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PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
ANGELO SANZA. Chiedo di parlare sull'ordine dei lavori.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
ANGELO SANZA. Non vedo ministri al banco del Governo.
PRESIDENTE. Ci sono sottosegretari.
ANGELO SANZA. Vorrei richiamare almeno l'attenzione del ministro Bogi perché quanto sto per dire...
PRESIDENTE. Ministro Bogi, l'onorevole Sanza sta richiamando la sua attenzione.
ANGELO SANZA. Bocciate le questioni pregiudiziali di costituzionalità la Camera si accinge a passare alla discussione generale per varare la nuova manovra economica; una manovra che, peraltro, arriva in aula con il voto negativo della stessa Commissione bilancio. Mi chiedo - anzi, ci chiediamo - se alla luce della valutazione sui nostri conti economici fatta dalla Commissione europea e dal Fondo monetario non sarebbe più coerente (o quanto meno più opportuno) da parte del Governo ritirare il provvedimento che ci apprestiamo a discutere. Mi chiedo inoltre se non sarebbe nell'interesse dello stesso Governo rivedere il provvedimento per inserire da subito qualche correzione strutturale come proposto dai commissari del Polo in Commissione bilancio.
PRESIDENTE. Le chiedo scusa, onorevole Sanza. Il collega Sanza sta ponendo una questione rilevante; onorevole Pisanu, per cortesia, altrimenti non si riesce davvero a seguire, naturalmente non per colpa sua ma per un complesso di fattori. Onorevole Maselli, per cortesia!
ANGELO SANZA. Abbiamo una legge finanziaria ed una manovra di primavera che non modificano i fattori di spesa; abbiamo un Governo convinto di dover riformare il sistema pensionistico, ma che continua a rinviare l'appuntamento con tale problema; abbiamo infine una scarsa credibilità della classe di Governo. Ci chiediamo allora se questo Governo, che non è in grado di adeguare la politica economica e sociale del nostro paese a quella degli altri partner europei e rifiuta le offerte dell'opposizione e rinvia il chiarimento politico, non farebbe molto meglio a modificare questo provvedimento, a riportarlo in Commissione e a dargli una
PRESIDENTE. Sulla questione sollevata dall'onorevole Sanza darò la parola, ai sensi dell'articolo 41 del regolamento, ad un oratore contro e ad uno a favore. Ascolteremo poi il Governo.
PIETRO ARMANI. Chiedo di parlare a favore.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
PIETRO ARMANI. Ritengo che i problemi sollevati dal collega Sanza abbiano un peso particolare. In realtà, infatti, non soltanto nel corso della preparazione di questa manovra sono venuti a mancare alcuni degli elementi su cui essa si fondava (si è riferito dell'atteggiamento della Commissione europea e del Fondo monetario internazionale), ma sono anche venuti meno alcuni risultati che il Governo si attendeva dalla legge finanziaria per il 1997, che sta dando frutti inferiori a quelli attesi. Inoltre, desidero sottolineare il fatto che la manovra integrativa è incentrata prevalentemente sull'articolo 2 (l'anticipo della tassazione sul TFR) che, proprio per il meccanismo dell'anticipo, creerà un vuoto a partire dal 2000; infatti, per il 2000 si prevede un saldo finanziario netto negativo di ben 1.185 miliardi. Faccio notare che il 2000 non è lontano nel tempo, ma è il terzo anno del prossimo documento di programmazione economico-finanziaria, che andrà dal 1998 al 2000. Quindi, il Governo, nel preparare la legge finanziaria per il 1998 e ancor prima il documento di programmazione economico-finanziaria per il prossimo triennio, dovrà tenere conto di questo buco, di questo saldo finanziario netto negativo del 2000.
PRESIDENTE. Nessuno chiedendo di parlare contro...
GIORGIO MACCIOTTA, Sottosegretario di Stato per il bilancio e la programmazione economica. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
GIORGIO MACCIOTTA, Sottosegretario di Stato per il bilancio e la programmazione economica. Il ministro del tesoro e del bilancio in sede di Commissione ha già illustrato il senso di questa manovra, il suo carattere di manovra di raccordo con il documento di programmazione economico-finanziaria che, come l'onorevole Armani ha ricordato poco fa, dovrà essere presentato nei prossimi giorni. Credo che quella sarà la sede nella quale questa manovra di raccordo, che ha un limitato effetto nel 1997 e nel 1998, sarà delineata in modo più strutturale, per poter pervenire a quegli obiettivi di stabilizzazione di medio e lungo periodo di cui l'onorevole Armani parlava poco fa.
PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Macciotta.
ELIO VITO. Chiedo di parlare per un richiamo al regolamento.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
ELIO VITO. Presidente, l'onorevole Sanza ha posto una questione sull'ordine dei lavori di questa seduta. Lei correttamente, ai sensi dell'articolo 41 del regolamento, sulla questione posta dall'onorevole Sanza ha dato la parola ad un oratore a favore e ad un oratore contro. Il Governo tra l'altro ha chiesto di intervenire e noi abbiamo ascoltato quanto ha detto con grande interesse.
PRESIDENTE. Onorevole Vito, come lei stesso ha correttamente richiamato, è nella facoltà del Presidente di porre o meno in votazione richiami di questo tipo. Non mi pare che qui esistano le condizioni previste dal regolamento e soprattutto dalla prassi. L'onorevole Sanza ha infatti esposto con chiarezza le questioni e altrettanto ha fatto l'onorevole Armani; il sottosegretario di Stato ha risposto. Credo quindi che a questo punto il lavoro possa proseguire normalmente.
ELIO VITO. Che genere di condizioni, Presidente? Condizioni numeriche?
PRESIDENTE. Numeriche no! Non pretendo di convincerla.
BRUNO SOLAROLI, Relatore. Signor Presidente, onorevoli colleghi, risultati di
BRUNO SOLAROLI, Relatore. Questi obiettivi indicavano un fabbisogno del settore statale pari a 61.400 miliardi (3,14 per cento del PIL) e un indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni, che costituisce l'aggregato di riferimento ai fini della verifica del rispetto dei parametri di convergenza previsti dal trattato di Maastricht, di 59.255 miliardi, pari al 3 per cento del PIL.
PRESIDENTE. La Presidenza autorizza senz'altro la pubblicazione in calce al resoconto stenografico della seduta odierna di considerazioni integrative del suo intervento.
BRUNO SOLAROLI, Relatore. Nel corso dell'esame in Commissione bilancio sono stati approvati alcuni emendamenti riferiti al testo del decreto-legge n.79 del 1997.
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.
GIORGIO MACCIOTTA, Sottosegretario di Stato per il bilancio e la programmazione economica. Il Governo si riserva di intervenire in sede di replica.
MARIO PEZZOLI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. A che titolo?
MARIO PEZZOLI. Signor Presidente, avevo chiesto la parola prima che iniziasse
PRESIDENTE. Per che cosa?
MARIO PEZZOLI. Vorrei anche la presenza dell'onorevole Bogi, che è ministro per i rapporti con il Parlamento, perché vorrei esprimere le mie perplessità su quanto è accaduto nell'ultima seduta e chiedergli ulteriori chiarimenti.
PRESIDENTE. Relativamente a quale argomento?
MARIO PEZZOLI. Relativamente al problema che avevo sollevato nella precedente seduta quando avevo letto l'articolo di un giornale...
PRESIDENTE. In questo momento non è pertinente...
MARIO PEZZOLI. Intervenendo sull'ordine dei lavori, vorrei sapere se le istanze che un parlamentare rivolge al Governo possano ottenere risposta da parte dello stesso, o se devo cambiare gruppo...
PRESIDENTE. Onorevole Pezzoli, lasci parlare anche me, per cortesia!
MARIO PEZZOLI. Presidente, evidentemente dovrò fare presentare le interrogazioni da un parlamentare della maggioranza, sperando che in tal modo possano avere risposte!
PRESIDENTE. Onorevole Pezzoli, adesso ascolti il Presidente, per favore!
MARIO PEZZOLI. È inutile che l'onorevole...
PRESIDENTE. Onorevole Pezzoli, le ricordo che nel corso dell'ultima seduta ha avuto modo di illustrare ampiamente il sollecito della sua interrogazione. In questo momento, è assolutamente fuori luogo un nuovo sollecito!
MARIO PEZZOLI. Perché non mi è stata data prima la parola?
PRESIDENTE. Il suo sollecito è stato inoltrato; ed ora chiedo al rappresentante del Governo se intenda intervenire.
GIORGIO MACCIOTTA, Sottosegretario di Stato per il bilancio e la programmazione economica. No, Presidente!
PRESIDENTE. La questione si può pertanto ritenere esaurita.
MARIO PEZZOLI. Perché non mi è stata data la parola prima?
PRESIDENTE. Il primo iscritto a parlare è l'onorevole Bagliani. Ne ha facoltà.
LUCA BAGLIANI. La Corte dei conti, un organo di questo apparato-Stato, già censurava la legge finanziaria per il 1997 e avvertiva: «La pressione fiscale in Italia salirà di oltre un punto percentuale in rapporto al PIL; dunque, andrà oltre il 43,5 per cento».
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Moroni. Ne ha facoltà.
ROSANNA MORONI. Signor Presidente, vorrei innanzitutto dire al collega Bagliani che, a mio parere, una delle maggiori calamità per il nostro paese è la presenza della lega (Commenti dei deputati del gruppo della lega nord per l'indipendenza della Padania).
PIETRO ARMANI. Agnelli, lo avete votato voi!
ROSANNA MORONI. ...collega Armani, già oggi fonte di notevoli disuguaglianze e di esclusione delle parti più deboli della popolazione...
PIETRO ARMANI. 1.500 miliardi al senatore Agnelli!
ROSANNA MORONI. ...già oggi inadeguato per la riduzione della platea fiscale e per un inaccettabile livello di evasione e di elusione, si aggiunga il rischio di provocare tensioni sociali ingovernabili.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Danese. Ne ha facoltà.
LUCA DANESE. Riteniamo che questo provvedimento, al di là di quello che si dice in riunioni di Commissione e qui in aula, abbia un carattere strettamente congiunturale e non possa certamente essere definito come il contenitore di una manovra di taglio strutturale che garantisca un percorso stabile e duraturo di risanamento. Noi crediamo che all'interno di questo provvedimento si celino una serie di interventi che in realtà premono soprattutto su tematiche di cassa, su problematiche attinenti alla tesoreria piuttosto che su strutture di fondo che possano dare un segnale di reale inversione di tendenza. A parte il fatto che appaiono alcune contraddizioni nell'ambito delle misure che vengono assunte. Penso per esempio all'Ente poste, per il quale si prevede da un lato l'aumento delle tariffe postali e dall'altro la riduzione del fondo di integrazione di 150 miliardi.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Chiamparino. Ne ha facoltà.
SERGIO CHIAMPARINO. Signor Presidente, vorrei iniziare queste mie considerazioni partendo subito da quella che mi pare sia stata, sia nel dibattito giornalistico sia in quello parlamentare, svoltosi sia in Commissione che in aula, l'obiezione principale che è stata mossa a tale manovra, ossia che non si tratterebbe di una manovra strutturale.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Marzano. Ne ha facoltà.
ANTONIO MARZANO. Chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione del testo integrale del mio intervento in calce al resoconto stenografico della seduta odierna.
PRESIDENTE. La Presidenza lo consente.
PIETRO ARMANI. Signor Presidente, sono lieto di parlare dopo il collega Chiamparino, perché questo mi consente di rispondere a tono alle argomentazioni da lui addotte per smontare, o tendere a smontare la proposta alternativa del Polo rispetto all'anticipo della tassazione del TFR, quella cioè di anticipare l'utilizzo dei proventi delle dismissioni derivanti dalla vendita del 15 per cento dell'ENI per il 1997 e del 20 per cento nel 1998 e del 20 per cento nel 1999 dell'ENEL.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Peretti. Ne ha facoltà.
ETTORE PERETTI. Ho illustrato precedentemente i passaggi in cui il decreto-legge che è oggi al nostro esame viola, ad avviso del centro cristiano democratico, la Costituzione. Ora, entrerò nel merito della manovra con considerazioni di carattere generale, riservando alla discussione sugli emendamenti l'espressione di critiche più puntuali.
PRESIDENTE. Constato l'assenza dell'onorevole Scalia, iscritto a parlare: si intende che vi abbia rinunziato.
DANIELE MOLGORA. Signor Presidente, risulta evidente che questa non è una manovra sufficiente per consentirci di arrivare in Europa; peccato che se ne siano accorti soltanto adesso i soliti Soloni che intervengono sui giornali, nelle televisioni, eccetera, mentre noi l'abbiamo sempre sostenuto con i dati alla mano: quelli del bilancio, quelli dell'economia, quelli del debito che si è andato accumulando negli ultimi decenni.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Teresio Delfino. Ne ha facoltà.
TERESIO DELFINO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor sottosegretario, ci troviamo dinanzi ad una manovra correttiva di conti del 1997 che testimonia il costante ritardo del nostro Governo alla scadenza europea.
PRESIDENTE. Constato l'assenza dell'onorevole Ballaman, iscritto a parlare: s'intende che vi abbia rinunziato.
GUIDO POSSA. Signor Presidente, egregi colleghi, signori rappresentanti del Governo, consentitemi, per poter meglio valutare la manovrina in discussione, di richiamare brevemente gli elementi principali del contesto in cui si colloca.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Antonio Pepe. Ne ha facoltà.
ANTONIO PEPE. Il decreto-legge n.79, oggi discusso in sede di conversione, rappresenta la evidente prova che la manovra finanziaria del 1997, fortemente voluta dal Governo ed aspramente combattuta dal Polo, era insufficiente, ma soprattutto inefficace per garantire all'Italia l'accesso alla moneta unica con il primo gruppo di paesi: era una manovra che non avrebbe portato sviluppo ma recessione.
PRESIDENTE. Constato l'assenza dell'onorevole Giancarlo Giorgetti, iscritto a parlare: si intende che vi abbia rinunziato.
ANTONINO LO PRESTI. Credo che mai prima d'ora sia accaduto che si potesse definire superflua una discussione parlamentare su un disegno di legge di conversione di un decreto-legge in materia economico-finanziaria. Prima del Parlamento, infatti, il popolo italiano, la stampa nazionale ed internazionale e soprattutto le istituzioni europee hanno bocciato il tentativo di questo Governo di definire il piano di risanamento economico per l'Italia con una manovra - quale quella prevista dal decreto-legge n.79 del 1997 - dai più valutata come inadeguata (aggettivo questo tra i più educati e meno pesanti tra quelli usati in questi giorni), ma che non è azzardato definire cervellotica ed irresponsabile.
PRESIDENTE. Constato l'assenza dell'onorevole Apolloni, iscritto a parlare: si intende che vi abbia rinunziato.
AVENTINO FRAU. Signor Presidente, onorevoli colleghi, partecipo anch'io al rito poc'anzi evocato dall'onorevole Lo Presti, in un'Assemblea che si era scandalizzata, non molto tempo fa, quando si approvò l'altro documento finanziario, dell'essere mezza vuota e mezza piena. Mezza vuota per un gesto politico che trova oggi mille ragioni di conferma.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Alberto Giorgetti. Ne ha facoltà.
ALBERTO GIORGETTI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, rappresentanti del Governo, a distanza di pochi mesi dal varo della manovra finanziaria 1997, ci troviamo oggi a discutere l'ennesimo intervento correttivo di finanza pubblica operato dal Governo Prodi, la quarta manovra ad un anno dalle elezioni politiche, un provvedimento che vorrebbe dare risposta al deficit registrato sui conti pubblici dalla relazione trimestrale che ha determinato questo deficit in oltre 16 mila miliardi. Ancora una volta, dunque, una misura straordinaria, inaspettata, originata
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Contento. Ne ha facoltà.
MANLIO CONTENTO. Signor Presidente, signori del Governo, il recente giudizio della Commissione europea ha evidenziato le storture della via italiana a Maastricht. Del resto non poteva essere diversamente, posto che il documento programmatico economico e finanziario del 1996 stabiliva un saldo del fabbisogno
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Bono. Ne ha facoltà.
NICOLA BONO. Tutto ciò che avevamo previsto nel corso della finanziaria e che avevamo scritto nella relazione di minoranza si è fatalmente avverato: abbiamo avuto l'aumento della pressione tributaria; l'avvitamento del sistema economico; l'aumento della disoccupazione soprattutto nelle aree depresse; la contrazione del prodotto interno lordo; vistosi buchi nella manovra finanziaria, che non avrebbe realizzato il gettito; la previsione di una manovra di aggiustamento che già noi qualche mese fa quantificavamo in circa 20 mila miliardi.
PRESIDENTE. Constato l'assenza degli onorevoli Fiori, Paolone e Carlo Pace, iscritti a parlare: s'intende che vi abbiano rinunciato.
Avverto che i presidenti dei gruppi parlamentari di forza Italia e di alleanza nazionale ne hanno chiesto l'ampliamento senza limitazione nelle iscrizioni a parlare ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del regolamento.
Ricordo ai colleghi che per oggi è prevista seduta notturna e che entro questa sera si esauriranno gli interventi in discussione generale; eventualmente le repliche - se i colleghi lo riterranno - potranno essere rinviate alla prossima seduta.
Sempre sull'ordine dei lavori, signor Presidente, vorrei rilevare che abbiamo una legge finanziaria...
Continui pure, onorevole Sanza.
veste più adeguata allo scenario politico ed economico che abbiamo di fronte. Sono questi gli interrogativi che pongo al Governo, a lei, Presidente, ed all'Assemblea.
Pertanto, credo che il problema sollevato dall'onorevole Sanza abbia un fondamento sostanziale, perché in realtà, se il Governo ritirasse questa manovra bocciata in Commissione e la accorpasse tutta nella legge finanziaria del 1998, che dovrà essere discussa nei prossimi mesi, e soprattutto se tenesse conto di queste esigenze nel prossimo documento di programmazione economico-finanziaria darebbe prova di serietà nei confronti dello stesso consesso internazionale, degli stessi mercati finanziari internazionali, che ci guardano obiettivamente con grande preoccupazione e che dagli atteggiamenti del Governo possono decidere di assumere una posizione negativa o positiva nei confronti dei titoli del debito pubblico italiano e del corso della nostra stessa moneta.
D'altra parte, vorrei dire che rispetto alla replica del ministro del tesoro in Commissione c'è l'elemento di novità rappresentato dai dati della Commissione europea, che naturalmente non intendo sottovalutare. Vorrei però ricordare che già nel mese di febbraio i principali centri di ricerca italiani (ricordo in particolare l'ISCO, il CER e Prometeia) esprimevano
valutazioni sostanzialmente coincidenti con quelle che hanno provocato tanto scalpore: quei centri di ricerca parlavano allora del 3,7 per cento per il 1997 e del 3,8 per il 1998. Naturalmente, è evidente che se la manovra in questione avesse avuto caratteristiche più strutturali una parte dell'effetto del rimbalzo sul 1998 sarebbe stata già realizzata. Come è noto, la manovra del 1997 delineata con il provvedimento che la Camera ha oggi all'ordine del giorno non ha queste caratteristiche strutturali, se non per una parte. Per una parte residua il Governo è ben consapevole che nel 1998 e negli esercizi successivi dovrà realizzare ulteriori misure di correzione, non dissimili da quelle che erano state previste.
Questi sono i motivi che inducono il Governo a non poter accogliere la richiesta che è stata avanzata dall'onorevole Sanza e dall'onorevole Armani e ad insistere sull'esigenza che, per consentire questa operazione di raccordo, la manovra in discussione alla Camera sia approvata.
Presidente, a questo punto, in base allo stesso articolo del regolamento prima citato, ricordo la sua facoltà di chiamare l'Assemblea a votare sulla questione posta dall'onorevole Sanza.
In considerazione delle questioni poste dal Governo ricordo che l'onorevole Sanza, oltre alle questioni di merito sulla manovra, ha aggiunto un'osservazione squisitamente politica, sulla quale il sottosegretario, per così dire «tecnico», ha evidentemente evitato di pronunciarsi (forse il ministro Bogi o altri rappresentanti del Governo potrebbero farlo).
La questione politica è che in Commissione la manovra non ha «trovato» il voto della sua maggioranza. In Commissione la manovra non ha «trovato» maggioranza! Anche per questa ragione, Presidente, l'onorevole Sanza ha posto il problema al Governo e alla maggioranza di un rinvio in Commissione che consenta a quest'ultima, che tra l'altro ha dovuto esaminare i provvedimenti in tempi molto ristretti, di vedere se sul merito delle proposte alternative che ci sono a quelle del Governo sia possibile magari il formarsi, in Commissione, di una maggioranza diversa, con proposte diverse rispetto a quelle originarie del Governo, che per adesso in Commissione non hanno avuto la maggioranza.
Presidente, per questo e vista anche la rilevanza della materia, mi permetto di chiederle di sottoporre al voto dell'Assemblea la proposta dell'onorevole Sanza di rinviare il provvedimento in Commissione.
Il relatore, onorevole Solaroli, ha facoltà di svolgere la relazione.
finanza pubblica per il 1996 peggiori rispetto alle attese con effetti di trascinamento per l'anno in corso, una diversa valutazione dell'efficacia di alcune delle misure adottate con la manovra approvata alla fine di dicembre e una minore crescita economica nel 1997, influiscono negativamente sull'evoluzione della finanza pubblica nel 1997 e concorrono alla determinazione di saldi che si scostano significativamente rispetto ai valori obiettivi oggetto della manovra approvata nel dicembre scorso.
Rispetto ad essi, e tenuto conto delle riclassificazioni contabili Eurostat, le stime contenute nella relazione trimestrale di cassa, presentata il 2 aprile, evidenziano infatti per l'anno in corso un maggior fabbisogno del settore statale di 23.950 miliardi (da 61.400 miliardi a 85.350 miliardi).
L'incidenza sul PIL passa dal 3,14 per cento stimato dalla relazione previsionale e programmatica al 4,37 per cento attuale.
La modifica del quadro complessivo si riflette sull'avanzo primario, ora stimato in 93.650 miliardi (rispetto ai 125.500 programmati), con uno scarto quindi di 31.850 miliardi. Si riduce invece di 7.900 miliardi la spesa per interessi, che passa da 186.900 miliardi (9,8 per cento del PIL) a 179.000 miliardi (9,16 per cento del PIL).
Con riferimento all'aggregato pubbliche amministrazioni la stima dell'indebitamento netto per l'anno in corso risulta pari a 74.301 miliardi (3,8 per cento del PIL), superiore quindi di 15.046 miliardi all'obiettivo indicato nei documenti programmatici: 59.255 miliardi, pari al 3 per cento del PIL.
Contestualmente l'avanzo primario viene rideterminato in 115.751 miliardi rispetto ai 134.601 miliardi in precedenza previsti. Si riduce anche la spesa per interessi di 3.804 miliardi, passando dai 193.856 miliardi ai 190.052.
Di fronte alla nuova evoluzione tendenziale delle grandezze di finanza pubblica il Governo ha ritenuto opportuno adottare misure correttive atte a recuperare integralmente l'obiettivo del rapporto del 3 per cento del PIL richiesto dal trattato di Maastricht per l'ingresso nell'unione economica e monetaria. Con la nota di aggiornamento del documento di programmazione economico-finanziaria Governo e Parlamento avevano, infatti, deciso concordemente di accelerare il conseguimento dell'obiettivo del 3 per cento fin dal 1997. I conti pubblici risultano, invece, fuori di 0,8 punti rispetto a questo traguardo.
Come ha ricordato il ministro del tesoro in occasione della sua audizione in Commissione bilancio, il Governo non ha alcun «paracadute» nel caso in cui non si raggiunga l'obiettivo del 3 per cento, a meno che comunque la situazione della finanza pubblica non venga profondamente migliorata. Mancare l'Europa potrebbe significare perdere l'occasione di partecipare, avendo voce in capitolo, al consiglio di stabilità che si intende istituire in ambito europeo. È in tale sede, infatti, che si prenderanno tutte le decisioni strategiche.
Secondo il Governo era quindi urgente intervenire tempestivamente, poiché ogni mese che fosse passato avrebbe significato un aumento della difficoltà a rientrare. Qualunque attesa sarebbe equivalsa ad un «messaggio di non intervento».
È stato pertanto emanato il decreto-legge 28 marzo 1997, n.79, recante misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica, all'esame dell'Assemblea, che esercita effetti di contenimento sul fabbisogno del settore statale e sull'indebitamento
netto della pubblica amministrazione per oltre 15.550 miliardi per il 1997, 10.500 miliardi per il 1998 e 5.100 miliardi per il 1999. In termini di saldo netto da finanziare, riferito in termini di competenza al bilancio dello Stato, gli effetti attesi sono di 9.772 miliardi per il 1997, 8.371 miliardi per il 1998 e 2.545 miliardi per il 1999.
Come riconosciuto dal ministro del tesoro, è vero che il decreto-legge non ha carattere strutturale, anche se va sottolineato che ciò non significa che non abbia effetti oltre il primo esercizio. Ma esso va collocato nel quadro della politica economica generale: «In questo quadro i provvedimenti strutturali devono consentire il mantenimento dei risultati nel 1998, mentre le misure attualmente in esame devono rappresentare misure-ponte». Questa è l'impostazione del Governo.
Vale ricordare che importanti riforme di struttura sono state già adottate nel corso degli ultimi mesi (la riforma fiscale, la riforma della pubblica amministrazione, la riforma del bilancio, la fusione dei Ministeri del bilancio e del tesoro) e che esse produrranno effetti finanziari dal 1998. Si tratta infatti non solo di razionalizzazione, ma di veri e propri effetti finanziari di rilievo, se solo si pensa che la riforma fiscale ha l'obiettivo di ridurre evasione ed elusione e che la riforma della pubblica amministrazione e la semplificazione dei procedimenti ridurranno concretamente gli sprechi e potranno consentire risparmi notevoli di risorse umane e finanziarie.
La riforma previdenziale è stata già fatta con gli stessi obiettivi di risparmio. Essa va probabilmente corretta ed è quanto il Governo intende fare, così come dichiarato dal Presidente del Consiglio fin dalla sua illustrazione in Consiglio dei ministri delle linee del suo intervento del dibattito sulla fiducia.
Signor Presidente, se lei mi consente di consegnare considerazioni integrative del mio intervento, perché vengano pubblicate in calce al resoconto stenografico della seduta odierna, salterei ora tutta la parte illustrativa del provvedimento, in modo da consentire all'Assemblea di affrontare in maniera più spedita la discussione generale su questo provvedimento.
Le modifiche più significative riguardano, come si è detto, l'articolo 2. In particolare, l'emendamento 2.390 del relatore ha ridotto l'anticipazione di imposta sul trattamento di fine rapporto a carico delle imprese, prevedendo, per il solo 1997, una franchigia di 10 dipendenti per le imprese con meno di 50 dipendenti, facendo salve comunque l'esenzione totale per le imprese che hanno un massimo di 15 dipendenti e la situazione dei nuovi assunti.
A fronte di tale alleggerimento, sono state previste disposizioni dirette a consentire misure di risparmio e di maggiore entrata. Fra queste si segnalano l'inasprimento del blocco del turn over nel pubblico impiego, la definizione forfettaria delle liti fiscali pendenti, nonché un mini-condono relativo ai trattamenti pensionistici percepiti all'estero. Inoltre, l'emendamento Cherchi 2.86 chiarisce che sono escluse dal versamento le quote di accantonamento imputabili ai fondi pensione e l'emendamento Taradash 2.24 fissa un termine di sessanta giorni per l'emanazione del decreto ministeriale previsto dall'articolo 2, comma 3, con il quale si determinano l'entità e la durata del contributo per il finanziamento del fondo di garanzia costituito presso l'INPS.
Per quanto riguarda l'articolo 3, con gli identici emendamenti Armani 3.7, Cherchi 3.11 e Peretti 3.15, è stata proposta una modifica al comma 3, che detta una disposizione di carattere transitorio per i dipendenti che siano cessati dal servizio
entro una certa data: gli emendamenti fanno invece riferimento al periodo compreso fra il 29 marzo (data di entrata in vigore del decreto-legge n.79 del 1997) ed il 30 giugno 1997. L'emendamento del relatore 3.119 (che assorbe l'emendamento Armani 3.9) modifica il comma 5 nel senso di escludere dall'applicazione delle norme di cui all'articolo in esame anche coloro che sono collocati a riposo d'ufficio a causa del raggiungimento dell'anzianità massima di servizio prevista da leggi o regolamenti.
Gli identici emendamenti Cherchi 3.12 e Armani 3.8 aggiungono il comma 5-bis in cui si precisa che, in tutti i casi di cessazione dal servizio previsti dal comma 5 come modificato, l'ente previdenziale corrisponde il trattamento di fine servizio entro tre mesi dalla ricezione della documentazione trasmessa dall'amministrazione competente; decorso tale periodo, sono dovuti gli interessi. L'emendamento del relatore 3.120 (che assorbe gli emendamenti Taradash 3.46, Danese 3.47, Bagliani 3.96 e 3.95) sposta il termine di quindici giorni dall'entrata in vigore del decreto-legge per revocare la domanda di cessazione dal servizio o per presentare istanza alla riammissione in servizio a quindici giorni dall'entrata in vigore della legge di conversione.
Per quanto riguarda l'articolo 4, con l'emendamento Cherchi 4.17 viene inserito un comma aggiuntivo che consente agli enti previdenziali privatizzati a norma del decreto legislativo 30 giugno 1994, n.509, di adottare deliberazioni in materia di sanzioni e di condoni per inadempienze contributive secondo le modalità che saranno dettate da un regolamento del ministro del lavoro, di concerto con il ministro del tesoro, da adottarsi entro 90 giorni dall'entrata in vigore della legge di conversione del decreto. Tali enti, che a norma dell'articolo 2, comma 2, del decreto legislativo devono assicurare l'equilibrio di bilancio mediante l'adozione di provvedimenti adeguati, fino ad ora non potevano far ricorso a sanatorie delle pendenze contributive degli iscritti, a differenza di quanto avviene per gli enti gestori di assicurazione generale obbligatoria quali l'INPS e l'INAIL.
