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PRESIDENTE. (Si alza in piedi e con lui i deputati e i membri del Governo). Onorevoli colleghi, è ricorso ieri il cinquantesimo anniversario della firma del trattato di pace, con il quale l'Italia, ponendo fine alla tragica vicenda della seconda guerra mondiale, usciva da uno stato di quasi totale isolamento sul piano internazionale e veniva riammessa nella comunità delle nazioni.
ROBERTO MENIA. Signor Presidente, onorevoli deputati, ci sono pagine, nella storia dei popoli e degli uomini, che grondano di dolore e di ingiustizia. Cinquant'anni fa con quel trattato di pace firmato a Parigi il 10 febbraio 1947 si scrisse una di quelle pagine. Essa segnò la tragedia degli italiani di Trieste, che visse un lungo dopoguerra terminato solo il 26 ottobre 1954; la tragedia degli italiani dell'Istria, del Quarnaro e della Dalmazia; la tragedia di un esodo incompreso, che fu scelta di dignità e di amore per la libertà e per la propria patria; la tragedia di un esodo che disperse 350 mila uomini e donne in ogni angolo d'Italia e del mondo; la tragedia di migliaia di famiglie abbandonate a se stesse, in balia del terrore che si respirava nell'Istria insanguinata dalle foibe, come a Fiume, come a Zara, quelle foibe che il vescovo Santin, arcivescovo di Trieste e Capodistria, definì calvari con il vertice sprofondato nelle viscere della terra.
PRESIDENTE. Mi scusi.
ROBERTO MENIA. Il bel dialetto veneto, la dolce lingua del sì, non si sentirono quasi più cantare e rimasero muti i leoni di San Marco, le pietre degli archi e delle arene, i cento e cento campanili.
PRESIDENTE. Onorevole Menia, le chiedo davvero scusa, ma dovrebbe concludere.
ROBERTO MENIA. ...che fu a Giustinopoli, e con questo concludo il mio intervento.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Giovanardi. Ne ha facoltà.
CARLO GIOVANARDI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, anch'io mi voglio associare in questo anniversario al ricordo del passato, ma desidero anche spendere una parola per il futuro. Desidero ricordare il passato dei 350 mila nostri fratelli che dovettero abbandonare il focolare, la casa, il territorio che da secoli abitavano per trovarsi in qualche caso profughi in patria, ma anche le sofferenze - bisogna rammentarlo per capire cosa accadde in quel periodo - che anche gli slavi subirono perché nelle foibe finirono gli italiani ma anche gli slavi che si opponevano al regime di Tito e che non erano in linea con un processo di totalitarismo che avanzava in quel paese.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Lembo. Ne ha facoltà.
ALBERTO LEMBO. Grazie, Presidente. Lei qualche mese fa ha concesso al nostro gruppo di potersi chiamare «lega nord per l'indipendenza della Padania», espressione in cui la preposizione «per» indica un'aspirazione legittima, tant'è vero che così veniamo qualificati in quest'aula. Se è allora legittimo pensare - almeno per noi - ad un nuovo Stato, quello della Padania, è altrettanto giusto ricordare che in base ad una norma fondamentale del diritto internazionale esiste una successione tra Stati che avviene più o meno come la successione fra persone. Se un giorno, come noi speriamo (evidentemente altri colleghi non lo sperano), ci sarà uno Stato chiamato «Padania», esso sarà erede almeno in parte dello Stato italiano e quindi dei trattati internazionali stipulati dallo Stato italiano. Sarà anche erede di quei due sciagurati trattati che hanno posto fine o, meglio, che hanno recepito gli eventi della prima e della seconda guerra mondiale con i trattati internazionali compresi in questi due intervalli.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Di Bisceglie. Ne ha facoltà.
ANTONIO DI BISCEGLIE. Signor Presidente, onorevoli colleghi, ritengo che ricordare il cinquantesimo anniversario del trattato di pace - al quale si è fatto riferimento - significhi non soltanto ricordare ciò che ha dovuto pagare il nostro paese - e cioè un prezzo pesantissimo - per una guerra sciagurata, cui era stato condotto da una direzione politica assolutamente incapace, ma anche e soprattutto cercare di avvicinarsi e di leggere quegli avvenimenti con occhi odierni per comprendere se poi si sia riusciti, dalle macerie a quei risultati, a ricostruire e a far sì che oggi si possa parlare in presenza di un tessuto comune.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Niccolini. Ne ha facoltà.
