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GIUSEPPINA SERVODIO, Segretario, legge il processo verbale della seduta antimeridiana di ieri.
(È approvato).
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca lo svolgimento di interpellanze ed interrogazioni.
ALFREDO BIONDI. Rinunzio ad illustrare la mia interpellanza e mi riservo di intervenire in sede di replica.
PRESIDENTE. Il sottosegretario di Stato per la giustizia ha facoltà di rispondere.
GIUSEPPE MARIA AYALA, Sottosegretario di Stato per la giustizia. Signor Presidente, onorevoli colleghi, l'onorevole Biondi - premesso che in un'intervista rilasciata al giornalista Giorgio Bocca e pubblicata sul quotidiano la Repubblica del 7 novembre scorso il dottor Gherardo Colombo, sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Milano, avrebbe indicato quali elementi di una congiura ordita ai danni dell'ex collega dottor Antonio Di Pietro: il trasferimento a Brescia di un procedimento penale disposto dalla Corte di Cassazione, la prima ispezione ordinata dal ministro guardasigilli sulla procura di Milano, nonché un decreto-legge presentato dallo stesso ministro riguardante anche la corruzione e tale da creare sproporzioni e disuguaglianze - ha chiesto di conoscere le valutazioni del Governo sulle affermazioni del predetto dottor Colombo, nonché se il comportamento del magistrato, così come quello di altri colleghi dello stesso ufficio, non sia ritenuto in contrasto con gli indirizzi, recentemente dati dal Presidente della Repubblica e dal signor ministro, in ordine al dovere di riserbo che dovrebbe ispirare questo tipo di esternazioni.
PRESIDENTE. L'onorevole Biondi ha facoltà di replicare per la sua interpellanza n. 2-00298.
ALFREDO BIONDI. Signor Presidente, per essere soddisfatti di una risposta come questa bisognerebbe inserire simili frasi, opinioni e dichiarazioni in un contesto nel quale il comportamento di chi esercita le funzioni di sostenitore della pubblica accusa in determinati processi si discosta, in questo caso, dal dovere di collegamento delle proprie opinioni, che sono sempre rispettabili, con il dovere di riserbo e di rispetto di altre funzioni che qui non è evidente.
PRESIDENTE. Passiamo alla interpellanza Rebuffa n. 2-00269 (vedi l'allegato A).
TIZIANA PARENTI. Signor Presidente, mi riservo di intervenire in sede di replica.
PRESIDENTE. Il sottosegretario di Stato per la giustizia ha facoltà di rispondere.
GIUSEPPE MARIA AYALA, Sottosegretario di Stato per la giustizia. Signor Presidente, onorevoli colleghi, con riferimento alla interpellanza degli onorevoli Rebuffa e Parenti si fa presente quanto segue, richiamando le risposte date alle interrogazioni orali n. 3-00355 del senatore Gasperini, n. 3-00361 della senatrice Salvato e n. 3-00357 del senatore Valentino (risposte date al Senato il 21 ottobre 1996).
PRESIDENTE. L'onorevole Parenti ha facoltà di replicare per l'interpellanza Rebuffa n. 2-00269, di cui è cofirmataria.
TIZIANA PARENTI. Signor Presidente, signor sottosegretario, il concetto di relatività non l'ha inventato la procura generale di Brescia, ma ne ha dato una grande applicazione. E possiamo dire che questo è un principio di relatività cui forse neanche Einstein avrebbe mai pensato.
PRESIDENTE. Passiamo all'interpellanza Giovanardi 2-00047 (vedi l'allegato A).
GIUSEPPE MARIA AYALA, Sottosegretario di Stato per la giustizia. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
GIUSEPPE MARIA AYALA, Sottosegretario di Stato per la giustizia. Signor Presidente, poiché l'interpellanza Giovanardi n. 2-00047 è incentrata su affermazioni fatte a suo tempo dal senatore Arlacchi (poi pubblicate dal Corriere della Sera) nel corso di un colloquio al quale partecipavo anch'io, ritengo che per ragioni di opportunità si potrebbe rinviare lo svolgimento della medesima interpellanza ad altra seduta.
PRESIDENTE. Sta bene, sottosegretario Ayala. Lo svolgimento dell'interpellanza Giovanardi n. 2-00047 è pertanto rinviato ad altra seduta.
CARLO GIOVANARDI. Signor Presidente, passiamo dalle nebbie della Padania ad un'altra Italia, quella solare, quella meridionale, e passiamo da storie di amicizia o di inimicizia tra magistrati ad una storia che invece ha coinvolto un parlamentare, quindi un «non potente» nell'Italia di oggi (e se ex parlamentare ancora meno potente).
PRESIDENTE. Il sottosegretario di Stato per la giustizia ha facoltà di rispondere.
GIUSEPPE MARIA AYALA, Sottosegretario di Stato per la giustizia. In merito alla risposta al contenuto dell'interpellanza che fa riferimento alle frasi poc'anzi citate dall'onorevole Giovanardi, che sarebbero state pronunciate dal dottor Mancuso, il ministero si è naturalmente preoccupato di raccogliere ogni utile elemento per la risposta che fornirò e per eventuali altre valutazioni.
ALBERTO GAGLIARDI. Parole al vento!
PRESIDENTE. L'onorevole Giovanardi ha facoltà di replicare per la sua interpellanza n. 2-00166.
CARLO GIOVANARDI. Signor Presidente, cosa devo dire? Un po' quanto ha affermato la collega Parenti prima di me. Se la macchina del Ministero di grazia e giustizia - non ne faccio neanche una colpa al sottosegretario - serve solo per «prendere per i fondelli», per prendere in giro ed offendere i parlamentari interpellanti, perché fornisce al ministro ed ai sottosegretari che intervengono risposte di questo tipo, c'è da rimanere esterrefatti. Credo di avere sollevato tre problemi seri, che stanno proprio alla radice del rapporto fra il Parlamento ed il potere giudiziario.