Non sono stati approvati emendamenti all'articolo 5.
All'articolo 6, con l'emendamento Giorgetti 6.22 si precisa che la sanzione per coloro che si avvalgono di prestazioni di lavoro subordinato od autonomo rese da dipendenti pubblici scatta non soltanto quando ciò avviene in violazione delle norme sul part time contenute nell'articolo 1, commi 56-61 della legge n.662 del 1996, ma anche se non c'è l'autorizzazione dell'amministrazione di competenza.
L'emendamento Giorgetti 6.15 riguarda i dipendenti degli enti locali, prevedendo che essi possano svolgere prestazioni per conto di altri enti previa autorizzazione rilasciata dall'amministrazione di competenza. L'emendamento del relatore 6.137 ha una portata tecnica: esso specifica che, ai fini della trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, il limite percentuale della dotazione organica di ciascuna qualifica funzionale può essere arrotondato all'unità.
All'articolo 7, l'emendamento Cherchi 7.50 stabilisce che ai fini della realizzazione del programma di dismissione di beni immobiliari, gli enti previdenziali pubblici provvedono entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione. Ove questo termine fosse decorso inutilmente, con il comma 1-bis introdotto dall'emendamento Cherchi 7.49 si autorizza il ministro del tesoro ad esercitare il potere sostitutivo degli enti previdenziali.
L'emendamento 7.86 del relatore, che assorbe l'emendamento Cherchi 7.48, chiarisce che il soggetto acquirente, nel rispettare il diritto di prelazione degli eventuali conduttori dei beni immobiliari, deve attenersi ai criteri stabiliti dall'articolo 6 del decreto legislativo n.104 del 1996 e dell'articolo 3, comma 109, della legge n.662 del 1996.
L'emendamento Marzano 7.45 prevede la presentazione al Parlamento, entro il 31 dicembre 1997, di una relazione del ministro del lavoro sul programma di dismissioni,
di cui all'articolo 7, con l'elenco dei beni già alienati e di quelli da alienare, i criteri usati per la stima del valore commerciale, le entrate già realizzate e quelle attese, e la tipologia degli acquirenti.
All'articolo 8, con l'emendamento Danese 8.3, si precisa che la cessione dei crediti è finalizzata alla realizzazione più rapida degli incassi, mentre con l'emendamento D'Ippolito 8.4 si richiede che la cessione avvenga in favore di soggetti non solo abilitati all'esercizio dell'attività di recupero dei crediti, ma anche di comprovata affidabilità e che siano abilitati all'esercizio delle suddette attività da almeno un anno.
Con l'emendamento Cicu 8.2, si richiede al ministro delle finanze di presentare una relazione al Parlamento, entro il 31 dicembre di ciascun anno, sull'attuazione delle procedura di cessione dei crediti prevista dall'articolo 8 in esame, indicando per ogni amministrazione l'entità complessiva dei crediti ceduti e il prezzo medio delle cessioni.
Non sono stati approvati emendamenti ai restanti articoli.
La VI Commissione ha espresso parere favorevole sul disegno di legge di conversione, formulando però una serie di osservazioni. Oltre ad alcune precisazioni di carattere formale (riferite all'articolo 2, comma 1, e all'articolo 13, commi 2 e 6), la Commissione finanze chiede di escludere dall'anticipo di imposta il trattamento di fine rapporto accantonato per i nuovi assunti a tempo indeterminato, di consentire la sospensione e la rateizzazione dei tributi gravanti su contribuenti e sostituti d'imposta che versano in comprovate difficoltà di ordine economico, di precisare che l'attività di factoring per conto della pubblica amministrazione non può riguardare i crediti di carattere tributario e di introdurre alcune modificazioni alle norme fiscali di cui agli articoli 9 e 12 del provvedimento.
La X Commissione ha espresso parere favorevole con una osservazione, relativa alla opportunità di limitare l'anticipo di imposta sul trattamento di fine rapporto alle sole imprese con oltre 25 dipendenti.
In sede di dichiarazioni finali di voto sono emerse significative divergenze in seno ai componenti della maggioranza, non superate dallo sforzo di modifica del provvedimento attraverso i diversi emendamenti approvati, sui quali peraltro si era registrata una comune determinazione della maggioranza. In particolare i deputati del gruppo misto-patto Segni e socialisti italiani hanno ribadito il proprio orientamento contrario sul provvedimento. Di conseguenza, la proposta di conferire mandato al relatore e di riferire favorevolmente all'Assemblea sul provvedimento è stata bocciata, così come è stata respinta la proposta di conferire mandato ad un nuovo relatore (che il presidente ha individuato nell'onorevole Marzano, esponente del principale gruppo di opposizione). Preso atto della situazione venutasi a creare, il presidente ha conseguentemente assunto l'incarico di riferire all'Assemblea sull'esame svolto dalla Commissione (così come è testé avvenuto).
Avrei dovuto anche ricordare che sarebbero state presentate alcune pregiudiziali di costituzionalità ma il fatto che gli avvenimenti si siano già svolti mi esime dal riferire al riguardo.
A completamento di quanto detto, ribadisco che consegno mie considerazioni integrative affinché siano pubblicate in calce al resoconto stenografico della seduta odierna (Applausi dei deputati del gruppo della sinistra democratica-l'Ulivo).
la discussione sul provvedimento e buon testimone è il commesso che è stato appena sostituito.
La rilevazione era contenuta nella Relazione al Parlamento sulle coperture adottate e le tecniche di qualificazione degli oneri. Soltanto poco tempo fa il ministro Visco aveva annunciato che la pressione fiscale sarebbe salita di circa mezzo punto, stimando il rapporto con il PIL attorno al 43 per cento, e solo per effetto dell'eurotassa. Egli aveva comunque promesso: «la lievitazione sarà transitoria». Di fatto, il Governo ha corretto i conti puntando sugli interventi di prelievo tributario piuttosto che sui tagli e sulle minori spese, facendo aumentare nel 1997 la pressione fiscale di oltre un punto percentuale.
Ma non era l'unica tegola sulla testa del Governo. L'attuazione delle misure previste dalla finanziaria era in ritardo e già per venti provvedimenti previsti dal collegato era stato superato il termine stabilito (così diceva il Servizio studi della Camera); responsabile del ritardo è, nella maggioranza dei casi, il Governo, mentre in altri l'adozione delle misure di attuazione
spetta ad altri organismi, come ad esempio le regioni. La manovra economica da 16 mila miliardi varata dal Governo è a tutt'oggi ancora prevalentemente distribuita sul fronte tributario e contributivo. Questo comporterà l'aumento di oltre un punto percentuale della pressione fiscale, che nel 1997 raggiungerà così il 43,5 per cento e oltre del PIL. Vi è infatti la presenza di importanti voci dichiaratamente temporanee e si rileva altresì che il riequilibrio delle tendenze di spesa esige un ripensamento complessivo delle regole e dei livelli di prestazioni dello Stato sociale. Il giudizio era già contenuto nella relazione al Parlamento della Corte dei conti sulla copertura delle leggi emanate nel periodo settembre-dicembre 1996.
Il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica 1997, inoltre, è condizionato da una serie di fattori, fra cui: trascinamento del gravissimo scostamento dei saldi 1996; gli effetti depressivi sull'economia delle misure correttive; alcune conseguenze negative del contesto macroeconomico. Già osservavamo che gli interventi tampone basati su razionalizzazioni di spesa, in sostanza da soli non bastano e spesso non rispondono alle attese.
Due esempi su tutti: il nuovo part-time degli statali ha avuto un tasso di adesione del tutto trascurabile; il taglio nelle assegnazioni delle auto blu ha comportato dapprima un rilevante ampliamento della cerchia dei beneficiari e, poi, la riassegnazione delle stesse auto ai soliti beneficiari di prima!
Si rileva come la decisione del Governo di intensificare gli interventi correttivi per raggiungere i parametri di Maastricht abbia comportato una composizione complessiva della manovra non in linea con gli indirizzi prospettati dal DPEF, spingendola di più verso il fronte tributario. Gli interventi di prelievo sono di poco inferiori al 60 per cento dell'intero pacchetto al netto delle riclassificazioni Eurostat; perciò l'obiettivo iniziale di invarianza della pressione fiscale nel 1997 non sarà conseguito. La pressione, in rapporto al PIL, dovrebbe così arrivare, dopo il 41,7 per cento del 1995 e il 42,5 per cento del 1996, a più del 43,5 per cento, esclusi i prelievi tributari UE. Per noi della lega nord per l'indipendenza della Padania sono sicuri i margini di incertezza sulla quantificazione delle somme che saranno incassate.
Non piace neppure il ricorso alla sanatoria sulle sanzioni e sugli interessi per le imposte previdenziali dirette ed indirette accertate ma non versate, e i burocrati contabili invitano intanto a guardare l'effetto netto di tali provvedimenti. E mentre loro stanno a guardare, gli statali, alla soglia della pensione di anzianità, dovranno attendere ancora per molto tempo prima di avere l'indennità di buonuscita. Lo slittamento delle liquidazioni deciso con la manovra-bis avrà carattere strutturale, cioè sarà così: varrà per sempre.
Certo non entreremo mai in Europa: il 1 maggio 1998 verremo respinti all'esame euromonetario; la conferma viene dai consiglieri di Kohl e Chirac e da autorevoli analisti finanziari londinesi e padani.
Cala ancora la produzione industriale: i dati ISTAT indicano una flessione preoccupante a fronte di un innalzamento della disoccupazione e ad un inasprimento del peso fiscale attraverso un iniquo balzello sul TFR, una delle poche forme di autofinanziamento per le imprese. Aumenta perciò l'esodo delle imprese italiane verso l'estero, comportando soprattutto un impoverimento progressivo dell'intera Padania. Viene fatta versare un'iniqua imposta per finanziare non l'avventura europea, ma il Banco di Napoli. «Manovrina», 16 mila miliardi; Banco di Napoli, 15 mila miliardi - il buco! -; il resto, sono briciole.
A questo punto è doverosa la restituzione dell'eurotassa senza alcun altro rimedio per i cittadini ingannati ancora una volta. La causa principale dell'esclusione è e sarà l'enorme debito pubblico. I partner europei hanno già preavvertito il signor Prodi perché informi l'opinione pubblica in modo che con qualche scusa (vedi l'Albania, le navi che si incagliano o qualche banca da risanare come il Banco
di Napoli) gli italiani non arrivino completamente impreparati al totale fallimento di questo Stato. In realtà il rapporto debito-prodotto interno lordo è pari al 121 per cento, a fronte di un obiettivo comunitario del 60 per cento!
In Europa vi è molta delusione per la vostra «manovrina». Anche l'Istituto monetario europeo, il nucleo della futura banca centrale dell'Unione europea, sottolinea come interventi del genere non siano strutturali e il ministro del tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, lo ha già ammesso durante un'audizione alla Camera. La manovra, finora, ha avuto solo carattere transitorio.
Inconsistente è il paese, inconsistente è il suo Governo, fatto di incapaci e incompetenti, che campa proprio sulla sua inconsistenza. L'idea che si rompa tutto al primo scossone rende paurosi un po' tutti i nostri avversari: Roma-Polo e Roma-Ulivo. Nessuno vuole prendersi la responsabilità di rompere l'incompetente Governo che abbiamo di fronte. E sull'incompetenza «campicchia» il signor Prodi, che oscilla fra macabro ottimismo e disgraziato «cottimismo», come un bracciante del suolo agricolo che campa alla giornata, offrendo quali martiri pacifici tutti i suoi giovani figli: mamme, Bertinotti, pacifisti, gay, prostitute, Caritas, extracomunitari, albanesi, terremotati politici, calamità naturali e militari. Inconsistenti sono pure i falsi miti del «bel paese». Ne abbiamo già infranti molti: giudici, politici corrotti, imprenditori corrotti, partitocrazia; infrangeremo anche i residui: i riciclati, le loro sporche menzogne e le loro grandi falsità (Applausi dei deputati del gruppo della lega nord per l'indipendenza della Padania).
La legge n.662 non era stata ancora approvata che già si levavano le voci di chi giudicava inadeguati gli interventi e richiamava la necessità di una manovra aggiuntiva. Ovviamente, in perfetta coerenza con l'atteggiamento assunto nel corso della discussione in Commissione ed in Assemblea, il Polo ha continuato senza sosta a sollecitare il ricorso alle privatizzazioni ed ai tagli a pensioni e sanità, considerati la soluzione più idonea ai guasti della finanza pubblica.
L'unico modo credibile per conseguire risultati sul fronte del risanamento e del debito sarebbe - a giudizio della destra - il taglio delle spese e la revisione di un sistema sociale fonte, a suo dire, di parassitismi, clientele ed assistenzialismo.
Certi poteri economici del nostro paese e le forze politiche che fanno loro da referenti sono talmente adusi a rispondere ai problemi di disavanzo prelevando sempre e soltanto dalle tasche di coloro che hanno meno mezzi e meno forza per difendersi, da non riuscire a concepire alternative possibili. Non sorprende e non meraviglia che le destre si facciano difensori delle classi più agiate; il problema è che alla profonda ingiustizia insita nello smantellamento dello Stato sociale...
La nostra posizione è stata chiara fin dal primo momento: non era necessaria una manovra aggiuntiva in nome di un'Europa di comodo, di un'integrazione europea, termine salvifico quando il tema
in discussione è l'economia, che perde significato e valore quando si tratta invece di politica, di solidarietà tra popoli, di etica. La vicenda albanese è esemplare: le nostre richieste di un intervento globale, che vedesse impegnata l'Unione europea nella sua interezza a dimostrazione del fatto che esiste anche un'Europa delle donne e degli uomini e non solo un'unione monetaria, sono state vane.
Noi consideravamo la manovra aggiuntiva non necessaria, anche per i motivi già illustrati in occasione del dibattito parlamentare sul decreto-legge n.669. Non si vedono motivazioni a sostegno di una manovra correttiva della legge n.662 senza che si sia prima stabilito che cosa non abbia funzionato, quali entrate non si siano concretizzate, quali siano i motivi dello scostamento rispetto alle previsioni.
Queste domande e le relative risposte non sono irrilevanti né secondarie; i cittadini hanno diritto ad avere certezze, a conoscere le ragioni per le quali debbono pagare ed al posto di chi, soprattutto nella fase attuale di grande difficoltà.
Questi sono i problemi posti da rifondazione comunista, e sono problemi concreti, reali ed oggettivi che rendono inaccettabile la caricatura puramente strumentale delle nostre posizioni; nonostante convinzioni forti e contrarie abbiamo correttamente dimostrato la nostra disponibilità alla discussione ed al confronto nel merito.
Il dato positivo che emerge dal provvedimento in esame e che merita la massima valorizzazione è la dimostrazione tangibile della possibilità di percorrere strade diverse da quelle sperimentate dai precedenti Governi ed anche dagli altri paesi europei, senza colpire ulteriormente i deboli ed optando invece per una linea di tendenza secondo la quale tutti sono chiamati a contribuire in ragione delle proprie capacità, come prevede un dettato costituzionale ineccepibile ma sempre inosservato.
La novità non è parsa gradita ad un sistema imprenditoriale che si è abbandonato a poco dignitosi lamenti ed a peana di guerra contro un Governo reo di aver inferto con l'anticipo sul TFR una ferita non solo materiale ma anche simbolica; lamenti tanto più intollerabili quanto più si ricordano, senza polemiche o volontà punitiva, i trasferimenti e gli aiuti continui anche dell'oggi piovuti alle imprese, aiuti e trasferimenti che evidentemente qualcun altro paga. La manovra di aggiustamento, quella che doveva consentire il raggiungimento del rapporto del 3 per cento tra debito e PIL, si è dunque fatta. Abbiamo discusso, come è nostro costume. Rifondazione comunista intende, infatti, fare politica, confrontarsi sul merito, sul contenuto delle questioni, ricercando insieme agli altri una sintesi possibile. Ci siamo seduti al tavolo del confronto determinati a chiedere, ma anche disposti a concedere. Questo ci pare un comportamento leale e collaborativo, dovuto quando si agisce con spirito di alleanza.
Le vibrate proteste della destra economica e politica per l'assenza o la limitazione di interventi strutturali - che, peraltro, a loro modo di vedere sono soltanto quelli relativi a tagli alle pensioni - non scoprono niente che non sia stato apertamente dichiarato dallo stesso ministro Ciampi. Si tratta di un provvedimento di carattere transitorio in vista dei risultati ottenibili dal 1998 con le riforme del bilancio, del fisco e della pubblica amministrazione.
Queste critiche avrebbero maggior senso e potrebbero forse trovare condivisione se la strada indicata avesse segno politico diverso dalla restrizione della spesa e si rivolgesse invece al recupero delle migliaia di miliardi di contributi, di fisco, di IVA che si perdono ogni anno e che costituiscono (questi, non le pensioni di anzianità) la vera, deprecabile anomalia italiana.
Nel merito, per quanto riguarda il TFR, il nostro gruppo preferirebbe la versione originaria del Governo rispetto ad emendamenti presentati relativi a deroghe e franchigie varie. Tra l'altro, le ipotesi di copertura previste in alcuni di questi emendamenti ci lasciavano e ci lasciano sconcertati, in quanto alcune di
esse andavano ad intervenire sul blocco del turn over in servizi importanti, come quelli assicurati dal servizio sanitario nazionale, dai vigili del fuoco e dalla polizia; altre su ulteriori condoni fiscali che lo stesso ministro Visco, dandoci finalmente ragione, ha dichiarato di non condividere.
Desidero fare una piccola annotazione sul voto contrario espresso dai colleghi Bicocchi e Villetti sulla proposta di relazione favorevole all'Assemblea, una decisione che ha vanificato il lavoro svolto in Commissione e, in particolare, l'intesa tra maggioranza e Governo per uno sconto di mille miliardi sul TFR che andava esattamente incontro alle richieste dei due strenui difensori di Confindustria.
Ciò che mi pare incomprensibile è che tale posizione sia stata espressa da chi aveva partecipato a tutti gli effetti alla discussione avvenuta al tavolo della maggioranza. Certamente stupefacente è la spiegazione dell'onorevole Villetti, secondo cui se la sinistra antagonista tira la corda da una parte, minacciando di spezzarla, è necessario che ci sia chi tira in senso opposto. Si tratta quindi soltanto di tattica da parte di chi, non avendo un rilievo ed un ruolo significativi, tenta di acquisire visibilità politica od è invece ricerca di un rapporto privilegiato con gli industriali e voglia di fare sponda al tentativo di allargare la maggioranza? Sarebbe forse opportuno che gli interessati ci illuminassero e forse illuminassero un po' più anche se stessi.
Torno però al merito. L'anticipo sul TFR rappresenta soprattutto un elemento di riequilibrio e giustizia. A chi si è lasciato andare a scomposti lamenti vorremmo ricordare che questi soldi non appartengono ai datori di lavoro, ma ai lavoratori. Naturalmente non siamo ingenui e sappiamo bene come essi vengano utilizzati dalle imprese. In pratica è un prestito tacito, forzoso. Deve essere ben chiaro che si tratta di questo, non certo di esproprio proletario e bolscevico, ordito da parte e per colpa di brontosauri comunisti ed i termini sono tutt'altro che insopportabili o corposi. L'onere per le imprese è in realtà modesto.
Vorremmo anche invitare ad un maggior pudore chi abusa del termine assistenzialismo riferendosi a coloro che magari hanno beneficiato di protezioni per malattia, disoccupazione, infortuni; in sintesi, per tutta una serie di motivi che oggettivamente possono rendere difficile l'esistenza e talora la sopravvivenza.
Vorremmo ricordare che i cosiddetti assistiti sono esseri umani, individui in carne ed ossa, persone in condizione di disagio, di bisogno e di sofferenza. Vorremmo in particolare rammentare che vi è stato e vi è nel nostro paese un altro tipo di assistenzialismo statale, mai additato né criminalizzato, quello che ha avuto ed ha come destinatarie le grandi imprese; le grandi, non le piccole, magari molto più bisognose di un intervento pubblico. Un assistenzialismo richiesto sempre adducendo la nobile finalità dell'occupazione, la stessa occupazione chiamata ora in causa negli strepiti sull'anticipo del TFR.
È stato davvero curioso assistere alla singolare manifestazione della nostra classe imprenditoriale, una classe sempre protetta da tutti i Governi succedutisi, una classe che ha beneficiato e beneficia di sgravi contributivi, di crediti di imposta, di incentivi diversi e di tutte le forme di sostegno nel tempo variamente denominate, forme di sostegno che non mi pare abbiano prodotto quei grandi risultati occupazionali che ora - si vorrebbe sostenere - saranno resi impossibili dal prelievo anticipato.
Perché non dire poi che spesso, troppo spesso (per carità, senza voler generalizzare e tanto meno far riferimento alle piccole imprese) i soldi dei lavoratori - e su questo non vi sono dubbi, dal momento che rappresentano un costo di produzione e non una parte del profitto dell'imprenditore - non sono finalizzati all'occupazione ma alla rendita finanziaria e che per coprire costi di produzione si ricorre comunque all'indebitamento bancario, che consente poi la detrazione dalle imposte? È scandaloso ufficializzare verità note a tutti?
Io trovo decisamente più scandalosa ed anche più dolorosa, e non solo metaforicamente,
la proposta - che cito ad esempio - avanzata dall'onorevole Bicocchi di sostituire l'intervento sul TFR con l'immediata eliminazione delle pensioni di anzianità. Ritorniamo, come si vede, al solito tasto dolente: i tagli alle pensioni! Conforta sapere che anche il Censis ritiene che quella dei tagli non sia la priorità, escluse le pensioni al di sopra di un tetto prefissato.
C'è un altro comportamento che non posso non rilevare. Quando si tratta dei diritti di pensionati e pensionandi, tutti o quasi, molti anche nella maggioranza, si affannano a cercare la forma meno sgradita per imporre sacrifici. La stessa quasi unanimità si osserva nella ricerca di soluzioni che consentano di alleggerire il prelievo sul TFR, soluzioni che prevedono, come ho già detto, varie forme di copertura degli oneri, dall'utilizzo dei proventi delle privatizzazioni, che come è noto hanno per legge una destinazione diversa, a minisanatorie fiscali e contributive, a norme più stringenti per il blocco del turn over nella pubblica amministrazione, come se quelle vigenti non fossero già talmente strette da generare in alcuni casi una paralisi dei servizi.
Aggiungo, infine, che l'industria beneficia di migliaia di miliardi di risparmi derivati dal calo dei tassi di interesse.
Alla luce di questa realtà, perché tale ritengo che sia, non sarebbe più responsabile, più dignitoso, più rispettoso delle categorie sociali poste in condizioni di vera, grave debolezza cercare di abbandonare la rigida e sorda difesa di interessi particolari e corporativi, sicuramente meno penalizzati di altri che da sempre sono chiamati a concorrere, in modo insostenibile, ai sacrifici fatti in nome del risanamento?
Non eravamo d'accordo - e lo abbiamo in qualche modo subito - sul blocco delle liquidazioni per le pensioni di anzianità nel pubblico impiego. È una scelta non condivisibile per ragioni di merito e perché anticipa parte, sia pur minima, di una discussione che - l'abbiamo detto più volte - siamo disponibilissimi ad affrontare, ma in modo organico, complessivo, tale da consentire risultati qualitativamente accettabili.
Intanto è necessaria una premessa, elementare ma spesso ignorata: la riduzione dello Stato sociale a pensioni e sanità è provinciale e ignorante, oltre che strumentale. Questi sono aspetti importanti, ma parziali e settoriali del welfare State. Lo Stato sociale è il complesso del tessuto connettivo del nostro sistema e investe l'esistenza complessiva di ciascun essere, neonato o centenario, di questo paese, investe il singolo individuo e la collettività; è un sistema in cui lo Stato garantisce a tutti i cittadini un livello minimo di reddito e l'accesso ai servizi socialmente indispensabili, servizi che risulterebbero preclusi ad ampie fasce di meno abbienti se fossero offerti ai prezzi di mercato. Il sistema della sicurezza sociale è fatto di tante voci, riguarda una serie di garanzie che concernono l'istruzione, la casa, la disoccupazione, la malattia, l'invalidità, la vecchiaia. Oggi, questo sistema di garanzie universali è già fortemente intaccato e inefficiente, non garantisce una serie di diritti a tutti ma seleziona e discrimina, genera diseguaglianze e lascia senza tutela ampi strati della popolazione. È in queste condizioni che l'insicurezza diviene condizione collettiva, tanto grave da portare a reazioni estreme, come i ripetuti suicidi di disoccupati. Chi ragiona come se si trattasse solo di pensioni e considera lo Stato sociale solo come strumento per battere cassa è animato dalla volontà di colpire la parte più indifesa e sofferente della popolazione, negli aspetti più delicati e nei modi più odiosi e più beceri. Noi non vogliamo essere tra quelli e da qui deriva la nostra sfida di grande apertura politica, civile, economica ed intellettuale. Noi siamo coloro che vogliono discutere il welfare State, ma per migliorarlo e non per stravolgerlo o abbatterlo. Per questo avvertiamo, non da soli ma con la CGIL e gli altri sindacati, come inaccettabile l'approccio di chi si muove solo nell'ottica dei tagli e di una preliminare acquisizione di disponibilità ad essi. Per qualcuno, per
più di uno e speriamo non per le forze popolari e democratiche di sinistra, è questa la riforma del welfare. Questa è l'interpretazione data anche da un leader dell'opposizione, che ha il coraggio di presentarsi in TV a sostenere la necessità di uno Stato che aiuti chi ha veramente bisogno. Strano concetto dei bisogni, se in concreto si prendono in considerazione solo quelli di chi ha la voce forte e potente ma si ignorano quelli di quanti, e sono sempre più numerosi in Italia e nella ricca Europa, rientrano nelle statistiche sulla povertà e sulla marginalità sociale!
Per noi la riforma dello Stato sociale è questione importantissima, che prescinde dalle necessità di bilancio e dal trattato di Maastricht, rispetto al quale la nostra posizione è nota. Non intendo riprendere nel dettaglio le polemiche conseguenti ai pronunciamenti della Commissione europea, del Fondo monetario internazionale e dell'OCSE, se non per osservare quanto le valutazioni sulle nostre scelte di politica economica siano condizionate non tanto e non solo dai risultati raggiunti (sui quali è peraltro unanime il plauso) e raggiungibili, ma soprattutto dalla nostra scelta di differenziarci da un generale orientamento europeo volto quasi esclusivamente alla riduzione delle prestazioni sociali.
È innegabile che la situazione politica italiana, caratterizzata da una maggioranza di centro-sinistra e addirittura da una componente comunista, non può essere gradita ai governi di centro-destra, che si trovano a dover affrontare conflitti sociali generati da scelte antipopolari e impopolari. Tanto meno essa può essere tollerata quando le scelte di detta maggioranza vanno nella direzione opposta, dimostrando che è possibile perseguire il risanamento economico anche senza sacrificare sull'altare di Maastricht quei soggetti in carne ed ossa che da sempre subiscono in prima persona sacrifici insostenibili, senza riuscire a vederne e tanto meno a goderne i benefici.
Noi non ci possiamo esimere da un giudizio su quanto è avvenuto in questi giorni. È innegabile quanto inaccettabile che la valutazione espressa in sede di Commissione europea non è estranea alla volontà di condizionare la nostra prossima legge finanziaria e di offrire sostegno alle posizioni espresse dalla destra nel nostro paese. Il problema non è certo un irrilevante 0,2 per cento!
Tornando alla manovra in discussione, l'articolo 6 contiene aspetti positivi, relativi alla disciplina del part-time e al problema del doppio lavoro, nei cui confronti si è talvolta fin troppo condiscendenti e permissivi. Desta preoccupazione invece l'articolo 7, relativo al patrimonio immobiliare degli enti previdenziali. Il patrimonio edilizio ed abitativo è sottoposto al rischio di svendita e di speculazione; inoltre, per gli inquilini di una parte importante di esso le garanzie non sono sufficienti, anche se certamente ciò non dipende soltanto da questo articolo, bensì da leggi, recenti e non, che richiedono con urgenza un intervento legislativo coordinato e complessivo, che garantisca tutti i soggetti interessati, inquilini e piccoli proprietari. Su questo vigileremo, al di là della manovra in esame.
Condivisibili sono infine le semplificazioni fiscali previste dagli articoli 9 e 11, e particolarmente apprezzabile è il contenuto dell'articolo 12, che rappresenta un aspetto della lotta all'evasione fiscale. Considerando che queste norme vengono proposte all'indomani delle deleghe al Governo previste dalla legge n.662, i cui contenuti saranno resi noti tra breve, e che tra pochissimo si concretizzerà l'IREP, ci sembra di poter cogliere e valorizzare segnali, certamente ancora insufficienti ma di rilievo, in direzione di un processo di semplificazione e razionalizzazione del sistema fiscale. Ciò nella consapevolezza, che speriamo sia di tutti ma che certamente è nostra, della centralità della lotta all'evasione, un'evasione almeno dieci volte superiore alla media europea e sulla quale, volendo, è possibile intervenire da subito (qui non esiste una scadenza di legge per la verifica, come invece esiste ma si vuole ignorare per le pensioni), nonché nella consapevolezza che questa lotta può rappresentare la
chiave di volta per un cambiamento che renda possibile lo sviluppo produttivo ed occupazionale del paese.