GUALBERTO NICCOLINI. Signor Presidente, ieri mattina Trieste e Roma sono state idealmente unite da due cerimonie che commemoravano, non festosamente, i cinquant'anni del trattato di pace. A Trieste migliaia di triestini, istriani e dalmati si sono riuniti intorno alla bandiera, intorno ai vessilli dei loro comuni e analoga cerimonia, contemporaneamente, si è tenuta a Roma.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Jervolino Russo. Ne ha facoltà.
ROSA JERVOLINO RUSSO. Signor Presidente, il gruppo dei popolari e democratici apprezza profondamente la sensibilità con la quale ella ha voluto ricordare una tappa importante e dolorosa della nostra storia.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Orlando. Ne ha facoltà.
FEDERICO ORLANDO. Signor Presidente, a nome del gruppo di rinnovamento italiano desidero ricordare che cinquant'anni fa, in quest'aula, un uomo che si chiamava come me - ma a questo ricordo divento ancora più piccolo -, Vittorio Emanuele Orlando, duca della vittoria (quella di Vittorio Veneto), levò l'indice accusatore contro il banco del Governo dicendo che soltanto un desiderio di dissolvimento, una libidine di servilismo, avevano spinto il Governo italiano a firmare il trattato di Parigi. Noi sappiamo che quell'accusa, ancorché generosa per l'uomo che la pronunciava, era anche profondamente ingiusta verso quel Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi che nell'aula di Parigi aveva esordito di fronte ai vincitori dicendo: «So che in questa sala tutto è contro di me tranne la vostra personale cortesia». Anche in quel modo e con la dignità del suo discorso, il discorso di un uomo che si era caricato sulle spalle la croce di una sconfitta non sua, non della democrazia italiana, egli si meritò la stima dei vincitori che si manifestò nella stretta di mano del più importante di tutti, il segretario di Stato degli Stati Uniti d'America.
BENIAMINO ANDREATTA, Ministro della difesa. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
BENIAMINO ANDREATTA, Ministro della difesa. Signor Presidente, il Governo si associa alla commemorazione da lei svolta in quest'aula e si associa anche allo spirito con cui lei ha impostato tale commemorazione. Il Governo De Gasperi era consapevole che non si poteva accettare la storia d'Italia con beneficio d'inventario - tutta la storia d'Italia, nelle sue pagine positive e nelle sue pagine drammatiche, ricadeva su quel Governo - ed ebbe la lucidità di scegliere la strada difficile della firma del trattato di pace, che apriva al nostro paese la possibilità di occupare il suo posto fra le nazioni libere. L'intensità del dibattito parlamentare, l'altezza delle personalità del prefascismo che intervennero con argomenti emotivamente forti, resero certamente ancora più difficile la decisione di De Gasperi e di Sforza, che tuttavia sentiamo come una di quelle decisioni necessarie, che vale la pena di ricordare per misurare la capacità di ciascun Governo di far fronte alle sfide che la storia ad esso presenta. Fu una decisione necessaria.
Il 10 febbraio del 1947 il Governo italiano firmava a Parigi un accordo che non aveva potuto negoziare e nel quale l'Italia veniva ancora trattata alla stregua di un paese nemico.
Di ciò fu pienamente consapevole il Presidente del Consiglio De Gasperi che prendendo la parola nell'agosto del 1946 davanti alle nazioni vincitrici ebbe a dire: «...in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico che mi fa considerare come imputato e l'essere citato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni».
Le clausole del trattato militari, finanziarie, soprattutto territoriali e in particolare quelle relative a Trieste e alla Venezia Giulia, apparvero all'opinione pubblica troppo severe e non meritate da parte di un popolo che aveva partecipato alla lotta contro il nazifascismo al fianco delle potenze alleate e che, con un apporto di sacrifici e di sangue, aveva contribuito alla vittoria finale.
Oggi, quando per contingenze politiche interne e per la mutata situazione internazionale siamo indotti a riflettere sul valore dell'unità nazionale, sul significato che ha l'integrità territoriale per una democrazia moderna, possiamo comprendere meglio il sacrificio che dovettero affrontare la città di Trieste e la popolazione della Venezia Giulia.
