della salvaguardia di certi standard, di priorità, quali l'occupazione ma anche lo sviluppo per la solidarietà.
Ma non c'è sviluppo e non si può esprimere solidarietà - se lo metta in testa anche il Governo - se non vi è consapevolezza culturale, sensibilità; nessuno può dare ciò che non ha, e se un popolo, una gioventù, non sono formati ai valori, alla cultura, alla civiltà, alla democrazia non potranno rendere né civiltà, né democrazia, né solidarietà. Soprattutto non potranno confrontarsi con i partner europei sul piano di una formazione che è carente e qualche volta addirittura latitante. Infatti nel campo della ricerca scientifica abbiamo ancora molta strada da fare, assumendo iniziative forti e stanziando finanziamenti adeguati.
Voglio inoltre ricordare che per alcune riforme - tra l'altro inserite malamente nell'ambito delle riforme strutturali, poiché si tratta di riforme che dovrebbero essere ordinamentali e di qualità, altrimenti non avrebbero senso - non è prevista una quantificazione di costi reali, il che a nostro avviso è imprescindibile, giacché in Parlamento abbiamo deliberato con chiarezza che non si possono portare avanti riforme prive di copertura finanziaria. Ed allora progetti, sia del Governo sia del Parlamento, che non abbiano questa copertura non possono decollare. Mi chiedo a tutt'oggi, come si possano, con gli impegni finanziari che il Governo ha assunto e, quindi, con quella quantificazione assolutamente irrisoria, sostenere con quattro soldi, che non riescono a far partire la pur minima parte della dose di innovazioni che il ministro ci ha presentato, riforme di sistema complesse e complessive, certamente positive - ed io le valuto in questo senso - che giungono per la prima volta in Parlamento dopo una serie di interventi settoriali.
Sul piano della cultura, infine, c'è anche da segnalare una forte presenza di iniziativa, soltanto governativa, non adeguatamente sostenuta da una ricognizione delle risorse che sono necessarie a sostenere quest'opera di riforma.
Avremmo anche voluto che in questa ricognizione fosse presente...

PRESIDENTE. Onorevole Sbarbati...!

LUCIANA SBARBATI. Presidente, ho quasi concluso, ma mi sembra di avere altro tempo; non capisco perché lei suoni il campanello. Me lo dica tranquillamente, perché so di avere tempo a disposizione.


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PRESIDENTE. Onorevole Sbarbati, solo la mia gentilezza ha fatto sì che lei continuasse a parlare, perché il suo tempo è esaurito!

LUCIANA SBARBATI. Io desidero solo saperlo, Presidente...

PRESIDENTE. Al suo gruppo è assegnato un certo tempo e lei ha superato abbondantemente quello che le spetta. Se me lo chiede con gentilezza, come altri...

LUCIANA SBARBATI. Presidente, credevo di avere più tempo.

PRESIDENTE. Purtroppo credeva male.

LUCIANA SBARBATI. Non ho potuto seguire il dibattito in precedenza, né sapere i tempi degli interventi dei colleghi perché ero alla riunione della Conferenza dei presidenti di gruppo, altrimenti li avrei conosciuti e non mi sarei permessa di dire quello che ho detto. Quindi, mi scuso e mi avvio subito alla conclusione, dicendo che anche in questo settore rimarchiamo la scarsità di consapevolezza e di indagine relative ai costi di quanto si propone. Non vorremmo, pertanto, che vi fosse una eccessiva dose di velleitarismo che, naturalmente, non sarebbe sopportabile, soprattutto dal mondo della scuola e della cultura (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Foti. Ne ha facoltà.

TOMMASO FOTI. Signor Presidente, se l'approvazione del documento di programmazione economico-finanziaria non deve essere un rituale previsto dalla legge, vanno fatte due considerazioni di ordine politico. La prima deriva da una nota ANSA delle 15,30. Bertinotti: «Sul DPEF diremo 'sì' alla Camera e astensione al Senato». Francamente mi risulta difficile capire come sullo stesso testo, che comunque recepisce alcune linee guida per la prossima finanziaria, una stessa forza politica possa assumere nei due rami del Parlamento due atteggiamenti diversi, quasi che ciò che va bene alla Camera possa non andar bene al Senato o viceversa.
La seconda considerazione di politica economica deriva pure da una nota di agenzia, la quale riferisce che secondo l'ISCO le famiglie italiane tornano ad essere di nuovo pessimiste. Proprio questa considerazione deve sgombrare il campo da certi ottimismi che anche quest'oggi abbiamo sentito emergere in numerosi discorsi, ma che non paiono trovare corrispondenza tra l'opinione pubblica italiana, tra i nostri concittadini.
Analizzando il documento, ho individuato alcune parti, su cui concentrerò brevemente il mio discorso, particolarmente carenti. È possibile che per l'ambiente, la cultura e l'occupazione, a pagina 60 si dedichino solo 11 righe? Sono problemi sui quali alcune forze politiche - mi riferisco in particolar modo a quelle della sinistra - mostravano una volta ben altra sensibilità che non quella di scrivere un documento buono a tutto e buono a niente perché, in fin dei conti, è una dichiarazione di intenti che null'altra velleità può avere che quella di dire che si è parlato anche di ambiente, cultura ed occupazione.
Un'altra considerazione deriva dal capitolo relativo alla cosiddetta politica sociale per la casa. Anche in questa pagina, peraltro condivisibile per alcuni proponimenti sotto il profilo politico, si nota tutta la contraddizione che caratterizza l'attività di questo Governo. Non basta scrivere di un'uscita dall'inflazione vincolistica, che ha mostrato tutta la sua inefficacia ed inefficienza, quando si parla della legge sulle locazioni; non basta scrivere di un libero mercato delle locazioni; non basta scrivere di uno sforzo del Governo verso gli inquilini in affitto. Penso di poter affermare che il decreto-legge adottato ieri dal Consiglio dei ministri, che proroga ulteriormente le commissioni prefettizie e in definitiva ritarda l'esecuzione degli sfratti, è un provvedimento che mostra come le pagine del documento in esame rimangano pagine, magari piene di buoni