In definitiva non è chiaramente il nostro provvedimento, quello in discussione; nonostante ciò, a differenza di altre forze della stessa maggioranza, non abbiamo presentato alcun emendamento, pur avendone pronti molti (non era poi tanto difficile). Non li abbiamo presentati per rispettare un accordo perché rifondazione è stata, per una volta, consultata preventivamente, come logica e prassi vorrebbero, trattandosi di una componente ineliminabile - se non a costi molto gravosi per l'intero paese - della maggioranza, come del resto è stato confermato dai risultati elettorali che hanno premiato il nostro partito e che hanno visto sconfitto il centro-sinistra laddove si è presentato da solo, isolando rifondazione.
Quindi la manovra è frutto di una mediazione politica e contenutistica positiva. Credo che il nostro sia stato un segno di lealtà nei confronti degli altri componenti della maggioranza, un segno che non è mai mancato quando siamo stati chiamati a concorrere fin dall'inizio alla formazione delle decisioni e delle scelte. Noi rispettiamo i patti. Speriamo che anche tutti gli altri possano affermare la stessa cosa. Dico questo perché troppo spesso i mezzi di informazione - e non solo - ridicolizzano e semplificano le nostre valutazioni politiche, riducendole a posizioni di negazione pregiudiziale e acritica rispetto alle proposte del Governo. Smentisco questi giudizi e rivendico invece il contributo dato da rifondazione comunista nei dodici mesi di legislatura; un contributo che ha permesso il dimezzamento del deficit, un clamoroso abbassamento dell'inflazione, il calo dei tassi di interesse senza - e ribadisco senza - comprimere al minimo i diritti sociali. È la dimostrazione che si può anche scegliere di agire con un'azione politica consapevole di riflettersi sulla vita di soggetti in carne ed ossa, che a questi soggetti intende riconoscere dignità, rispetto, diritto all'esistenza. È la dimostrazione che l'invito del Papa - non certo il primo a porre l'individuo al centro delle scelte politiche, sociali, economiche ed a non permettere il prevalere del mercato sugli esseri umani - può essere accolto senza conseguenze disastrose. Anzi (Applausi dei deputati del gruppo di rifondazione comunista-progressisti).
Abbiamo chiesto di intervenire attraverso cambiamenti che consentissero l'utilizzo del fondo di ammortamento del debito pubblico stornando da esso i proventi delle privatizzazioni. Ci è stato detto in modo estremamente articolato che questo non è possibile, anche se in materia sussistono i precedenti. Riteniamo che una valutazione in proposito debba essere fatta. Stiamo parlando, tra l'altro, di un debito pubblico di 2 milioni 200 mila miliardi e non è quindi una grande rivoluzione quella che proponevamo attraverso il nostro emendamento che prevedeva l'anticipo della privatizzazione di una tranche dell'ENI e della STET e il reintegro in seguito di tali somme. Non ci si è voluti addentrare nella questione e non si è voluto andare incontro alle
proposte alternative del Polo. Vi è una certa difficoltà da parte del Governo ad affrontare con chiarezza - come si è osservato anche in Commissione - il tema delle privatizzazioni. Leggiamo improvvisamente della Finmeccanica sui giornali nel corso di questi giorni; mai si è parlato, a fronte delle nostre richieste, delle strategie rispetto ad alcuni enti. Non si riesce ad avere risposta. Torno in questa sede a ricordare la situazione disastrosa dell'Istituto poligrafico dello Stato, che richiederebbe un intervento estremamente deciso a livello di commissariamento o comunque di chiarezza sull'ammontare reale del deficit, anche a fronte di un bilancio consolidato di cui non si hanno precise cognizioni.
Abbiamo rilevato - ripeto - anche interventi contraddittori, come quello sulle misure per la vendita degli immobili, che di fatto contraddice le misure che erano state approvate con la finanziaria di fine anno; quindi, una certa difficoltà a mantenere una linea di tendenza, anche a distanza di pochi mesi.
Ricordo poi la scelta dell'abolizione del 5 per cento di anticipo su forniture e appalti che, a nostro avviso, penalizza ancor di più lo sviluppo e la possibilità per le aziende di lavorare con certezza di diritto e con certezze di tempi di pagamento.
I tempi di pagamento mi fanno tornare al ragionamento sulle problematiche di cassa, che sono state richiamate in varie circostanze nell'arco del dibattito su questa manovra, in particolare dal sottosegretario Giarda nella relazione che ci ha fornito in Commissione bilancio. Egli addirittura dice con chiarezza che «l'errore» - che ha portato allo scostamento - «più elevato in termini assoluti e percentuali riguarda i trasferimenti alle regioni al netto della sanità, risultati più elevati delle previsioni per circa 7 mila miliardi, con uno scostamento percentuale rispetto alle previsioni di circa il 33 per cento». Poi aggiunge - cito testualmente - che «si tratta di uno scostamento sulle cui cause ultime non siamo ancora in grado oggi di dare spiegazioni soddisfacenti». Il sottosegretario Giarda ritorna su questo tema quando afferma con chiarezza che «ci sono state molteplici cause sugli scostamenti: minori effetti della manovra e soprattutto errori della previsione sui tiraggi di tesoreria. Tra i fattori di spesa non prevedibili» - questo poi è tragicomico - «si deve ricordare l'intervento a favore del Banco di Napoli»: ma come si fa a sostenere che questo intervento non fosse prevedibile!
Ebbene, ritengo che purtroppo sui tiraggi di tesoreria si possano nuovamente accendere i riflettori nei prossimi mesi. A più riprese abbiamo chiesto chiarezza - l'ho fatto in Commissione senza ottenere risposta - rispetto ad alcuni comportamenti con i quali, secondo me, non ci si è attenuti alle disposizioni che erano state previste nella finanziaria per quanto riguarda i pagamenti che erano accreditati sui conti aperti presso la Tesoreria dello Stato da parte di vari enti. Si era stabilito che i soggetti titolari di conti correnti di contabilità speciali aperti presso la Tesoreria dello Stato non avrebbero potuto effettuare prelevamenti dai rispettivi conti superiori al 90 per cento dell'importo cumulativamente prelevato alla fine dei corrispondenti mesi del 1996 ed erano state adottate una serie di misure. È vero che in alcuni casi erano previste delle deroghe, però mi risulta - e su questo chiedo chiarezza - che oggi si sia arrivati ad una imbarazzante situazione interna alla Tesoreria centrale, che porterebbe addirittura a oltre 17 mila miliardi iscritti nei conti interni di tesoreria centrale per effetto del ricorso all'istituto dell'anticipazione di cassa (o conto sospeso), che in passato non aveva mai superato le poche centinaia di miliardi. Se questo fosse vero, mi chiedo cosa potrebbe venir fuori in un prossimo futuro il giorno in cui si ammetterà che c'è stato un tiraggio eccessivo, che c'è stata una sorpresa nel tiraggio presso questi conti, mettendo finalmente allo scoperto una situazione che in realtà è molto più grave di quanto non si lasci intendere. Mi chiedo anche se fosse questo quello a cui il sottosegretario Giarda faceva riferimento quando, a conclusione
della sua relazione, affermava testualmente: «Inoltre, per effetto di autorizzazioni di competenza, si sono accumulate ingenti disponibilità liquide sui conti di tesoreria. In ogni momento quindi sono possibili deviazioni dalle somme che il legislatore mette a disposizione con le autorizzazioni di competenza».
Il sottosegretario ha affermato che i flussi di cassa non possono essere influenzati, se non in misura molto modesta, da decisioni legislative che si limitano a controllare l'autorizzazione di spesa di competenza attraverso norme di razionalizzazione e di riordino, ovvero da comportamenti discrezionali del Governo o dell'amministrazione assumibili in assenza di legislazione di supporto.
Mi chiedo se quando parla dell'assenza di legislazione di supporto come incidente di percorso si riferisca, per esempio, al pagamento (sempre inserito nel conto sospeso di tesoreria) della parte italiana prevista dalla decisione del Consiglio dei governatori dell'11 giugno 1990, allorquando fu stabilito il raddoppio del capitale della Banca europea per gli investimenti, con la decisione che il Governo italiano avrebbe dovuto provvedere al pagamento annuo di 39 miliardi e 600 milioni, dal 1994 al 1998. Ebbene non è mai stato approvato un atto legislativo che autorizzasse tale spesa. Il 2 agosto 1996 Ciampi presentò un disegno di legge che non è stato mai approvato; il che ci ha portato oggi ad avere oltre 70 miliardi nel conto sospeso di tesoreria, in mancanza di apposita legge di autorizzazione di spesa, che non emergono con chiarezza in bilancio.
Per non parlare poi della situazione che si sta aggravando di giorno in giorno relativamente agli atti di pignoramento nei confronti della pubblica amministrazione, della Presidenza del Consiglio, del Ministero della difesa, del Ministero degli affari esteri, del Ministero dell'industria, per cifre ingentissime e considerazioni paradossali di aziende che invece di 6 miliardi sono riuscite a portarne a casa oltre 20! Ogni tanto sui giornali leggiamo notizie del genere, ma la situazione non ci è mai stata esposta chiaramente.
Tutto ciò ci fa ritenere che sotto l'ufficialità delle dichiarazioni, delle relazioni e degli atti che ci vengono proposti la situazione sia molto più grave.
Talvolta c'è anche una sorta di improvvisazione nell'impostare certi comportamenti. Un nostro emendamento prevedeva, in ordine al TFR, un'alternativa con l'utilizzo di una riapertura dei termini del condono fiscale. Ci è stato detto che ciò non era possibile, ma poi, se non sbaglio, nell'emendamento del Governo tale punto è stato recepito al fine di ridurre di 1.000 miliardi l'incidenza del TFR.
Insomma, abbiamo l'impressione che, tutto sommato, questo Governo sotto questo profilo stia navigando a vista. Ciò è tanto più grave nel momento in cui a livello comunitario ci viene chiesta una programmazione estremamente dettagliata ed è tanto più grave nel momento in cui realmente chiediamo delle misure alternative che però, dal punto di vista della maggioranza, non meritano di essere approfondite.
Continua a mancare qualunque tentativo di dibattito e di approfondimento al fine di arrivare all'approvazione di misure alternative, che possano essere il frutto di un'attenzione a delle scelte diverse, di fondo.
Questa maggioranza, come aveva già fatto nei confronti dell'opposizione ai tempi della finanziaria, va avanti a testa bassa senza curarsi dei danni che produce con le proprie scelte.
Dal nostro punto di vista siamo sempre più ostinatamente convinti di essere nel giusto con le nostre proposte alternative; purtroppo questo nostro convincimento verrà confermato dalle decisioni finali che verranno prese a discapito del nostro paese. Mi auguro che a quel punto il Governo apra gli occhi sui contenuti del dibattito svoltosi, ma inutilmente, per mesi e mesi in Commissione ed in aula.
Non vi è dubbio che, quando si vuol centrare un bersaglio, non c'è niente di più facile che costruirselo a misura del proprio tiro.
Fuori da battute, è del tutto evidente, come è stato ricordato anche qui, citando l'intervento del ministro Ciampi in Commissione, che questa manovra non è strutturale. Ma questa non è una critica: la manovra è una correzione dei conti e delle tendenze di finanza pubblica di breve periodo che peraltro, come è già stato ricordato dal presidente Solaroli, per alcuni interventi è destinata ad avere effetti anche negli esercizi finanziari successivi. Tuttavia si tratta fondamentalmente di una correzione di finanza pubblica di breve periodo e quindi, in quanto tale, si muove in un'ottica congiunturale, per usare una terminologia forse non del tutto precisa dal punto di vista delle categorie della politica economica.
Ciò non perché vi sia su questo punto mancanza di consapevolezza della necessità di interventi strutturali da parte del Governo, oppure insipienza o incapacità politica, quanto piuttosto per una ragione che a me pare non sia stata ancora adeguatamente valutata anche negli interventi che ho ascoltato: la via strutturale di risanamento dei conti della finanza pubblica che questo Governo e questa maggioranza hanno scelto fa leva su un asse fondamentale, che è quello di puntare a ridurre i tassi di interesse (e attraverso di essi a ridurre l'impatto dello stock del debito pubblico sul deficit) e ad alimentare e a mantenere un circuito virtuoso tra la riduzione dei tassi, il contenimento dei prezzi e la stabilità del cambio. Si tratta del circuito tra queste variabili esattamente opposto a quello prevalso negli anni ottanta fino all'inizio degli anni novanta.
Questa mi sembra la strada strutturale che si è intrapresa. Essa, al di là delle tempestose e contraddittorie valutazioni che sono venute in questi giorni da parte di autorevolissimi organismi tecnici e tecnico-politici internazionali e dei riconoscimenti che sono pure venuti dal Fondo monetario internazionale, che certo non è organo schierato a difesa di questo o quel governo nazionale, ha prodotto risultati che sono sotto gli occhi di tutti e sarebbe perfino enfatico da parte mia richiamarli nel mio intervento (colleghi come il professor Armani potrebbero affermarlo).
Continuiamo, per fortuna, a godere di una sostanziale stabilità del cambio dopo il reingresso nel sistema monetario europeo, e questo non era un fatto obbligato. Non sono presenti gli interlocutori diretti, ma è facile ricordare che autorevoli critici esterni al Governo, come il presidente della Confindustria, allora richiedessero a viva voce l'ingresso nel sistema monetario europeo con una moneta ben più sopravvalutata rispetto a quello che è stato il livello di ingresso, che però si è dimostrato accettato e fatto proprio non dai politburo, ma dai mercati finanziari.
Abbiamo dunque ottenuto dei risultati. Il tasso di inflazione è sicuramente il più basso da alcuni decenni: ritorno giovane studente per ricordare tassi di inflazione paragonabili a questo.
Naturalmente non ci sfugge che nella situazione attuale non vi è solo una componente positiva, ma anche componenti che possono essere negative. Mi riferisco ad un rallentamento dell'economia, dei consumi e degli investimenti, cioè ad un'insufficiente crescita dell'economia che ha un effetto depressivo sui prezzi. Tale componente non ci sfugge, ma dobbiamo pur dire che il cambio rimane stabile, l'inflazione conosce i tassi più bassi da trent'anni a questa parte ed i tassi d'interesse non riflettono forse ancora - lo dico absit iniuria verbis, naturalmente
- propriamente il carattere virtuoso di questo ciclo tra stabilità del cambio e livello dell'inflazione.
Forse proprio per questo, nonostante che all'orizzonte si vada delineando (come autorevoli esperti internazionali hanno detto) il rischio di una ripresa di politiche restrittive da parte degli Stati Uniti d'America, che potrebbe avere ripercussioni in questo senso negative, accentuando le politiche restrittive anche in Europa, è però probabile che l'Italia abbia ancora dei margini per la riduzione dei tassi d'interesse, quindi, in controtendenza rispetto a quella che potrebbe tornare ad essere una tendenza internazionale, legata alle dinamiche congiunturali forti degli Stati Uniti d'America ed in generale dell'economia mondiale.
I risultati, però, ci sono e noi pensiamo che si debba continuare lungo questa strada. La manovra di cui stiamo discutendo ha un solo ed unico senso, come mi sembra sia stato detto chiaramente in Commissione dal Governo e dagli esponenti della maggioranza che sono intervenuti: agire in tempi reali per correggere quegli scostamenti che rischierebbero (non è detto che ciò avverrebbe) di far sì che il rapporto virtuoso che ho sommariamente descritto perdesse virtù, cominciando cioè a girare non più in sincronia fra dinamica dell'inflazione, stabilità del cambio ed effetti sui tassi.
Mi rivolgo all'onorevole Armani, perché ho colto nel suo intervento sull'ordine dei lavori la richiesta di rinvio del provvedimento in Commissione per ripensare ad un suo possibile collegamento con la finanziaria. Credo che sia questa la ragione, non procedurale ma di merito, per la quale una scelta del genere sarebbe sbagliata: abbiamo bisogno di un intervento eminentemente quantitativo che corregga le tendenze di finanza pubblica nel breve periodo, ripeto, per impedire che si debordi da quella strada virtuosa che abbiamo intrapreso sul terreno che ho indicato prima (inflazione, stabilità dei cambi e tassi d'interesse).
Naturalmente a noi non sfugge (lo voglio ribadire in quest'aula) l'esigenza che i risultati che abbiamo ottenuto su questo terreno di rapporto tra grandezze monetarie siano consolidati con provvedimenti di carattere strutturale: per dirla con una battuta di tipo più giornalistico che politico, in Europa non vogliamo soltanto andarci ma vogliamo starci. Sappiamo quindi benissimo che questo sforzo può essere necessario al margine per arrivare a stare dentro i fatidici parametri di Maastricht e che tuttavia non basta, poiché per stare in Europa i risultati che abbiamo raggiunto non sono sufficienti e soprattutto, quand'anche lo fossero, vanno in ogni caso consolidati.
Se questo ragionamento che ho cercato di fare è valido (mi rivolgo all'opposizione ma anche alla maggioranza e al Governo), sarei portato a dire, con qualche forzatura, che l'approvazione del disegno di legge di conversione del decreto n.79 (che mi auguro avvenga) postula di per sé l'esigenza di avviare al più presto la discussione del documento di programmazione economico-finanziaria. In quell'ambito, infatti, si devono cominciare ad intravedere alcune linee che prefigurino gli interventi strutturali che servono per consolidare i risultati di tipo finanziario e monetario che abbiamo già raggiunto e per cominciare ad intervenire anche su altri meccanismi strutturali (sui quali tornerò fra breve) che sono fuori controllo.
Direi quindi «sì» al disegno di legge di conversione (alla fine, rapidamente, affronterò due o tre questioni di merito, soprattutto quelle che ho avuto modo di approfondire come relatore in Commissione) per questa ragione, sapendo però che il «sì» alla manovra con queste caratteristiche, con l'asse che essa comporta, conduce con sé l'esigenza ineludibile che il prossimo documento di programmazione economico-finanziaria contenga al suo interno le linee di revisione strutturale dei meccanismi di spesa pubblica che devono necessariamente essere affrontati. Devono essere affrontati non solo per la volontà di rimanere in Europa e per considerazioni che non voglio qui fare (anche se qualche cenno che condivido è stato fatto dalla collega Moroni). Mi
riferisco al fatto che, a prescindere dagli impatti sulla finanza pubblica, il nostro sistema di protezione sociale in alcuni casi ormai funziona a ritroso, nel senso che protegge chi non ne ha bisogno e non protegge chi invece ha bisogno. Credo che al di là della volontà di restare in Europa, come pure è necessario, si debba tener conto di ragioni di intervento strutturale.
Rimanendo nell'ambito dell'analisi di tipo finanziario, la relazione trimestrale di cassa e le analisi che di essa sono state fatte (prima fra tutte quella integrativa del professor Giarda in Commissione e poi le analisi fatte dagli istituti di ricerca) dimostrano che lo sforamento nei conti pubblici è dovuto essenzialmente a trasferimenti verso enti ed aziende, soprattutto ai «tiraggi» di tesoreria fatti da questi enti. Tutto questo da un certo punto di vista potrebbe tranquillizzarci, ove noi considerassimo che le nuove norme contenute nel collegato alla finanziaria, quello sul limite alle autorizzazioni di cassa, potrebbero essere un utile antidoto agli sforamenti. Credo però che tutto questo non possa tranquillizzarci perché, se è ben vero che così si riduce in grande misura la trasformazione di una massa spendibile, composta da ciò che è disponibile più i residui (l'effettivo prelievo), è pur vero che, se queste limitazioni alle autorizzazioni di cassa non sono accompagnate da un controllo dei programmi di impegno di spesa, almeno di alcuni settori, vi è il rischio che si crei un meccanismo per cui il potenziale di spesa viene rinviato e portato avanti negli anni consegnando così ai futuri esercizi un potenziale di spesa rispetto al quale nessuna limitazione di autorizzazione riuscirà ad essere una barriera sufficiente.
Fatto questo primo importante ed utile passo sul terreno del tentativo di regolare i meccanismi di prelievo di cassa da parte degli enti, è necessario porre mano ai programmi di spesa, il che presuppone interventi di tipo strutturale. Ecco l'altra ragione intimamente legata ai problemi di controllo dei meccanismi di spesa, per cui nel momento in cui approviamo questa manovra (una manovra cioè con effetti quantitativi di correzione di breve periodo) ci poniamo problemi di linee di intervento che puntino a razionalizzare, a riordinare, a mettere sotto controllo i programmi di spesa in alcuni settori fondamentali. Ritengo che di tale materia si debba occupare il prossimo documento di programmazione economico-finanziaria affinché sia inserita nel collegato alla prossima legge finanziaria.
Avviandomi alla conclusione, vorrei affrontare due ulteriori questioni. Ho cercato di delineare l'obiettivo fondamentale della manovra insieme ad alcuni problemi che essa evidenzia in misura maggiore di quanto non fossero già evidenti; vorrei però anche dire che non mi sembra che dalla discussione in Commissione (vivace e sostenuta dalla presentazione di numerosi emendamenti) siano emerse alternative effettivamente credibili e spendibili all'interno dei vincoli che la manovra assume.
Si tratta di vincoli basati eminentemente sul consenso sociale e politico. Non è certo una variabile indipendente, come si diceva una volta; non lo è assolutamente, anzi è una variabile che - come tutte le altre - va modificata. Tuttavia quest'ultima esiste e non condiziona solo la discussione politica, ma anche i dati di contabilità pubblica e dell'economia in genere!
Nell'ambito di tali vincoli (come tutti comprenderanno, alludo ai problemi dello Stato sociale e della previdenza), non mi pare siano emerse alternative credibili e spendibili. Non mi pare tale, ad esempio, quella che è stata proposta - al di là della questione relativa alla inammissibilità o meno degli emendamenti - dai colleghi del Polo sull'utilizzo dei fondi delle dismissioni. Non mi paiono credibili perché - ripeto - è un po' innaturale (e sotto sotto credo che lo ammettano anche gli stessi colleghi) utilizzare delle risorse - derivanti da un patrimonio che viene messo sul mercato per operazioni che non sono basate sul «far cassa», ma sulla politica industriale - non per ridurre lo stock del debito pubblico, o comunque per fare operazioni di sviluppo, ma semplicemente per «far cassa» nel breve periodo
e per realizzare operazioni di correzioni di finanza pubblica. Se così si facesse, mi pare che non si seguirebbe un criterio da buon padre di famiglia nell'affrontare un problema di risanamento del bilancio.
Allo stesso modo, si potrebbe fare riferimento (credo di poterlo rilevare essendo stato uno dei primi che, sia nella relazione in Commissione sia nel dibattito giornalistico, ha sollevato il problema) ad un criterio come quello dell'armonizzazione delle aliquote IVA. Avanzo tale rilievo non per fare autocritica (credo che di queste parole meno se ne utilizzano e meglio è per tutti), ma perché mi pare sia giusto tenere conto nella discussione delle posizioni degli altri. Al riguardo appare francamente sensata l'obiezione sollevata dal Governo che sarebbe stato sbagliato, e non solo per ragioni procedurali, inserire un provvedimento di questo genere in un disegno di legge di conversione; non solo, ma ha sottolineato come, nell'affrontare un tema che comunque dovrà essere preso in considerazione perché è all'ordine del giorno, sarebbe stato necessario inserirlo in un contesto nel quale sarebbe stato possibile tenere conto di un complesso di variabili, al fine di valutarne fino in fondo gli impatti - che non sono necessariamente tutti positivi - sullo stato dell'economia. Ricordo il monito lanciato ieri dal governatore della Banca d'Italia Fazio sul potenziale inflazionistico che comporterebbe un provvedimento non ben calibrato di armonizzazione delle aliquote IVA, con un inevitabile loro aumento. Credo si debba tenere conto di tale monito e che occorra farlo nella misura in cui quell'eventuale provvedimento fosse inserito in un complesso di misure e non affrontato in un modo un po' estemporaneo in una manovra che ha altri obiettivi.
Vi è poi una questione che ci ha preoccupato e ci preoccupa: mi riferisco allo stato dell'economia reale nel quale si colloca questa manovra. Esprimo tale preoccupazione perché sappiamo benissimo che è da qui, cioè da quanto le imprese producono e vendono, che nascono - nel breve, nel medio e nel lungo periodo - i posti di lavoro.
Sappiamo tutti quale sia la situazione di fondo della nostra economia, ma io vorrei mettere in rilievo un dato che, assieme ad altri, non può essere nascosto: non solo (anzi, direi principalmente) per motivi che attengono alle dinamiche economiche internazionali, ma anche riguardo ad alcuni provvedimenti del Governo si sono registrati - in questi ultimi mesi e in alcune parti del paese - segnali di un maggior cauto ottimismo da parte degli operatori economici. Credo però - lo ritenevo prima e continuo a pensarlo - che un punto di questa manovra potesse produrre, nell'ottica che ho cercato di indicare, effetti in un certo senso negativi. Mi riferisco all'anticipo sul prelievo del TFR, non tanto per la quantità in sé o per la qualità dell'intervento, quanto per il fatto che, come tutti sappiamo, specie in queste fasi in cui i primi segnali di ripresa del ciclo economico sono ancora timidi, è soprattutto la struttura della piccola e piccolissima impresa a reagire per prima alle sollecitazioni che vengono dal mercato.
Ci preoccupava, quindi, un provvedimento che ineludibilmente - nonostante quanto già previsto dal decreto stesso, come le garanzie dell'INPS per le imprese che ne avessero bisogno - poteva indurre una parte delle piccole imprese a far ricorso al credito, dunque a trovarsi obiettivamente in una situazione di difficoltà, anche per le storture del nostro sistema creditizio. Muovendo non dalle manifestazioni della Confindustria, per essere chiaro, ma da una preoccupazione reale che avvertivamo nel tessuto delle piccole e piccolissime imprese abbiamo preso le mosse per formulare l'emendamento che poi è stato fatto proprio dalla Commissione bilancio. Come ricordava nella sua relazione il presidente Solaroli, l'emendamento prevede sostanzialmente, oltre l'esenzione per tutte le imprese al di sotto dei quindici addetti, anche una franchigia per tutte le imprese fino a cinquanta dipendenti e l'esenzione, dalla data del 30 ottobre del 1996, per tutti i nuovi assunti che ovviamente non siano sostitutivi del turn-over, ma che costituiscano un incremento
occupazionale. Sono consapevole che ogni soglia è arbitraria, tuttavia credo che una soglia di cinquanta addetti, al di là del fatto che fa riferimento ad una classificazione unanimemente accettata in sede CEE, rappresenti comunque un livello in cui la piccola impresa tende a diventare media, in cui un'impresa comincia ad avere strutture, strumenti propri che possano consentirgli di resistere meglio anche alle difficoltà che può incontrare sul mercato del credito. Mi pare che arrivare con una franchigia fino a quella soglia rappresenti un segnale significativo che risponde alla preoccupazione da cui noi, come maggioranza, ci eravamo mossi.
Aggiungo anche che le forme delle coperture trovate, oltre ad essere congrue, rappresentavano anche - almeno alcune parti di esse; penso alla misura che riguardava il blocco parziale e flessibile del turn-over nel pubblico impiego - un qualche elemento per così dire di rafforzamento, un'indicazione qualitativa già contenuta nella finanziaria. Proprio per questa ragione, lo devo dire con tutta franchezza anche se non sono presenti i colleghi a cui faccio riferimento, ho trovato e trovo ancora del tutto incomprensibile l'atteggiamento tenuto in Commissione dai colleghi Bicocchi e Villetti, che mi pare abbia obiettivamente indebolito l'iter del provvedimento ed il modo in cui esso si presenta oggi all'esame dell'aula.
Ad ogni modo io ho ritenuto di ripresentare il complesso degli emendamenti che la Commissione aveva fatto propri - quindi non solo quelli di maggioranza - e mi auguro di aver contribuito ad una discussione che spero sia rapida, efficace e significativa (Applausi dei deputati del gruppo della sinistra democratica-l'Ulivo).
È iscritto a parlare l'onorevole Armani. Ne ha facoltà.
L'argomento che il collega Chiamparino, come del resto il presidente Solaroli - che ha bocciato in Commissione la nostra proposta, assumendosi una certa responsabilità in ordine al clima nel quale il provvedimento è stato respinto con due voti, che si sono aggiunti a quelli dell'opposizione - ha citato, riguarda essenzialmente il trasferimento delle entrate in conto capitale a quelle correnti. Naturalmente si recupera il concetto del buon padre di famiglia, che vende i gioielli di famiglia invece di cercare di ridurre il proprio tenore di vita e via dicendo con altre argomentazioni più o meno eclatanti.
In realtà la vendita del 15 per cento dell'ENI - la terza tranche - è già prevista dal Governo entro l'anno, quindi si individua solo un termine; addirittura si potrebbe dire che si è più laschi, giacché viene indicata la data del 31 ottobre, ritenendo che non si debba affrettare una vendita che deve essere collocata nel momento più opportuno dal punto di vista dei mercati finanziari. Ci siamo dunque preoccupati essenzialmente di un aspetto che è già stato previsto dal Governo, il quale si rifiuta di utilizzarlo perché vuole tenerselo, per così dire, buono per la finanziaria del 1998 o per i provvedimenti che seguiranno, considerato che qui si procede di aggiustamento in aggiustamento.