A questo sacrificio va accomunato l'orrore delle foibe.
Il ministro degli esteri Sforza, aprendo il dibattito in Assemblea costituente, ricordava che sebbene esso esprimesse «una concezione anacronistica della guerra, della vittoria, della pace e della vita internazionale», l'interesse dell'Italia non era di opporvisi, ma di ratificarlo per poter partecipare un domani alla impostazione di una nuova politica internazionale.
A distanza di cinquant'anni da quelle vicende, possiamo oggi affermare che il trattato di pace del 1947, forse proprio per la sua durezza, fu in definitiva un elemento unificante per il nostro popolo. La consapevolezza della sua severità contribuì a richiamare il paese alla realtà delle proprie condizioni, lo aiutò nella rinascita politica, civile, sociale ed economica, che caratterizzò i decenni successivi.
La ricostruzione, gli straordinari progressi che il nostro paese seppe realizzare in tutti i campi misero in luce una virtù civile degli italiani: il senso di responsabilità nei momenti della necessità.
In molte occasioni, negli anni della Repubblica, il popolo italiano ha saputo risorgere e ricostruire; ha saputo sconfiggere il terrorismo, piegare le organizzazioni mafiose, ritrovarsi nei valori di una comune appartenenza ed identità civile. E questo nel più rigoroso rispetto della legge e della democrazia.
Ora stiamo costruendo una seconda fase della vita della Repubblica.
L'augurio è che ci sia d'esempio la dignità nazionale, la moralità e lo spirito di sacrificio della generazione politica che, dalla maggioranza come dall'opposizione, guidò il paese negli anni durissimi della ricostruzione (Applausi dei deputati dei gruppi della sinistra democratica-l'Ulivo, di forza Italia, dei popolari e democratici-l'Ulivo, di rifondazione comunista-progressisti,
del CCD-CDU, misto, di rinnovamento italiano e di deputati del gruppo di alleanza nazionale).
Onorevoli colleghi, sulla questione, della quale erano stati informati tutti i gruppi, hanno chiesto di parlare alcuni colleghi che, come per gli interventi sull'ordine dei lavori, avranno cinque minuti a disposizione.
Ha chiesto di parlare l'onorevole Menia. Ne ha facoltà.
Ventimila furono i morti senza croce: si spopolarono, d'un tratto, paesi e città, lidi e campagne. Quasi tutti se ne andarono, lasciarono le case, i propri morti, serrando il pianto in gola, stringendo nella mano un pugno della rossa terra istriana. Portarono via le povere cose, qualche ricordo, un'insegna, una fotografia, un vecchio quadro, una bandiera.
Il bel dialetto veneto...
Colleghi, per cortesia, un po' di rispetto non solo per il collega, ma per la questione di cui stiamo parlando!
Onorevole Petrini, stia seduto, per favore.
Chi vi parla non c'era a quel tempo, non ero neanche nato. Eppure non sapete come penetri nell'anima di chi, come me, è figlio di uno di quei 350 mila il dolore dell'esule e come si senta il legame profondo con una terra che non hai mai calcato ma che ti chiama e ti parla ancora, anche se la vedi oltre il mare ed oltre un confine.
Vorrei che questo mio ricordo rimanesse fuori dalle vecchie divisioni, dalle passioni e dai rancori per essere condiviso da ognuno di voi.
Una cosa chiede la mia gente, la gente dell'esilio, che sia riconosciuto il valore di quell'esodo dei giuliano-dalmati, che fu un grande plebiscito di italianità e di libertà; che questa pagina di storia diventi davvero patrimonio della coscienza di tutti gli italiani, squarciando il velo, la congiura del silenzio di questi cinquant'anni.
Il mio appello a voi, deputati della Repubblica, che uno ad uno e tutti assieme rappresentate la nazione italiana, è un appello alla riconquista e al recupero della memoria storica, perché una nazione senza memoria è una nazione senza futuro.
La nostra nazione nella ininterrotta continuità storica del suo divenire ha scritto duemila anni di storia su quella sponda orientale dell'Adriatico e noi dobbiamo oggi e per il futuro alimentare ancora, per quanto ci è possibile, quella fiammella di italianità che, nonostante tutto, arde tuttora in queste terre.