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(o cattivi) proponimenti, ma che non trovano una ragion d'essere, una giustificazione, una coerenza nell'attività del Governo.
Soprattutto - ci si consenta di dirlo - non vi è alcuna significativa iniziativa che possa far pensare ad un rilancio dell'edilizia, delle grandi infrastrutture, che sono tipiche della funzione di uno Stato che vuole entrare in Europa. Noi abbiamo infrastrutture da terzo e quarto mondo; lo sappiamo benissimo, ma ogni volta che si deve compiere uno sforzo concreto per rilanciare questo settore si glissa. Non basta che il ministro dei lavori pubblici si vanti di aver presentato un decreto-legge, poi convertito in legge, per sbloccare i cantieri. A prescindere dal fatto che questo decreto «sblocca cantieri» è del tutto bloccato - perché la delibera CIPE di erogazione dei finanziamenti non è stata ancora approvata - dobbiamo passare dai decreti «sblocca cantieri» ad una politica di rilancio dell'economia che consenta di aprire i cantieri, e non di sbloccarli, perché vi sono difficoltà non di ordine economico, ma di carattere tecnico nell'esecuzione dei lavori. Occorre che il Governo si impegni per far sì che il volano dell'economia, di cui l'edilizia costituisce uno dei cardini fondamentali, torni effettivamente a compiere il suo ruolo.
Non sono parole mie, ma parole di un deputato del gruppo della sinistra democratica-l'Ulivo quelle che mi accingo a leggere: «Il ministro dei lavori pubblici non ha potere contrattuale nel Governo. Questo Governo non ha una seria politica per la casa. Non è accettabile che un Governo di centro-sinistra non dia risposte ad una questione che - forse non lo ha ben compreso - fa parte dello Stato sociale e non tanto non incentivi la proprietà, ma l'edilizia pubblica, che in Italia è tra le più basse d'Europa».
Queste contraddizioni, che sono evidenti e stridono all'interno della maggioranza, a questo punto non possono più essere sottaciute. Noi, come destra politica, denunciamo tutto ciò per affermare che non solo abbiamo una sfiducia totale nella politica economica del Governo, ma abbiamo toccato con mano l'incapacità della maggioranza financo di rabberciare un testo di legge per la riforma del sistema delle locazioni, per il rilancio dell'edilizia residenziale pubblica.
È evidente, quindi, che l'alchimia politica che vi è riuscita il 21 aprile dello scorso anno, quando avete messo assieme tutto e il contrario di tutto pur di tornare al potere, non produce alcun vantaggio per i cittadini, per gli amministrati, mortifica la nazione e la nostra economia, non ci porta in Europa, ma ci conduce dove quella sinistra barricadiera ben rappresentata da rifondazione comunista ambisce di andare. Probabilmente a Cuba.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Mario Pepe. Ne ha facoltà.

MARIO PEPE. Signor Presidente, signor sottosegretario, colleghi, le quantità macroeconomiche danno una lettura sempre più complessa della sfida della società multiculturale, delle dinamiche macroeconomiche e dei flussi finanziari del capitale. Insomma, il quadro mondiale si richiama alle categorie di un neocapitalismo più raffinato e tutto incardinato sullo scontro reale tra le forze in campo.
Si dice che è la sfida della globalizzazione, e noi riteniamo che bisogna accettarla, senza infingimenti, senza timori e senza scelte episodiche. Per fronteggiare la sfida delle totalità organiche economiche, è necessario attrezzare le forze nazionali, incoraggiare e consolidare nel patto di stabilità il contesto europeo.
La recente conclusione del Consiglio di Amsterdam, che ha riconfermato il patto di stabilità approvando una risoluzione afferente alla crescita ed all'occupazione, deve spingere l'Italia ad essere pronta agli appuntamenti propedeutici - quello della valutazione per il 1998 e quello della piena adesione nel 1999 - all'unione monetaria con la nascita dell'euro. Se si vuole vincere il dumping socio-economico con i paesi ad impostazione economica flessibile è necessario rispettare i parametri di Maastricht.