Quello che ho citato è dunque l'argomento fondamentale cui si è fatto ricorso
per respingere la nostra proposta che - come ho ricordato - potrebbe sostituire integralmente non solo il prelievo anticipato sul TFR ma anche altre componenti di carattere fiscale contenute nella manovrina, per esempio l'articolo 11 che rende ancora più oneroso il meccanismo della tassazione sulle successioni che l'Ulivo nel suo programma considerava un'imposta da abolire. Ciò dimostra ancora una volta quante siano le bugie del Governo e quanto quest'ultimo abbia ingannato i suoi elettori. Peraltro, spesso è stata sostanzialmente violata dallo stesso Governo la norma concernente il passaggio dal conto capitale al conto corrente delle entrate derivanti dalla vendita delle partecipazioni. Sono molteplici le violazioni che sono state fatte, ma l'ultima, la più eclatante, è proprio quella determinata dal provvedimento che ha consentito il trasferimento dal fondo di ammortamento del debito pubblico alla tesoreria per poter pagare all'IRI l'acquisto della partecipazione di controllo della STET. Conoscete bene il meccanismo, giacché ne abbiamo discusso in quest'aula e, come ricorderete, in questa sede è stato bocciato. Ciò nonostante il Governo ha mantenuto tali norme, tant'è che oggi non solo assistiamo al trasferimento di oltre 14 mila miliardi dal Tesoro all'IRI tramite il fondo di ammortamento del debito pubblico, ma ci troviamo di fronte anche a questa specie di operazione-mostro, cioè quella dell'assorbimento di una società operativa nell'ambito della finanziaria, nella quale il Tesoro perderà la maggioranza, trasferendo una concessione telefonica che, secondo la normativa del codice postale, dovrebbe essere attribuita invece ad una società della quale lo Stato mantenga la maggioranza del controllo. Questo porterà naturalmente a rilievi di carattere contenzioso e noi in quell'occasione abbiamo augurato buon divertimento ai TAR ed al Consiglio di Stato che dovranno occuparsi di quelle fasi contenziose, nonché alla CONSOB, la quale si troverà di fronte alle contestazioni dei piccoli azionisti su questi due elementi. Di queste avvisaglie abbiamo già qualche indicazione.
Questo è il precedente essenziale per coprire delle spese correnti quali sono i deficit dell'IRI, che altrimenti avrebbero dovuto essere coperti con aiuti di Stato o, in alternativa, avrebbero costretto l'IRI ad applicare gli articoli 2446 e 2247 del codice civile, riferibili alle perdite al di sopra del terzo del capitale. Questo tipo di operazione è stato finanziato proprio dal fondo di ammortamento per il debito pubblico, cioè, per così dire, con la vendita dei gioielli di famiglia o, quanto meno, con la rinuncia alla possibilità di incrementare quel fondo per riassorbire i 2 milioni e 200 mila miliardi di debito pubblico. Naturalmente i 14 mila e passa miliardi prelevati da quel fondo per dare respiro all'IRI sarebbero stati una goccia nel mare del debito accumulato, ma non vi è dubbio che questa è un'operazione che consiste, appunto, in un prelievo dal conto capitale per passarlo alle entrate correnti. Ciò - è vero - attraverso l'acquisto di una partecipazione, ma tale acquisto era un fatto obbligato perché altrimenti l'IRI sarebbe fallito, con effetti di default per l'intero sistema finanziario italiano, che già abbiamo vissuto in occasione della sciagurata liquidazione dell'EFIM, di cui non è responsabile l'attuale Governo, ma che questo Parlamento ha vissuto in anni passati. Operazione sciagurata che, peraltro, deriva dalla scelta di un Governo sostanzialmente di centro-sinistra, quindi con maggioranza abbastanza simile a quella attuale; sciagurata decisione che, come sapete, è costata al Tesoro molto più di quanto non sarebbe costato un tentativo di pilotaggio dell'EFIM verso un risanamento graduale.
Questa è la nostra proposta alternativa, onorevole Chiamparino, che ha già dei precedenti nel Parlamento e nelle decisioni di Governo e che vede sostanzialmente la sostituzione di questo anticipo della tassazione sul TFR, che non ha alcun senso. La relazione tecnica al decreto-legge n.79 - mi riferisco alla relazione dell'autorevole Servizio bilancio della Camera - prevede infatti che tutte le aziende sottoposte a questo prelievo anticipato ricorrano al credito bancario.
Ebbene, questa ipotesi fa prefigurare un incremento di gettito perché, evidentemente, le banche, lavorando di più, avrebbero maggiori ricavi per la gestione del denaro e, quindi, una base imponibile maggiore. Noi sappiamo però che le scelte delle imprese possono essere le più varie e, infatti, il Servizio del bilancio ipotizza alternativamente un maggior ricorso al credito dei fornitori con riflessi certamente negativi nei confronti dei fornitori stessi (non vorrei essere nei loro panni), con dismissioni di attività finanziarie di portafoglio (ed anche in questo caso vi sarebbero dei riflessi negativi, perché evidentemente dismettere delle partecipazioni di portafoglio che rendono per poter anticipare un'imposta allo Stato non è un'operazione che potrebbe essere approvata dall'assemblea degli azionisti di una società per azioni quotata in Borsa). Una terza possibilità è una riduzione dei piani di attività, che avrebbe anch'essa un riflesso negativo, perché riducendo l'attività delle imprese si riduce la base imponibile. Ciò con maggior ricorso all'autofinanziamento e, quindi, con la «stretta» di tutta una serie di parametri dell'azienda, che certamente l'azienda stessa pagherebbe in qualche modo o che comunque pagherebbero gli azionisti o l'immagine dell'azienda sul mercato.
Quindi, questa operazione (oltre a rappresentare, come è stato detto dalla collega Moroni, un depauperamento di quella che è una forma di finanziamento per le imprese) non è affatto detto che porti alle conseguenze di carattere neutrale che mi pare l'onorevole Chiamparino abbia ipotizzato nel suo ragionamento. In realtà, questa è una operazione che porta a pesanti riflessi che si aggiungono ad ulteriori pesanti conseguenze che praticamente, dal 1992 in poi, con la sola eccezione del Governo Berlusconi, le imprese hanno patito attraverso le decisioni di aumento della pressione fiscale decretate dai Governi di centro-sinistra, cioè i Governi Amato, Ciampi e Dini, oltre all'attuale Governo Prodi, che appunto non hanno fatto altro se non aumentare la pressione fiscale.
La nostra è una proposta ragionevole, una proposta che ha precedenti, una proposta che, se fosse stata accettata dall'onorevole Solaroli, avrebbe probabilmente creato un clima diverso in Commissione. L'onorevole Solaroli, che è persona molto ragionevole e che presiede la Commissione bilancio con grande senso di responsabilità, dovrebbe riconoscere che quello è stato un momento di défaillance della sua grande autorevolezza di presidente della Commissione. Da ciò è nato il clima che ha portato poi in Commissione al voto contrario nei confronti del provvedimento.
Ma, fatte queste considerazioni specifiche, relativamente alla parte sostanziale, alla polpa, per così dire, del prelievo rappresentato dall'anticipo dalla tassazione sul TFR, vorrei dire fra l'altro che esso avrebbe un senso ipoteticamente solo nel caso in cui venissero materialmente erogati i TFR ai dipendenti. Solo cioè nell'ipotesi della creazione di fondi pensione che dovessero essere alimentati dai trattamenti di fine rapporto accumulati dalle imprese si potrebbe ipoteticamente accettare (anche se ciò potrebbe certamente creare, se concentrato in un breve periodo di tempo, problemi alle imprese) l'anticipo della tassazione, perché in quel momento verrebbero realmente incassati dai lavoratori i trattamenti di fine rapporto e trasferiti ai fondi pensione. Quello sarebbe un modo per far emergere quella capacità contributiva che, come noi abbiamo rilevato nella nostra questione pregiudiziale di costituzionalità evidenziando la violazione dell'articolo 53 della Costituzione, non esiste invece nel momento in cui si anticipa la tassazione solo per ottenere delle entrate di cassa per lo Stato.
Al di là di questo, vorrei che questo consesso (per il quale rimando ai resoconti stenografici che deriveranno dalla seduta, visto che ormai siamo tra pochi intimi) riflettesse su un altro aspetto importante di cui noi in Commissione, presidente Solaroli, abbiamo potuto prendere atto continuamente. Mi riferisco al continuo inseguimento rispetto ai buchi di
cassa, rispetto a manovre di integrazione che si susseguono una dietro l'altra. Voi stessi avete ereditato una manovra di integrazione del Governo Dini; poi avete preparato la finanziaria, per emanare quindi il decreto di fine anno con l'eurotassa; e adesso varate ancora un'altra manovra integrativa. È un inseguimento ad ostacoli, e ad ostacoli continui, tanto è vero che voi stessi (il sottosegretario Giarda con grande onestà lo ha ammesso nella relazione che ha presentato alla Commissione bilancio) vi preoccupate del problema dei tiraggi di tesoreria, del fatto che la tesoreria non risponde alle indicazioni legislative che vengono dalla competenza. Ma avevate l'occasione della riforma del bilancio per poter intervenire in tal senso, per poter fare in modo che la gestione di bilancio e la gestione di tesoreria si integrassero, cosa che si dovrà comunque fare se si vuole effettivamente realizzare un trasferimento di funzioni reali dal centro alla periferia, se si vuole cioè delineare funzioni nel loro complesso integrate e organiche e non semplicemente allentare la corda, mantenendola però sempre in mano per poterla tirare al momento opportuno. E tante volte è capitato che l'avete tirata in ritardo, determinando quei buchi di tesoreria che voi periodicamente vi affannate a coprire; buchi che continuerete a coprire via via che la vostra politica di incremento della pressione fiscale e di continua incidenza sul lato delle entrate porterà a constatare che il prodotto interno lordo non cresce nelle dimensioni previste.
Mi sembra che proprio lei nella sua relazione, presidente Solaroli, o qualcun altro abbia ricordato che gli istituti di ricerca italiani scontavano già, indipendentemente dalle previsioni del Tesoro, che il 1996 si sarebbe chiuso con uno 0,8 o addirittura con uno 0,7 per cento di incremento del PIL e già oggi scontano che le vostre previsioni dell'1,2 per cento di crescita dello stesso PIL dovranno essere rettificate in ribasso. Infatti, avete un risultato in termini di cassa della legge finanziaria del 1997 inferiore alle previsioni e, per quanto riguarda i tiraggi di tesoreria, nei primi tre mesi dell'anno li avete stretti, poi, con il decreto del 28 febbraio scorso, li avete riallargati di nuovo; adesso, se volete che i cantieri riaprano e comincino a funzionare, dovrete riallargarli per forza presso gli enti decentrati, nonostante il fatto che avete tagliato alle imprese anche l'anticipo d'asta. C'è quindi una contraddizione in termini: da un lato volete riaprire i cantieri per rilanciare l'occupazione e dall'altro tenete sempre tesa la corda dei tiraggi di tesoreria oppure la allentate soltanto quando ritenete di doverlo fare, salvo poi accorgervi che l'avete allentata troppo e allora la ritirate indietro.
Contemporaneamente, con un altro articolo del decreto-legge in esame, tagliate definitivamente l'anticipazione alle imprese, che già era stata ridotta dalla finanziaria di quest'anno, e non consentite neppure alle imprese che sfortunatamente sono fornitrici della pubblica amministrazione (dico sfortunatamente perché quest'ultima è il pagatore più cattivo che esista nel nostro paese; l'amico e collega Danese ha ricordato che vi sono fenomeni di pignoramento in questo settore) di rivalersi sulla Cassa depositi e prestiti (una serie di nostri emendamenti prevedeva questa possibilità). Nel momento in cui il committente è un comune che ha acceso un mutuo presso la Cassa depositi e prestiti e non paga il fornitore, mi sembra abbastanza naturale che quest'ultimo, a seguito dello stato di avanzamento di lavori, possa chiedere di rivalersi nei confronti della suddetta Cassa, la quale a sua volta potrà rinegoziare il mutuo erogato al comune.
Vi sono quindi forme di resistenza aprioristica di fronte agli emendamenti proposti dall'opposizione che dimostrano come ad un certo momento la situazione diventi tesa ed in Commissione si verifichino i fenomeni di cui abbiamo parlato. L'onorevole Chiamparino ha detto che stiamo facendo soltanto un'operazione congiunturale e che le questioni strutturali saranno risolte successivamente, in occasione della finanziaria 1998 e di quel gran monumento alle previsioni che è il
documento di programmazione economico-finanziaria, che ogni volta, per così dire, dà buca. Infatti, quello che avevate previsto nell'anno precedente per il 1997 lo avete dovuto rettificare in extremis con una nota di variazioni, perché vi erano cambiati i conti sotto gli occhi!
Quello che è grave è che non avete più il controllo della finanza pubblica, e quindi andate continuamente ad inseguire i risultati. Non siete in grado di controllare la finanza pubblica perché credete che si debba modificare il rapporto disavanzo-PIL incidendo sul disavanzo, sul numeratore e non sul denominatore, che è il PIL. Se credeste un po' al mercato (ma non ritengo che ci crediate, perché sappiamo qual è la vostra origine; ma non voglio scoprire «altarini» del passato), capireste che è importante sostenere il prodotto interno lordo, che allarga la base imponibile e quindi sostiene l'economia. A quel punto avreste anche la possibilità di abbassare i tassi di interesse perché vi sarebbe una maggiore credibilità del paese. Onorevole Chiamparino, lei si affida allo stellone d'Italia dicendo che ad un certo punto caleranno i tassi d'interesse. Ebbene, potremo incontrarci nella seconda metà dell'anno (magari le offrirò una cena o una colazione) per constatare come dall'America arriverà presto l'aumento; molto più presto di quanto lei non creda e di quanto non sia avvenuto nel 1929, quando la crisi di Wall Street giunse in Europa con un certo ritardo perché oggi vi è la novità della globalizzazione dei mercati e i signori Soros delle varie situazioni si svegliano, hanno le orecchie dritte, si mettono immediatamente in moto e prendono a fucilate le monete che sentono più deboli. Voi avrete una delusione rispetto alla riduzione dei tassi ed anche sull'inflazione, che oggi sbandierate perché è calata al di sotto del 2 per cento o perché va all'1,5 per cento. In realtà voi non avete aggredito i dati strutturali dell'inflazione, ma avete soltanto - come ho cercato di dimostrare - fatto un'operazione di maquillage ISTAT (a tale proposito aspetto ancora che venga assegnata alla Commissione affari costituzionali la proposta di legge che ho presentato assieme ai colleghi Delfino e Tremonti in merito ad un'inchiesta parlamentare sull'ISTAT, sul modo in cui viene gestito l'Istituto nazionale di statistica, che dovrebbe operare in modo neutrale nella redazione delle statistiche ma che diventa sempre di più uno strumento di parte). Avete fatto una manovrina ISTAT molto semplice; cambiando la base dal 1992 al 1995 avete aumentato il peso dei beni che nel triennio precedente avevano avuto minore aumento dei prezzi e avete aumentato il peso dei beni e dei servizi che, essendo a tariffa, sono prezzi amministrati, ossia governati da autorità pubblica. Ebbene, sarei capace anch'io di modificare l'inflazione in questo modo! Certo, avete poi avuto l'aiuto del crollo della produzione, dell'economia ed è chiaro che ora l'inflazione è bassa. Ma quando, come certamente auspicherete, riaumenterà la domanda interna, vi accorgerete che i dati strutturali dell'inflazione non sono stati aggrediti e che quindi questa non è una medaglia al valore per il Governo Prodi o per l'onorevole Chiamparino, ma soltanto una patacca.
Andrebbero naturalmente approfonditi altri aspetti, anche se non voglio tediare ulteriormente questa sparuta Assemblea; come ho già detto, per fortuna c'è lo stenografico e tutte le mie esternazioni potranno essere consacrate attraverso di esso. È stato un peccato che la maggioranza abbia liquidato le pregiudiziali di costituzionalità con grande fretta e nonchalance, perché in realtà le nostre obiezioni sono effettive. Ve ne accorgerete in occasione del prossimo documento di programmazione economico-finanziaria che dovrà tener conto del 2000; e nel 2000 vi sarà un buco, un saldo netto negativo finanziario di 1.185 miliardi in conseguenza dell'anticipo della tassazione sul TFR. Voi sapete che l'autorevole Servizio del bilancio della Camera dei deputati ha fatto anche presente che il periodo di sviluppo del saldo negativo potrebbe non essere dal 2000 al 2008 ma dal 2000 al 2005; le esigenze da coprire sarebbero così maggiori. Avrete quindi il buco del
2000, più tutto quello che succederà, più gli effetti delle offensive della tesoreria, che sono un po' come le offensive del maresciallo Cadorna nella prima guerra mondiale, il quale le programmava tutte bene sulla carta ma poi saltavano i telefoni, non si capiva più nulla e le offensive finivano con migliaia e migliaia di morti nel Carso e alla Bainsizza.
Comprenderete quindi che non siete più in grado di controllare la finanza pubblica. Dovrete riconoscerlo e vi inchioderemo alla discussione del documento di programmazione economico-finanziaria e in occasione della legge finanziaria per il 1998, perché non sarete in grado di dimostrare che abbiamo effettivamente realizzato il 3 per cento e che potrete veramente portare questo paese al raggiungimento dei parametri di Maastricht, come del resto già vede gran parte degli operatori internazionali.
Il fatto che la lira non sia ancora sotto tiro non è affatto scontato, perché non sappiamo quante volte sia intervenuta la Banca d'Italia per sostenere il cambio. In questi giorni il cambio lira-dollaro è salito a 1.721 e il marco sta appena appena sotto le mille lire. Quindi, non sappiamo - il governatore della Banca d'Italia non ce lo dirà mai - quanto sia costato il mantenimento di questo cambio, ma forse qualche costo, per quella scelta precipitosa del novembre 1996 di rientrare nel sistema monetario europeo, lo stiamo pagando già adesso.
Secondo la trimestrale di cassa, che ci è stata illustrata poco tempo fa in Commissione, l'andamento dei conti pubblici nel primo trimestre 1997 presenta uno scostamento di circa 15.500 miliardi rispetto alle previsioni programmate con la legge finanziaria. Ciò pregiudica la possibilità di mantenere al 3 per cento del PIL l'indebitamento netto della pubblica amministrazione, allontanando l'Italia dalla moneta unica.
Queste difficoltà nel contenimento del disavanzo entro i termini programmati sono state purtroppo colte anche dalla Commissione europea, che per questo, almeno fino ad ora, pone l'Italia insieme alla Grecia fuori dall'euro. Il Governo intende procedere ad un riallineamento dei conti, pari allo scostamento verificatosi, attraverso le misure contenute nel decreto-legge n.79. Queste misure - è bene ricordarlo - prevedono: l'anticipo per due anni dell'imposta sul trattamento di fine rapporto; il differimento dei trattamenti di fine servizio per i dipendenti iscritti alle gestioni ex ENPAS, INADEL, IPOST e di altri enti pubblici non economici; l'estensione a tutto il 1996 del periodo di riferimento del condono previdenziale in corso; l'azzeramento dell'anticipo del 5 per cento sulle forniture e sugli appalti; la riduzione di autorizzazioni di cassa di alcuni ministeri; l'aumento di alcune tariffe postali (non poteva mancare!); il part-time per i dipendenti pubblici; alcune vendite immobiliari e la cessione di crediti alle amministrazioni pubbliche.
Ovviamente, noi valutiamo molto negativamente queste misure di contenimento della spesa pubblica, sostanzialmente sotto due diversi profili: per un verso, perché rappresentano interventi non strutturali, ma semplicemente norme di rinvio di spesa e anticipazione di imposte e, per un altro, perché si tratta almeno in parte di misure di penalizzazione dell'economia reale.
La richiesta che è stata fatta più volte al Governo di ritirare questo provvedimento e di sostituirlo con misure strutturali appare, alla luce di queste considerazioni, del tutto motivata. A ciò dovrebbe anche condurre l'esito della discussione
in Commissione bilancio, il cui voto finale ha bocciato questo decreto-legge.
La necessità di condurre una rigorosa politica di bilancio risponde prima di tutto a esigenze interne e solo successivamente agli impegni europei sottoscritti con il Trattato di Maastricht: sia l'una sia l'altra ragione, comunque, non consentono furbizie contabili. Non vale nemmeno contestare la Commissione europea - come è stato fatto nei giorni scorsi, con il consueto provincialismo - circa i criteri di valutazione, perché sappiamo tutti e lo sa anche il Governo che la materia del contendere non è tanto la valutazione dello scostamento, cioè se questo sia pari allo 0,8 per cento, allo 0,2, allo 0,9, come è stato scritto nei giorni scorsi, giacché alla fine esso rappresenta solo un'inezia rispetto al valore dell'economia italiana e alle dimensioni della nostra finanza pubblica.
Il grande scetticismo della Commissione europea, che è anche il nostro, riguarda la sostenibilità nel tempo delle misure di contenimento e quindi la contestazione non è solo sul merito di queste cifre. Abbiamo anche l'obbligo di denunciare la politica economica e finanziaria che fa da sottofondo a queste misure.
Questo Governo manca di una politica economica e di finanza pubblica tale da «portarci» nella moneta unica. La scadenza temporale dei provvedimenti ci imporrebbe ogni volta una certa originalità nella critica alle misure economiche del Governo. In realtà, dobbiamo ripetere solo un'unica e grande critica e cioè che nella politica di questo Governo manca la prospettiva reale di una crescita della nostra economia.
La moneta unica prima ancora che una rigida determinazione finanziaria controllata dalle autorità monetarie è un complesso di scelte politiche che presuppongono un elevato grado di affidabilità, presupposto indispensabile per una reale capacità di partecipare allo stretto gruppo delle nazioni che decidono i futuri destini (non solo economici) di questo continente. Su questo si gioca l'interpretazione flessibile dei parametri!
Oggi noi non veniamo «percepiti» come affidabili. Oggi la carenza di credibilità di questo Governo, che continua a rinviare la soluzione dei nodi della finanza pubblica, mette a repentaglio la possibilità per il nostro paese di partecipare alla moneta unica europea e, attraverso questa, di disporre delle grandi opportunità che essa può offrire per il sistema delle imprese, per il mondo del lavoro, per far rientrare a livelli sostenibili il tasso di disoccupazione.
Le scelte che compiamo oggi avranno effetti irreversibili sulla nostra economia e sul nostro tessuto sociale. Per questo non possiamo accettare che, in nome di un patto per il potere, mascherato sotto il sinonimo della governabilità necessaria ad ogni costo, possano essere omesse alcune decisioni di politica sociale ed economica che ci appaiono irrinunciabili.
Anche il contesto sociale e psicologico del nostro paese richiede oggi la consapevolezza che le grandi difficoltà ad interpretare gli scenari della globalizzazione e i cambiamenti della dinamica demografica pongono alle forze politiche l'obbligo di rinunciare alle convenienze di parte.
Per questo l'opposizione del CCD a tale manovra non si concentra esclusivamente sul merito del provvedimento ma fa riferimento al contesto generale nel quale il nostro paese oggi è immerso. Un paese che per la dinamica demografica ha molte pensioni e poco lavoro, con la paura dei cittadini di diventare poveri e l'ansia di non riuscire a mantenere il livello di benessere di vita raggiunto.
È soprattutto per questo che la nostra contestazione al provvedimento, che si fonda su due argomenti tra loro strettamente collegati come dirò brevemente in seguito, parte da un approccio che non è ideologico ma di buonsenso.
La prima critica. Gli interventi del Governo sulle dinamiche della finanza pubblica non sono strutturali, ma fanno riferimento esclusivamente a rinvii di spesa e ad anticipazioni di imposta. Tali sono infatti l'anticipo dell'imposta per due anni del trattamento di fine rapporto, il differimento della liquidazione dei trattamenti
di fine servizio, l'azzeramento dell'anticipo del 5 per cento sulle forniture e sugli appalti e la cessione dei crediti alle amministrazioni pubbliche.
La voce del bilancio dello Stato che risulta invece fuori controllo è quella relativa allo Stato sociale. All'interno di questa, in particolare, l'area di intervento è rappresentata dalla previdenza, quantunque anche l'assistenza deve essere rivisitata soprattutto nell'ottica di introdurre criteri di equità nella gestione, senza dimenticare che spesso anche la pubblica amministrazione è stata usata come ammortizzatore sociale, slegando il pubblico impiego da criteri di efficienza e di efficacia.
Vorrei capire la compatibilità, in termini di equità, tra le performance della FIAT, in termini di utili, e le misure di cassa integrazione e di incentivo alla rottamazione.
Oggi il Governo annuncia la disponibilità a rivedere lo Stato sociale. Noi lo aspettiamo, ancora una volta, al varco perché non riteniamo sia più possibile nascondersi dietro ad alcune generiche affermazioni di principio che non abbiano poi un seguito concreto negli atti di governo. Riteniamo cioè che nel documento di programmazione economico-finanziaria che il Governo presenterà alle Camere nel mese di maggio debbano essere inseriti in maniera esplicita gli interventi di ristrutturazione del sistema previdenziale ed assistenziale.
Solo quando entreremo nel merito di tale questione sarà chiaro che la nostra non è una proposta di taglio, ma la necessaria operazione di riequilibrio che garantirà le pensioni ai nostri figli, al solo prezzo di un allungamento del periodo di lavoro di chi, per fortuna, il lavoro ce l'ha.
La seconda obiezione: le misure della manovra correttiva penalizzano il sistema produttivo. Oggi abbiamo un incremento della produzione pressappoco uguale a zero ed abbiamo un livello di inflazione molto basso, ma che è sinonimo di recessione.
Già nel corso del dibattito sulla legge finanziaria per il 1997 abbiamo sottolineato la negatività di misure come la tassa per l'Europa e l'IREP per il sistema delle imprese. Oggi questo si ripete con l'anticipo delle imposte per due anni del trattamento di fine rapporto e con l'azzeramento dell'anticipo del 5 per cento sulle forniture sugli appalti.
È difficile stabilire se la maggioranza si sia già arresa di fronte al difficile compito di rimettere in moto l'economia o se sia, invece, succube della sua ala più estrema che, in nome di un mai rinnegato comunismo, ritiene il sistema delle imprese il nemico da abbattere e da punire. Nell'uno e nell'altro caso non è più tollerabile il ritardo che le divisioni interne il Governo e la maggioranza causano al «pacchetto lavoro» sottoscritto a settembre con le parti sociali, che contiene alcune aperture, seppur timide, in tema di flessibilità e che potrebbe servire ad attenuare un'emorragia di posti di lavoro che sembra inarrestabile e sulla quale il silenzio di questo Governo è pressoché totale.
Riteniamo comunque che, anche in questo caso, la contraddizione interna alla maggioranza vanificherà ogni buon proposito. Il gruppo del CCD contrasterà in ogni modo l'approvazione di questo provvedimento per le ragioni di merito che ho appena illustrato, ma anche per una questione politica di fondo: il Governo è nato dall'accordo di desistenza tra l'Ulivo e rifondazione comunista. Si è cioè presentato agli elettori con un programma, anch'esso fortemente discutibile, ed ora è costretto ad assumere il programma della sua componente più estrema, quella comunista.
La sinistra spesso ci richiama sui più svariati argomenti alla condizione media delle principali democrazie europee. A questa sinistra noi vogliamo ricordare che in nessuna di tali democrazie esiste una condizione politica che accetta il condizionamento determinato dai comunisti.
L'azione di governo è oggi improntata ad un vero statalismo in economia e ad un conservatorismo in materia di riforme istituzionali, che sta condizionando pesantemente
i tempi e i modi dell'uscita dell'Italia da questa lunga fase di transizione.
Poiché è a tutti evidente la stretta interconnessione esistente tra le questioni dell'economia, della finanza pubblica, della moneta unica, della riforma dello Stato sociale e delle riforme istituzionali, non è possibile tollerare ulteriormente che il patto di potere che regge questo Governo impedisca al nostro paese di uscire dall'attuale difficile fase di transizione.
I deputati del centro cristiano democratico, dichiarando la loro ferma opposizione a questo provvedimento, auspicano che il Governo con un sussulto di dignità sappia anticipare le decisioni delle autorità monetarie europee e tragga le dovute conseguenze, risparmiando al Parlamento e al paese questo inutile provvedimento e le gravi cadute di credibilità che esso porta con sé (Applausi dei deputati del gruppo del CCD).
È iscritto a parlare l'onorevole Molgora. Ne ha facoltà.
Abbiamo un debito che ha ormai raggiunto un livello irrefrenabile; basta considerare soltanto due dati: in venticinque anni, dal 1946 al 1971, il debito pubblico in termini reali è solo raddoppiato, mentre dal 1971 al 1996 è aumentato di diciassette volte, dico diciassette volte! Evidentemente in quest'ultimo periodo è avvenuto qualcosa di diverso: come sappiamo, infatti, vi sono stati gli accordi consociativi, vi è stata una mentalità democristiana che si è allargata fra destra e sinistra senza più alcuna distinzione. Il problema, purtroppo, è che questa mentalità democristiana non è cambiata neanche di una virgola, e vediamo ancora una volta in questo intervento finanziario dei trucchi contabili che consistono esclusivamente nell'anticipare entrate dall'inizio di gennaio alla fine di dicembre, senza prevedere in realtà alcun provvedimento reale.
Si tratta, in verità, di palliativi che non vanno ad incidere sul sistema della spesa, che è la vera nota dolente. La spesa, quindi, rimane tuttora incontrollata, e al riguardo basta ricordare alcune questioni: il Banco di Napoli, con 12.500 miliardi di crediti inesigibili che lo Stato si è accollato più 2 mila miliardi per l'aumento del capitale sociale; il Giubileo; le Olimpiadi di Roma; ancora, i terremoti del Belice e dell'Irpinia; i lavori socialmente utili, cioè assistenzialmente utili, che questo Stato romano continua a prevedere specialmente a Napoli, Palermo e Bari; abbiamo poi le «tatarelliadi», cioè i Giochi del Mediterraneo di Bari, e così via. Del resto questo sistema democristiano di intervento è in parte giustificato, poiché purtroppo non si capisce più quali siano le fasce della maggioranza e dell'opposizione: ritroviamo Armani che era il vice di Prodi all'IRI, o Nerio Nesi, di rifondazione comunista, che era stato indicato dai socialisti come presidente della BNL ai tempi del buco di Atlanta da 2 mila miliardi.