Lasciatemi allora per un attimo volare idealmente oltre la terra ed oltre il mare e ricordare quell'altare di Perasto, dove duecento anni fa, era il 1797, all'indomani della pace di Campoformido fu ammainato il gonfalone della Serenissima Repubblica di Venezia e fu sepolto sotto l'altare di Perasto tra la folla che piangeva mentre l'ultimo capitano di Venezia, il capitano Viscovic, pronunciava quelle parole che sono rimaste l'orgoglio e il
giuramento dei dalmati: «ti con nu e nu con ti», che forse molti di voi nemmeno sanno è ancora fregiato sulla ammiraglia della nostra marina militare.
Penso a quelle isole di Dalmazia, ad Arbe del Santo Marino, a Curzola di Marco Polo e del Milione, a Spalato del palazzo di Diocleziano, a Spalato del nobile Baiamonti, la Spalato di Francesco Rismondo, a Traù, quella piccola Venezia con i suoi leoni, a Sebenico di Niccolò Tommaseo, che scrisse il primo Dizionario della lingua italiana , a Zara che fu Iadea, la bizantina Diadora, perla di italianità e di venezianità; parlo di Cherso e di Lussino, di Veglia dove comparve il primo leone di San Marco, nel 1250; di Fiume, la romana Tarsatica, dove correva il limes Italicus della decima regio - Venetia et Histria; penso a Fiume l'olocausta, penso ad Abbazia, perla del Quarnaro, penso a Pola che fu Pietas Iulia, a quella sua arena, a Rovigno, che fu Rubinium, a Parenzo, Iulia Parentium, a Pisino della grande foiba, del castello dei Montecuccoli, a Pisino di Fabio Filzi, impiccato a Trento nel castello del Buon Consiglio assieme a Cesare Battisti, penso a Montona, penso a Buie da cui veniva la mia famiglia, ad Umago, a Isola, a Pirano, a Capodistria, che fu...
Penso a Capodistria e lasciatemi finire con le parole del più grande figlio di Capodistria, quel Nazario Sauro che la notte del 10 agosto del 1916, prima di essere impiccato, lasciò parole nobilissime a suo figlio maggiore, che sono le parole che restano come giuramento degli istriani e dei figli degli istriani, e dei figli dei figli dei figli che verranno. Scrisse al figlio Nino: «E tu giura, o Nino, e fallo giurare ai tuoi fratelli quando avranno l'età per comprendere, che sarete sempre e dovunque prima di tutto italiani» (Applausi dei deputati dei gruppi di alleanza nazionale, di forza Italia, dei popolari e democratici-l'Ulivo e di rinnovamento italiano - Molte congratulazioni).
Mi ha fatto impressione leggere che, dopo la prima guerra mondiale, nella delegazione che trattava da parte slava e da parte italiana per decidere l'assetto di quei territori, i delegati italiani avevano nomi slavi e i delegati slavi avevano nomi italiani, perché l'italianità non era una questione di razza in quelle terre, ma era una questione di sentimento nazionale. Anche oggi a Zara il mio amico Libero presiede la comunità italiana di Zara - sono rimasti in ottanta - e mi rammenta che la maggioranza dei soci sono albanesi di Borgo Erizzo, Albanion in slavo; è una popolazione che veniva dall'Albania ma che tradizionalmente era di sentimenti italiani.
Quindi l'italianità non dipendeva dal nome né dall'origine, era un sentimento di una terra in cui allora e ancora oggi si parla il dialetto veneto. Chi è stato in Slovenia, in Croazia, nelle isole e a Cherso, sentirà che nei mercati ancora il popolo parla il dialetto veneto.