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Il risanamento economico e finanziario del nostro paese nasce da questo quadro economico generale, anzi l'appuntamento con l'euro è un'opportunità necessaria se si vogliono risanare le risorse dello Stato. Uno Stato, il nostro Stato, non può competere se non è attrezzato su solide basi, se non pone regole certe e rigorose al controllo delle categorie economiche. Il documento di programmazione economico-finanziaria si ispira a questi criteri: non ha solo una ratio di risanamento, ma vuole tracciare le linee per lo sviluppo futuro, vuole essere una messa in rete di tutti gli strumenti per affrontare la pesantezza del debito pubblico, il gravame del deficit annuale, il controllo delle dinamiche inflattive, per ricreare nuove condizioni di sviluppo e di lavoro. Un maggior accumulo delle risorse consente di fare un'adeguata politica di investimento. È vero che le risorse per le politiche di investimento, come dice il documento di programmazione economico-finanziaria, sono aumentate del 14,6 per cento, ma è anche vero che è necessario irrobustire tale politica in conto capitale per rimuovere in senso positivo la debolezza della situazione economica.
Il Governo nel triennio 1998-2000 mira a raggiungere una congiunta finalità: una stabile e duratura crescita economica e la creazione di nuovi posti di lavoro, con le indicazioni che sono state precisate nel documento medesimo.
Giustamente il ministro Ciampi ha dichiarato che quello attuale è un momento di grande speranza di miglioramento delle condizioni economiche, non solo in Europa, ma anche in tutti i paesi industrializzati e nella maggior parte di quelli non industrializzati. L'economia mondiale sta mostrando continui segni di forza, a cominciare dal livello di inflazione, tenuta bassa nei paesi industrializzati, mentre è in diminuzione negli altri.
Emerge, signor Presidente, sempre più nella coscienza dei nostri cittadini una domanda di equità e di serenità per il futuro, che può essere soddisfatta in maniera finalistica solo con l'azione forte, autorevole ed equilibrata di questo Governo, che ha prodotto già molto, ma che dovrà produrre di più, sapendo che l'Italia pretende sempre di più un'efficace azione di governo delle problematiche più urgenti.
La manovra che deve essere affrontata è determinata quantitativamente nel documento di programmazione economico-finanziaria e, vista in prospettiva, scenderà ancora di più negli anni futuri.
Con le scelte politiche del Governo ci avviamo tranquillamente verso Maastricht. Esso che cos'è, se non un tentativo di mettere l'Europa in grado di fronteggiare, con una politica di sviluppo, le sfide della competizione internazionale? Ciò richiede conti pubblici in ordine e pertanto un'equilibrata ristrutturazione del welfare State. Questa è la meta alla quale dobbiamo pervenire, soprattutto nel Mezzogiorno d'Italia.
Il Mezzogiorno, ad oggi, presenta queste difficoltà. I percorsi economici del sud e quelli del centro-nord sono fortemente contrapposti; mentre il nord cresce con un dinamismo equilibrato ma continuo, il sud registra fenomeni di regressione economica e stadi di debole iniziativa produttiva, anche sul versante dell'occupazione.
I dati sono questi ed il Governo per rimuoverli deve compiere tre operazioni fondamentali: coordinamento per utilizzare in maniera accorta le erogazioni nazionali ed i fondi strutturali dell'Unione europea; unificazione del pacchetto legislativo con un quadro unitario delle leggi operanti nelle aree depresse ed in particolare nel sud; predisposizione di un patto economico con risorse certe e con utilizzazione dei recenti strumenti della concertazione. Penso - mi sia consentita questa ricaduta sul territorio - alle aree del Sannio Fortorino, alle aree deboli dell'Irpinia: per colpire le diseconomie ed i piatti livelli di crescita economica di queste aree è necessario predisporre un progetto mirato, che rimuova soprattutto le condizioni di base dell'arretratezza. Condivido quanto si afferma nel documento di programmazione economico-finanziaria, e cioè che gli svantaggi competitivi

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di alcune aree del Mezzogiorno possono e devono essere ridotti, operando con strumenti ed interventi controllati direttamente dallo Stato.
Anzi, re melius perpensa, lo Stato deve diventare protagonista nell'attivare politiche di scuotimento delle aree marginali e depresse. Altrimenti, la corsa verso il futuro è ritardata dalle debolezze strutturali che ci portiamo dietro.
Le risorse si possono orientare e centralizzare. La finanziaria per il 1998 ed il bilancio dello Stato devono accogliere questa istanza.
Il referendum soppressivo del Ministero dell'agricoltura si è consunto, bisogna al più presto rilanciare un progetto di politica nazionale nel settore del quadro delle sfide dell'economia europea e mondiale.
Alla luce di queste considerazioni ritengo che il DPEF al nostro esame sia un valido documento per guardare al domani, per sostenere tutta l'azione del Governo, per creare nuove condizioni di equità e di giustizia nel nostro paese.
In un recente discorso alla associazione degli imprenditori il Papa Giovanni Paolo II ha sostenuto la necessità di affrontare con grande capacità e coraggio il tema della globalizzazione economica, sapendo che esso spinge ancora di più ad una interdipendenza tra i soggetti.
La constatazione che emerge dall'esperienza che facciamo ogni giorno è che nel mondo attuale tutti dipendono da tutti. La solidarietà, prima che un dovere, è un'esigenza che scaturisce dalla stessa rete oggettiva delle interconnessioni. Il bene della persona deve essere l'obiettivo primario. È il senso dell'uomo-cittadino che deve essere recepito e rifondato in uno Stato democratico che va rinnovato, ammodernato non sconvolgendo le tradizioni ed il patrimonio culturale del nostro paese. Più che «se-cedere», cioè separarsi, estraniarsi gli uni dagli altri, in un orgoglioso monadismo etnico, dobbiamo incedere tutti insieme, in una dialettica composizione di motivazioni e di esperienze politiche diverse verso quella conclamata comunità intersoggettiva che non è solo la società formalisticamente prevista dal diritto, ma la comunità comune, la comunità dove può avere dimora il cittadino del nostro tempo. Dimora come ethos, come diceva il grande Heidegger, cioè la nuova eticità pubblica del nostro tempo.
Ed io sono certo, sapendo leggere, come ogni collega sa fare, le grandi parole che spendeva ieri su la Repubblica lo scrittore Citati, guardando la società italiana e ritrovando in essa un'inquietudine senza parola, un'ansia senza sfogo, direi un'afasia chiassosa nella gestualità, che questo documento di programmazione economico-finanziaria possa dare una ragione di serenità all'Italia. Lascia intravedere un futuro fecondo di speranze per i giovani e per le nostre famiglie. Per questo, anche a nome del gruppo dei popolari lo sosterrò, ritenendo che esso sia la strada giusta per uscire fuori dalle secche delle difficoltà economiche che attraversa il nostro paese.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Lo Presti. Ne ha facoltà.