Non si capisce più, allora, quale sia la vera differenza, per cui la conclusione è che in realtà siamo di fronte ad un vero e proprio teatrino. Qual è la risposta all'esigenza di entrare in Europa che ha la Padania? È rappresentata da interventi che danno l'idea di una situazione esattamente fallimentare. Quando un'impresa sta per fallire, cosa fa? Comincia a non pagare più e a cercare di anticipare i pochi incassi che attende; è la stessa cosa che sta facendo questo Stato: rimanda il più possibile i pagamenti ed anticipa le imposte, come quella sul TFR, che chissà quando dovrebbero essere incassate nella
realtà. A parte la questione delle baby pensioni, che riguardano poche annualità, un lavoratore che viene assunto oggi dovrebbe anticipare per trentacinque anni le sue imposte. Tutto questo è in linea con le anticipazioni che abbiamo sempre pagato: prima un acconto IRPEF, poi due acconti IRPEF, poi si è passati dal 75, al 92, al 95 e al 98 per cento dell'IRPEF, dell'IRPEG, dell'ILOR, eccetera. Fra un po' dovremo anche anticipare le imposte sui redditi dei prossimi due anni per riuscire a sistemare la situazione di cassa di questo Stato centralista romano!
La verità è che lo Stato romano risolve il problema delle entrate in maniera subdola, cioè non soltanto con le cifre scritte in questo provvedimento ma anche mediante una serie di interventi di tipo ministeriale, come quello racchiuso nel floppy disk della SOGEI che costringe le imprese e i professionisti padani ad un notevole incremento dei redditi dichiarati. Se la base imponibile non esiste, cosa si fa? La si inventa utilizzando i parametri elaborati dalla SOGEI, ovvero rendendo indetraibili determinati costi.
Si tratta di un procedimento seguito anche negli anni passati, come dimostra la storia dell'ILOR: all'inizio era pari al 15 per cento, poi è stata aggiunta l'addizionale, poi questa è stata incorporata nella stessa imposta e si è arrivati al 16,2 per cento, poi è diventata indetraibile ai fini IRPEG per il 75 per cento, poi è diventata totalmente indetraibile. Sono tutti sistemi per aumentare la pressione fiscale in modo che i contribuenti non se ne accorgano.
Come dicevo, gli obiettivi contenuti nel provvedimento al nostro esame sono in linea con la situazione, dal momento che si anticipano alcune imposte, addirittura è prevista l'anticipazione di 3 mila miliardi delle concessionarie sulla base di un decreto legislativo che deve essere ancora emanato.
Signori miei, questa è una situazione fallimentare, tanto più che in Europa non riusciremo ad essere neanche penultimi con la Grecia in funzione di fanalino di coda, che nel 1998 riuscirà a fare meglio di noi, il che è tutto dire! Anche il Portogallo riuscirà ad entrare nel gruppo dei primi e noi resteremo molto più indietro. Questo «la dice lunga» sui latrocini, sulle «maialate» perpetrate a Roma dai poteri centralisti, ovviamente a spese della Padania che contribuisce per larga parte alle entrate dello Stato, al prodotto interno lordo.
Non si può continuare a pensare che questa serie di interventi non abbia conseguenze sull'economia. I primi segnali si sono già manifestati poiché gli indici ISTAT relativi alla produzione industriale sono in continuo regresso. Sono i segni evidenti di una situazione da cui non sarà possibile tornare più indietro.
Vorrei ricordare che se l'industria della Padania cade in grave difficoltà non ci sarà più mezzo di salvezza per nessuno. Risulta fastidioso e addirittura autolesionistico il fatto che questo Governo e questo Stato di Roma rinuncino ad accettare l'unica soluzione per entrare in Europa, quella di dividere l'Italia in due: il nord, in grado di mantenersi in Europa con le sue sole forze, con una Padania che rimane competitiva e che avrebbe la capacità di investire anche nel meridione;
il sud, che avrebbe in tale contesto la possibilità di poter disporre di un'altra moneta; una moneta se vogliamo più debole, ma che consentirebbe al Mezzogiorno di poter usufruire di finanziamenti, di accordi commerciali e di investimenti da parte degli altri paesi, nonché di un incremento delle proprie risorse (mi riferisco ad esempio all'agricoltura e al turismo), che diventerebbero sicuramente più competitive. Quest'ultimo è un problema che emergerà in maniera evidente.
Con l'attuale modo di procedere, invece, si cerca di aggrapparsi alla «nave» della Padania, che al momento è l'unica in grado di reggere al confronto con l'Europa! Ma il rischio che si correrebbe, se le cose continuassero in tale maniera, è che assieme alla «nave» della Padania affondi anche tutto il resto d'Italia!
Questo provvedimento è il frutto di un approccio minimalista della politica dei piccoli passi, da sempre portata avanti da questo esecutivo, che finisce per rendere molto più pesanti e gravosi i sacrifici necessari per centrare i parametri di Maastricht.
L'onorevole sottosegretario professor Giarda potrebbe, documentandoci con la sua professionalità e competenza, richiamare quale sia stato già il costo reale in termini quantitativi dei cinque provvedimenti correttivi di finanza pubblica adottati dal Governo e quale peso - come ebbe recentemente a dire il sottosegretario Pennacchi - abbiano determinato come impatto sulle famiglie. Non di meno, anziché porre mano con coraggio ad un'azione più estesa e più ampia, si continua in questa politica dei piccoli passi. Da parte di questo Governo e di questa maggioranza non si è voluto, fin dal loro insediamento, malgrado i richiami che in questa direzione erano già venuti nel corso dell'ultimo anno della passata legislatura, incidere in modo strutturale e profondo sui meccanismi della spesa pubblica.
In questi dodici mesi abbiamo sollecitato invano l'adozione di una politica economica coraggiosa sul versante del risanamento dei conti pubblici e propulsiva di un vero rilancio delle attività produttive. Il Governo si è invece mosso con grande incertezza nell'assumere i provvedimenti necessari ed ha puntato prevalentemente al raggiungimento dei parametri di Maastricht mediante misure una tantum. Si è trattato di un atteggiamento che nell'estate scorsa ha lasciato chiaramente trasparire la volontà di perseguire un rinvio della data di avvio dell'Unione economica monetaria, nella convinzione di poter contare sull'adesione e sul sostegno a questa proposta di nazioni quali la Spagna, il Portogallo ed altri paesi minori. Purtroppo nel mese di settembre 1996 ha dovuto prendere atto e constatare che questi paesi si apprestavano a far parte degli Stati che avrebbero avviato dal 1 gennaio 1999 l'Unione monetaria europea.
Ebbe allora inizio un'affannosa rincorsa dell'intero Governo a rientrare nei parametri, superando tutto in un colpo le riserve sulle quantità della finanziaria 1997 e soprattutto le riserve sulla perentorietà dei parametri di Maastricht. Seppur tardiva, questa nuova consapevolezza avrebbe dovuto puntare su misure strutturali di finanza pubblica necessarie al nostro paese anche al di là dello stesso obiettivo europeo.
L'esigenza di far quadrare i conti pubblici, di realizzare un programma severo di risanamento imponeva di intervenire con grande determinazione sui gangli della spesa pubblica maggiormente fuori controllo. Abbiamo invece assistito ad una serie di provvedimenti una tantum, di tasse per l'Europa, di cosmesi finanziaria, di finanza creativa, di artifici contabili che hanno certamente prodotto degli effetti - ci mancherebbe altro! - sull'inflazione e sul calo degli interessi, ma hanno altresì creato un processo assolutamente negativo sulla crescita del prodotto interno lordo, sull'occupazione, sugli investimenti produttivi e sui consumi delle famiglie.
Oggi, al di là dei risultati provvisori conseguiti, abbiamo il severo giudizio della Commissione europea, che certamente non ha negato - come neppure noi abbiamo mai fatto in sede di Commissione nel corso dell'anno - gli sforzi e i risultati conseguiti dal nostro paese, ma ha ribadito con molta determinazione che questi risultati, come ha già indicato precedentemente il collega Armani, hanno il carattere di precarietà e di instabilità. La Commissione europea è stata altresì chiarissima rispetto alle necessità di attuare misure strutturali sullo Stato sociale nell'ottica di un vero percorso di armonizzazione del welfare a livello europeo.
Il nostro Presidente della Repubblica, nel suo recente viaggio in Germania, ha dovuto constatare personalmente quanto
sia dirimente la questione, a tal punto da dover rivolgere da Berlino il suo appello alle forze politiche italiane - ma credo soprattutto al Governo, inadempiente su questo versante come su tanti altri - sulla necessità di affrontare in tempi rapidi ed in modo strutturale la riforma dello Stato sociale. Credo che anche questo appello - come quello del settembre scorso sull'esigenza di approntare misure efficaci per una vera crescita economica che portassero realmente all'aumento dell'occupazione - lascerà abbastanza indifferente il nostro Governo.
Evidentemente non si tratta solo di superare una spesa previdenziale fuori controllo (elemento comunque indispensabile), ma anche di creare le condizioni per promuovere e sostenere una ripresa non meramente congiunturale, di valorizzare le capacità di investimento, di modernizzazione e di sviluppo della nostra economia, obiettivo perseguibile solo con la riqualificazione complessiva della spesa pubblica. È proprio su questo problema fondamentale che l'azione del Governo è mancata clamorosamente: non ha saputo imporre l'eliminazione in tempi brevi delle pensioni di anzianità del settore pubblico, parificandole quanto meno fin dal corrente anno a quelle del settore privato (eppure noi avevamo presentato su questa materia un apposito emendamento); ha proceduto con provvedimenti contraddittori sul blocco delle assunzioni nel pubblico impiego; ha agito con scarsa efficienza sulla riduzione degli sprechi e dei privilegi (come pure sostengono membri di questo Governo); ha accumulato gravi ritardi nella politica delle privatizzazioni; ha ridotto drasticamente le risorse per gli investimenti produttivi.
Le responsabilità per il severo giudizio della Commissione europea sono solo nostre; meglio: sono solo del nostro Governo e della maggioranza che lo sostiene. Francamente meravigliano non poco le reazioni scomposte del Presidente del Consiglio, di ministri e di leader politici della maggioranza, tutti impegnati a sostenere l'esistenza di un complotto per tenerci fuori dall'Europa, ad affermare che a Bruxelles hanno sbagliato i conti. Scàlfaro ha sostenuto che l'entrata in Europa non è materia per calcoli ragionieristici: ha perfettamente ragione, perché la partita dell'euro si giocherà sul terreno della credibilità politica del nostro paese, del nostro Governo e della coalizione che lo sostiene. Qui il problema, a nostro giudizio, si fa molto serio, giacché si coniuga con l'esigenza di verificare la credibilità della linea politica che complessivamente le forze della coalizione portano avanti. L'ammissione o l'esclusione dell'Italia dal primo gruppo dei paesi partecipanti all'unione economica monetaria è questione essenzialmente politica e richiede dunque risposte politiche chiare e decise, strutturali, capaci di effetti durevoli.
Il problema è stato esposto molto bene dal commissario europeo, professor Monti, il quale ha rilevato che nel nostro paese una parte della maggioranza in fondo rigetta ancora l'integrazione economica con una coerenza ammirevole, ma che deve essere assolutamente superata.
È questa, a nostro parere, la questione che il Governo e la maggioranza possono e debbono affrontare per evitare che il nostro paese manchi l'obiettivo europeo, con conseguenze ancora più gravose per le nostre famiglie e per le nostre imprese.
Sul piano dei contenuti specifici del provvedimento, noi confermiamo fin da questo momento la nostra totale avversione al disegno di legge n.3489 sia per gli aspetti di incostituzionalità, che abbiamo illustrato poc'anzi in riferimento alla nostra questione pregiudiziale, sia per quanto attiene all'ulteriore anticipo di una quota dell'imposta, dovuta dalle imprese, sui trattamenti di fine rapporto (che con il provvedimento in discussione viene incrementato del 3,89 per cento), sia ancora per quanto concerne le norme in materia previdenziale con le quali si prevede che, nell'ambito di un programma straordinario di dismissioni, le entrate derivanti siano riversate all'erario, ponendo - a nostro giudizio - in grave difficoltà gli enti previdenziali interessati, sia infine per quanto riguarda il differimento delle liquidazioni dei trattamenti di fine servizio
dei dipendenti pubblici, previsto dall'articolo 3, che tra l'altro conferma una disparità di trattamento in una direzione contraddittoria rispetto all'azione del Parlamento e dei Governi, che hanno sempre operato nel senso di pervenire ad una reale omogeneizzazione dei vari istituti contrattuali. Quindi anche sulla vicenda del differimento delle liquidazioni il Governo assume un atteggiamento contrario rispetto alla linea maestra seguita fin dal Governo Amato e poi con i decreti legislativi applicativi della riforma del pubblico impiego.
Su tali aspetti noi ci siamo già ampiamente espressi nel momento in cui si sono affrontate le questioni pregiudiziali di costituzionalità. Riteniamo comunque di dover ribadire che le altre misure proposte non hanno quell'efficacia, quell'articolazione e quella capacità tali da consentire un'immediata operatività (mi riferisco per esempio alla questione della dismissione del demanio degli enti locali e di altri enti). Anche in questo caso sono previste alcune misure che - ne siamo assolutamente convinti - non rappresentano la reale volontà di affermare nel nostro paese una linea che riassumo brevemente nel concetto «meno Stato, più mercato». Dico questo non perché noi vogliamo sostenere un liberismo sfrenato, ma per il fatto che constatiamo, nell'ambito della realtà europea nel suo complesso, che la presenza dello Stato nella nostra economia è ancora assolutamente sproporzionata. È inoltre un elemento che crea difficoltà in ordine al recupero di efficienza e l'efficienza è un dovere, un obbligo per chi è chiamato a reggere le sorti del nostro paese e di qualsiasi amministrazione pubblica.
Per queste considerazioni ribadiamo che la manovra in esame si pone in un'ottica ormai consueta, essendo noi al quinto provvedimento di carattere finanziario nel quale sul piano della riduzione della spesa pubblica si è sostanzialmente evitato di affrontare con forza e con determinazione il nodo degli interventi strutturali. Abbiamo davanti a noi delle promesse per il futuro. Come in sede di Commissione è stato ampiamente illustrato, il Governo si appresta nel prossimo DPEF per il triennio 1998-2000 ad incidere con decisione e ad indicare la nuova rotta del Governo e della maggioranza per quanto attiene agli interventi, non più eludibili, sul problema dei tagli strutturali. Come però ci insegna l'esperienza, credo che nel nostro paese, ma soprattutto per questo Governo, valga di più la tecnica del rinvio, collegata ad una situazione politica che non consente, per la disomogeneità delle posizioni che si ritrovano nella stessa coalizione, di agire concretamente sul versante delle spese strutturali. Vi è invece sicuramente - e purtroppo lo sentiranno in modo sempre più gravoso i cittadini italiani - una sorta di accordo che, necessitati dall'esigenza di pervenire comunque all'ingresso nell'Unione monetaria europea, porterà ancora una volta questo Governo, come già per altri provvedimenti finanziari, per l'esigenza di avere risorse immediatamente disponibili, a calcare la mano sull'aumento della pressione fiscale e tributaria.
Poiché questa prospettiva è lontana dagli impegni e dai programmi che abbiamo assunto nella nostra vicenda politica ed elettorale, non posso non concludere questo intervento ribadendo la totale contrarietà ad un modo di procedere che, al di là di alcuni risultati provvisoriamente raggiunti, non si pone comunque nell'ottica di dare durevole stabilità al risanamento ed una reale prospettiva di sviluppo e di crescita economica al nostro paese.
È iscritto a parlare l'onorevole Possa. Ne ha facoltà.
In primo luogo il trattato di Maastricht consente l'entrata e la permanenza nella
costituenda Unione monetaria europea (UME) unicamente ai paesi membri dell'Unione europea le cui economie e le cui amministrazioni pubbliche siano in buona salute e valuta lo stato di buona salute di tali amministrazioni in base a due soli parametri, il rapporto deficit-PIL e quello debito-PIL. Ciò stabilendo per ciascuno di essi un valore massimo ammissibile: del 3 per cento per il rapporto deficit-PIL e del 60 per cento per quello debito-PIL.
I due parametri sono considerati nel trattato sullo stesso piano, come se avessero pari importanza ma, in effetti, il debito è una grandezza molto più importante del deficit, essendo in prima approssimazione uguale alla somma dei deficit degli anni precedenti. Tuttavia, quando si deve recuperare da una situazione di dissesto (come certamente è il caso della pubblica amministrazione italiana) è prima di tutto il rapporto deficit-PIL che si deve mettere a posto. Solo quando questo rapporto sarà stato stabilmente riportato in bonis diverrà possibile, con uno sforzo tenace di anni, ridurre sotto la soglia del 60 per cento l'altro parametro, quello debito-PIL.
Secondo punto. La cosiddetta verifica di convergenza, ossia la valutazione dell'ammissibilità dei singoli Stati nell'UME, sarà basata sui conti di quest'anno. Per quanto riguarda le pubbliche amministrazioni, è condizione praticamente indispensabile, anche se non formalmente tale, che il rapporto deficit-PIL non superi quest'anno la soglia del 3 per cento e che ciò avvenga in modo stabile, non episodico.
Terzo punto. L'obiettivo di un rapporto deficit-PIL 1997 non superiore al 3 per cento è stato assunto dal Governo Prodi in tutta la sua pienezza e in tutte le sue implicazioni solo nella seconda metà dello scorso settembre. In precedenza, per quasi cinque mesi, ci si era cullati nell'illusione che le condizioni del trattato di Maastricht potessero essere ridiscusse. Ricordiamo le dichiarazioni del Presidente Prodi: «In Europa vogliamo entrare da vivi, non da morti!», e la fiducia più volte espressa dal Vicepresidente del Consiglio, onorevole Veltroni, circa la possibilità di revisione delle condizioni per l'entrata nell'UME, e in particolare circa la possibilità di inserire, tra i parametri di convergenza, ulteriori indicatori, più capaci di caratterizzare il funzionamento sociale dell'economia, quale ad esempio la percentuale dei lavoratori disoccupati. D'altra parte, il documento di programmazione economico-finanziaria approvato all'inizio di agosto prevedeva una manovra finanziaria 1997 limitata a 32.400 miliardi.
Quarto punto. Resosi conto della propria grave sottovalutazione degli impegni di Maastricht, il Governo Prodi reagì in pochi giorni come potè, improvvisando una dura legge finanziaria 1997, di entità doppia rispetto alla previsione del DPEF approvata due mesi prima, 62.500 miliardi, finanziaria alla quale venne affidato il difficile compito della riduzione, in un anno, del rapporto deficit-PIL dal 6,7 al 3 per cento.
La finanziaria 1997, concepita in gran fretta per far fronte a questo non previsto compito, è stata poi aggiustata dal Governo in itinere, cioè durante la discussione in Parlamento, a colpi di emendamento. Chi volesse rendersi conto della rilevanza di tale processo di aggiustamento non ha che da confrontare i testi proposti alle Camere a settembre con i testi definitivamente approvati in dicembre. La parte principale della manovra sull'entrata, il prelievo speciale una tantum per l'Europa, è stata precisata nella sua effettiva articolazione solo qualche giorno dopo l'approvazione della finanziaria alla Camera in prima lettura, il che, al di là delle intenzioni, costituisce certo un atto irriguardoso nei confronti del Parlamento. Un'altra rilevante parte della manovra sull'entrata, per 4.200 miliardi, è stata fatta approvare dal Parlamento senza fornire alcuna indicazione sui suoi contenuti, che sono stati precisati solo a fine anno con il cosiddetto decretone fiscale. Anche solo questi dati di estrema sintesi fanno intuire quale sia stata la concitazione con cui è stata formulata e poi approvata la legge finanziaria per il 1997 e spiegano perché, a distanza di quattro mesi dalla sua entrata in vigore,
siamo qui a discutere un provvedimento finanziario integrativo che consenta il conseguimento dei medesimi suoi obiettivi.
Quinto punto. Il Polo per le libertà ha sempre considerato assolutamente prioritario il grande obiettivo dell'entrata nell'Europa monetaria ed ha perciò pienamente condiviso l'obiettivo del conseguimento, nel 1997, di un rapporto deficit-PIL pari al 3 per cento. Non a caso la controfinanziaria presentata dal Polo ai primi di ottobre ha avuto la stessa entità complessiva della finanziaria presentata dal Governo: 62.500 miliardi. Non sono state invece affatto condivise dal Polo le scelte fatte nella finanziaria del Governo Prodi per il 1997 al fine di raggiungere questo obiettivo, e in particolare la priorità data all'incremento delle entrate, con il conseguente rilevante incremento del già troppo elevato livello di prelievo fiscale e parafiscale, il sistematico ricorso a provvedimenti una tantum, la modesta entità delle misure assunte per il contenimento della spesa negli altri comparti della pubblica amministrazione, la virtuale assenza di provvedimenti di promozione dello sviluppo dell'economia e in particolare il rinvio al 1998 delle ormai indilazionabili misure volte a contenere la spesa previdenziale e la spesa sociale.
Tali scelte, che risentono troppo del condizionamento di rifondazione comunista, fanno correre al paese due rischi gravi: il rischio di non entrare nell'UME insieme ai paesi del primo gruppo e quello di entrare nell'UME con l'economia in stallo o in fase recessiva.
La manovra trae origine, almeno formalmente, dalla relazione di cassa resa pubblica alla fine di marzo, che evidenziava a livello previsionale uno scostamento rispetto alla finanziaria di 15.500 miliardi relativamente all'obiettivo programmatico del rapporto deficit-PIL, pari al 3 per cento. Questo scostamento viene attribuito a tre cause principali: al fatto che l'economia italiana si sta sviluppando nel 1997 ad un ritmo inferiore a quello assunto nella finanziaria; al fatto che gli effetti di cassa 1997 dei provvedimenti legislativi della manovra finanziaria si stanno dimostrando meno rilevanti del previsto; al fatto, infine, che i tiraggi di tesoreria di alcuni comparti sono stati in questi mesi maggiori del previsto. In tutti e tre i casi le previsioni fatte al momento della finanziaria 1997 si sono dimostrate eccessivamente ottimistiche, il che conferma il carattere di improvvisazione di tale manovra.
Circa la prima di queste cause, il Governo prevede ora uno sviluppo del PIL pari all'1,2 per cento, con uno scostamento dello 0,8 per cento rispetto alla previsione del 2 per cento contenuta nella finanziaria. Purtroppo dobbiamo aspettarci che anche quest'ultima previsione risulti a fine anno sovrastimata di almeno 0,2-0,3 punti percentuali. Prometeia, ad esempio, prevede nel 1997 un incremento del PIL pari all'1 per cento, e la stessa previsione viene fatta dal Fondo monetario internazionale. Per l'Italia, comunque, si moltiplicano i segni di una economia di stasi: nel 1996 lo sviluppo del PIL è stato di appena lo 0,7 per cento e nel quarto trimestre di quest'anno solo dello 0,1 per cento, in netta controtendenza con il ritmo di sviluppo degli altri paesi della CEE.
Ancora più preoccupanti sono i dati ISTAT relativi alla produzione industriale, già citati da un collega che mi ha preceduto. Nel 1996 il fatturato dell'industria si è ridotto dello 0,4 per cento rispetto al 1995 e nel quarto trimestre di quest'anno, su base annuale, almeno del 2,2 per cento. Nel gennaio 1997 tale fatturato ha presentato un'ulteriore diminuzione (meno 3,9 per cento rispetto al gennaio 1996); ugualmente gli ordinativi delle industrie sono diminuiti, nel 1996, del 4,8 per cento rispetto al 1995 e sono risultati ancora in diminuzione nel gennaio 1997 (meno 3,7 per cento). Tali prestazioni sono in controtendenza rispetto a quelle degli altri paesi della CEE. Questo andamento negativo va attribuito non solo alla recente rivalutazione della lira rispetto al marco e alle altre monete europee, ma anche agli effetti delle scelte di politica economica del Governo Prodi, quali la mancanza di
incentivi per lo sviluppo dell'economia e l'aggravio del carico fiscale sulle aziende e sui cittadini.
Circa la minore efficacia, rispetto alle previsioni, dei provvedimenti di riduzione delle spese previsti dalla finanziaria 1997, gli esperti sentiti in Commissione bilancio sono stati chiari: una parte rilevante dei benefici di cassa previsti per il 1997 risulteranno a fine anno inferiori per lo meno del 20-30 per cento. Il carattere eccessivamente ottimistico di tali previsioni era stato d'altra parte fatto rilevare nella stessa relazione tecnica sulla finanziaria elaborata dal Servizio bilancio.
Quanto infine agli eccessivi tiraggi di tesoreria che si stanno verificando in vari comparti della pubblica amministrazione, condivido pienamente le precise osservazioni svolte in precedenza dal collega Danese. D'altra parte, il moltiplicarsi degli atti ingiuntivi e delle azioni giudiziarie di pignoramento nei confronti di varie amministrazioni dimostrano che per fare cassa si sta ormai esagerando con la politica di ritardare i pagamenti ai fornitori. Su questa materia, comunque, è veramente indispensabile migliorare la tempestività e la precisione del monitoraggio degli andamenti di cassa, e in particolare migliorare la previsione degli effetti di cassa dei provvedimenti legislativi approvati, come ha più volte sottolineato l'onorevole Cherchi.
Esaminiamo ora il contenuto della manovrina. Risulterà che in gran parte le misure sono una tantum, principalmente anticipazioni di riscossioni di imposte o posticipazioni di spese e pagamenti, e non incidono in alcun modo sui nodi strutturali della spesa pubblica. Le misure di anticipazione della riscossione di imposte sono tre e determinano nel complesso, nel 1997, un afflusso di cassa di 9.920 miliardi. La disposizione di maggiore importanza è quella relativa al TFR (6 mila miliardi nel 1997, pari al 3,89 per cento del TFR), costituita dall'anticipazione della riscossione di una parte dell'IRPEF su tale trattamento. Un ulteriore prelievo sul TFR (ancora il 3,89 per cento), sempre a titolo di riscossione anticipata dell'IRPEF, verrà effettuato nel 1998. A pagare saranno le aziende con più di 14 dipendenti che si troveranno così ad essere pesantemente penalizzate nella propria liquidità, nonostante la possibilità della garanzia INPS per il ricorso sostitutivo al credito bancario. Le aziende hanno fortemente reagito contro questo provvedimento del Governo Prodi, che si aggiunge ai vari altri pesanti provvedimenti recentemente varati ed hanno organizzato a Roma, i primi di aprile, una manifestazione di protesta di massa, forse la prima di tale tipo nella storia della Confindustria. Il Polo è pienamente solidale con questa azione di protesta.
Tale anticipazione di riscossione di imposta è inoltre a nostro avviso anticostituzionale, come abbiamo sostenuto in aula questo pomeriggio, perché comporta un prelievo fiscale antecedente al momento in cui il reddito sottoposto a tassazione diviene effettivamente disponibile all'avente diritto, in palese violazione con il disposto dell'articolo 53 della Costituzione. Un altro anticipo di riscossione di imposta per la rilevante somma di 3 mila miliardi nel 1997 e ulteriori 1.500 miliardi nel 1998, nonché ulteriori 1.500 miliardi nel 1999, è determinato da una norma della manovrina riguardante i concessionari della riscossione tributi. Si tratta di una disposizione senza eguali per funambulismo contabile. Le rilevanti somme sopra indicate vanno versate da parte dei concessionari entro il 15 dicembre, figurando a tutti gli effetti nel bilancio di cassa dell'anno, con un anticipo medio di circa quaranta giorni rispetto all'effettiva esazione. L'aggravio risultante per i concessionari è valutato pari a qualche decina di miliardi; una somma poco superiore all'1 per cento del beneficio registrato dal bilancio di cassa della pubblica amministrazione (quando si dice finanza creativa!). Ovviamente a regime, cioè dopo il 1999, tale effetto positivo sul bilancio di cassa si annullerà. Altri 900 miliardi sono previsti risultare in cassa a fine anno quale effetto dell'introduzione di nuove norme per le imposte sulle successioni e donazioni e per le imposte
ipotecarie e catastali. Si tratta, in buona sostanza, di anticipazioni di riscossioni di imposta dovute all'introduzione di procedure di autoliquidazione.
Le misure della manovrina consistenti in posticipazioni di pagamenti e di spese sono tre, per complessivi 4.300 miliardi nel 1997. Ben 2.600 miliardi sono previsti risultare in cassa nel 1997 per effetto della disposizione che prescrive lo scorrimento di almeno sei mesi, fino ad un massimo di nove mesi, della corresponsione dell'indennità di buonuscita e dei trattamenti di fine servizio per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche che cessano dal servizio (ovviamente con l'esclusione di coloro che si allontanano per raggiunti limiti di età). Riteniamo tale disposizione palesemente ingiusta e abbiamo avanzato al riguardo una pregiudiziale di costituzionalità. Si tratta, comunque, di un posticipo di pagamento dovuto, che avrà effetto solo di cassa e principalmente nel 1997. Ulteriori 1.300 miliardi saranno recuperati in cassa nel 1997 in base alle riduzioni delle autorizzazioni di cassa concesse ai vari ministeri, secondo quanto indicato in un'apposita tabella inserita nella manovrina. Anche questa misura avrà effetti esclusivamente di cassa e limitati al 1997. È infine previsto che risultino in cassa 500 miliardi nel 1997 per effetto della disposizione che riduce a zero l'anticipo per le forniture e gli appalti della pubblica amministrazione, anticipo già ridotto dal 10 al 5 per cento nella finanziaria per il 1997, ossia pochi mesi fa. Mentre il beneficio di cassa a breve dovuto a tale norma appare correttamente valutato, riteniamo invece non corretta l'assunto che l'adozione di tale prassi non comporterà alcun aggravio per la pubblica amministrazione.