Oggi dobbiamo necessariamente ricordare il sacrificio di chi ha pagato duramente con la propria vita o con l'esilio un
sentimento di appartenenza all'Italia. Mi riferisco ai fascisti e agli antifascisti, perché a Fiume, Trieste e Gorizia, dove arrivarono le armate iugoslave, finirono nelle foibe non soltanto coloro i quali erano compromessi con il regime fascista, ma anche gli antifascisti che volevano mantenere in quelle terre una presenza dell'Italia. Dobbiamo dunque ricordare il sacrificio di questi nostri fratelli, e nello stesso tempo dobbiamo guardare avanti, perché, tramontato il comunismo, all'orizzonte appaiono, proprio in quelle terre, nazionalismi altrettanto intolleranti rispetto a quella che può essere considerata una vera e propria ricchezza. Mi riferisco al pluralismo etnico su un territorio di lingue, tradizioni storiche e culture diverse che, come in Italia arricchisce la comunità nazionale, così nelle terre della Croazia e della Slovenia, dove oggi sono ancora presenti comunità italiane, può, attraverso il pieno riconoscimento dei diritti, il pieno dispiegamento dell'identità nazionale, il fiorire di scuole italiane, la nascita di centri culturali, rappresentare una sorta di risarcimento - quello, sì, vero - sul territorio di coloro che con la forza dovettero scegliere l'esilio.
Come ho detto, dobbiamo commemorare questi nostri fratelli italiani nel ricordo del sacrificio compiuto in nome del paese e guardando al futuro, impegnandoci a lavorare tutti affinché l'Europa diventi senza frontiere e affinché sia possibile per gli italiani che ancora oggi risiedono in Slovenia e in Croazia essere cittadini di quei paesi con pienezza di diritti e, insieme a noi, esercitare il loro impegno di italianità e anche di servizio e piena partecipazione allo sviluppo del loro paese (Applausi dei deputati dei gruppi del CCD-CDU, di forza Italia e di alleanza nazionale).
Ricordo a chi non voglia farlo che la famosa e gloriosa prima guerra mondiale finì con il concetto di «vittoria mutilata». Evidentemente anche allora chi trattava a nome dell'Italia non era particolarmente capace o qualificato per farlo o si faceva turlupinare all'estero. Non parliamo della colossale turlupinatura avuta da De Gasperi e dal suo Governo, Governo illegittimo, perché non legittimato da un regolare voto popolare, come ho avuto l'onore di ricordare in quest'aula poche settimane fa, facendo riferimento all'elezione dell'Assemblea costituente e al referendum istituzionale del 1946 con motivazioni che sono agli atti e che non cito ora per evidenti motivi di tempo.
Sembra che i Governi italiani abbiano la «mano fatata», abbiano il «tocco» di re Mida al contrario quando trattano in campo internazionale! Forse il paragone è irriverente ma dal trattato di Versailles a quello di Rapallo, dal patto di Londra antecedente a questi al trattato di Parigi siamo arrivati ai trattati che nell'ambito della Comunità europea fissano le quote latte, la distillazione obbligatoria e altre amenità di questo genere. Abbiamo sempre degli incapaci che vanno a trattare!
Allora, noi non siamo molto disponibili ad accettare questa eredità, perché essa ci
cadrà sulla testa. È un'eredità che ha penalizzato pesantemente l'Italia per l'oggi e per il domani, per chi sarà in futuro erede dello Stato italiano. Non solo, ma è una eredità che ha ammesso un trattamento discriminatorio delle minoranze italiane rimaste oltre confine: mi riferisco alle minoranze italiane nell'Egeo; agli italiani rimasti senza tutela nei territori delle ex colonie; ai 350 mila veneti esuli dall'Istria e dalla Dalmazia, accettati a mala pena in patria (coloro i quali in molti casi non poterono votare per l'Assemblea costituente). A ciò si contrappone, invece, l'eccesso di diritti riconosciuti ad infime minoranze etnico-linguistiche ricomprese nei confini italiani.
Tutto ciò pesa sul futuro dell'Italia e della Padania (se un giorno - come noi speriamo - vi sarà la Padania), perché questi trattati hanno posto dei vincoli recepiti a livello costituzionale, in accordi internazionali e, addirittura, nell'ordinamento italiano per quanto riguarda norme amministrative: pensiamo alle deroghe esistenti in campo amministrativo ad esempio nella provincia di Bolzano.
Signor Presidente, noi non abbiamo festeggiato con tanta partecipazione ciò che lei invece aveva annunziato cercando di unire in una voce corale l'intera Assemblea. Noi riteniamo che quella da lei ricordata sia una data disgraziata; si tratta, infatti, di una data che ci vincola per il futuro e che cercheremo di rivedere e di sottoporre ad un esame molto critico. Ci comporteremo in tal senso perché ciò che hanno fatto quelli che ci hanno preceduto sia a livello interno, di organizzazione dello Stato italiano, costituzionale e governativo sia - disgraziatamente - nei rapporti con gli altri soggetti della comunità internazionale, non ci va assolutamente bene.