GIUSEPPE MARIA AYALA, Sottosegretario di Stato per la giustizia. Più che censurabili!
CARLO GIOVANARDI. Siamo arrivati al punto che l'assassino è libero, pentito e retribuito con mezzo miliardo ed il politico presunto camorrista sta in carcere!
PRESIDENTE. Passiamo all'interrogazione Selva n. 3-00169 (vedi l'allegato A).
GIUSEPPE MARIA AYALA, Sottosegretario di Stato per la giustizia. Signor Presidente, sulla vicenda di Felice Maniero si ritiene opportuno richiamare ed integrare le informazioni già date con la risposta orale all'interrogazione del senatore Martelli n. 3-0047, nella seduta del Senato del 21 ottobre 1996, e all'interrogazione dello stesso onorevole Selva n. 3-00080, nella seduta della Camera del 16 ottobre 1996.
PRESIDENTE. L'onorevole Selva ha facoltà di replicare per la sua interrogazione n. 3-00197.
GUSTAVO SELVA. Signor Presidente, abbiamo notizia che Felice Maniero può condurre una vita da nababbo, pur essendogli stato sequestrato oltre un miliardo e pur non avendo dimostrato di avere beni con cui mantenersi. Questo è il mistero che resta, nonostante la risposta fornita dal sottosegretario Ayala.
PRESIDENTE. Segue - per aumentare il dato statistico riportato dall'onorevole Selva!- l'interrogazione Selva n. 3-00197 (vedi l'allegato A).
GIUSEPPE MARIA AYALA, Sottosegretario di Stato per la giustizia. Considerato il fatto che l'interlocutore del Governo continua ad essere l'onorevole Selva, desidero aggiungere a quanto ho già detto che la necessità non più dilazionabile di una profonda riflessione sull'attuale legislazione concernente il fenomeno dei collaboratori di giustizia è assolutamente condivisa dal Governo. La commissione interministeriale (che coinvolge i due ministeri più direttamente interessati sotto il profilo istituzionale, quello della giustizia e quello dell'interno) è stata costituita nel mese di settembre e lavora dai primi giorni del mese di ottobre. Sono personalmente responsabile per la parte concernente il Ministero di grazia e giustizia mentre per il Ministero dell'interno è responsabile il sottosegretario Sinisi. Non voglio prendere un impegno solenne...
GUSTAVO SELVA. Lo prenda!
GIUSEPPE MARIA AYALA, Sottosegretario di Stato per la giustizia. Sono incoraggiato a prenderlo dall'onorevole Selva! Come dicevo, ritengo che, considerati i ritmi di lavoro ed il suo sviluppo, fra non molto tempo (un mese o un mese e mezzo) avremo la possibilità di varare un articolato che a nostro giudizio è destinato a risolvere quanto meno i problemi più urgenti, ferma restando certamente la vecchia regola per la quale una legge ha due momenti fondamentali: quando viene concepita e quando viene applicata. Vi sono buone leggi che, se applicate male, diventano cattive leggi. Talvolta accade anche il contrario: leggi non buone che, interpretate con qualche atto di buona volontà, finiscono poi per fare meno danno di quanto non fosse prevedibile.
PIETRO MITOLO. Diciamo all'italiana!
PRESIDENTE. L'onorevole Selva ha facoltà di replicare per la sua interrogazione n. 3-00197.
GUSTAVO SELVA. Al di là delle giustificazioni formali di cui prendo atto, a me sembra che il concetto che sottende alla risposta del sottosegretario sia quello della discrezionalità. Non c'è dubbio che questo è un concetto che esiste nel nostro ordinamento giuridico e giudiziario, rilevo tuttavia la gravità del caso e il fatto che non è stato neanche fornito il dato (ai fini di una correzione di quello da me citato) circa il numero di giorni, di mesi trascorsi in carcere dal Maccari.
PRESIDENTE. Seguono le interrogazioni Guidi n. 3-00252 e Cento n. 3-00257 (vedi l'allegato A).
GIUSEPPE MARIA AYALA, Sottosegretario di Stato per la giustizia. Signor Presidente, colleghi, in ordine ai ricorrenti e periodici problemi di ricettività che caratterizzano la casa circondariale di Milano, il competente ufficio del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria ha sempre seguito e segue l'evolversi della situazione intervenendo, unitamente al provveditore regionale, con frequenti e sistematici sfollamenti dell'istituto. In particolare, nel corso del 1996 sono stati operati trasferimenti da San Vittore che hanno riguardato circa 2 mila detenuti. Peraltro, soltanto negli ultimi due mesi sono stati disposti provvedimenti di trasferimento per circa 400 detenuti e ciò ha contribuito ad alleggerire in misura significativa lo stato di sovraffollamento dell'istituto milanese.
PRESIDENTE. L'onorevole Guidi ha facoltà di replicare per la sua interrogazione n. 3-00252.
ANTONIO GUIDI. Presidente, colleghi, sottosegretario, i dati che lei ha fornito si riferiscono all'oggi, mentre l'interrogazione è stata presentata a settembre.
PRESIDENTE. La prego di concludere.
ANTONIO GUIDI. C'è un tempo? Quanto?
PRESIDENTE. Ha superato il tempo a sua disposizione.
ANTONIO GUIDI. Mi sembra che gli altri colleghi abbiano parlato un po' di più.
PRESIDENTE. C'è una differenza tra l'interpellanza e l'interrogazione. La sua è un'interrogazione e quindi lei ha diritto a cinque minuti di tempo per la replica.