ANTONINO LO PRESTI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, trovare le parole giuste per articolare un giudizio negativo sul DPEF presentato dal Governo per il triennio 1998-2000 non è facile. Vi è infatti il rischio, per chi tale giudizio negativo deve formulare per assolvere al dovere politico e morale di denunziare al Parlamento ed alla nazione l'obiettiva inconsistenza ed inutilità del documento, di incorrere purtroppo in inevitabili ripetizioni. Identici sono infatti i presupposti, le condizioni, gli elementi, le valutazioni, le prospettive ed i riscontri economico-finanziari e contabili che ormai da un anno a questa parte scandiscono, come più volte denunziato da alleanza nazionale, l'azione del Governo sul piano degli interventi di pseudo risanamento dei conti pubblici e del rilancio dell'economia. Interventi e previsioni tutti caratterizzati da un ottimismo di fondo che è poi il prodotto di una consapevole alterazione degli indicatori dell'economia nazionale e dei parametri di riferimento per gli obiettivi


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che il Governo ritiene di poter conseguire, che fanno apparire un quadro macroeconomico roseo nel quale il nostro paese, a detta di chi ci governa, si muove compiendo passi avanti verso l'obiettivo della moneta unica europea.
All'ottimismo dell'incoscienza si aggiunge poi l'enfasi con la quale il Governo ammannisce le cifre del presunto risanamento, gabellando per miglioramenti percentuali dati che invece dimostrano come nulla sia variato dal 1996 ad oggi sul piano della finanza pubblica, che rispetto all'anno scorso, ed anche al 1995, segnala un evidente rallentamento nel percorso di riequilibrio. Lo dice impietosamente la Corte dei conti, che segnala un aumento di circa 3 mila miliardi dell'indebitamento netto dei conti della pubblica amministrazione, ponendo in evidenza come la ripercussione positiva sul prodotto interno lordo, che si è ridotta dal 7 al 6,7 per cento (il rapporto indebitamento-PIL è il parametro chiave per le verifiche europee di convergenza), sia da ascrivere non già ad un processo virtuoso della nostra economia, quanto piuttosto ad un incremento delle entrate, cresciute del 6,8 per cento, originato da un ulteriore aumento della pressione fiscale, pari allo 0,5 per cento.
In parole povere, sul piano astrattamente contabile si recupera qualche punto percentuale che fa apparire in miglioramento il rapporto indebitamento-PIL imposto dal Trattato di Maastricht. Ma ciò avviene ai danni dell'economia reale, che non cresce, come dimostrano gli indicatori economici specifici quali, per esempio, tra tutti e innanzitutto, l'aumento (anzi, ad essere generosi, la invariabilità) del tasso di disoccupazione e l'assoluta carenza di attività di investimento da parte del Governo nel campo delle infrastrutture, soprattutto al sud.
Le previsioni del quadro macroeconomico di riferimento elaborato dal DPEF sono falsate: i dati sulla prevista crescita dell'occupazione sono falsi. Il Governatore della Banca d'Italia ha definito le previsioni del Governo, per educazione ed usando un eufemismo, ottimistiche. La verità è che ormai - come ho già detto - tutti i dati ammanniti dal Governo sono artatamente alterati, maggiorati; ed invito i colleghi a rileggersi in proposito il pesante giudizio della Banca d'Italia contenuto nella relazione del Governatore. A pagina 11 è chiaramente scritto: «La crescita del prodotto interno del 1998 potrebbe risultare inferiore al 2 per cento previsto; l'aumento dell'occupazione indicato dal documento è ottimistico. Secondo l'andamento in atto, essa manifesta una tendenza a ridursi nel corso dei prossimi due o tre anni. Pur conseguendo insieme agli obiettivi di finanza pubblica, dei costi e dei prestiti, un tasso di crescita più elevato di quello previsto dal documento, non sembra che l'aumento dell'occupazione possa raggiungere i valori indicati».
Altro che tendenza in aumento dell'occupazione, altro che speranze per i nostri giovani e per i lavoratori, che vedono sempre più a rischio il posto di lavoro, giacché è a rischio la stessa stabilità economica del nostro paese!
Alla fine verranno purtroppo al pettine i nodi creati da un'economia in recessione evidente, che si vorrebbe sostenere con interventi di mera tecnica contabile ovvero, come ha denunziato il Governatore della Banca d'Italia, attraverso l'abbassamento dei tassi di interesse, che avrebbe solo l'effetto di drogare un'economia in coma, ma non certo di agevolarne il processo di guarigione.
Un'analisi approfondita di questo documento farebbe emergere altre incongruenze, false previsioni, giudizi sbagliati, incapacità progettuale seria, come per esempio nel settore del fabbisogno energetico (il collega Valensise lo ha sottolineato nei suoi ripetuti interventi in Commissione bilancio) e di approvvigionamento del nostro paese. Settori che ancora non vedono una politica che li riguardi. Non c'è infatti una politica seria in questo campo, che nei prossimi anni diventerà un punto di svolta per il futuro del nostro paese ed il ruolo di potenza industriale che l'Italia ha assolto fino a questo momento. Il nostro paese rischia di trovarsi in ginocchio tra qualche anno