Nell'associarci quindi nel ricordo di quanti sono stati dolorosamente coinvolti in questa vicenda - ai quali va tutto il nostro omaggio, perché sono esuli nostri: io, che sono veneto, sento particolarmente la vicinanza con loro - dichiaro che non ci sentiamo di partecipare per nulla a quegli eventi e a quell'eredità che un Governo italiano (come pure quello in carica rispetto ad accordi internazionali) ha dovuto subire ed ha, tutto sommato, accettato; quando, forse, altre vie potevano essere aperte (Applausi dei deputati del gruppo della lega nord per l'indipendenza della Padania).
Credo che ricordare le condizioni con le quali l'Italia cinquant'anni fa ha dovuto prendere atto del trattato di pace, significhi indubbiamente non dimenticare quella guerra, il carico di genocidi, i campi di sterminio e di concentramento, tutti gli orrori che conosciamo, ma anche non guardare - ahimè - con spirito revanscista e con nostalgia di ciò che purtroppo determinò quelle macerie. Significa invece capire che in ogni caso il nostro paese seppe in seguito riprendersi, seppe rialzarsi, seppe non soltanto darsi una Carta costituzionale, ma anche avviare la ricostruzione di una dignità nazionale, la ricerca della pace, seppe uscire dall'isolamento. Dico questo anche in virtù di ciò che la parte del paese che maggiormente visse quelle tragedie, cioè le popolazioni del Friuli-Venezia Giulia, ha saputo in ogni caso fare in quegli anni.
È stata giustamente ricordata la tragedia, gli esodi; tuttavia, credo che accanto a ciò vada anche ricordato come si sia riusciti in quelle terre a costruire un
clima di collaborazione, di cooperazione, a far sì che in seguito quel confine fosse considerato il confine più aperto d'Europa. Credo che questa sia una grande lezione, proprio perché significa affrontare anche tragedie riuscendo a guardare avanti, riuscendo a capire che il futuro va costruito non guardando indietro o rivendicando ciò che ci aveva condotto a quelle tragedie, ma guardando avanti per costruire un futuro nuovo e diverso.
Credo dunque che non abbiamo qui motivo di andare a ricercare - cosa che potremmo fare ma in altre sedi - le responsabilità storiche che hanno portato alla perdita della Dalmazia, dell'Istria e quant'altro. Va invece sopratutto ricordato come oggi, in realtà, quelle zone, quei territori, vogliano essere protagonisti di quel processo necessario a far sì che ci possa essere un'integrazione europea anche dei territori d'oltre confine, che dunque non vanno più guardati come nemici, bensì come popoli con i quali non soltanto è d'uopo collaborare, ma con cui è altresì necessario cooperare per costruire l'Europa.
Pertanto, credo che ciò che ha contraddistinto l'operare delle forze politiche storiche del paese in questi anni sia stato il voler far tesoro delle dure repliche della storia, che hanno portato a quel trattato di pace, la volontà dunque di costruire un paese che potesse riprendersi, riacquistare una dignità nazionale e superare in quei territori gli odi e costruire ambiti che potessero essere forieri di sviluppo e di cooperazione. Oggi possiamo dire di aver costruito lungo questa linea le condizioni che hanno portato, per esempio, la Slovenia ad associarsi all'Unione europea, che porteranno il nostro paese e quelle realtà ad essere protagoniste dell'opera di integrazione europea.
Questo significa, allora, aver operato non con elementi di nostalgia, ma con responsabilità, con collaborazione, al fine di superare ciò che era stato per fare in modo che non avesse a ripetersi e nel contempo costruire dunque un paese unito, un'Italia unita, ma di nuovo protagonista di un processo di pace e della costruzione dell'Europa (Applausi dei deputati del gruppo della sinistra democratica-l'Ulivo).