Come ha puntualmente osservato il collega Marzano, i provvedimenti della manovrina sin qui esaminati (anticipazioni di riscossioni di imposte e posticipazioni di pagamenti) che producono effetti positivi di cassa per l'anno in corso lo fanno a spese di corrispondenti effetti negativi di cassa negli anni a venire.
Una tantum, oltre alle previsioni sopra citate, è il provvedimento che dispone l'estensione a tutto il 1996 del condono previdenziale (400 miliardi nel 1997). Non è affatto escluso, per inciso, che il regolare susseguirsi, di anno in anno, di tali condoni, ormai altamente prevedibili, finisca per far ritardare e non anticipare l'afflusso di denaro nelle casse dello Stato. Nel complesso i provvedimenti una tantum della manovrina ammontano nel 1997 a 14.620 miliardi, pari ad oltre il 94 per cento del totale di 15.500 miliardi. Siamo decisamente contrari a una tale impostazione di scelte della manovrina e comprendiamo bene l'invito al suo ritiro rivolto dal professor Modigliani al ministro Ciampi.
Quanto alle restanti disposizioni della manovrina, riteniamo che i 500 miliardi di maggiori entrate previste quest'anno per effetto dell'innalzamento delle tariffe postali siano sovrastimati, dato che siamo già quasi a maggio. Temiamo fortemente che il piano straordinario di dismissione dei beni immobiliari degli enti previdenziali, di entità complessiva non inferiore a 3 mila miliardi, previsto dall'articolo 7, si risolva in una sorta di vendita forzata da effettuare in tempi ristretti, che produrrà da un lato una grave perturbativa del mercato immobiliare, da anni in fase delicata, e dall'altro una grossa perdita per l'erario e per gli enti previdenziali coinvolti.
Sorge spontanea a questo punto una domanda: come potremo continuare a garantire il conseguimento quest'anno del fondamentale obiettivo del 3 per cento per il rapporto deficit-PIL se qualcosa andasse storta, ad esempio se lo sviluppo del PIL risultasse quest'anno inferiore all'1,2 per cento o se invece una delle voci di entrata della manovrina fosse stata sovrastimata o se ancora si verificasse nella seconda parte dell'anno un aumento invece che una diminuzione dei tassi di interesse? Non ci sarebbero alternative: occorrerebbe procedere ad un'ulteriore manovra, una manovra particolarmente difficile, perché dovrebbe produrre effetti di cassa quest'anno. Il Governo si è già affrettato
ad escludere tassativamente questa nuova manovra eventuale, ma sappiamo quanto valgano queste assicurazioni.
Ci poniamo anche una seconda domanda: come risponderebbe il Governo Prodi se gli esaminatori per l'ammissione all'UME contestassero il carattere di una tantum non solo della manovrina ma anche del 61 per cento dei 100 mila miliardi di misure finanziarie decise dal Governo stesso in quest'anno di attività, come sostiene la Confindustria? Non sarebbe - credo - facilissimo al ministro Ciampi risultare convincente con la sua teoria della manovrina come manovra di raccordo, manovra-ponte per pervenire bene al 1998, anno in cui dovrebbero iniziare ad avere pieno effetto i benefici strutturali sul bilancio delle riforme fiscali, della riforma della pubblica amministrazione, delle altre importanti riforme ormai varate, nonché naturalmente - come ha ricordato questa sera l'onorevole Chiamparini - i benefici della riduzione dei tassi d'interesse.
Per finire, un'osservazione. Il caso ha voluto che il Governo Prodi si sia trovato davanti, all'inizio della legislatura, quando è massima la libertà d'azione di ogni Governo, un difficile ma non impossibile grande obiettivo, l'entrata nell'Unione monetaria europea, pienamente condiviso anche dalle forze di opposizione. In politica questa è una situazione rara e oltremodo favorevole per chi ha la responsabilità dell'esecutivo. Fino al momento della verifica di convergenza e cioè fino al maggio 1998, le variegate forze politiche che sostengono Prodi avranno una particolare riluttanza ad aprire una crisi, nel timore di produrre un indebolimento della posizione italiana nei riguardi dell'entrata nell'Unione monetaria europea e successivamente al maggio 1998, nell'eventualità dell'entrata dell'Italia nell'Unione monetaria, che noi ci auguriamo e ci ostiniamo a ritenere più probabile, Prodi avrà nelle sue vele il vento favorevole del successo. La grande operazione di manipolazione comunicazionale volta a far attribuire al Governo Prodi tutto il merito di tale auspicata ammissione è già iniziata.
La verità è invece che il Governo Prodi con la sua politica economica centrata sull'aumento dell'imposizione fiscale, con la sua esitazione nell'incidere sulle cause strutturali dell'eccesso della spesa pubblica, in particolare con il suo perdurante rifiuto ad affrontare i nodi della spesa previdenziale e sociale, rischia di farci perdere davvero il treno per l'Unione monetaria e comunque ne rende più pesante l'onere presente e futuro per i nostri cittadini.
Allora, durante la conversione della manovra, i rilievi del Polo vennero ignorati e si approvò un provvedimento economico basato su tasse e su interventi congiunturali e non strutturali.
Oggi ci troviamo ad esaminare un nuovo decreto che si propone di ridurre il deficit di altri 15.500 miliardi, ed ancora il Governo fa ricorso ad interventi basati sull'aumento delle tasse, sull'anticipo di imposte, sul rinvio di spese senza pensare peraltro a tagli definitivi; si prevedono ancora condoni in spregio alle promesse e alle assicurazioni fatte dai ministri. È un provvedimento che parte della maggioranza non ha condiviso, come dimostra il voto sfavorevole della Commissione bilancio (voto politicamente assai significativo).
A causa della politica economica del Governo già nel 1997 la pressione fiscale italiana supererà, in base ai provvedimenti già decisi, il 43,5 per cento del prodotto interno lordo. Tale livello di pressione
fiscale incide fortemente sulla vitalità del paese; si trasferiscono risorse dal sistema produttivo allo Stato, si sottraggono fondi alla produzione e allo sviluppo per destinarli a scopi assistenziali e per mantenere vecchi e nuovi privilegi.
La manovra varata dal Governo Prodi è un modo per rimandare le vere riforme, per non affrontare le contraddizioni di una coalizione che al suo interno è fortemente divisa su molti aspetti. Il vero nodo da sciogliere resta una profonda e completa riforma dello Stato sociale con l'eliminazione di tutte le sacche di assistenzialismo, una riforma che deve avere come obiettivo primario una rivisitazione della spesa pubblica, e tale riforma non è più rinviabile.
Per l'Italia il problema non è infatti solo quello di raggiungere il 3 per cento del rapporto tra deficit e prodotto interno lordo, ma come mantenerlo nei prossimi anni. Ciò non sarà possibile senza un programma di ampio respiro, di ristrutturazione del sistema previdenziale e della spesa pubblica. Non dobbiamo poi trascurare il fatto che tra gli impegni assunti dall'Italia in sede di Comunità europea vi è anche quello del rispetto della clausola di mantenimento dei parametri.
Ebbene, le previsioni economiche della Commissione europea (Commissione che di fatto ha bocciato il Governo Prodi) scaturiscono proprio da una approvazione della politica economica italiana basata su misure una tantum e non su provvedimenti strutturali.
Il rapporto PIL-deficit, che nel 1998 salirà secondo le previsioni al 3,9 per cento, dimostra l'inadeguatezza della politica seguita dal Governo; nel 1998 saremo addirittura dopo la Grecia, il cui deficit tra il 1997 e il 1998 scenderà dal 4,9 al 3,4 per cento. Occorrono quindi meno tasse, una migliore qualità della spesa pubblica, le riforme delle pensioni, della sanità e del mercato del lavoro.
Nel merito della manovra in discussione diverse sono le critiche che possono muoversi al provvedimento; critiche che anche illustri economisti (tra cui un premio Nobel e molti anche dell'area di sinistra) hanno sollevato.
È certamente criticabile l'intervento sul TFR di cui all'articolo 2. Esso ha suscitato tantissime polemiche nell'opinione pubblica, nel mondo del lavoro e all'interno della maggioranza. Guardando il contenuto del decreto si osserva che oltre la metà della riduzione del deficit deriva da misure di facciata, inclusa quella del prelievo sul trattamento di fine rapporto.
L'anticipo d'imposta sul TFR é in realtà un prestito bancario intermediato dalle imprese e che si vuol far passare come un'entrata fiscale ordinaria. Fondamentalmente tale provvedimento è una partita di giro, che ha lo stesso effetto di un indebitamento diretto, eccetto che il fisco risparmia gli interessi sul debito accollando così alle imprese diversi miliardi che in effetti, per il sistema produttivo, rappresentano una tassa. È un pessimo strumento, perché di tale ingiustificata tassa il Governo percepisce solo una parte, andando la restante parte a coprire i non trascurabili costi amministrativi dell'operazione e a sussidiare le banche che prevedibilmente faranno pagare alle imprese un tasso più alto di quello che pagherebbe il Governo.
La norma sul TFR presenta inoltre rilievi di anticostituzionalità, che sono già stati ricordati dai colleghi intervenuti oggi pomeriggio. In primo luogo l'imposta sul TFR grava sul reddito futuro del lavoratore (reddito che matura solo all'atto della cessazione del rapporto di lavoro), in violazione dunque del principio della tassazione in base alla capacità contributiva; capacità che al momento del pagamento dell'acconto ancora non esiste.
In secondo luogo il provvedimento prevede un anticipo di entrate che fa crescere, di conseguenza, i disavanzi a carico dei futuri bilanci dello Stato; in questo modo viene violata la lettera dell'articolo 81 della Costituzione.
Da non trascurare è poi il fatto che gli acconti versati andranno rivalutati secondo i criteri dell'articolo 2120, comma quarto, del codice civile, e costituiranno
un credito d'imposta. Ma nel decreto si è dimenticato che la rivalutazione, da un punto di vista contabile, potrebbe intendersi o come plusvalenza da iscriversi a bilancio o come interesse di natura compensativa da iscriversi tra i componenti positivi dell'impresa. In entrambi i casi la rivalutazione sarà imponibile ai fini delle imposte dirette, creando quindi un ulteriore aggravio per le imprese.
Non poche perplessità solleva anche l'articolo 3, nella parte in cui dispone in ordine al trattamento di fine servizio dei dipendenti pubblici. Stabilire che detto trattamento, di fatto, sarà corrisposto dopo nove mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro e che sulla somma dovuta non decorrono gli interessi ci appare ingiusto: si viene a creare una disparità di trattamento tra dipendente pubblico e dipendente privato, così come si viene a creare una disparità tra datore di lavoro privato, che paga subito, e datore di lavoro pubblico, che invece paga con ritardo, il tutto in contrasto anche con i principi basilari della nostra Carta costituzionale.
Infatti l'amministrazione pubblica pagherà, in base alla nuova normativa, decorsi sei mesi dalla cessazione del rapporto e per i successivi tre mesi, durante i quali dovrebbe provvedere alla liquidazione, non corrisponderà neanche gli interessi legali. Stabiliamo così, con legge dello Stato, un principio ingiusto e cioè che lo Stato debitore non paga interessi e si concede proroghe temporali per assolvere le proprie obbligazioni a danno del creditore.
Non dobbiamo, nell'esaminare questo articolo, dimenticare la natura del trattamento di fine servizio: esso ha la funzione e la natura di retribuzione, non soltanto in senso economico, poiché è un corrispettivo differito del vantaggio che l'amministrazione trae dal lavoro del prestatore, ma anche in senso giuridico. L'amministrazione infatti è obbligata, oltre che alla retribuzione periodica, anche alla corresponsione del trattamento di fine servizio in conseguenza della prestazione di lavoro effettuata e l'obbligazione al pagamento di detto trattamento è quindi un elemento della causa del contratto di lavoro e nasce con il contratto di lavoro stesso. È un'obbligazione che il datore di lavoro assume nel momento in cui il contratto si perfeziona e che deve adempiere all'atto della cessazione del rapporto di lavoro.
Con le disposizioni introdotte dal Governo, quindi, si incide su un diritto già acquisito, ritardandone senza corrispettivo il pagamento, perché il trattamento di fine servizio non è altro, come dicevo, che una retribuzione differita o, se preferite, un cumulo di parte della retribuzione.
Per quanto detto, tale trattamento spetta subito al lavoratore: con la cessazione del rapporto il credito del lavoratore deve considerarsi immediatamente liquido ed esigibile. Si tratta di soldi dei lavoratori che lo Stato, con la norma introdotta, utilizzerà senza corrispondere interessi. Si tratta quindi di un prestito forzoso e gratuito.
L'articolo in questione introduce un pericoloso principio: lo Stato può, a sua discrezione, rinviare i debiti certi ed anticipare i crediti secondo le sue esigenze o secondo le sue utilità.
Altre critiche si possono muovere all'articolo 3, anche dal punto di vista del tenore letterale, e quindi della chiarezza. Si pensi, ad esempio, alle polemiche suscitate dall'interpretazione del comma 3 dell'articolo 3, una disposizione transitoria ove non viene indicato il momento iniziale di applicazione della norma, ma solo la data finale.
Una interpretazione letterale dello stesso, a causa di questa omissione, andrebbe ad incidere sui diritti acquisiti da molti pensionati e penalizzerebbe anche tutti coloro i quali hanno lasciato il lavoro ben prima del 29 marzo 1997, ma che per inefficienza della macchina statale non hanno ancora ricevuto il mandato di pagamento per la riscossione del trattamento di fine servizio.
A fronte delle fortissime polemiche sollevate e della sospensione operata dall'INPDAP dei pagamenti in corso, il Governo è dovuto intervenire correggendo il
tiro ed indicando come data di inizio del provvedimento il 29 marzo 1997, ma questo chiarimento è avvenuto non con un atto formale e quindi il decreto andrebbe in questo senso emendato.
Del resto, la situazione è emblematica della poca capacità di produrre una normativa chiara, di facile interpretazione. Così si incrina un fondamentale rapporto di fiducia tra cittadini e Stato, perché si introducono norme vessatorie che non fanno altro che aumentare la disaffezione nei confronti dello Stato.
È certamente criticabile l'articolo 11 che tratta delle disposizioni in materia di imposte sulle successioni e contiene modifiche aventi tutte come fine quello di incidere sulla disciplina tributaria delle imposte di successione.
Di fatto la nuova normativa finisce con l'aggravare il peso delle imposte di successione, aumenta gli oneri e gli adempimenti cui sono tenuti gli eredi contribuenti.
Solo per inciso rilevo che ciò conferma ancora una volta l'incoerenza del Governo: nel programma elettorale dell'Ulivo, infatti, si parlava di soppressione dell'imposta di successione, ed in effetti si tratta di un'imposta vecchia, ottocentesca, che andrebbe eliminata; il Governo, invece, ne modifica la disciplina, aggravandola, ne aggrava il peso fiscale ed aumenta gli adempimenti ad essa connessi, ai quali sono sottoposti gli eredi, già colpiti da un evento triste.
Nella relazione che accompagna il decreto si prevedono maggiori entrate grazie all'autoliquidazione delle imposte ipotecarie e catastali anche per le successioni già aperte alla data di entrata in vigore del decreto ma non ancora liquidate; si dimentica, però, che le maggiori entrate previste per il 1997 in 920 miliardi sono costituite in parte da crediti già maturati a favore dello Stato, da entrate che lo Stato potrebbe già percepire mercé l'invio di un avviso di liquidazione ai contribuenti e che lo Stato avrebbe comunque percepito negli anni successivi a seguito della liquidazione ordinaria delle imposte. Si creerà comunque, quindi, un disavanzo nei bilanci futuri. Per le dichiarazioni già presentate, infatti, l'autoliquidazione non è altro che un ricevere in anticipo gettito che però mancherà in seguito.
Così, a fronte di un gettito a legislazione vigente, quindi prima del decreto, stimato per il 1997 in 1.145 miliardi, con una previsione di 445 mila dichiarazioni produttive di incasso, con il decreto, considerando anche le dichiarazioni non ancora liquidate, si passa ad una previsione di gettito di 2.065 miliardi, con una previsione di 791.400 dichiarazioni produttive di gettito; si omette però di dire che 336.400 dichiarazioni non sono tutte nuove dichiarazioni, poiché molte sono giacenti presso gli uffici e attendono solo la liquidazione (liquidazione che non avverrà, per cui mancheranno gli incassi negli anni successivi, con tutte le conseguenze negative che ne deriveranno).
Né può parlarsi di aumento della capacità produttiva degli uffici, giacché si dimentica che gli uffici dovranno provvedere comunque alla verifica di congruità dei prospetti di liquidazione già ricevuti e a tutti gli altri adempimenti connessi con la liquidazione delle imposte di successione. Di fatto, quindi, ad un maggior peso in termini di adempimenti per il contribuente, non sempre capace di autoliquidarsi l'imposta e che pertanto dovrà fare ricorso a tecnici con ulteriori aggravi di spesa, non corrisponderà una riduzione di lavoro per gli uffici.
Ma l'articolo 11 è criticabile anche per altri versi: si è pensato ad un'imposta sostitutiva di quella sull'incremento di valore degli immobili, che il testo chiama ancora comunale ma che ormai dal 1 gennaio 1993 è acquisita al bilancio dello Stato. L'imposta sostitutiva è pari all'1 per cento del valore complessivo degli immobili alla data di apertura della successione, ma detta imposta non è più detraibile al contrario di quella che sostituisce e, pur essendo sostitutiva di altra imposta, si calcola non sull'incremento di valore, quindi sulla differenza fra il valore finale e quello iniziale di acquisto (come quella che si sostituisce), ma sul valore globale dell'immobile. Ed ancora, mentre l'INVIM
veniva calcolata sul valore dei beni al 31 dicembre 1992, la nuova imposta viene calcolata sul valore dei beni al momento di apertura della successione: oggi, a seguito della rivalutazione delle rendite catastali, i due valori ovviamente non coincidono.
Si introduce quindi un'imposta sostitutiva di altra imposta, ma con diversa base imponibile e con un termine per il calcolo della stessa diverso da quello previsto per l'imposta fondamentale. Più logico sarebbe stato concedere al contribuente una facoltà di scelta e quindi, ferma restando l'INVIM come imposta principale, prevedere in alternativa un'imposta forfettaria pari all'1 per cento, così da concedere all'erede la facoltà di optare fra il pagamento dell'INVIM nel modo consueto, spesso complesso ed articolato anche se a volte neutro grazie alla detrazione, e un metodo forfettario.
L'articolo non chiarisce, poi, se le esenzioni e le riduzioni previste in tema di INVIM dall'articolo 25 del decreto del Presidente della Repubblica n.643 del 1962 sugli acquisti mortis causa si applichino anche alla nuova imposta sostitutiva dell'INVIM: in proposito pensiamo fra l'altro all'immobile acquistato per causa di morte da enti pubblici e da privati quando l'istituzione di erede ha come scopo specifico quello dell'assistenza, dell'educazione, dell'istruzione, alla successione fra padre e figlio coltivatori diretti nell'ambito della stessa famiglia coltivatrice diretta, alle riduzioni previste in caso di immobili trasferiti in linea retta o a favore del coniuge in presenza di immobili vincolati per interesse storico, artistico, archeologico.
Così già stanno nascendo motivi di incertezza nei contribuenti e negli stessi uffici finanziari. Andrebbe quindi chiarito con un intervento legislativo che la nuova imposta, definita sostitutiva dell'INVIM, è dovuta solo se sussistono i presupposti di applicabilità di questa e che ad essa si applicano le riduzioni già stabilite per particolari qualità o degli oggetti del trasferimento o dei soggetti passivi di imposta.
Va altresì chiarito nell'articolo chi è il soggetto tenuto alla trascrizione del certificato di successione giacché, nel modificare il comma 3 dell'articolo 6 del decreto legislativo n.346 del 1990, si è omesso di indicare il soggetto obbligato a chiedere la trascrizione, come appariva nel testo precedente. Il primo comma dell'articolo 5 del testo unico in materia ipotecaria e catastale stabilisce la competenza dell'ufficio del registro per la compilazione del certificato di successione, ma le incertezze nascono per la presenza del quinto comma dell'articolo 11 del decreto-legge in esame, dove si legge che la trascrizione in parola deve essere richiesta dall'ufficio del registro per le dichiarazioni di successione già presentate alla data di entrata in vigore del decreto, mentre nulla dice per le altre.
Quindi è legittima l'incertezza sull'identificazione del soggetto tenuto alla trascrizione per le successioni apertesi a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto.
Ancora non ci convince l'abrogazione dell'articolo 26, primo comma, lettera a), del decreto legislativo n.346 del 1990, che prevedeva la detraibilità dell'imposta sull'incremento di valore degli immobili dall'imposta di successione.
La non detraibilità dell'imposta sostitutiva è già prevista dal terzo comma dell'articolo 11; non era quindi necessario modificare l'articolo 26 che, invece, occorrerebbe conservare nella sua completa stesura.
Invero, le disposizioni dell'articolo 11 si applicheranno solo alle successioni apertesi a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto, nonché a quelle per le quali pendeva, da tale data, il termine di presentazione della dichiarazione di successione. Quindi per le successioni apertesi prima di tale data, già presentate agli uffici ma non ancora liquidate, come per tutte le successioni apertesi prima di tale data per le quali è scaduto il termine di presentazione ma per le quali gli eredi non hanno ottemperato all'obbligo di presentazione, dovrà applicarsi la vecchia normativa. Ciò dimostra che la disposizione
contenuta nell'articolo 26, lettera a), non può essere abrogata. Inoltre, con la soppressione si crea un vuoto in tema di donazioni. Invero le detrazioni previste nell'articolo 26 risultano richiamate per le donazioni all'articolo 56 del testo unico n.346 del 1990. Ciò crea una situazione di incertezza che potrebbe anche far pensare che con tale provvedimento si sia inteso rendere indetraibile l'INVIM dall'imposta di donazione. Questa circostanza è però sicuramente ingiustificata da un punto di vista legislativo: l'articolo 11 si occupa della normativa relativa alle successioni e quindi appare illogico ottenere l'effetto di rendere, attraverso questa, non più detraibile l'imposta INVIM per il calcolo delle imposte sulle donazioni. Certamente è da ravvisarsi un difetto di coordinamento non rilevato da chi ha predisposto il decreto. Diversamente si dovrebbe ritenere che si sta cercando surrettiziamente di introdurre la indetraibilità dell'INVIM aumentando considerevolmente ed ingiustificatamente il peso fiscale su un trasferimento di immobili, come quello della donazione, che è normalmente un negozio finalizzato a trasmettere beni nell'ambito familiare quale anticipo di future successioni.
Qualche perplessità, anche di natura costituzionale, solleva la disparità di trattamento, prevista dal quarto comma dell'articolo 11, tra le dichiarazioni di successione registrate e quelle non registrate, ma nei termini previsti per la presentazione. È una disparità di trattamento che va ad incidere sia sull'ammontare dell'imposta sia sul termine per il pagamento; è una disparità irragionevole, considerando che la stessa fattispecie impositiva (per esempio, evento morte verificatosi nel 1997) non può dar luogo a trattamenti tributari diversi.
Prevedere infine un'efficacia retroattiva del decreto e probabilmente imporre l'autoliquidazione anche per le successioni già presentate all'ufficio ci appare non corretto e non in linea con quanto previsto nello statuto del contribuente. Penalizzare i cittadini che hanno già adempiuto a tutti i loro obblighi presentando la dichiarazione nei termini e che sono rimasti in attesa della notifica dell'avviso di liquidazione, significa non avere rispetto del contribuente ed esporlo inutilmente al rischio di sanzioni. Molti di questi cittadini, dopo avere presentato nei termini la denunzia di successione, sono in attesa dell'avviso di liquidazione per effettuare il pagamento, perché così a loro è stato comunicato dall'ufficio a ciò preposto. Ora, chi li informerà del contrario?
Il sottosegretario Vigevani in Commissione finanze ha assicurato che gli uffici provvederanno ad informare i contribuenti. Ma questa assicurazione va trasformata in un obbligo per l'ufficio, non dimenticando che ad oggi non è ancora possibile effettuare il versamento perché non sono stati ancora approvati i modelli necessari per procedere agli stessi pagamenti.
Per tutti i motivi sopra esposti, giudichiamo certamente criticabile l'intero provvedimento, nei confronti del quale dobbiamo quindi esprimere un parere negativo.
Ci auguriamo che il Governo e la maggioranza che lo sostiene questa volta non siano sordi ai suggerimenti che l'opposizione con gli emendamenti propone.
Ci auguriamo inoltre che il Governo non blindi ancora una volta i suoi provvedimenti in materia fiscale ponendo - come si paventa - la questione di fiducia, ma che accetti democraticamente il confronto parlamentare in aula.
Ci auguriamo altresì che il Presidente Prodi capisca finalmente che non è più il tempo di una politica economica basata su aumenti di tasse, su trucchi ed artifici contabili, su imposte una tantum.
Ci auguriamo infine che in materia fiscale si comprenda che non è più tempo per manovre e manovrine: deve cominciare il tempo delle riforme per il risanamento finanziario del nostro paese (Applausi dei deputati del gruppo di alleanza nazionale).
È iscritto a parlare l'onorevole Lo Presti. Ne ha facoltà.
Basta scorrere i titoli dei giornali di questa lunga settimana di stand by parlamentare per verificare come il giudizio su quanto è stato fin qui fatto dal Governo Prodi e dalla sua maggioranza sia, per così dire, troncante. Il verdetto dei commissari dell'Unione europea sul disavanzo pubblico italiano è un atto di accusa impietoso ad una politica che non ha affrontato e reciso le radici strutturali del dissesto della finanza pubblica e che si è preoccupata solo di scaricare «a mitraglia» sul popolo italiano, e sulle imprese in particolare, tasse a non finire, presentando all'opinione pubblica come interventi virtuosi e permanenti operazioni di alchimia contabile assolutamente transitorie.
Quasi tutte le operazioni di riduzione del deficit sono state compiute sul lato delle entrate anziché sul lato delle spese; e ciò a partire dal decreto-legge n.326 del 1996! Da allora la finanziaria prima, la manovra di completamento poi e tutti gli aggiustamenti sparsi qua e là in decine di provvedimenti hanno seguito la stessa strada, fino ad arrivare a quest'ultimo capolavoro di deficienza contabile, che però ha avuto il merito di svegliare finalmente alcuni sonnambuli della stessa maggioranza. Una maggioranza che non è riuscita a difendere in Commissione bilancio il decreto-legge n.79 del 1997, sferrando al Governo dell'Ulivo un altro inesorabile «KO»!
Il Presidente del Consiglio che cosa fa? Anziché prendere atto con dignità e responsabilità politica del fallimento della sua azione di Governo, della fine miserevole di un'utopia che purtroppo ha ingannato gli italiani in campagna elettorale e conseguentemente adottare l'unica scelta possibile, cioè quella di togliere il disturbo e di tornare ai suoi studi economici e sullo spiritismo, come un pugile suonato continua ad incassare i colpi dalla sua stessa maggioranza, offrendo agli italiani uno spettacolo indecoroso che mortifica la dignità di un'intera nazione.
Onorevole Prodi, farebbe bene, non già lei, perché non ha più la capacità di intendere realmente quello che sta accadendo nel paese, ma il suo secondo, quello che sta ai bordi del ring, il Presidente Scàlfaro, a gettare la spugna per mettere fine a questa agonia che avvilisce il paese e che lo allontana sempre più non soltanto dall'Europa ma anche dal novero delle nazioni più industrializzate e moderne dell'intero pianeta.
Onorevoli colleghi, mentre parlo ho netta la sensazione di partecipare ad uno stanco rito, vuoi perché i presenti sono così pochi, a conferma che le discussioni a poco, anzi a nulla servono, essendo tutto già stabilito e preordinato, vuoi perché, nonostante tutto quello che è accaduto in questi giorni, su questo provvedimento non influirà né il dibattito esterno che ha prodotto i giudizi negativi unanimi di cui ho già riferito, né quello parlamentare, perché questa maggioranza, la vostra maggioranza, ha fatto del potere non già lo strumento della politica intesa come servizio per rendere benefici ai cittadini, ma un fine cui tendere comunque e ad ogni costo pur di rimanere in sella e comandare.
Ecco perché affermo che in questo momento si sta svolgendo un rito, o meglio una farsa, complici quelle formazioni politiche della maggioranza che, pur avendo manifestato in modo eclatante il
dissenso verso questa manovra in Commissione bilancio, sono pronte a dare fiducia al Governo, in nome di quella solidarietà di clan che negli anni allegri della prima Repubblica ha prodotto solo clientele, sperperi, debiti e un deficit che forse ci trascineremo in eterno, sicuramente per i prossimi dieci anni, se è vero come è vero - e richiamo la relazione tecnica che accompagna il disegno di legge di conversione del decreto-legge n.79 - che il maggior gettito per il versamento delle ritenute anticipate sul TFR per gli anni 1997, 1998 e 1999 verrà vanificato da minori entrate a decorrere dal 2000, per effetto dell'utilizzo del credito d'imposta da parte delle imprese che fino al 1999 verseranno gli anticipi disposti.
E questa non è una situazione paradossale? È forse esagerato od eufemistico definire irresponsabile un Governo che per tre anni, in un momento difficile in cui la domanda esterna ed interna si prevede assai debole, impone alle imprese un ulteriore sacrificio per poi vanificarlo a partire dal 2000, quando secondo le stime il recupero di imposta sul TFR produrrà minori entrate da un minimo di 1.185 miliardi per il 2000 fino ad un massimo 1.813 miliardi per il 2009? Ma forse è tutto calcolato. A partire dal 2000, è questa la speranza del Governo, non ci saranno più imprese che chiederanno il recupero di imposta, perché probabilmente nel frattempo saranno tutte fallite.