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grazie all'insipienza di chi oggi non riesce a guardare oltre i parametri di Maastricht.
Purtroppo, signor Presidente, il tempo a mia disposizione è troppo breve ed impone per questo, evidentemente, una maggiore sintesi, anche se è difficile per chiunque poter esprimere in poche battute il proprio profondo dissenso, la censura, la denunzia chiara ed efficace sulla strumentalizzazione che questo Governo e questa maggioranza stanno portando avanti con l'inganno ai danni dell'intero popolo italiano. Mi limiterò pertanto a far mia una caustica e solare affermazione di Abramo Lincoln, il quale, rivendicando la propria credibilità, poi confermata dalla storia, di uomo di governo serio e capace, ebbe a dire: «Puoi imbrogliare tutta la popolazione alcune volte e imbrogliare parte della popolazione tutte le volte, ma non si può imbrogliare tutte le volte tutta la popolazione».
Fate tesoro, colleghi della maggioranza e del Governo, di questa massima. Ma in cuor mio spero che quando ne avrete preso coscienza sarà ormai troppo tardi (Applausi dei deputati dei gruppi di alleanza nazionale e di forza Italia).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Pittella.

GIOVANNI PITTELLA. Onorevole Presidente, onorevole sottosegretario, condivido l'impianto del documento e quindi mi soffermo solo sulla parte che fa riferimento specifico al Mezzogiorno e voglio dire con franchezza, sebbene con spirito costruttivo, che non mi convince l'impostazione del Governo: mi sembra timida e convenzionale. Non c'è uno sforzo di reinquadramento della questione meridionale nei grandi processi di cambiamento nazionali ed internazionali. Non vedo almeno un abbozzo di elaborazione per assegnare al Mezzogiorno una funzione nella globalizzazione dell'economia, nella rivoluzione dell'informazione, nel riassetto dei poteri istituzionali.
Apprezzo lo sforzo del Governo per dare operatività a strumenti di intervento quali i contratti d'area e i patti territoriali e per assicurare maggiore efficienza alle procedure di erogazione degli aiuti alle imprese. È evidente tuttavia l'insufficienza di questi strumenti. Ci vuole di più: occorre ampliare la gamma di possibili interventi mirati a sollecitare lo sviluppo del Mezzogiorno.
In questo quadro, mi soffermo un attimo sulla controversa vicenda dell'utilizzo dei fondi comunitari.
Il primo problema da chiarire riguarda la natura degli aiuti comunitari. Essi sono aggiuntivi rispetto all'impegno nazionale, ma se così è, è tutto da rivedere il meccanismo del cofinanziamento. Dove sono le risorse aggiuntive stanziate dallo Stato? Le regioni - non tutte - sono sul banco degli imputati, ma non può sfuggire che la scarsità delle loro risorse non consente di far fronte ai cofinanziamenti. Possiamo deplorare la carenza progettuale, l'inefficacia delle procedure, ma non possiamo ignorare gli impedimenti finanziari, che rendono difficile l'azione degli enti locali.
A questo punto, se non vogliamo perdere del tutto le risorse europee, è necessario assumere decisioni risolutive, sostenendo con tutti i mezzi quelle regioni, come la Basilicata, che hanno dimostrato efficienza. Per quanto riguarda le altre regioni, poiché è impensabile che i recuperi di efficienza possano essere effettuati in maniera soddisfacente in tempo breve, è necessario immaginare qualche soluzione innovativa. Propongo che si concentrino tutte le risorse impegnate e non spese sulle grandi infrastrutture di telecomunicazione e di trasporto, di cui il Mezzogiorno è carente e che rappresentano la ragione prima del suo scarto di produttività. Gli aiuti comunitari che restano fuori da questa operazione potrebbero invece essere destinati a sostenere sovvenzioni globali, o autonome o collegate agli altri interventi previsti dai patti territoriali e dai contratti d'area.
Non trovo più, inoltre, onorevole sottosegretario, tra le proposte del Governo alcune soluzioni di promozione dello sviluppo che hanno già sperimentato la loro


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efficacia in altre nazioni europee, come l'Irlanda, la Spagna, il Belgio, la Germania. Mi riferisco alle zone franche industriali.
Mi chiedo inoltre come mai non immaginiamo qualche soluzione che consenta alle imprese localizzate nel sud di avere una corsia preferenziale nell'accesso all'enorme business degli appalti pubblici europei. Potremmo sostenere in sede comunitaria che alle aziende localizzate nelle regioni dell'obiettivo venga riconosciuta una preferenza di prezzo, per cui possano acquisire l'aggiudicazione di un appalto se la loro offerta fosse solo di uno o due punti superiore alla migliore presentata da un'azienda delle regioni ricche.
Voglio fare una considerazione sul versante della qualificazione del capitale umano nel sud. Nel sud i disoccupati sono tanti ma soprattutto non sono qualificati, e non per colpa loro. Il sistema della formazione professionale non funziona; è a tutti noto. Ma il Ministero del lavoro, forse perché troppo concentrato sulle questioni della riforma dello Stato sociale, si occupa poco della formazione professionale. C'è una soluzione che potrebbe essere presa in considerazione ed è quella di estrapolare dalle competenze del Ministero del lavoro quelle relative alla qualificazione professionale e alle politiche del lavoro in genere. Si tratterebbe di dar vita ad un ministero per la piena occupazione, che abbia come sua missione il coordinamento delle attività locali in materia di preparazione e di avviamento al lavoro dei disoccupati, lasciando all'attuale ministero il compito di affrontare tutte le complesse tematiche della riforma dello Stato sociale.
Un'ultima considerazione desidero svolgerla sul tema della fiscalizzazione degli oneri sociali esprimendo apprezzamento per l'impegno del sottosegretario Sales e del Governo volto a superare l'iniquo accordo stipulato a suo tempo dall'ex ministro Pagliarini.
Sono certo che l'onorevole Sales porterà a casa un risultato positivo e dimostrerà che è proprio la filosofia della libera concorrenza a non tollerare che situazioni differenti vengano artificiosamente considerate alla pari.
Ritengo però di dover suggerire a Isaia Sales di sollevare nei suo colloqui a Bruxelles anche la questione della classificazione delle regioni. Il meccanismo attuale che assume come unico parametro il prodotto interno lordo pro capite è del tutto inadeguato. Vanno considerati anche i parametri del tasso di disoccupazione, della dotazione infrastrutturale per avere una rappresentazione vera dei differenziali di sviluppo. È questo il momento di avviare una rinegoziazione in sede di Unione europea, anche perché con l'ingresso ormai prossimo nell'Unione dei paesi dell'Europa centro orientale è facile immaginare che le regioni meridionali risulteranno tutte promosse statisticamente tra le regioni ricche d'Europa. Con il che si risolverà il problema dei fondi comunitari in maniera paradossale in quanto non ne verranno più assegnati, ma ciò che è peggio si sosterrà che le nostre imprese delle regioni deboli non debbono più percepire sostegni di alcun genere in quanto localizzate in zone classificate come zone ricche (Applausi dei deputati dei gruppi di forza Italia e di alleanza nazionale).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Aprea. Ne ha facoltà.