Sono passati cinquant'anni; molti di quei famosi 350 mila sono morti, però i sopravvissuti, i figli, i nipoti, i parenti, ricordano ancora. Ricordano un esodo reso particolarmente doloroso perché l'accoglienza che venne riservata loro a Venezia ed a Bologna fu dura ed ostile. A Venezia non potevano scendere dalle navi perché erano accusati di essere dei fascisti traditori che lasciavano il paradiso comunista della Iugoslavia. A Bologna i ferrovieri versarono il latte portato dalle organizzazioni caritatevoli per i bambini che erano sul treno che stava portando le loro famiglie verso lidi lontani. Soltanto Trieste seppe accogliere gli esuli istriani ed ancora oggi ne vivono circa 70 mila a Trieste; essi hanno contribuito, in anni difficili per quella città, a tenerla viva. Trieste è una città che ha saputo resistere.
Sono però cinquant'anni che questa gente attendeva un riconoscimento storico, una parola di giustizia; in fondo il prezzo della guerra perduta, il prezzo di quel trattato è stato pagato quasi esclusivamente dagli italiani dell'Istria, di Fiume, della Dalmazia, di Trieste e di Gorizia. Su di loro, infatti, è ricaduto il peso della guerra perduta. Per cinquant'anni l'Italia è stata zitta, i governi romani non ne hanno parlato; i politici di tutte le regioni italiane non ne hanno parlato. Trieste era nel cuore degli italiani, nel cuore degli italiani d'Istria, però non si doveva parlare di ciò. Pensiamo che solo pochi mesi
fa, nell'estate del 1996, il partito democratico della sinistra ha riconosciuto l'esistenza delle foibe (erano gli anni '43, '44 e '45): 20 mila morti, alcuni anche fascisti e collaborazionisti, molti altri però erano gente inerme, civili, militari, carabinieri, finanzieri, preti. Ebbene, di tutto ciò per cinquant'anni non si è potuto parlare. In questo Parlamento delle foibe, dell'esodo, della tragedia dell'Istria si è parlato soltanto in questi ultimi anni. Non riusciamo ancora a chiudere il capitolo della restituzione dei beni che furono depredati, perché i governi di Lubiana e di Zagabria non intendono aprire tale trattativa.
Noi abbiamo aperto le porte e le braccia alla Slovenia, le abbiamo detto di entrare in Europa con noi, ma a condizione che diventasse europea almeno nella concezione dei rapporti con il cittadino. E Lubiana è diventata europea, ha restituito le case, che furono nazionalizzate, ai cittadini sloveni, ma non le restituisce ai cittadini che erano italiani e che dovettero andarsene. Questa è l'europeizzazione della Slovenia, questa è anche l'europeizzazione alla quale assistiamo in Croazia.
Anche noi, come il collega che mi ha preceduto, auspichiamo buoni rapporti; anche noi auspichiamo che quello resti il confine più aperto d'Europa, ma non aperto alle armi ed alla droga, aperto ad uno scambio culturale che rappresenti anche un momento di crescita.
Ricordare i cinquant'anni da quel trattato non può essere una festa, non può esserlo soprattutto per chi viene dai territori della ex Venezia Giulia, che ormai non esiste più: è rimasta solo nel nome Friuli-Venezia Giulia, vi è solo Trieste ed altri due comuni, perché hanno portato via tutto. Il nome dell'Istria, che è rimasto inciso nella storia e nel cuore, è addirittura diviso da un confine antistorico. Sono riusciti anche in questo: dividere l'Istria che non fu mai divisa; l'Istria infatti è divisa tra la Slovenia e la Croazia. Sono riuscite operazioni storiche e geografiche incredibili.
Per noi di quelle terre non è una festa, è un ricordo molto doloroso; ieri ha accomunato Roma e Trieste, quella città di Trieste che - voglio ricordarlo ancora una volta - nel 1953 diede gli ultimi morti, le ultime vittime in nome dell'italianità. Ebbene quella città non può ricordare con gioia bensì con estremo dolore, chiedendo ancora oggi giustizia (Applausi dei deputati dei gruppi di forza Italia e di alleanza nazionale).
Noi ricordiamo con profondo rispetto il sacrificio di quanti, di ogni parte e di ogni opinione, hanno sofferto ed hanno perso la vita nella seconda guerra mondiale. Da questo ricordo vogliamo trarre un incentivo forte per costruire un sistema di pace, di tolleranza e di collaborazione tra i popoli, perché siamo convinti che questa e solo questa è la vera strada del progresso e della civiltà.