Ed allora, colleghi della maggioranza, potete prendere in giro voi stessi e nascondere la testa sotto la sabbia come gli struzzi, ma non potete rovinare una nazione e non potete prendere in giro i nostri partner europei che vi hanno colto con le mani nel sacco, accorgendosi finalmente e denunciando i trucchi che da mesi alleanza nazionale e il Polo per le libertà hanno smascherato, offrendovi anche, per il bene della nazione, la possibilità di entrare in Europa sol che, in un soprassalto di onestà intellettuale e politica, aveste rifiutato il ricatto di rifondazione comunista.
Il Polo per le libertà e alleanza nazionale non gioiscono di certo per la situazione che si è venuta a determinare per colpa vostra e che ci allontana dall'Europa, dalla moneta unica e dal plotone di testa dei paesi fondatori della CECA e della CEE. Non gioiamo perché, al contrario di questo Governo e della maggioranza «brancaleonica» che lo sostiene, abbiamo forte il senso dello Stato e della nazione, amiamo il nostro paese, abbiamo un profondo rispetto per chi lavora e vogliamo che i nostri giovani possano crescere e lavorare in una nazione libera, in un'Europa libera economicamente, culturalmente e socialmente. Con questo spirito, con questa volontà vi intimiamo, anzi il popolo italiano vi intima di andarvene. Raccogliete le «pezze» del vostro fallimento e per il bene della nazione passate la mano: lo vuole l'Europa delle nazioni libere, lo vuole il popolo italiano che ha sancito in modo solare nelle amministrative di ieri la vostra sconfitta. Non ci sarà più, onorevole Prodi, un'altra Albania (Applausi dei deputati del gruppo di alleanza nazionale)!
È iscritto a parlare l'onorevole Frau. Ne ha facoltà.
Improvvisamente ci accorgiamo che mancano 15.500 miliardi, come se nessuno l'avesse mai detto in occasione dell'approvazione della legge finanziaria, come se il Governo non ne fosse a conoscenza, come se non mancassero già da prima questi 15.500 miliardi (e solo perché accetto la versione governativa), considerato che in un'altra occasione si è passati da 32 mila a 64 mila miliardi nel giro di poco tempo (pochi giorni o addirittura
poche ore). Si sapeva che sarebbero mancati questi soldi; si sapeva che questo buco sarebbe venuto alla luce, per cui ad un certo punto si è ipotizzato che bisognasse giungere ad una manovra correttiva. Ma correttiva di che cosa? Ebbene, di un provvedimento che si sapeva essere sbagliato nella sua natura ma anche nelle sue previsioni.
La manovra finanziaria era caratterizzata dall'improbabilità, dal fatto che i provvedimenti in essa contenuti fossero del tutto transitori e non lasciassero traccia, quindi di scarsa utilità. Pertanto non vi è da meravigliarsi se di fronte a tali problemi l'aula sia vuota; in realtà credo sia la mancanza di qualunque tipo di sorpresa a motivare tali negligenze, anche se ovviamente non è l'unica ragione.
Il Governo presenta una manovra correttiva per una «correzione» già scontata, come dicevo, che ha anch'essa la caratteristica di provvedimento quasi inutile. Dico «quasi» perché forse, oltre ad essere parzialmente inutile, potrebbe essere parzialmente dannosa.
Siamo di fronte ad un provvedimento che sembra la contraddizione di tutto ciò che è stato affermato durante la campagna elettorale da parte della maggioranza; sembra la contraddizione delle stesse
volontà programmatiche inizialmente espresse. Esso comincia ad incidere dopo che è stato quasi raschiato il fondo del barile con misure (potremmo elencarle una per una) che - com'è stato affermato in precedenza da illustri colleghi - presentano caratteristiche simili a quelle della legge finanziaria: non correggono molto, ma incidono assai; e colpiscono le aziende, le famiglie e le realtà produttive del paese attraverso un meccanismo che non ci sembra particolarmente nuovo o intelligente, salvo che per alcuni aspetti di novità. Mi riferisco per esempio all'anticipo dell'imposta sul trattamento di fine rapporto; al differimento delle liquidazioni dei dipendenti iscritti alle gestioni ENPAS, INADEL e via dicendo; all'estensione a tutto il 1996 del periodo di riferimento per il condono previdenziale; o ancora all'azzeramento dell'anticipo del 5 per cento sugli appalti. Le nostre aziende ed in generale l'attività economica del nostro paese hanno proprio bisogno di questo tipo di interventi; vi è proprio un bisogno estremo di far sì che l'economia vada del tutto al diavolo dopo essere stata così adeguatamente maltrattata.
Anche le riduzioni e le autorizzazioni di cassa dei ministeri, il part-time dei dipendenti pubblici, eccetera, altro non sono se non ipotesi di lavoro, giacché in realtà noi non vedremo realizzato nulla di tutto questo. Certamente non assisteremo ad altro se non al rinvio delle spese e all'anticipazione delle imposte (vedremo poi in che modo), tutto ciò con un grave danno per il sistema della spesa pubblica e per lo Stato oltre che per le aziende e per l'economia privata.
Tralascio le questioni di incostituzionalità, che sono state già illustrate; tuttavia ritengo debba essere osservato che al Governo era stata data dall'onorevole Sanza l'opportunità di salvare la faccia, di ritirare il provvedimento magari con la scusa di qualche aspetto di incostituzionalità, che per la verità esiste. In tal modo si sarebbe potuto giustificare più adeguatamente, in una successiva manovra finanziaria, una presa di posizione politicamente ed economicamente più saggia.
Quali garanzie di certezze per il sistema economico, quali interventi stabiliti una volta per tutte vi sono, però, da parte di questo Governo? Vi sono interventi continui di tipo fiscale, finanziario e normativo? Ogni tre mesi esiste un nuovo meccanismo e, quindi, non vi è certezza da parte degli imprenditori, né degli uomini della finanza, né di nessuno.
Questo provvedimento, obiettivamente, sa di architettura contabile, è più formale che sostanziale e non a caso la Comunità europea e la Commissione lo hanno bocciato, non certo per quella differenza tra il 3 ed il 3 virgola qualcosa per cento, ma perché questa situazione dà chiara la dimensione, la misura di uno scollegamento tra il nostro esecutivo e gli altri governi delle Comunità europee, di un bilancio che non è corrispondente alla realtà del paese, di una politica economica
e finanziaria che non ci può portare lontano, visto che è del tutto congiunturale e che si può smentire da un mese all'altro o, comunque, da un semestre all'altro.
Quando il Governo sostiene che tutto questo è essenziale per l'adesione al trattato di Maastricht mi viene in mente un episodio strano. Sarebbe come se vedessimo un'impresa, che a un certo punto non sa come affrontare e come motivare il fatto che va molto male, correggere il proprio bilancio ed il proprio deficit e motivare ciò con il fatto che deve iscriversi alla associazione industriali.
Quello del bilancio è un problema nostro prima ancora che un problema di rapporto con le Comunità europee e con la moneta unica; è il problema di uno Stato che ormai sta per affondare sotto i suoi stessi debiti e non riesce ad avere un minimo di forza e di dignità, anche politica, per affrontarli in modo tale da superare la legittima diffidenza degli altri partner europei, ma soprattutto dei cittadini italiani, i quali non trovano in questo Governo un punto di riferimento, quanto meno per le poche certezze che potrebbe dare.
Tra errori di previsione, di valutazione e di quantificazione, improvvisamente si scopre che ci mancano 15-16 mila miliardi per andare alla moneta unica e si contestano, anche dalla fonte autorevole del Presidente della Repubblica, presunte valutazioni ragionieristiche. Non credo che siano ragionieristiche le motivazioni fornite dalle Comunità europee, ma ritengo che esse corrispondano ad un giudizio di tipo politico prima ancora che economico, verso un Governo che da un lato aiuta la FIAT ed il settore dell'automobile in modo che possa fare ulteriori investimenti e differenziarsi ancora di più scordando i propri passivi e, dall'altro lato, dimentica la piccola e media impresa, lasciandola a trattare con questi provvedimenti di tipo fiscale e con queste anticipazioni di imposta, dopo averlo già fatto con il precedente provvedimento.
Dove sono tutti i programmi di cui si è parlato, sopra il pullman e giù dal pullman, sulla Lambretta e giù dalla Lambretta, da parte di questo Governo e del suo Presidente per risanare la nostra economia? Sono solo cose dette in campagna elettorale o sono qualcosa di più ed allora meritano qualche altro tipo di approfondimento? Quando e come potremo affrontare i problemi reali di questo paese, di questo Stato sociale od assistenziale, i problemi della previdenza e dell'assistenza? Continuiamo a dilazionare questo problema e, probabilmente, dovremo affrontarlo con ulteriori manovre e sacrifici.
Resta però il nodo politico. Potrà questo Governo passare agli ostacoli un po' più rilevanti, che non siano quelli di una manovra di 15 mila miliardi, su cui si ricompatta una maggioranza pressoché inesistente, che ha addirittura bocciato questo stesso provvedimento in Commissione bilancio?
Il nodo politico è la natura di questo Governo, il suo modo di essere. Non si tratta più di un Governo tecnico come quello di Amato, di Ciampi od anche di Dini, posto che vi siano Governi esclusivamente tecnici; è un Governo politico, che nasce dalle elezioni e dalle alleanze post-elettorali, nasce dal patto con rifondazione comunista, patto elettorale e preelettorale per la desistenza, patto non elettorale e, quindi, da questo punto di vista non patto per il comportamento da tenere durante il periodo di governo.
Le contraddizioni nella maggioranza, da una parte e dall'altra, rendono impossibile e quindi non credibile questo come ogni altro tipo di provvedimento; non credibile perché innanzitutto non è detto che vi saranno le forze per portarlo avanti. Ma indipendentemente da questo (anche ammettendo la sua approvazione con il ricorso alla solita fiducia settimanale o quindicinale che il Governo ci chiede) quello al nostro esame è un provvedimento esemplare dell'attuale situazione; una situazione il cui intreccio è politico e non è districabile facilmente, visto che i problemi economici, i problemi finanziari, i problemi della moneta unica si intrecciano appunto in un viluppo con
i problemi non risolti e forse non risolvibili, quanto meno da questo Governo, della riforma dello Stato sociale e delle stesse riforme istituzionali. Si tratta di un intreccio insolubile per le contraddizioni interne, e non solo per quelle legate al rapporto con rifondazione comunista; vi sono infatti anche quelle collegate con le altre componenti, le componenti che hanno votato contro questo provvedimento in Commissione bilancio e che si alternano a quella di rifondazione comunista nel creare problemi alla maggioranza. Una cosa è certa: il lenzuolo è più corto del letto e questo Governo rischia di dormire senza coperta!
L'azione del Governo assume così un carattere di provvisorietà e di estemporaneità, un carattere di tipo congiunturale, al punto da non poter garantire al paese un minimo di legislazione che abbia sufficiente dignità per essere portata avanti, sostenuta ed anche realizzata nel tempo.
Credo che sia inutile chiedere al Governo, come hanno fatto prima il collega Lo Presti ed altri, di andarsene o di avere sussulti di dignità. Quelli che prova il Governo sono semmai sussulti di tipo diverso, sono sussulti di paura, la paura che Bertinotti si svegli male una mattina e la dica più grossa del solito, la paura che Dini, vedendo che le sue percentuali sono eccessivamente esigue, trovi il modo di porre ulteriori problemi.
Ecco perché il discorso dell'onorevole Moroni, di rifondazione comunista, mi è piaciuto molto, perché sembrava un discorso pronunciato molti anni fa, pieno di belle affermazioni, sulla realtà del nostro paese, sulle esigenze dei più poveri, sulle esigenze di coloro che hanno reale bisogno di uno Stato sociale, quasi che nessun altro volesse lo Stato sociale al di fuori di rifondazione comunista. Ci si nasconde dietro la frase fatta: noi lo Stato sociale lo vogliamo, e vogliamo riformarlo, non eliminarlo! Quasi ci fosse qualcuno che vuole eliminare lo Stato sociale o quella parte di Stato che deve funzionare in aiuto dei più deboli. La realtà è che non ci si vuole rendere conto, per una dottrina ormai inculcata, per la memoria storica di una cultura di tipo comunista, che non si può distribuire ricchezza se non la si produce, e non si può produrre ricchezza se le uniche fonti di ricchezza, le imprese, le aziende, la voglia di lavorare del nostro paese (non solo quella della Padania, ma di tutto il nostro paese) non vengono aiutate a crescere.
Ebbene, mi pare che tutto questo ci porti ad una conclusione, signor Presidente. Di fronte ad un Governo che deve correggere da 32 mila a 74 mila miliardi nel giro di pochi giorni la manovra finanziaria, che si accorge dopo poco tempo di avere ancora bisogno di 20 mila miliardi e probabilmente si accorgerà prima della manovra finanziaria prossima di altri bisogni (e se ne accorgerà non per grandi capacità di intuizione o di deduzione ma semplicemente perché lo sapeva già prima) non si può fare altro, almeno nelle dichiarazioni (visto che non ci rimane altro da fare che dichiarare e votare), che denunciare la falsità di un comportamento che rischia di essere veramente grave per il nostro paese, perché poi a pagare il conto non saranno i governi transeunti ma il popolo italiano che rimane, con i suoi milioni di miliardi di debito pubblico e con Governi che cercano invano di risanarlo (Applausi dei deputati dei gruppi di forza Italia e di alleanza nazionale).
da un'errata stima di quelle che avrebbero dovuto essere le entrate tributarie e le previsioni di spesa. Il monte globale degli interventi correttivi, infatti, tiene conto del deficit di cassa dei primi mesi del 1997, in cui si è registrata la riduzione degli stanziamenti di tesoreria riguardanti gli enti pubblici, riduzione che, oltre ad aver penalizzato la vita di molti enti decentrati, ha di fatto solamente traslato nel tempo l'uscita di cassa della tesoreria unica, che presto dovrà riprendere ad erogare fondi, anche in relazione alle deroghe inserite dal recente decreto del 28 febbraio scorso, con ulteriore necessità di recupero di fondi da parte del Governo.
Ma l'importo di 16 mila miliardi risulta falso anche alla luce delle errate stime sulle entrate previste al momento del varo della manovra finanziaria 1997 (stimate, ricordo, in 62.500 miliardi), che a causa di un aumento di gettito fiscale complessivo ai danni delle imprese e delle famiglie ha creato un vero e proprio blocco della domanda dei beni, dei servizi, del circuito virtuale dell'economia, blocco che si ripercuoterà con la riduzione del gettito fiscale stimato attorno a circa il 30 per cento.
La voce principale di tutta la manovra si trova nell'anticipo sul TFR, richiesto alle aziende, il quale, oltre ad avere insite le caratteristiche della incostituzionalità (poiché si tratta di somme maturate dai dipendenti delle aziende, gestite dalle stesse ma non di proprietà), è costituito da fondi che assumono valenza proprio al momento della cessazione del rapporto di lavoro e che, come tali, le aziende hanno sempre erogato, a fronte dei diritti acquisiti dai lavoratori. Il tutto assumerebbe dunque la valenza di un vero e proprio prestito forzoso, piuttosto che di anticipazione di imposta. La stessa infatti non è legata all'imponibile e ciò sembrerebbe entrare in conflitto con l'articolo 53 della vigente Costituzione, ma anche con l'articolo 41, non essendo così evidente la necessità sociale, se non il dover fare fronte a mere esigenze di introito fiscale. Si tratta di un provvedimento che, seppure addolcito per circa mille miliardi nell'ultima stesura (in quanto si è aggiunta una franchigia per i primi dieci dipendenti di tutte le aziende con meno di 50 lavoratori), non perde le caratteristiche negative di ulteriore inasprimento fiscale nei confronti delle aziende, le quali, dovendo indebitarsi nei confronti delle banche per far fronte alla necessità dell'anticipo forzoso, saranno inevitabilmente disincentivate ad effettuare nuove assunzioni e sottoposte ad ulteriore esposizione nei confronti degli istituti di credito.
Il Governo, inoltre, nel conteggio del costo finanziario si è fermato solamente al primo anno, senza tener conto del fatto che la misura inciderà per molti anni sui bilanci delle imprese. Il costo globale a danno delle imprese, infatti, si attesterà all'incirca sui 2 mila miliardi per effetto della capitalizzazione degli interessi passivi, anche se nella realtà il costo potrebbe essere addirittura superiore, poiché risulta difficile da immaginare che nel 2000 il meccanismo di rimborso possa vedere restituiti alle imprese tutti i miliardi anticipati. Saranno invece necessari molti anni per il completamento della restituzione dell'anticipo, soprattutto per le aziende con lavoratori giovani.
Il provvedimento avrà quindi un costo nettamente superiore a quello stimato dal Governo. Anche il presunto risparmio che dovrebbe essere recuperato dalle aziende sulla base di un'ulteriore riduzione del costo del denaro è assolutamente inattuabile. Fino ad oggi le banche non hanno trasferito i benefici della riduzione del costo del denaro sulle imprese a causa di molteplici fattori, che vanno dall'incapacità di recuperare efficienza all'aumento delle sofferenze bancarie, per cui paradossalmente gli oneri finanziari a carico delle imprese non solo non si sono ridotti, ma addirittura sono aumentati. Basti pensare che all'inizio del 1997 la differenza tra prime rate e tasso di sconto ha raggiunto un massimo di circa 3 punti percentuali, a riprova del fatto che tre riduzioni di tasso in nove mesi non hanno sortito alcun effetto positivo per le aziende. È opportuno comunque sottolineare
che mille miliardi della franchigia per i primi dieci addetti sembrano venire comunque assicurati da una serie di interventi caratterizzati soprattutto da sanatorie, come quelle riguardanti le liti fiscali pendenti, l'adeguamento alla minimum tax e chi percepisce pensioni estere, infine l'imposta sostitutiva per trasformare le società di fatto in imprese agricole individuali.
Ma come, ministro Visco, non era proprio lei ad essere contrario ai concordati ed ai condoni? Rivolgo questa domanda al sottosegretario Vigevani, non essendo presente il ministro. Non era proprio lei, signor ministro, che nel suo intervento in Commissione finanze l'11 giugno 1996 aveva stigmatizzato il ricorso ad interventi di sanatoria? Si tratta dunque dell'ennesima promessa del Governo Prodi di fatto disattesa.
Ma la manovra correttiva punta anche su altri interventi, come il differimento per sei mesi del pagamento della liquidazione di fine servizio nei confronti dei dipendenti pubblici, altro provvedimento evidentemente incostituzionale secondo quanto disposto dall'articolo 3 della vigente Costituzione, che mette di fatto a dura prova i dipendenti già duramente colpiti dalla pressione fiscale e dal ridotto potere d'acquisto della moneta i quali, oltre tutto, non potranno recuperare nemmeno gli interessi legali maturati durante il periodo di slittamento.
Per l'articolo 4, in cui si proroga il condono previdenziale, valgono le considerazioni precedentemente espresse a proposito della sostanziale incoerenza del ministro Visco.
L'articolo 5 pone invece un divieto alla concessione dell'anticipo del 5 per cento per forniture e appalti. È opportuno sottolineare che tale iniziativa va ulteriormente a penalizzare un settore, soprattutto quello edilizio, che è sostanzialmente bloccato a causa della paralisi burocratica e delle ridotte risorse degli enti per pubblici appalti. In questo modo si rischia un vero e proprio tracollo delle imprese del settore, le quali sopportano a fatica la grave tensione finanziaria alla quale sono state sottoposte negli ultimi anni.
Anche l'articolo 9, relativo all'anticipazione di imposta richiesta ai concessionari della riscossione dei tributi non è un intervento neutro, così come sostenuto dal Governo. Si tratta di un provvedimento che va a pesare ulteriormente su un settore che ha già lamentato particolari difficoltà alla luce della poca remunerazione ottenuta a fronte del lavoro svolto per conto dello Stato e le cui sofferenze, è opportuno ricordarlo, hanno già superato i 600 miliardi e che il nuovo intervento mette ulteriormente a prova con una nuova riduzione di utile. Si impone dunque di procedere all'attuazione rapida della delega contenuta nei commi 134 e 138 della legge n.662 del 1996, al fine di consentire una nuova individuazione del compenso da attribuire ai concessionari e dei compiti di competenza degli stessi, secondo normative che rispondano anche alle esigenze del mondo bancario, volto comunque ad un imponente processo di fusione e da cui dipendono i concessionari con le migliori caratteristiche di efficienza e di affidabilità.
L'articolo 11 produrrà di fatto un ulteriore inasprimento fiscale sulle tasse di successione, come già sapientemente illustrato dall'onorevole Pepe, che determinerà controversie giuridiche sulla base di una formulazione non chiara e del fatto che la norma sembra essere incompleta in diverse sue parti.
Signor Presidente, si tratta quindi dell'ennesima manovra tampone che punta esclusivamente all'anticipo di tasse ed allo slittamento di pagamenti da parte dello Stato, che non ha alcuna valenza strutturale e che con maquillage contabili assolutamente discutibili ed ulteriormente penalizzanti per tutta la realtà produttiva nazionale sposta solo nel tempo gli interventi strutturali di cui ha bisogno il paese. Più volte c'è stato detto che questa strategia avrebbe portato senza incertezze l'Italia nell'Europa di Maastricht. Invece pochi giorni fa quelle che erano le nostre valutazioni politiche ed economiche sono
state ribadite in modo estremamente perentorio anche dalla Commissione europea che ha stimato il rapporto deficit-debito pubblico al 3,2 per cento. Anche l'Italia è quindi fuori rispetto ai candidati alla prima formazione dell'UME. Ma il Fondo monetario internazionale non è stato certo più confortante, signor sottosegretario, prevedendo dati ancor più penalizzanti. La Commissione, con la sua preoccupazione, ha ragione da vendere, considerato il fatto che il parametro incriminato è solo uno di quelli di riferimento su cui è stata appuntata fino ad oggi l'attenzione dell'opinione pubblica da parte del Governo e della stampa. Rimane particolarmente preoccupante l'indice che esprime il rapporto debito pubblico-prodotto interno lordo, che dovrebbe essere attorno al 60 per cento ma che al momento attuale è nettamente superiore. Certo, Maastricht è una necessità oltre che una grande opportunità perché, al di là del prestigio politico derivante dal fatto di essere tra i primi paesi a concepire un'Europa dei diritti civili senza barriere tra Stati protagonisti dello scenario internazionale, le ragioni economiche per i nostri imprenditori e lavoratori dovrebbero garantire un contesto basato su regole comuni, su uno scenario di tassi di cambio molto più rigido, che dovrebbe consentire facilitazione nella programmazione degli investimenti, dell'attività di importazione e di esportazione, con un quadro fiscale e finanziario anche per i servizi offerti dalle banche molto più omogeneo. Un contesto che dovrebbe mettere in luce le nostre capacità competitive e produttive in un mercato più ampio e più sicuro.
Su questo siamo tutti d'accordo, ma c'è una necessità, di cui il Governo non ha tenuto conto: in Europa dobbiamo arrivarci vivi! In Europa si può affrontare la competizione internazionale con un'economia sana e supportata comunque da un Governo che crede e incentiva la fantasia imprenditoriale dei nostri connazionali; un Governo che abbia il coraggio di combattere anche a livello internazionale affinché il Trattato sappia comunque coniugare le esigenze dell'unione economica e politica con le situazioni reali dei dodici paesi previsti nella stesura originaria del Trattato, tenendo anche conto dell'ingresso nell'Unione di tre nuovi paesi quali l'Austria, la Finlandia e la Svezia.
Il traguardo dell'euro è indubbiamente importante, ma bisogna arrivarci con alle spalle un'economia reale che possa disincentivare ogni forma di attacco speculativo nei confronti della lira, che potrebbe risultare veramente il colpo di grazia alle aspettative europeiste di ognuno di noi.
Signor Presidente, l'economia nazionale sta ormai agonizzando in una depressione mai vista nel dopoguerra. I dati parlano chiaro: secondo il CNEL sono stati persi circa 40 mila posti di lavoro negli ultimi tre mesi e 1 milione e 100 mila negli ultimi anni, con un dato raccapricciante sulla disoccupazione giovanile che ormai è giunta a livelli insostenibili (il 33 per cento dei giovani è di fatto oggi disoccupato), che raggiunge punte di vera e propria drammaticità nel meridione ed incomincia ad aumentare in regioni tradizionalmente occupate, come il Veneto.
La produzione non ha rispettato le previsioni: la crescita, stimata attorno ad un 1,2 per cento del prodotto interno lordo, si è attestata allo 0,6-0,7. L'unico dato positivo sembrerebbe venire dalla riduzione dell'inflazione, che continuiamo a sottolineare discordante rispetto alla realtà, poiché non contenente l'aumento di una serie di prodotti che incidono pesantemente sulle tasche dei cittadini. Una riduzione di inflazione legata alla completa stasi della domanda di beni, una domanda ormai ferma da parte delle famiglie, intimorite dall'incertezza verso il futuro e dall'eccessiva pressione fiscale. Un'inflazione che comunque stupisce alla luce del fatto che i prezzi alla produzione hanno subito solamente un aumento dello 0,9 per cento nel gennaio 1997, composto da un meno 0,3 per cento per i beni di consumo, un più 1,3 per cento per quelli intermedi e un più 4 per cento per i beni di investimento. Da circa otto mesi quindi l'andamento dei prezzi alla produzione è stabile. Si dovrebbe perciò analizzare meglio
e indagare sull'aumento dei prezzi al consumo, che di fatto è quasi doppio rispetto a quello dei prezzi alla produzione.
Unico settore positivamente incrementato è quello dell'automobile, che attraverso l'incentivo del Governo alla grande impresa assistita ha visto un innegabile balzo in avanti, che ha comunque determinato uno spostamento di investimento delle famiglie nei confronti dell'autovettura, andando a deprimere tutti gli altri settori di abituale investimento, come ad esempio quello degli elettrodomestici, in grave crisi. Ma si sa, forse questo era il dazio da pagare da parte del Governo Prodi al sostegno incondizionato ricevuto da alcuni gruppi industriali in campagna elettorale. Il settore dell'automobile vedrà comunque l'affermazione in senso inverso del fenomeno che stiamo vivendo oggi, a fine 1997, al termine degli incentivi, come è già avvenuto in altri paesi europei, come la Francia, dove è avvenuto un vero e proprio crollo della domanda anche con pesanti ripercussioni occupazionali, di cui spero il Governo Prodi tenga conto. Ma per questo probabilmente non ci sarà problema, conosciamo già chi pagherà per scelte tanto negative: il cittadino, non certo il Presidente Prodi.
Il Governo deve quindi immediatamente provvedere con interventi strutturali, che diano respiro ad un'economia soffocata, attraverso un abbassamento della pressione fiscale, mirata soprattutto alla rivitalizzazione della nostra piccola e media impresa, l'unica realtà veramente produttiva e tipica della nostra cultura imprenditoriale, anche avendo il coraggio di ripristinare, migliorandola in ogni suo aspetto, la legge Tremonti, riducendo progressivamente il peso dello Stato sull'economia con una maggiore liberalizzazione dell'impresa e del lavoro, procedendo ad una privatizzazione più determinata delle cattedrali dello spreco pubblico.
Aiutando in questo modo la vitalità dei nostri imprenditori sono convinto che il prodotto interno lordo aumenterà progressivamente, raggiungendo i parametri attesi anche per Maastricht con una maggiore facilità.
Dobbiamo infatti ricordare che anche sulle piccole imprese pende la spada di Damocle rappresentata dall'introduzione dell'IRAP, un tributo che, se anche applicato nei suoi livelli minimi, porterà di fatto ad aggravi per le stesse, le quali non beneficeranno dell'eliminazione dell'ILOR perché già esenti. Meno Stato anche con un pacchetto globale di sdemanializzazione pubblica, attualmente bloccata a causa di una serie di provvedimenti farraginosi e incompleti.
Bisognerà avere il coraggio di procedere a tagli molto incisivi alla spesa pubblica, nel segno della efficienza e della guerra allo spreco, andando rapidamente a riorganizzare e ridurre i costi del Servizio sanitario nazionale. Stupisce la posizione del ministro Bindi quando pubblicamente viene in aula a condannare in maniera pesante la riorganizzazione del servizio sanitario che la regione Lombardia, in cui c'è un governo di centro-destra, ha avuto il coraggio di mettere in atto e che produrrà sicuramente dei frutti. È la stessa riforma che in maniera leggermente differente, ma dagli analoghi contenuti, si sta portando avanti nel Veneto, in cui si cercherà di ridurre le aziende sanitarie locali e di chiudere o riconvertire gli ospedali minori, non togliendo il servizio sanitario ma assicurando comunque, in prospettiva, un servizio enormemente migliore, tagliando i costi, assicurando una migliore assistenza, avendo quindi il coraggio di rivedere il cosiddetto welfare State che rifondazione comunista non vuole toccare, imbrogliando ancora una volta i cittadini sul fatto che attraverso questo atteggiamento si voglia garantire i diritti acquisiti dello Stato sociale. Nulla di più falso! Con un simile atteggiamento non entreremo in Europa e porteremo al dissesto totale i conti dello Stato. Fra alcuni anni di questo passo non saremo più in grado di garantire non solo i diritti dei futuri pensionati ma nemmeno di quelli attuali, con il rischio di scatenare
una guerra tra generazioni mai vista nella nostra comunità nazionale, che ritengo debba essere assolutamente evitata.