VALENTINA APREA. Signor Presidente, colleghi, signori membri del Governo, nel dibattito che si è tenuto in questi giorni nelle Commissioni competenti abbiamo dimostrato gli errori previsionali, i successi illusori e le ambiguità degli obiettivi futuri contenuti nel DPEF che si riferisce al triennio 1998-2000.
Siamo dunque preoccupati sia per la superficialità presente nelle enunciazioni relative agli interventi da promuovere nei diversi settori sia per l'eccessivo ottimismo relativo ai dati ed alle previsioni econometriche che sono, al contrario, poco credibili.
Il vero nodo è tuttavia di natura politica e sta proprio nell'impossibilità


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della maggioranza e del Governo, e quindi delle forze politiche che lo sostengono, di superare le proprie contraddizioni paralizzanti e di avviare politiche rivolte al risanamento e allo sviluppo, che sarebbero indispensabili per il paese.
Cercherò di dimostrarlo entrando nel merito delle riforme della pubblica amministrazione e delle istituzioni scolastiche, evidenziando due aspetti particolarmente emblematici dell'ambiguità del Governo Prodi. Il primo si riferisce alle intenzioni di decentramento amministrativo che dovrebbe portare ad una globale azione di delegificazione e di semplificazione delle procedure, nonché ad un rafforzamento della managerialità della dirigenza statale, ovviamente partendo da una seria riforma dei ministeri e quindi anche del Ministero della pubblica istruzione. Obiettivi tutti giusti e pienamente condivisibili, che mal si conciliano però con le scelte politiche e amministrative attuate finora dal ministro Berlinguer e dall'Ulivo nel suo complesso.
In questi atti prevalgono sempre le vecchie logiche centralistiche e assemblearistiche; i progetti di innovazione sono prevalentemente gestiti dalle direzioni generali; i progetti di legge della maggioranza sembrano costruiti per complicare le procedure e mettere sotto tutela i dirigenti (in modo particolare i capi di istituto) nelle scuole. Insomma, per l'istituzione scolastica sembra che questi modelli organizzativi e gestionali debbano rimanere fuori dalla porta. Ma forse non si è valutata abbastanza l'incidenza quantitativa e qualitativa del sistema scuola e soprattutto non si è valutato che l'arretratezza gestionale di questo settore può mettere fuori gioco non solo il milione di dipendenti, ma l'intero paese, se dovesse continuare ad avere un mastodonte a capo dell'intero sistema.
Un altro aspetto che qui vogliamo denunciare è l'assenza di reali investimenti a sostegno delle riforme enunciate dal ministro Berlinguer e richiamate con precisione di riferimenti in questo DPEF a pagina 68. Mi riferisco al punto in cui si dice che: «L'introduzione dell'autonomia delle istituzioni scolastiche accompagnerà la costruzione del sistema pubblico integrato e la riforma dei cicli scolastici, riordinati sulla base delle soluzioni saranno previste in un apposito disegno di legge» che è stato presentato in questi giorni dal ministro al Consiglio dei ministri.
Sappiamo che il Governo vuole portare avanti queste riforme attraverso tagli alla spesa pubblica e questo potrebbe essere anche un merito, ma quello che non si dice è che non sono stati previsti gli adeguati finanziamenti che possono garantire la efficacia di queste riforme. In tal modo si attua esclusivamente una strategia di impoverimento della scuola, e di quella pubblica in particolare: altro che priorità, altro che investimento! D'altronde è quanto ha avuto modo di osservare dai banchi della maggioranza, pochi minuti fa, anche l'onorevole Sbarbati, con coraggio e coerenza.
Bisogna dire le cose come stanno. Secondo stime recenti, pubblicate da Il Sole 24 ore, i costi della riforma sarebbero all'incirca i seguenti: circa mille miliardi per risparmi accertati, derivanti dall'accorpamento di elementari e medie e dal minor costo conseguente alla fine anticipata di un anno della scuola secondaria superiore, ma circa 2 mila miliardi di costi aggiuntivi dovuti al costo per gli alunni dell'ultimo anno delle materne non statali, pari a 900 miliardi. Anche per la parità sono stati valutati costi da 2 mila 500 miliardi a 3 mila miliardi.
A fronte di queste stime si sa che la copertura finanziaria per il riordino dei cicli è stata prevista in 176 miliardi in tre anni, il che è niente; mentre per la parità si rinvierà addirittura alla copertura finanziaria 1999. Dunque, nel 1998 resteranno solo i tagli, l'impoverimento e il disinvestimento in questo settore.
Per tali ragioni siamo con convinzione ed in modo motivato contrari al documento di programmazione economico-finanziaria (Applausi dei deputati dei gruppi di forza Italia, di alleanza nazionale e del CCD).