ANTONIO GUIDI. Le chiedo solo un minuto per completare il mio intervento e mi scuso.
PRESIDENTE. Se è un minuto, va bene.
ANTONIO GUIDI. Sono sessanta secondi e pronuncerò sessanta parole.
PIER PAOLO CENTO. Signor Presidente, pur prendendo atto della risposta del sottosegretario e ringraziandolo, non posso che esprimere la mia completa insoddisfazione al riguardo. Addirittura non viene fatto riferimento - mentre credo questa sia prassi del Ministero di grazia e giustizia e già mi è capitato con altre interrogazioni - a proteste legittime espresse in modo pacifico ed estremamente civile da parte di detenuti che denunciano la non sopportabilità della loro condizione carceraria.
PRESIDENTE. Segue infine l'interrogazione Gasparri n. 3-00331 (vedi l'allegato A).
GIUSEPPE MARIA AYALA, Sottosegretario di Stato per la giustizia. Per rispondere alle domande dell'onorevole Gasparri
PRESIDENTE. La Presidenza lo consente, signor sottosegretario.
GUSTAVO SELVA. Nella risposta data ad una precedente - ed in qualche modo analoga - interpellanza dell'onorevole Giovanardi la responsabilità era in qualche modo attribuibile a la Repubblica; questa volta, la responsabilità è delle bobine Naturalmente, sono sicuro che il sottosegretario abbia riferito il contenuto dell'intervento del dottor D'Ambrosio - del quale, peraltro, ha chiesto la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna - registrato sulle bobine; ma a commettere sbagli nell'esprimere giudizi siamo sempre noi parlamentari quando presentiamo delle interrogazioni: dopo di che, staremo più attenti e probabilmente ci faremo dare le bobine o i testi scritti delle interviste integrali.
Cominciamo con l'interpellanza Biondi n. 2-00298 (vedi l'allegato A).
L'onorevole Biondi ha facoltà di illustrarla.
L'intervista di cui trattasi trae spunto dalla pubblicazione del libro scritto dal dottor Colombo dal titolo Il vizio della memoria. Le domande del giornalista e le risposte del magistrato muovono da quanto esposto e dedotto nel libro, ripercorrendone il contenuto.
Quanto alla frase oggetto delle doglianze dell'onorevole interpellante, va rilevato in primo luogo che essa fa seguito alla domanda rivolta al dottor Colombo dal giornalista Bocca e così formulata: «Lei parla anche del caso di Antonio Di Pietro e dice che la sua decisione di lasciare la magistratura viene da lontano; non è stata dovuta all'improvvisa dichiarazione di una congiura ai suoi danni?». La risposta fornita dal dottor Colombo è quella riferita nel testo dell'interpellanza.
Emerge, invero, dalla stessa formulazione della domanda posta dal giornalista nel ripercorrere quanto esposto nel libro sulla vicenda delle dimissioni del dottor Di Pietro, che la decisione di quest'ultimo di lasciare la magistratura non fu tanto dovuta alla improvvisa rivelazione di una
congiura ai suoi danni, quanto piuttosto - secondo una lettura dei fatti data dallo scrittore - a ragioni lontane riferite nel libro e sopraelencate, attendibilmente oggettive e indipendenti tra loro.
Non pare pertanto condivisibile l'interpretazione dell'articolo prospettata dall'onorevole interpellante, secondo cui i fatti indicati dal dottor Colombo farebbero parte, quali elementi di essa, della congiura ordita ai danni dell'ex magistrato per costringerlo a dimettersi, poiché essa contrasta in modo evidente con il pensiero dell'autore del libro e in ogni caso con la ricostruzione della vicenda che egli ha inteso fornire.
Conseguentemente, non sembra sussistere nell'intervista in questione, peraltro illustrativa del contenuto di un libro già stampato, alcun profilo idoneo a turbare l'esercizio di altre funzioni istituzionali dello Stato, ovvero a recare ad esse discredito.
In conclusione, non pare ravvisabile nella condotta del dottor Colombo alcuna violazione del dovere di riserbo anche con riguardo al codice etico delle esternazioni, così come delineato dal signor ministro con nota del 20 settembre 1996.
È vero che la risposta del sottosegretario fa riferimento ad un libro (rispetto quindi il diritto dell'autore di pensarla come vuole quando fa una considerazione collegata più alle sue opinioni letterarie e politiche che alle sue competenze funzionali), ma credo che le dichiarazioni riportate testualmente (che - mi è stato dato atto almeno di questo - sono quelle rese dal dottor Colombo ad un giornalista come Bocca) corrispondano ad una realtà, nella quale si individua una congiura, non quella perpetrata o presuntamente perpetrata ai danni del dottor Di Pietro, ma quella che avrebbe comportato un collegamento veramente criminoso. Il collegamento sarebbe tale se vi fosse il combinato disposto di una manifestazione di volontà politica attribuita addirittura alla Corte di Cassazione, rea di avere deciso in sede di risoluzione di conflitto di competenza il trasferimento a Brescia di un procedimento, e della prima ispezione della procura di Milano, ordinata dall'allora ministro di grazia e giustizia (in questo caso chi vi parla), la cui motivazione è stata ampiamente esposta in Parlamento, quando è stato il momento di farlo, sulla base di una serie di elementi, di dichiarazioni, di istanze, anche della procura generale di Milano, e soprattutto di interrogazioni parlamentari. Tali interrogazioni invitavano il ministro ad effettuare quelle verifiche, compiute le quali si è potuto stabilire (cosa che mi ha fatto molto piacere) che gli elementi che formavano oggetto delle istanze, a parere degli ispettori che si erano recati a Milano per compiere questo loro dovere, erano tali da non doversi rilevare elementi negativi. Quindi, non vi era alcun elemento che consentisse una recriminazione, o che potesse determinare la violazione, collegata, di un rapporto tra il ministro e la sede giudiziaria in cui l'ispezione veniva compiuta, come se l'esercizio di un diritto e l'adempimento di un dovere (discrezionale, ma sempre dovere) da parte del ministro costituisse un attentato alla dignità e alla considerazione che si deve dare all'indipendenza della magistratura, tanto nella fase inquirente quanto in quella giudicante.