Bisognerà comunque mirare anche ad una più determinata lotta all'evasione fiscale, puntando ad un controllo più attento e ad una ricerca dei grandi reati e dei grandi evasori, non come avviene oggi, secondo stime del Secit, colpendo quasi esclusivamente i piccoli evasori. Bisognerà lavorare per aumentare le caratteristiche contrattuali di flessibilità sul mondo del lavoro, che di fatto è diventato ormai ostaggio di un sistema eccessivamente garantista, barriera alla crescita dell'occupazione in una economia che ha fatto della flessibilità, dell'elasticità, della tempestività di risposta alla domanda che viene dal mercato l'elemento principale di competizione, e dove, a fronte di grandi opportunità, i giovani non riescono ad avvicinarsi al mondo del lavoro proprio per il costo eccessivo a carico dell'imprenditore. Noi chiediamo quindi meno garanzie ma più posti di lavoro per i giovani.
Dunque interventi rapidi ed incisivi come ci chiedono giustamente i nostri partner europei, interventi che consentano di vedere l'Italia tra i paesi che per primi parteciperanno alla terza fase dell'Unione economica monetaria a partire dal 1999, che rendano la nostra posizione internazionale inattaccabile a chi non vede l'ora di poter escludere l'Italia dai paesi più forti economicamente e più industrializzati in Europa. E proprio dai partner europei principali arrivano le conferme di quanto valide siano comunque le nostre indicazioni e considerazioni. Le strategie di bilancio di Francia, Regno Unito e Germania si basano su politiche fiscali espansive, con 30 miliardi di marchi di sgravi fiscali in Germania e 20 miliardi di franchi in Francia, i cui governi supportano contemporaneamente i consumi dei privati e le imprese minori, al fine di ottenere un miglioramento della produzione e della occupazione.
Ma per fare tutto questo ci vuole un Governo credibile, che non sia ricattato quotidianamente da una forza di ispirazione chiaramente comunista che vede nel libero mercato e nella iniziativa privata caratteristiche di conflitto di classe di fine millennio.
Il Governo Prodi ha dimostrato fino ad oggi di non avere sufficiente coraggio e convinzione per portare un'Italia viva al traguardo di Maastricht; ha dimostrato invece di ragionare secondo le logiche dei peggiori Governi della prima Repubblica, sviluppando una politica economica che ha privilegiato fino ad oggi la leva fiscale utilizzata come strumento di disincentivo alla domanda dei privati e soluzione ai problemi di bilancio e di finanza pubblica; un esecutivo che ha portato la pressione fiscale, come incidenza sul PIL in un anno, come somma di imposte dirette e indirette, contributi sociali, dal 41,7 per cento ad oltre il 43 per cento. A questo Governo che mantiene il potere non volendo fare i conti con le proprie incongruenze e con una evidente bocciatura da parte del popolo italiano non si può garantire alcun appoggio. Si può solamente manifestrare una dura opposizione in nome degli interessi di libertà nazionale. Dunque il mio voto - e ritengo anche quello dei colleghi del mio gruppo - sarà fermamente contrario ad una manovra che risulta ancora una volta, insieme alle precedenti, assolutamente inefficace e repressiva con un impatto sulla crescita che sarà negativo, provocando un'ulteriore flessione dell'occupazione, su cui si innesteranno tensioni sociali che potrebbero risultare particolarmente gravi e di cui noi di alleanza nazionale non vorremmo avere alcuna responsabilità (Applausi dei deputati del gruppo di alleanza nazionale).
statale di 88 mila miliardi nel 1997 pari al 4,5 per cento del prodotto interno lordo, immaginando di centrare il parametro del 3 per cento in linea con le prescrizioni del trattato sull'Unione monetaria solo nel 1998.
La strategia italiana, in verità, non fu determinata da un percorso lineare e condiviso fin dall'inizio dalle forze politiche di maggioranza, ma si manifestò come il frutto dello schiaffo spagnolo al primo ministro italiano, all'epoca in cerca di complicità per rendere possibile un differimento dei tempi dell'Unione economica e monetaria.
Non restava che correre ai ripari ed anticipare l'obiettivo del 3 per cento del fabbisogno sul prodotto interno lordo al 1997, con il varo di una manovra ipotizzata allora per 62.500 miliardi. Ciò avrebbe dovuto portare, nelle intenzioni del Governo, il fabbisogno statale a 61.400 miliardi e l'indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni - parametro rilevante per gli obiettivi richiesti dal trattato - a 59.225 miliardi, pari appunto al 3 per cento del prodotto interno lordo.
L'illusione, però, è durata lo spazio di una stagione e l'approssimarsi della relazione trimestrale di cassa ha evidenziato lo scostamento tra il fabbisogno programmato di 61.400 miliardi e quello ipotizzabile a fine anno (85.350), pari ad una differenza di 23.950 miliardi. In termini di indebitamento netto, come è noto, della pubblica amministrazione, uno scarto di 15.056 miliardi, pari all'incirca allo 0,8 per cento del prodotto interno lordo.
Nasce da queste sostanziali ed aritmetiche premesse la manovra oggetto del decreto-legge al nostro esame, ma essa consente già da ora di esprimere un giudizio sull'operato del Governo volto ad assicurare nelle parole l'obiettivo dell'Unione monetaria, ma costretto dai fatti a riconoscere i gravi errori compiuti e la correttezza dei rilievi avanzati in più occasioni dall'opposizione di centro-destra.
Così del tutto fondata appare oggi la critica allora svolta alla crescita ipotizzata nel documento di programmazione economico-finanziaria e, ancora più tardi, con la relazione previsionale e programmatica per il 1996 ridottasi ad uno 0,7 per cento di aumento del prodotto interno lordo a fronte di previsioni a dir poco del tutto ottimistiche.
Gli effetti dei conti per il 1996 non possono che riflettersi nell'anno in corso, dove già dobbiamo sottolineare che l'ulteriore crescita non solo deve essere aggiornata in ribasso rispetto al 2 per cento ipotizzato inizialmente, ma che pur nel valore di un più 1,2 per cento del prodotto interno lordo rischia di rivelarsi ancora eccessivamente ottimistica.
Ulteriori fattori cosiddetti di trascinamento del 1996 evidenziano però gli effetti negativi di alcuni artifizi contabili che, se hanno concorso a rendere meno drammatici i conti del 1996, hanno rinviato il problema all'anno in corso, dimostrando ancora una volta l'illusorietà di ogni operazione di cassa volta a ridurre il fabbisogno di un anno, rinviandone gli effetti all'esercizio successivo. Ciò è già accaduto per il 1995 sul 1996 e rischia di ripetersi per il 1996 sul 1997.
Ma la trimestrale di cassa svela altresì l'ulteriore menzogna di chi si ostina a far credere che la pressione tributaria non sia aumentata con il Governo in carica: affermazione a cui non crede più alcuno, atteso che i dati ivi pubblicati confermano esattamente il contrario, dando ancora una volta ragione alle argomentazioni di alleanza nazionale e, in genere, dell'opposizione di centro-destra.
Il 1996, però, registra un'ulteriore sconfitta per il Governo, cioè l'aumento della spesa corrente sia in ordine agli aumenti contrattuali del personale dipendente delle pubbliche amministrazioni - la vicenda è nota perché vi si debba indugiare - sia in relazione all'acquisto di beni e servizi, in particolare del comparto della sanità.
Analogo aumento registrano anche le spese in conto capitale.
Stando così le cose, vi è motivo di dubitare dell'efficacia dell'ennesima manovra di aggiustamento dei conti pubblici: se la relazione tecnica ci porta ad identificare
l'entità ipotizzata nell'ordine dei 15.500 miliardi, ciò nonostante si ha la netta impressione che essa non darà i risultati sperati, sia in ordine alla previsione, sia in riferimento all'effettiva portata del disavanzo del 1997. Già l'onorevole Armani ha messo in evidenza sulla stampa la possibilità che le risultanze effettive della spesa farmaceutica e sanitaria si rivelino più negative del previsto e lo stesso ha altresì posto l'accento sulle proiezioni del fabbisogno di cassa per il 1997, effettuate soltanto sui primi due mesi di esercizio, cioè nel periodo in cui ha operato la discutibile e discussa norma varata, volta a contenere i tiraggi di tesoreria da parte degli enti interessati.
Se a questo si aggiunge l'opinione dei commissari dell'Unione europea, il quadro è tutt'altro che roseo; anzi, per dirla con il sottosegretario Enrico Micheli, la stangata incomprensibilmente ipotizzata nei confronti e in direzione del Polo, riferita alla presente manovra, si è rivelata in realtà un macigno per la credibilità interna ed internazionale del Governo di centro-sinistra. Sotto il primo profilo, essa apre l'interrogativo per l'opinione pubblica in ordine all'affidabilità di questo esecutivo; sotto il secondo aspetto, essa dimostra che un Governo di centro-sinistra non è sufficiente a rassicurare i partner europei, i quali non intendono certo mettere a repentaglio la stabilità raggiunta con un paese, o meglio con un Governo che non è in grado di mantenere l'impegno circa il rispetto dei parametri di convergenza.
Quel che è peggio sta in chi non vuole comprendere, o finge di non comprendere, che il problema non è costituito soltanto da quello 0,2 per cento di divergenza tra il fabbisogno del 1997 ed il prodotto interno lordo, ma dalla difficoltà di mantenere l'obiettivo per il 1998, dove il dato percentuale è ben più lontano rispetto al noto criterio di convergenza rilevante nel caso concreto. È qui che esplode l'evidente contraddizione delle dichiarazioni rese recentemente in Germania dal difensore d'ufficio del Governo Prodi che, invitando il mondo politico a ribellarsi ad una visione meramente ragionieristica, dimentica che quella visione è il frutto di intese internazionali e che su quel versante l'esecutivo si è impegnato allorché ha chiesto agli italiani notevoli sacrifici proprio allo scopo di centrare l'obiettivo fin dal 1997. Non è serio ignorare che questo paese ha subito, fra l'altro con il beneplacito dell'onorevole Bertinotti, manovre prossime ai 100 mila miliardi negli ultimi tempi e che, ciò nonostante, deve registrare di non aver raggiunto la meta e di essere stato rinviato agli esami di riparazione.
Nasce da queste considerazioni il confronto obbligato con l'opposizione e con quelle circostanze che videro il Governo di centro-destra porre sul tappeto la vera questione: la necessità cioè di riformare lo Stato sociale e di affrontare comunque in modo strutturale il problema della spesa pubblica. È inutile ricordare che, se la riforma in materia fosse stata varata ancora nel 1994, oggi a regime avrebbe alleggerito di gran lunga la situazione dei conti dello Stato; e per una strana legge del contrappasso politico quel nodo, rinviato sostanzialmente ad un futuro prossimo, costituirà il fondale in cui si arenerà la maggioranza che sorregge l'esecutivo. Al di là delle chiacchiere, il commissario europeo per gli affari economico-monetari ha evidenziato come la manovra e le manovrine varate dall'esecutivo non possono più sostituire, già fin dal 1998, i necessari e non procrastinabili interventi strutturali.
Non è più un problema ragionieristico, è un problema politico perché rappresenta il rispetto di una decisione presa nell'interesse del nostro paese e l'affidabilità dell'Italia come partecipe fin dal primo momento della prossima Unione economica e monetaria. Ecco quindi il rovesciamento della questione posta dal difensore d'ufficio dell'esecutivo.
A muoversi da ragioniere è proprio il Governo allorché, sotto la propria responsabilità, adotta atti aventi forza di legge la cui straordinaria necessità ed urgenza è determinata, in verità, dalla del tutto prevedibile incapacità a valutare l'andamento
dell'economia nazionale e la crescita del prodotto interno lordo; dall'incapacità di rendersi conto che alcuni provvedimenti non potevano dare i risultati sperati nel breve termine; dall'incapacità, ma potremmo anche dire dalla malafede, nel trasferimento di oneri da un esercizio all'altro.
Chi sono allora i cattivi ragionieri? I membri della Commissione o coloro i quali ricorrono ad anticipazioni sul trattamento di fine rapporto di dubbia legittimità costituzionale e al fine, soprattutto, di poter ovviare agli errori già compiuti? Coloro i quali hanno il dovere, in quella sede, di richiamare l'attenzione del nostro paese sui criteri di convergenza e sul patto di stabilità o coloro i quali giocano con i termini per la liquidazione dei trattamenti di fine servizio, facendo slittare circa 2.600 miliardi all'esercizio successivo e che ovviamente, in questo caso, non si accorgono delle grida di dolore del buon Fausto Bertinotti, il quale dimentica che il trattamento di fine servizio costituisce comunque una conquista dei lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche? Chi sono in sostanza questi cattivi ragionieri? Coloro i quali ci inducono a riflessioni sul nostro percorso nella via di Maastricht o coloro i quali dicono, come il ministro Visco, di escludere il ricorso a condoni fiscali e nel contempo fanno l'occhiolino e sono favorevoli alla riapertura e all'ampliamento dei termini del condono previdenziale? Sono cattivi ragionieri i burocrati di Bruxelles o chi è costretto a modificare norme di legge che sono state varate soltanto qualche mese prima dopo averci illuso, in quei frangenti, che esse sarebbero state idonee a raggiungere lo scopo?
Osservate le disposizioni di questo decreto, che sostituiscono norme inserite nella legge finanziaria del dicembre 1996, cioè soltanto quattro mesi or sono! E ancora, chi sono cattivi ragionieri? Quelli che nell'arco di un anno hanno varato una serie di disposizioni confliggenti e contraddittorie in materia di dismissione di beni immobili o che valutano in oltre mille miliardi l'entrata per l'autoliquidazione delle imposte ipotecarie e dei diritti catastali relativi alle successioni o coloro che da Bruxelles ci ricordano i patti che abbiamo liberamente sottoscritto?
E che dire, infine, delle disposizioni per il potenziamento dell'amministrazione finanziaria e delle attività di controllo dell'evasione fiscale? Non è forse un'ipotesi ragionieristica quella che determina la misura dei compensi incentivanti nel 2 per cento delle somme riscosse in via definitiva a seguito dell'attività di accertamento tributario? E non è idonea quella disposizione a far chiedere al cittadino contribuente come mai il precedente riferimento fosse dello 0,50 sulle somme accertate e non su quelle definitivamente liquidate? Non significa questo che facilmente, in via intuitiva, si può rovesciare il problema determinando in un rapporto pari ad uno a quattro la differenza tra gli accertamenti del sistema fiscale dell'amministrazione finanziaria e le liquidazioni effettive? Questo la dice lunga, come suol dirsi, sull'efficienza della lotta all'evasione, che comunque dovrebbe comportare un gettito che in realtà è soltanto aleatorio.
Che dire infine del contenuto di questo provvedimento normativo, dell'inserimento della possibilità, per il ministro competente, di conferire la reggenza degli uffici finanziari a fronte di un concorso per mille posti già bandito e che è stato sospeso dal tribunale amministrativo regionale e del Consiglio di Stato, il quale, nel dare via libera, ha censurato certi aspetti e certe valutazioni su come quei concorsi sono stati riferiti?
Crediamo, signori del Governo e signor Presidente, che la strada di Maastricht sia ancora lastricata di sacrifici, ma il sacrificio più grosso per gli italiani è sicuramente quello di dover sopportare un Governo di ragionieri che ha anche il difetto, ad onta del rispetto della verità, di truccare i conti e di non poterlo nemmeno dire perché, così facendo, dovrebbe riconoscere la propria incapacità (Applausi dei deputati del gruppo di alleanza nazionale).
Irresponsabilmente e dimostrando l'assenza di reali capacità di comprensione delle variabili macroeconomiche, il Governo respinse quelle previsioni e andò dritto per la sua strada.
Cosa dice oggi, a giustificazione di una manovra che, mentre si votava la finanziaria, già si sapeva che doveva essere attuata? E soprattutto come può dire nella relazione che oltre la metà dello scostamento è attribuibile alla minore crescita economica prevista, senza spiegare a cosa sia dovuto questo evento, e soprattutto senza ammettere che deriva proprio dalle scelte recessive e di esagerata fiscalità assunte in tutto il corso del 1996 dallo stesso Governo?
Incredibile appare poi la seguente dichiarazione: «Nel definire gli interventi, si è cercato di non incidere sostanzialmente sulle aspettative degli operatori e senza compromettere la possibilità di ripresa anche dal lato dei consumi, per non compromettere la ripresa economica». Si continua, cioè, a negare l'evidenza: un Governo che fonda la sua strategia sulle bugie non ha molta prospettiva davanti a sé!
Il paese è stanco degli «effetti-annuncio»! È stanco, per esempio, di un ministro delle finanze che in occasione della finanziaria del 1997 dichiarava che le decisioni di aumento delle entrate avrebbero comportato aumenti insignificanti della pressione tributaria dell'ordine dello 0,2-0,3 per cento; ed invece l'aumento è stato dell'1,5 per cento, facendo schizzare l'Italia al quinto posto assoluto al mondo per pressione fiscale!
Il paese è stanco di un ministro che, per sfuggire alle contraddizioni della politica senza speranza che persegue, si inventa complotti esteri o addirittura fax di sostegno all'eurotassa o che mente palesemente a proposito del Governo Berlusconi paragonato a quello Reagan, affermando che insieme avrebbero in comune il fatto di avere incrementato il deficit pubblico perché avevano proceduto alla riduzione delle aliquote fiscali.
La verità è invece che il primo Governo della sinistra dell'Italia in materia di politica economica ci ha ricacciati indietro nel tempo, riproponendo scenari e offrendo percorsi privi totalmente di alcuna valenza sul piano tecnico e politico, dei veri e propri pasticci normativi il cui comune denominatore è il mantenimento dei privilegi annidati dentro una spesa pubblica che non viene in alcun modo intaccata e l'aumento della pressione fiscale.
In particolare, il «Prodi-Visco pensiero» avanza le seguenti proposte: il fisco come strumento di quadratura dei conti e conseguente grave perturbazione del sistema economico; la negazione, attraverso l'uso distorto della leva tributaria, delle politiche di rilancio dell'occupazione che si tenta di surrogare con sterili e diseducativi contributi destinati a stabilizzare masse crescenti di disperati; l'impossibilità di consentire al nostro paese di allinearsi nelle aliquote fiscali e quindi nei costi e nella competitività ai paesi occidentali ed ai partner europei; la pretesa di entrare comunque in Europa, ben sapendo che con un paese allo stremo con oltre tre milioni di disoccupati e soprattutto con l'assenza di interventi strutturali di correzione della spesa in Europa è difficile entrare, ma ancora più difficile è restarvi!
In altre parole, Prodi richiama l'immagine di quel medico che curava l'anemia con dosi crescenti di salassi e non si accorgeva che il paziente era già trapassato.
L'Unione europea, di fronte alla presentazione dell'Italia all'appuntamento del 1999, ammessa e non concessa la formale soddisfazione dei parametri di Maastricht, altro non potrà fare che prendere atto che si è presentato un malato nella fase terminale e dovrà unicamente provvedere a staccare l'ossigeno. Tutto questo perché in meno di un anno il paese ha subito manovre per 100 mila miliardi, quasi esclusivamente basate sull'aumento di entrate che hanno portato - malgrado le promesse elettorali - la pressione tributaria complessiva a ben oltre il 43 per cento!
Tali manovre hanno colpito tutti i contribuenti indiscriminatamente, ma soprattutto le imprese e il sistema produttivo, lasciando invece sostanzialmente inalterata l'incidenza della spesa sul PIL. Perfino le spese più odiose - ricordo come la drastica riduzione delle auto blu - sono state ripristinate ed anche estese. Molte delle maggiori entrate, inoltre, presentano la grave caratteristica di non essere strutturali (infatti, 18 mila miliardi sono revisioni contabili e 41 mila anticipi di imposta o ritardi di spesa) e scontano il fatto di essere in parte significativa una tantum (circa 24 mila 500 miliardi); pertanto ci si chiede con cosa saranno sostituite negli esercizi futuri. Per questo è prevedibile per l'esercizio 1998 una manovra da non meno di 40 mila miliardi, 20 mila al netto degli interessi e altrettanti per il recupero del venir meno delle entrate una tantum.
Ecco perché questa manovra appare un'ennesima, inutile ed insopportabile vessazione, che ha perfino fatto gridare Modigliani allo scandalo quando ha rilevato che essa evidenzia falsi in bilancio. Peccato che Modigliani se ne sia accorto solo oggi, mentre noi diciamo da tempo che il Governo attua politiche da magliari e produce falsi in bilancio. Lo abbiamo con chiarezza scritto nella relazione di minoranza alla manovra finanziaria per il 1997 e se il Governo avesse poca memoria può andare a controllare le pagine 16 e 18 di quella relazione.
Che fine hanno fatto le promesse dell'Ulivo in campagna elettorale contro l'aumento della pressione fiscale? Intollerabile appare infatti la vasta gamma delle ipotesi del cosiddetto contenimento della spesa che non contengono assolutamente nulla. Per esempio, l'articolo 3 rinvia di sei mesi la corresponsione del trattamento di fine servizio dei dipendenti pubblici che, a parte i dubbi sull'effettiva consistenza dei risparmi, per le «finestre» della legge n.335 del 1995 sono solo un rinvio di una spesa dovuta, che crea disagi e nega diritti acquisiti senza reali contropartite.
Il comma 1 dell'articolo 5 è un'altra norma non strategica che prevede un risparmio di 500 miliardi nel 1997 e 200 nel 1998 eliminando le anticipazioni che erano ridotte ad appena il 5 per cento nei contratti di appalto, di forniture e di servizi, scaricando sui fornitori della pubblica amministrazione le contraddizioni di una finanza che così assume aspetti ancora più recessivi.
Il comma 2 dell'articolo 5 si appalesa invece come una delle norme più gravi ipotizzate da questo Governo. È una norma che opera tagli in vari campi, già oggetto di pesanti riduzioni nella finanziaria, per ben 85 mila miliardi, pari al 46 per cento delle autorizzazioni iniziali, e che soprattutto colpisce il capitolo 9012, relativo al fondo per le aree depresse, ridotto di ben 600 miliardi di autorizzazione di cassa. Se questi si aggiungono ai 7.437 miliardi, rimodulati al 1999, di cui ben 4.644 miliardi in meno solo per l'esercizio 1997, si ha ben chiara la strategia del Governo per il sud. Se inoltre si tiene conto che rispetto allo stanziamento di 9.500 miliardi di competenza già in finanziaria si era autorizzata l'erogazione di soli 5.030 miliardi, pari al 52,95 per cento, si evince che con l'attuale riduzione l'autorizzazione di cassa passa ad appena 4.430 miliardi, pari al 46,63 per cento. È così che Prodi risponde alla tragedia dei suicidi meridionali, ai disperati per la mancanza di un lavoro?
All'articolo 6 abbiamo economie per interventi sulla normativa relativa al part-time
dei dipendenti pubblici che quantifica risparmi del tutto improbabili, atteso che sarebbero aggiuntivi a quelli già previsti nella finanziaria di cui non solo non vi è certezza, ma considerato lo scarso successo dell'innovazione si temono risultati deludenti. Inoltre il ripristino facoltativo del tempo pieno con inquadramento in sovrannumero determina perfino ulteriori oneri.
L'articolo 7 prevede un programma straordinario di dismissione dei beni immobiliari che pretenderebbe, senza dare alcun elemento di riscontro oggettivo, con il semplice snellimento delle procedure, di ottenere maggiori entrate per 1.000 miliardi nel 1998 e 1.500 miliardi nel 1999 e su cui la relazione tecnica della Camera non si pronuncia. Questo è un dato significativo che ho avuto già occasione di rilevare in Commissione.
Medesime perplessità manifestiamo nei confronti dell'articolo 8, che introduce l'istituto della cessione dei crediti da parte delle amministrazioni pubbliche e che prevede risparmi per 100 miliardi nel 1998 e 200 miliardi nel 1999 di assai dubbia riscuotibilità.
Con l'articolo 9 vengono previste maggiori entrate nette in seguito a misure di incentivazione per il personale del Ministero delle finanze, con l'aumento dallo 0,50 al 2 per cento dell'entità dell'incentivo. Noi riteniamo che tale aumento non potrà determinare un incremento delle entrate ed è verosimile che nella fattispecie si tratti di una norma di spesa più che di una maggiore entrata. Anche su questo punto la relazione tecnica va nella direzione delle nostre preoccupazioni.
Per quanto riguarda le entrate, inaccettabile, anticostituzionale e comunque vera e propria imposta aggiuntiva con effetti negativi sul sistema economico si appalesa l'anticipo di imposta sul TFR. Ben diverso era lo spirito ed altra era la filosofia dell'originario emendamento proposto da alleanza nazionale. Quando il nostro gruppo, in occasione dell'esame della finanziaria, propose l'anticipo di tassazione del TFR, collocò tale provvedimento in un'ottica alternativa all'aumento di imposte e balzelli previsto dal Governo. Allora l'esecutivo mantenne la sua impostazione ed aggiunse una aliquota limitata del TFR. Oggi estende la portata negativa di tale misura, inserendola nel contesto già debilitato di un sistema economico assolutamente massacrato dagli aumenti della pressione fiscale. Aggiungo che i calcoli non ci sembrano corretti. Infatti non solo tale provvedimento non funzionerà per quelle imprese, che possono anche essere molte, le quali disporranno piani di prepensionamento e riduzione del personale nel triennio 1997-1999, o che cesseranno l'attività; la norma potrebbe persino comportare un minor gettito quale conseguenza di scelte delle imprese per fronteggiare il nuovo tributo con una riduzione dei piani di investimento o con il ricorso all'autofinanziamento, giacché si contrarrebbero investimenti e consumi.
Se si tiene conto del fatto che a partire dal 2000 avrebbe luogo il recupero con conseguenti minori entrate, proprio nel momento in cui l'Italia dovrebbe affrontare il primo anno dell'euro, la filosofia del Governo appare del tipo: «dopo di me il diluvio».
Forti dubbi si nutrono sul gettito di cui all'articolo 4 per quanto riguarda l'estensione del condono previdenziale, sia perché il gettito della legge n.662 del 1996 appare inferiore al previsto, sia perché le aziende non ce la fanno più ed ormai pagano in parte il condono, mentre non versano gli oneri in corso d'anno attendendo il condono successivo.
Vi è buio pesto poi per quanto riguarda le misure che l'ente poste dovrebbe adottare per incrementare le entrate di 500 miliardi nel 1997, di 600 miliardi nel 1998 e di 700 miliardi nel 1999.
In merito all'articolo 9, riguardante l'introduzione dell'obbligo di versamento a carico dei concessionari della riscossione, l'unico articolo del provvedimento che forse presenta effetti reali, osservo che permane una forte incongruenza tra quanto disposto ed il gettito previsto, atteso che l'entità del conferito ai citati concessionari dei tributi del registro (bollo,
Infim, eccetera) ammonta a 30 mila miliardi annui; se la matematica non è un'opinione - ma considerato il livello ragionieristico del Governo, forse lo è -, il 20 per cento di 30 mila è 6 mila e non 3 mila.
Sulla soppressione dell'INVIM e sostituzione con un'altra imposta autoliquidata, siamo sempre nel campo delle anticipazioni e vi è anche l'errore di non aver previsto la deducibilità dell'imposta sulle donazioni.
Infine, l'articolo 13 ha introdotto incentivi per l'innovazione tecnologica, sopprimendo disinvoltamente alcuni capitoli istituiti e difesi con i denti appena quattro mesi fa, così come le disposizioni concernenti la corresponsione di indennizzi (50 miliardi) o l'adeguamento dei compensi per lavoro straordinario (200 miliardi) o ancora le norme relative al personale delle abolite imposte di consumo (100 miliardi); ho l'impressione che si tratti di spese obbligatorie di difficile storno.
Rimane tuttavia il fatto che non si è chiarito il motivo per cui nell'ultima legge finanziaria, per cercare anche solo 2 miliardi di copertura, si verificavano vere e proprie sceneggiate napoletane, mentre oggi assistiamo allo storno di 350 miliardi su capitoli del tipo di quelli che ho citato, spese che il Governo aveva dichiarato assolutamente intangibili. Ma il tutto serve all'esecutivo per dare l'impressione che alle imprese ci pensa e per addolcire la pillola: non ha capito che le vitamine non servono ai moribondi! Bene ha fatto Fossa a respingere tali incentivi, ma il tutto è funzionale alla propaganda ed è questa la vera natura della manovra: solo ed unicamente propaganda, utile a convincere che l'Italia continua sulla via del risanamento. Peccato per Prodi che i nostri imprenditori abbiano capito e, soprattutto, che i nostri partner europei siano un po' più furbi di quello che il nostro Governo pensa. Ecco perché Bruxelles ha bocciato il nostro paese in ordine ai percorsi di convergenza sull'UME. Non è un problema di ragionieri, né una disparità di trattamento con altri paesi europei. L'Italia viene giustamente contestata non per lo scarto dello 0,2 per cento in più, ma per la mancanza di credibilità di questo Governo e delle sue scelte di politica di risanamento. Non è l'Italia bocciata, ma Prodi.
Il Governo Prodi, uscito indenne dalla crisi albanese, verrà fuori malconcio ma vincitore da questo confronto parlamentare ed ascriverà a suo merito l'approvazione anche di questa manovra, ma è ormai chiaro che è al capolinea. Il passaggio necessario è il documento di programmazione economico-finanziaria per la manovra del 1998, con ciò che essa comporterà, specialmente in permanenza di una situazione internazionale che può influenzare i tassi di interesse al rialzo.
Ecco perché ribadiamo il «no» convinto a questa manovra, che cercheremo di correggere ma che contesteremo con tutte le forze, convinti come siamo che è un'ulteriore tappa non per Maastricht, ma per Tirana, nel senso che il nostro paese pare avviato su una china che lo allontanerà dall'Europa se il Governo di sinistra, condizionato da rifondazione comunista, non sarà fermato (Applausi dei deputati del gruppo di alleanza nazionale).
Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.
Il seguito del dibattito, con le repliche, è rinviato ad altra seduta.