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PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Valensise. Ne ha facoltà.

RAFFAELE VALENSISE. Signor Presidente, onorevoli colleghi, dopo gli interventi approfonditi dei colleghi Bono, Armani e Lo Presti per il gruppo di alleanza nazionale e dopo gli interventi altrettanto acuti della collega Aprea e del collega Foti, è difficile aggiungere altre considerazioni critiche.
Mi limiterò pertanto a qualche osservazione che non è di carattere marginale, ma che vuole richiamare l'attenzione e riportare il dibattito su un punto centrale dal quale possono derivare effettivi cambiamenti: quello della produzione di lavoro, della stimolazione di lavoro.
Il lavoro è trattato nel documento, nel paragrafo dedicato al mercato del lavoro, ma a nostro giudizio non viene affrontato tenendo conto delle forme e dei mezzi che possono dare possibilità e prospettive di assorbimento di vaste forze di lavoro.
La prospettiva principale, alla quale si fanno solo timidi accenni nel documento di programmazione economico-finanziaria, come abbiamo già detto in Commissione e come ripeto adesso nella sede solenne dell'aula, è quella delle fonti di energia. Il lavoro non è un presupposto, ma è una conseguenza della capacità operativa in relazione alle fonti di energia.
Vi sono fonti di energia obbligate, ma vi sono anche fonti di energia che dovrebbero essere utilizzate in maniera differente. Infatti, i risparmi ottenuti attraverso l'abbattimento dei costi delle fonti di energia stesse potrebbero essere destinati ad incentivare l'occupazione ed il lavoro. Un simile intervento avrebbe effetti strategici proiettati in avanti, che andrebbero a beneficio delle giovani generazioni e determinerebbero un rinnovamento ed un rilancio dell'intero sistema produttivo.
Onorevole Presidente, quando in una pubblicazione ufficiale dell'ENEL (Notizie statistiche sull'energia elettrica) dello scorso dicembre è scritto che la produzione di energia idroelettrica si limita a 3.659 milioni di chilowattori mentre la costosa produzione di energia termoelettrica è stata pari a 13 mila milioni di chilowattori, significa che ci troviamo di fronte ad una politica sbagliata, perseguita da questo Governo di sinistra, da questo Governo solo a parole preoccupato all'avanzamento sociale ed impegnato sul fronte dell'occupazione. È una carenza di questo Governo, che non ha affrontato di petto il problema dell'energia a basso costo, che è alla base di qualsiasi rilancio produttivo. L'Italia è un paese povero di materie prime, ma ha un «tesoro», cioè le risorse idriche, attraverso le quali si può produrre energia elettrica a basso costo. L'intero territorio nazionale è disseminato di dighe incomplete, la cui ultimazione potrebbe portare alla costruzione di centrali per la produzione di energia idroelettrica a bassissimo costo, con ricadute sul lavoro e sulla produttività. Di tutto questo però non si fa parola, non c'è una politica dell'energia a basso costo, l'unica cioè che può rivoluzionare il mercato del lavoro e lo sviluppo in tutto il paese.
È un dato essenziale sul quale abbiamo richiamato l'attenzione del Governo (ringrazio il collega Lo Presti per aver ricordato quanto abbiamo detto in Commissione) e la sensibilità della maggioranza, che ci auguriamo esista. Chiediamo che tale sensibilità si manifesti nell'affrontare il problema fondamentale della competitività, della creazione di posti di lavoro, della concorrenzialità del sistema produttivo nazionale.
Un'altra osservazione riguarda i cosiddetti fondi CEE, che rappresentano una risorsa di ritorno di parte dei conferimenti che facciamo alla Comunità stessa. È mai possibile che tali fondi non vengano usati, perché gli addetti ai lavori e gli enti interessati non sono in condizione di utilizzarli e perché lo Stato stesso non è capace di creare le possibilità per un tempestivo impiego di risorse che gli altri paesi utilizzano in tempi ragionevoli e non disumani e fuori dall'economia, come avviene in Italia?
Quante sono le opere non ultimate che attendono i contributi CEE, le cui pratiche sono incagliate per mancanza di know


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how, per scarsa conoscenza delle regole comunitarie che governano il trasferimento di queste ingenti risorse? È questo un aspetto che va affrontato per sbloccare una situazione che ci rende ridicoli in Europa. È ridicolo infatti che si abbia diritto all'accesso alle risorse europee e che queste rimangano inutilizzate e che i tempi scorrano lenti «come fiumi di polvere», come diceva il poeta, e senza che le risorse possano rientrare in parte nel sistema produttivo italiano ad incentivare opere, con ricadute sull'occupazione e sullo sviluppo generale. Qual è la critica di fondo che avanziamo al DPEF? Sosteniamo che si tratta di un documento che registra la situazione esistente, ma che non ha alcuna forza propulsiva di cambiamento nei confronti dei termini elementari del sistema produttivo italiano, del suo sviluppo possibile. È un documento che non può quindi avere la nostra approvazione. È un documento fatto di mille impegni e di mille analisi che rimangono in superficie, mentre vengono assolutamente trascurati alcuni elementi essenziali per lo sviluppo e la produttività a basso costo, per lo sviluppo delle risorse, per la messa in movimento di quei meccanismi complessi che vanno dalle risorse finanziarie (e sono mobilitabili anche quelle della comunità), alle risorse energetiche.
Questi punti sono la chiave di volta di qualsiasi economia che voglia, alle soglie del terzo millennio, essere veramente competitiva, stare nel mercato comune europeo, essere pronta a sostenere la spinta pericolosa ma esaltante che viene dalla globalizzazione dei mercati, come tutti sappiamo e prevediamo e come il Governo dovrebbe provvedere, con una visione ampia, strategica, di grande respiro, degna di un popolo di 60 milioni di abitanti (Applausi dei deputati dei gruppi di alleanza nazionale e di forza Italia).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Teresio Delfino. Ne ha facoltà.