Noi consideriamo, signor Presidente, la commemorazione che oggi si è svolta in quest'aula come un impegno a rafforzare le istituzioni nel nostro paese in un clima di libertà e di democrazia. Si tratta di un impegno che certamente è di tutte le forze politiche, ma noi popolari e democratici sentiamo questo impegno in modo particolarmente profondo proprio perché culturalmente e politicamente ci ricolleghiamo al Presidente del Consiglio De Gasperi, Presidente di un Governo legittimo e legittimato dal consenso popolare, onorevole Comino, un Governo che ha saputo riguadagnare al nostro paese la stima ed il rispetto degli altri Stati.
Noi ci uniamo al suo augurio finale, signor Presidente, perché il cammino della bicamerale, iniziato in questi giorni, voglia e possa svolgersi nel senso di portare ad un ulteriore inveramento nella nostra società dei valori della Costituzione, valori nei quali crediamo profondamente, e ad un ulteriore consolidamento del sistema
democratico del paese. Ci sembra questo il modo più giusto, rispettoso e costruttivo per ricordare quanti hanno sofferto nella seconda guerra mondiale (Applausi dei deputati dei gruppi dei popolari e democratici-l'Ulivo e della sinistra democratica-l'Ulivo).
È vero quello che hanno qui ricordato alcuni colleghi, che fra le infinite, ingiuste durezze del trattato di pace vi fu in quel tempo anche qualche riprovevole tentativo di ulteriore divisione ideologica fra gli italiani. Superammo quel triste periodo, così come supereremo altri tentativi di divisione che oggi si cerca di affermare nel nostro paese.
Sappiamo che non è la divisione dell'Italia il traguardo storico per il nostro paese, ma è il contributo dell'Italia unita all'unificazione dell'Europa. In questo spirito celebriamo il cinquantenario del Trattato di Parigi e ci auguriamo che i popoli europei possano trovare nella costruzione dell'unione politica d'Europa il completamento del processo che iniziò cinquant'anni fa con tale trattato (Applausi dei deputati dei gruppi di rinnovamento italiano, della sinistra democratica-l'Ulivo e dei popolari e democratici-l'Ulivo).
Ogni trattato di pace si correla alle vicende che lo precedettero: all'entrata in guerra dell'Italia, al mezzo milione di morti che fra il 1940 e il 1945, su tutti i fronti, dall'una e dall'altra parte, hanno segnato sanguinosamente quella terribile e sbagliata decisione della nostra entrata in guerra. Certo, come molti di voi hanno fatto, il nostro ricordo va ai sacrifici che le popolazioni innocenti hanno subito
come conseguenza di quel meccanismo della storia che fu messo in moto dalla nostra partecipazione all'Asse, dalla nostra scelta di campo nel 1940. E come non partecipare a quei dolori, a quelle trasmigrazioni! Tuttavia oggi l'Italia non è più marca di frontiera e la gente della Venezia Giulia, di Trieste e di Gorizia non vive più su un confine tra due sistemi; oggi, per effetto di quella decisione circa il trattato di pace e grazie al rientro dell'Italia nella comunità dei popoli liberi, abbiamo dato il nostro contributo alla creazione delle fondazioni morali, politiche e spirituali della nuova Europa.
Oggi sono il diritto di cittadinanza europea e l'allargamento della nostra comunità di difesa che portano a distruggere i confini per i quali le generazioni passate tanto combatterono. Oggi sulla frontiera orientale si apre la prospettiva, che spero coinvolga anche le popolazioni al di là del nostro attuale confine, della speranza di ripiegare i confini, di superarli, di annettere all'Europa popolazioni che ci furono nemiche nel 1945. Ecco perché uscendo dalla nostra storia domestica, dai molti lutti, dai molti dolori che ci vengono da quella regione noi guardiamo avanti e confidiamo che, come all'epoca di Venezia e dell'impero austriaco, quei confini, che per qualche decennio o per un secolo hanno segnato così la storia dall'una e dall'altra parte, possano oggi essere superati.
Questa è la ragione della nostra Europa in questo cinquantenario di un ricordo triste, ma anche di un ricordo che ci rammenta la forza e la responsabilità della politica (Applausi).