Sono elementi che formano oggetto del mio personale, antico rispetto, e del rispetto funzionale che il ministro aveva, nel compiere gli accertamenti cui lo obbligavano le richieste che gli venivano
avanzate pressantemente e reiteratamente. Ciò vale anche per «un decreto-legge che riguardava pure la corruzione e che creava sproporzioni e disuguaglianze», come se un atto del Governo dovesse determinare, in relazione ad un momento e ad un'esigenza ritenuta dallo stesso Governo nella sua collegialità ed unanimità, qualcosa che, collegato ad una sentenza della Cassazione e ad un atto ispettivo dell'esecutivo, sapesse di congiura, di avvolgimento, di distorsione delle funzioni dell'autorità giudiziaria, sia pure nella fase delle inchieste che erano in corso a Milano.
Ci si stupisce che tutto questo non solleciti il Governo, il ministro guardasigilli e il sottosegretario che se ne è fatto eco, ad una valutazione di carattere negativo in ordine al comportamento di un magistrato, che non è nuovo a questo tipo di esternazioni. Tant'è vero, che in una requisitoria da lui resa in un procedimento attualmente in corso a Milano, il dottor Colombo non si peritò di dichiarare: «Berlusconi, da Presidente, favorì i rei di concussione». In questa dichiarazione, resa nel corso di un atto del proprio ufficio, si afferma addirittura: «Allorché ricoprì la carica di Presidente del Consiglio dei ministri promosse e sostenne iniziative legislative volte ad introdurre un trattamento di maggior favore per i rei di concussione. Provvedimenti che avevano favorito proprio coloro che - secondo la versione degli appartenenti al gruppo - avrebbero concusso i suoi dipendenti».
Che un atto legislativo del Governo, sottoposto al giudizio del Parlamento possa essere definito da un pubblico ministero in una requisitoria, e poi in un'intervista, come un atto che possa non solo ledere i diritti generali della collettività, ma anche essere indirizzato a favorire qualcuno piuttosto che qualcun altro, è un fatto che riguarda non solo l'indipendenza dell'azione dell'esecutivo nella scelta degli strumenti legislativi, ma anche l'ipotesi di un reato di favoreggiamento - o, per lo meno, un abuso nell'esercizio del diritto di decretazione - che viene attribuito non solo al Presidente del Consiglio nella sua veste di principale azionista di una società, ma addirittura al ministro proponente ed agli altri ministri che decisero con voto unanime l'emanazione di questo provvedimento, che porta anche la firma del Presidente della Repubblica, soggetto che già nella prima fase doveva valutare o meno gli elementi che Colombo censura così duramente. Che ciò sia ammissibile proprio mentre nel nostro paese si verifica l'avvio di un'azione disciplinare nei confronti di un magistrato di La Spezia, il quale si è limitato a rispondere con un sì invece che con un no ad una domanda rivolta, per così dire, al volo da un giornalista, è un fatto che stupisce, perché configura una diversità di valutazione che sono costretto a segnalare, l'utilizzo di due pesi e due misure anche da parte di chi promuove le iniziative di carattere disciplinare (il ministro o il procuratore generale).
A meno che non si debba ritenere che quello che viene dichiarato per tutti coloro che svolgono attività di carattere giurisdizionale o inquirente valga solo purché non si riferisca alla magistratura milanese, purché non si riferisca ad un gruppo di soggetti che, come purtroppo ebbe a dire il procuratore generale della Cassazione, attualmente presidente della Corte suprema di Cassazione, costituisca un'area di intoccabilità, di intangibilità che escluderebbe responsabilità a tutti gli altri attribuite, qualora gli stessi fatti venissero commessi nella regione di rito ambrosiano invece che in un'altra regione di rito nazionale.
Provo una certa amarezza nell'ascoltare la risposta del Governo, che si riferisce ad elementi che costituiscono un rapporto che dovrebbe essere di lealtà, di reciprocità e di rispetto tra chi svolge l'attività di magistrato e chi svolge l'attività istituzionale; compiti difficili, certamente soggetti anch'essi a critiche, ma non inquadrabili in un ambito di congiura, con riferimento al rapporto tra comportamenti che appartengono a soggetti diversi: da un lato la Cassazione, da un altro il Governo, dall'altro ancora il ministro della giustizia nell'esercizio della
sua attività, di collegamento tra ciò che deve fare e ciò che è giusto che regolarmente facciano i magistrati per il buon andamento dell'amministrazione della giustizia; non in termini di «inserzione» nelle indagini, non per limitazione delle stesse, ma per corrispondere, appunto, ai principi ai quali dovrebbe richiamarsi un buon rapporto nei comportamenti caso per caso, soggetto per soggetto, materia per materia.