TERESIO DELFINO. Signor Presidente, signor sottosegretario, colleghi, noi riteniamo che, nel momento in cui si discute il DPEF, occorra evitare la situazione verificatasi lo scorso anno, quando il Governo, partito con un'ipotesi di legge finanziaria, ha dovuto poi in corsa modificare profondamente la sua prospettiva, accusando indubbiamente un calo di fiducia e di credibilità da parte del paese.
Noi ci auguriamo che non accada quello che si è verificato lo scorso anno, perché riteniamo, come abbiamo sempre sostenuto, che sia di vitale importanza per il nostro paese rimanere saldamente ancorati all'obiettivo di partecipare all'unione monetaria europea fin dal 1 gennaio 1999. In questa direzione abbiamo portato il contributo di riflessioni, di proposte, di indicazioni, che ha avuto scarsa attenzione, se non totale disattenzione da parte del Governo.
Ribadiamo quindi l'esigenza di approfondire alcuni aspetti del DPEF, soprattutto nella prospettiva emersa dopo il recente vertice di Amsterdam: coniugare sviluppo e occupazione, risanamento e sviluppo. Il vertice di Amsterdam ha ribadito la validità di quanto previsto sia sul piano quantitativo sia su quello qualitativo dal Trattato di Maastricht, con l'Italia che risulta in grave ritardo soprattutto con riferimento alle privatizzazioni e (è questo un elemento che abbiamo sollecitato più volte) allo snellimento della pubblica amministrazione e del pubblico impiego, nonché alla sostenibilità del sistema di produzione sociale nel contesto del controllo dei meccanismi della spesa pubblica.
Il documento presentato quest'anno, senz'altro ambizioso ed articolato - in proposito esprimiamo il nostro apprezzamento - è carente però soprattutto per quanto riguarda l'indicazione degli interventi ed una più forte specificità, in primo luogo in materia di riforma dell'economia. Mi riferisco alla necessità di liberarla da tutti quei lacci e lacciuoli che frenano riforme che toccano sicuramente le deleghe fiscali (ci auguriamo che in sede di commissione dei quaranta questo lavoro venga svolto in termini di risposta moderna alle esigenze del nostro paese di


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avere un fisco equo, ma nello stesso tempo comprensibile e non insopportabile); mi riferisco alle riforme che riguardano il mercato del lavoro, lo Stato sociale, rispetto al quale nella risoluzione che presenteremo all'esame dell'Assemblea indichiamo l'esigenza di una tempestiva proposta. Riteniamo infatti che questa riforma, così come la complessiva riforma previdenziale, debbano essere predisposte al di fuori dello strumento dei provvedimenti collegati, perché investono interessi, bisogni, elementi che coinvolgono profondamente il paese, i cittadini e le famiglie. A tale riguardo ritengo che ci si debba collocare in un percorrso che non preveda contingentamento dei tempi, ma che consenta invece un ampio dibattito ed una possibilità di reale approfondimento. Senza queste azioni, senza questi adeguamenti strutturali, l'Italia, a nostro giudizio, non può essere un partner convincente nella prospettiva della moneta unica. È forse anche questo uno degli elementi che inducono il Governatore della Banca d'Italia - al quale anche in questa sede esprimiamo apprezzamento per una linea prudente e rigorosa - a non agire nell'ambito, sicuramente anche per noi auspicabile, della riduzione dei tassi di interesse.
Per quanto concerne l'occupazione, credo che il vertice abbia messo in luce che l'unica soluzione duratura è la promozione di un contesto favorevole allo sviluppo e alla competitività delle imprese. E proprio in questo contesto non ci può essere occupazione duratura senza un vero sviluppo.
Sono questi gli elementi che volevamo sinteticamente richiamare per esprimere le nostre preoccupazioni, per dare un contributo di riflessione che non è pregiudiziale. Abbiamo infatti detto altre volte che riconosciamo che questo Governo ha conseguito sul piano della politica monetaria, della stabilità monetaria, dei risultati; quello che ci preoccupa, però, è che i necessari interventi, i tagli di spesa nella pubblica amministrazione, non sono effettuati nella prospettiva di intervenire nei settori improduttivi, nella riorganizzazione e nella riqualificazione delle spese sociali, come è indicato peraltro dal documento, poiché sfuggono sempre - e le relazioni trimestrali di cassa lo confermano - ad una dinamica che invece dovrebbe essere contenuta negli ambiti delle previsioni del Governo.
Concludo, affermando che abbiamo motivi di grandissima preoccupazione e ci auguriamo che il Governo da qui a settembre, quando presenterà la finanziaria, sappia cogliere le grandi esigenze che il paese ha di avere un'iniezione di fiducia per rilanciare la produzione, per rilanciare la crescita dell'economia, perché soltanto attraverso questo passaggio si può dare una risposta alla priorità, ricordata da molti, dell'occupazione (Applausi dei deputati dei gruppi misto-CDU e di forza Italia).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato alla seduta di domani.

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