Viene fornita una valutazione, che non so se sia contenuta nel libro - ma in questo caso, peggio ancora - perché non ho avuto il piacere di leggerlo (ma farò in tempo a farlo per vedere che cosa riporta). Ho segnalato le affermazioni dell'intervista non come se fossero un punto di riferimento da collegare per forza al pensiero generale del pubblico ministero dottor Colombo, ma per indicare come, in relazione alla domanda del giornalista, vi fosse l'avallo di un'interpretazione negativa. Se anche tale interpretazione nel libro è più sfumata, occorre considerare che coloro che hanno letto l'articolo, acquistano il giornale la mattina senza recarsi prima in libreria per valutare l'autorevole opinione generale sui temi del diritto e su temi personali, vagamente autobiografici, che emergono anche dall'intervista di Bocca. Tutto ciò per stabilire se questo giudizio negativo possa essere considerato possibile in uno Stato di diritto dove vige la separazione dei poteri, dove giustamente la magistratura invoca i princìpi di indipendenza, dove ogni giorno di queste cose si discute e giustamente si crea, come mi pare si sia verificato, un'atmosfera nel tempo migliore, un'atmosfera più respirabile, una valutazione più serena, rispetto a quelli che sono i gravi problemi che possono verificarsi, ma che non possono essere interpretati come dati che determinano un giudizio negativo su atti della magistratura, della Corte di Cassazione, del Governo, su provvedimenti legislativi.
Non c'è dubbio che, nel momento in cui si determina un'atmosfera di sospetto, un'alone di incertezza, una durezza nel confronto (che ritengo dovrebbe essere sempre ispirato al rispetto nella reciprocità dei ruoli) si crea un conflitto, un'angoscia, una legittima preoccupazione e il sospetto, appunto, che attraverso il mantenimento di un'atmosfera di crisi e di vittimismo, si voglia stabilire quello che invece oggi non si vuole più che accada; cioè che la giustizia venga usata a pretesto per iniziative politiche, che la giustizia abbia visioni unilaterali invece che generali, che si abbia nell'esercizio dell'azione che compete al magistrato e in quello legittimo che compete al Governo nei suoi organi decisionali, alla Corte di Cassazione nella sua valutazione giurisdizionale e al Parlamento nell'esercizio della sua attività di verifica e di controllo degli atti del Governo, un rapporto diretto a stabilire una sorta di congiura e di aggressione.
Che importa poi se lo stesso ministro, che qui viene accusato di aver adottato provvedimenti parziali o misure costrittive nei confronti dell'autorità giudiziaria, sia lo stesso che, al termine di una ispezione, stabilì che non sussistevano nei confronti di un soggetto, come il dottor Di Pietro, elementi né di carattere penale né di carattere disciplinare? Che importa se l'ispezione doverosamente compiuta sia stata accompagnata da un giudizio complessivamente positivo e rispettoso, se alla fine i soggetti che dovrebbero essere i più vicini a questa verifica di serenità e di obiettività siano quelli che trasformano questi atti in atti di imperio, di sopraffazione, di congiura?
Il ministro di grazia e giustizia, il sottosegretario che ha sensibilità e conoscenza di questi problemi, hanno dato questa risposta, che è irridente e anche offensiva nei confronti di chi ha presentato l'interpellanza. Hanno ritenuto di comportarsi in questo modo: prendo atto di tutto ciò, sia pure con dolore, perché significa non aver compreso lo spirito di un'interpellanza, il senso dello Stato che da questa derivava; così come non comprendo come si possa dire che ciò che per altri magistrati è doveroso, cioè la subordinazione alla legge e l'ottemperanza a ciò che il Consiglio superiore della magistratura
indica, il ministro propone e lo stesso Presidente della Repubblica proclama, con infiniti interventi, tanto infiniti quanto inutili Tutto ciò rappresenta il trionfo dell'indifferenza, l'assenza di compartecipazione, la delusione per chi crede nella giustizia e per chi crede che questo criterio di giustizia debba essere presente in ciascuno degli atti che riguardano i rispettivi uffici, i rispettivi compiti.
Nel sindacato ispettivo c'è sempre qualcosa che attiene alla verifica dei rapporti, nella speranza che tale verifica sia positiva, che ci si immedesimi nel fine, che si valuti il mezzo e se ne traggano le conclusioni. Amaramente questo non è accaduto. Quindi quella che traggo è una conclusione assai dispiaciuta. La formula prevede la «soddisfazione» o l'«insoddisfazione». Ebbene, la mia è una profonda insoddisfazione: personale, politica e parlamentare, di cui il Governo si è reso responsabile attraverso una risposta che non è nemmeno democratica; è una risposta di parte, una risposta insensibile e che non fa onore a chi me l'ha data.
L'onorevole Parenti, cofirmataria dell'interpellanza, ha facoltà di illustrarla.
L'avvocato Massimo Dinoia, difensore della parte civile, dottor Antonio Di Pietro, nel procedimento penale a carico di Dinacci Ugo ed altri, in fase dibattimentale davanti al tribunale di Brescia ha chiesto, con atti depositati il 24 e il 30 settembre 1996 presso la procura generale di Brescia e da tale ufficio trasmessi alla locale procura della Repubblica, di valutare se nel procedimento penale anzidetto ricorressero in rapporto al pubblico ministero di udienza, dottor Fabio Salamone, le ipotesi di cui all'articolo 36, comma 1, lettera d), del codice di procedura penale (grave inimicizia con la parte civile dottor Antonio Di Pietro) e quindi i presupposti per l'operatività dell'articolo 53, commi 2 e 3, dello stesso codice, che trova applicazione proprio in presenza della condizione di grave inimicizia tra pubblico ministero e una delle parti del processo.
Nell'istanza l'avvocato Dinoia assumeva che il dottor Salamone aveva condotto le indagini nei procedimenti celebrati a Brescia a carico del dottor Di Pietro con accanimento personale ed aveva tralasciato di astenersi, pur sapendo che l'ex pubblico ministero di Mani pulite aveva contribuito a mettere a fuoco il ruolo di suo fratello Filippo Salamone, costruttore edile di Agrigento, nella storia della Tangentopoli siciliana.
Il procuratore della Repubblica di Brescia, dovendo provvedere relativamente alla suddetta istanza agli adempimenti di sua competenza, chiedeva al ministro di grazia e giustizia di poter conoscere l'esito e le conclusioni dell'inchiesta condotta sui fatti in questione; inchiesta di cui gli organi di stampa avevano dato notizia e che lo stesso avvocato Dinoia aveva citato nella sua istanza, allegando tra l'altro una lettera con la quale il ministro di grazia e giustizia aveva negato al dottor Di Pietro il diritto di accedere direttamente agli atti dell'inchiesta, che aveva richiesto per fini difensivi, ai sensi dell'articolo 38 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, e gli esposti contro il dottor Salamone, che avevano originato i primi accertamenti sulla vicenda.
La nota dell'8 agosto 1996 del procuratore di Brescia veniva riscontrata il giorno successivo; in essa si dava conferma che un accertamento ispettivo era stato disposto dal guardasigilli, anche su sollecitazione del procuratore generale della Cassazione, a seguito ed in relazione a numerosi esposti presentati dal dottor Di Pietro nei confronti dei sostituti procuratori della Repubblica di Brescia, dottori Salamone e Bonfigli, riguardanti asserite anomalie ed irregolarità in cui questi ultimi sarebbero incorsi nella conduzione delle indagini penali che hanno interessato lo stesso dottor Di Pietro in qualità di persona offesa e di indagato.
Nella nota di riscontro al procuratore della Repubblica di Brescia si aggiungeva altresì che gli accertamenti avevano avuto ad oggetto la sussistenza di eventuali comportamenti censurabili sotto il profilo deontologico dei magistrati sopra indicati e che l'inchiesta si era conclusa con relazioni inviate sia al procuratore generale della Cassazione, che condivide con il ministro di grazia e giustizia la titolarità dell'azione disciplinare, sia all'articolazione ministeriale competente per l'esame di quanto emerso dall'inchiesta.
Ai fini delle valutazioni che costituivano il presupposto della richiesta del procuratore della Repubblica di Brescia e che avevano riguardo all'esercizio delle attribuzioni conferitegli dalla legge, ai sensi del citato articolo 53 del codice di procedura penale, si segnalava comunque che le conclusioni dell'ispettorato generale non erano ostensibili, trattandosi di giudizi esclusivamente finalizzati alle iniziative di competenza dei titolari dell'azione disciplinare, da assumere tenendo anche conto di eventuali profili di interferenza sui procedimenti penali in corso.
Si precisava, comunque, che esse risultavano, per la gran parte, formulate sulla base di documenti, dei quali si forniva dettagliato elenco, allegati agli esposti del dottor Di Pietro e trasmessi, tra gli altri, anche al procuratore generale di Brescia.
Il procuratore della Repubblica presso il tribunale con provvedimento dello stesso 9 ottobre 1996 dichiarava non doversi far luogo alla sostituzione per ragioni di inimicizia grave ex articolo 53 del codice di procedura penale del dottor Fabio Salamone quale pubblico ministero di udienza nel procedimento penale di cui trattasi per riscontrato difetto delle condizioni che la impongono e, quindi, la consentono.
In particolare, il procuratore della Repubblica ha ritenuto di poter escludere il dedotto stato di inimicizia grave tra i soggetti sopra specificati sull'assunto che l'attività di indagine svolta dall'allora sostituto procuratore dottor Di Pietro nei confronti di Filippo Salamone, fratello del pubblico ministero Fabio Salamone, se pur poteva costituire fattore di turbamento, quantomeno formale, dell'immagine di serenità e di obiettività per chi a sua volta come magistrato e fratello della persona inquisita sia chiamato a svolgere uguale attività di indagine nei confronti di quel magistrato, certamente non può dirsi che sia per ciò solo dimostrativa di uno stato di inimicizia, grave o non.
Aggiungeva, il procuratore della Repubblica, che la sussistenza dello stato di inimicizia doveva risultare positivamente provata nei suoi contenuti effettivi, mentre non emergevano dalle carte fatti dai quali poter desumere con certezza la sussistenza di contenuti cui riconoscere siffatta valenza.
Il provvedimento veniva comunicato anche al procuratore generale del distretto ed il titolare di tale ufficio, nell'ambito del potere di intervento espressamente previsto dalla legge processuale e, in particolare, dall'articolo 53, terzo comma, del codice di procedura penale, giudicava sussistere il dedotto stato di inimicizia tra il pubblico ministero di udienza, dottor Salamone, e la parte civile, dottor Di Pietro.
Conseguentemente, preso atto dell'omessa sostituzione del magistrato a cura del procuratore della Repubblica, designava per l'esercizio delle funzioni di pubblico ministero nel dibattimento in corso a carico di Ugo Dinacci ed altri il sostituto procuratore generale dottor Raimondo Giustozzi.
Il procuratore generale, diversamente da quanto ritenuto dal procuratore della Repubblica, ha giudicato corretto desumere lo stato di grave inimicizia sulla base di una sommaria e sintetica valutazione degli stessi fatti già analizzati dal collega dell'altro ufficio, valutazione condotta, a suo dire, secondo le comuni regole di esperienza, in conformità del principio dell'id quod plerumque accidit.
Alla stregua del suddetto principio e tenuto conto dell'indubbia idoneità in concreto dell'indagine penale a generare condizioni di grave inimicizia, che giungono spesso al livello di pervicace odio privato, è parso al procuratore generale non solo possibile, ma doveroso affermare che la rilevante attività investigativa svolta dal dottor Di Pietro nei confronti di Filippo Salamone, con l'effetto di concorrere alla incriminazione di questi per gravissimi delitti, costituiva prova certa e tranquillizzante dell'esistenza di una oggettiva condizione di incompatibilità di suo fratello Fabio, pubblico ministero di udienza, e ciò per l'indubbia presenza di gravi elementi dai quali sarebbe irragionevole non trarre la conseguenza dell'esistenza di una causa di inimicizia grave tra il fratello del dottor Salamone ed il dottor Antonio Di Pietro.
L'illustrato sviluppo della vicenda processuale relativa alla sostituzione del dottor Fabio Salamone consente di svolgere alcune considerazioni.
Sia il provvedimento del procuratore della Repubblica di Brescia sia il successivo decreto del procuratore generale del distretto si collocano nell'ambito del vigente sistema processuale penale e costituiscono manifestazione dell'esercizio di poteri attribuiti dalla legge per garantire il corretto svolgimento del processo, nel quale il giudice e le parti, seppure istituzionalmente contrapposte, non devono mai versare in condizioni di reciproca ostilità per fatti e vicende estranee al processo medesimo.
Al decreto del procuratore generale di Brescia, oggetto delle doglianze degli interpellanti, non può disconoscersi la natura sostanzialmente giudiziaria, siccome collocato nell'ambito del processo quale atto ad esso attinente alla partecipazione necessaria del pubblico ministero. Esso è conforme allo schema tipico di cui all'articolo 53 del codice di procedura penale, non evidenzia carattere di abnormità, né risulta manifestamente ispirato da finalità contrarie a quelle di giustizia. Il decreto è, d'altronde, fondato sugli stessi fatti esaminati anche dal procuratore della Repubblica, con l'unica differenza che ad essi si è data una diversa, ma altrettanto legittima, interpretazione, solo con riguardo alla valutazione della prova circa la sussistenza in concreto di uno stato di inimicizia grave tra il dottor Salamone ed il dottor Di Pietro.
La posizione personale della parte civile poi ha trovato tutela nel decreto del procuratore generale solo in modo indiretto e nella misura in cui l'interesse del dottor Di Pietro è risultato coincidente con l'interesse pubblico alla corretta organizzazione e funzionalità dell'ufficio di procura, nonché all'integrità e alla credibilità del luogo dell'accusa.
Trattandosi, come già rilevato, di provvedimento che incide sulla partecipazione al processo del pubblico ministero, l'eventuale illegittimità di esso potrebbe ripercuotersi sulla regolarità del dibattimento e quindi, in tali limiti, è soggetto al controllo del giudice.
Conclusivamente può affermarsi che nella vicenda in esame i titolari degli uffici del pubblico ministero hanno operato nell'ambito dei poteri loro conferiti dal codice di rito e come tali non appaiono allo stato censurabili dal ministro.
Per quanto attiene alle diverse valutazioni, il sottosegretario sa, per aver fatto
il magistrato, che si può motivare tutto e il contrario di tutto. È questo che dà grande incertezza alla giustizia: la capacità e la volontà in questo caso di valutare e quindi di dare una diversa motivazione per le medesime circostanze, nella vicenda in esame di questo fatto di grave inimicizia che per alcuni esiste e per altri non esiste.
Il punto è che questi signori fanno i magistrati, se facessero gli opinionisti il problema sarebbe relativo; facendo i magistrati il problema è molto più grave. Infatti, se è vero che i giudizi variano sempre, è pur vero che dai fatti oggettivi non si possono trarre giudizi così contrastanti.
Non a caso, signor sottosegretario, discutiamo questa interpellanza parlamentare dopo che è già stata formulata la richiesta da parte del procuratore generale e dopo una sentenza di assoluzione annunciata, in seguito a questa revoca; ebbene, se a noi fa sempre piacere che le persone vengano assolte perché non dà mai soddisfazione il fatto che gli altri vengano condannati, pur tuttavia rappresenta un altrettanto grave motivo di inquietudine come si affronta un certo tipo di processi.
Deve essere innanzi tutto rivelata una grande contraddizione: è chiaro che il rapporto di inimicizia può esistere con l'imputato; è difficile che esista con la persona offesa. Fino alla sentenza, se ci sono degli imputati, è evidente che l'inimicizia può essere verso costoro. Se, come nel caso di specie, il dottor Di Pietro si considera una persona offesa, è molto difficile che un pubblico ministero possa essere nemico di una persona offesa a tal punto da far fare il processo ad altri.
In realtà questa contraddizione è facilmente spiegabile proprio alla luce delle parole del procuratore generale, che mi auguro la categoria dei magistrati non segua fino in fondo. Si è chiesta l'assoluzione - il che mi fa piacere e condivido peraltro la scelta - perché si doveva assolvere la persona offesa: questa è la realtà. Si doveva dire che prendere 100 milioni da un imputato non è un reato e che non solo non è un reato, ma non è neanche un illecito disciplinare. Mi auguro, come ho già detto, che la categoria non segua queste indicazioni perché sarebbe devastante. Quindi, non è un reato ricevere le macchine dagli imputati e comunque neanche un illecito disciplinare. Il fatto non sussiste, ma non è che non sussista per gli imputati, non sussiste per la persona offesa.
In pratica si è celebrato un processo e l'avocazione nasce per la paura che quantomeno un minimo di rilievo potesse esserci per la persona offesa, non per gli imputati.
È indubbio che questo procuratore generale deve avere tanti problemi e tante preoccupazioni al punto da sostituire due sostituti procuratori. Anche a tale proposito vanno effettuate delle precisazioni. Si asserisce che il dottor Salamone ce l'aveva con la persona offesa, da lui giudicata, quindi, vittima di un reato, e già questo è singolare. Cosa ha fatto, infine, Di Pietro a Salamone? Non è mai stato possibile saperlo. Dubito che sia vero, e nessuno ha mai replicato il contrario, che cioè sia stato il dottor Di Pietro a far promuovere un'azione penale nei confronti del fratello di Salamone; anzi sembra che non se ne sia mai assolutamente occupato. È rimasto un mistero perché nessuno ha mai spiegato quale sia il procedimento, quali siano i fatti, quali siano i responsabili; tutto è rimasto nel vago e può darsi che in un verbale ci sia stato un nome che abbia rimandato per competenza ad un'altra procura ma da qui a far nascere una «inimicizia grave» e, come è stato detto nella risposta, addirittura un «pervicace odio privato» (è vero che il carattere dei siciliani è piuttosto focoso) mi sembra davvero eccessivo. Questo «pervicace odio privato» si sarebbe risolto nel considerare il dottor Di Pietro vittima di un reato.
Quale motivo di inimicizia aveva il dottor Bonfigli nei confronti del dottor Di Pietro? Non ci risulta che si fosse mai occupato di alcun procedimento né che abbia mai avuto rapporti personali da cui far nascere questo «pervicace odio privato». Non si capisce se fosse fondato il
motivo per allontanare il dottor Salamone. A che titolo è stato allontanato il dottor Di Pietro? Il procuratore della Repubblica, che è responsabile dell'ufficio e quindi dei suoi sostituti, ha escluso che ci potessero essere motivi di «inimicizia». Da ciò allora dovrebbe desumersi che anche il procuratore della Repubblica aveva motivi di inimicizia talché non voleva allontanare il dottor Salamone dal dottor Di Pietro. Non ci risulta che il procuratore della Repubblica avesse motivi di inimicizia. Chi aveva allora motivi di inimicizia? Forse aveva motivi di «amicizia». È un caso non di «grave inimicizia» ma - come è stato scritto - di «grave amicizia». Da qui nasce questo stravagante processo che si spiega in questo modo dal suo inizio fino alla fine.
Per anni l'Italia si è interrogata sui motivi che hanno spinto il dottor Di Pietro a dimettersi dalla magistratura. Non mi sembra un problema così interessante perché ciascuno di noi decide di andare o di venire a meno che la persona non denunci personalmente fatti gravi a suo danno, cosa che non è mai avvenuta.
Da questo pressing esercitato per sapere, per dimostrare che il dottor Di Pietro è vittima del mondo, di complotti, dei cattivi e delle gravi «inimicizie personali» è venuto fuori questo discorso nell'ambito del quale alcuni ci hanno rimesso, ma la vicenda che doveva essere chiarita si è ingarbugliata ancora di più. Chi ha paura del dottor Di Pietro? Gli imputati che sono lì o gli amici che sono da un'altra parte? Gli amici che sono da un'altra parte.
Anche il procuratore generale di Brescia ha paura del dottor Di Pietro, non è la prima volta che si verifica una cosa del genere. Era già accaduto con un precedente sostituto procuratore di Brescia, il dottor Ascione al quale il procuratore generale consigliò di lasciar perdere alcune denunce sulla vicenda Enimont, che è considerata la «madre di tutte le tangenti». Essa però è anche la «madre di tante porcherie» che si sono verificate successivamente di cui abbiamo visto solo uno squarcio attraverso il caso Pacini Battaglia. Quest'ultimo entrerà anch'esso nel «porto delle nebbie» di questa grande Padania che sta diventando l'Italia per cui non ci sarà bisogno neanche dei leghisti perché l'Italia sarà una Padania coperta dalla nebbia. Come dicevo, il procuratore generale di Brescia consigliò il dottor Ascione di lasciar perdere perché era meglio non toccare quelle denunce fino a quando non fosse stato celebrato un altro processo.
Il problema specifico di questa grande «amicizia» nasce da un fatto ancora più grave di cui stranamente si è parlato molto poco; nasce dal palazzo di giustizia di Padova presso il quale si trovava, come procuratore della Repubblica, proprio l'attuale procuratore generale di Brescia, Marcello Torregrossa, il quale all'epoca era membro della commissione di manutenzione di quel tribunale.
D'altra parte, il procuratore generale era una persona di grande spicco a Padova ed era presidente del Rotary (cosa, ovviamente, del tutto lecita), la sede del quale si trovava proprio nelle stanze dell'impresa Grassetto (si tratta di quella impresa che svolse i lavori per la costruzione del palazzo di giustizia di Padova). E se per le tangenti sull'appalto per la costruzione del tribunale fu condannato Salvatore Ligresti, dei 45 miliardi in più per completare quei lavori (sempre per l'impresa Grassetto e per De Mico; quest'ultimo è un altro personaggio chiave di questa grande storia che poi qualcuno, prima o poi, scriverà) non si fece mai alcun accenno. Non si fece alcun riferimento a tale vicenda neppure nell'interrogatorio svolto negli Stati Uniti dal dottor Di Pietro assieme ad altri due sostituti. Del tribunale si parlò in modo molto lato e, alla fine, di questa parte, di cui dovevano essere responsabili Grassetto e De Mico, non si parlò più! Ciò comportò che la questione del palazzo di giustizia di Padova, che costò 45 miliardi in più per il completamento dei lavori (ricordo che uno dei componenti la commissione era proprio il procuratore generale), finì nel «porto delle nebbie» di Padova e di tutta la restante parte della procura di Milano.
Probabilmente, allora, vi è qualcuno che teme che alla fine si vada a vedere che cosa sia successo in questo palazzo, che si indaghi davvero e non per finta e non solamente per colpire uno - come è avvenuto nel caso di Ligresti - e lasciar fuori due (ovvero: la società Grassetto e De Mico).
Signor sottosegretario, anche su De Mico vi è una grande storia e si capisce quella fretta alle revoche dei sostituti procuratori; si capisce perché quella di De Mico fu una voce importante (non voglio dirlo ora, ma mi riservo di farlo quando emergerà qualche elemento in più) ed una «mano» importante che accompagnò delle indagini. È sicuro, peraltro, che egli nutrisse grande odio personale nei confronti di Ligresti. De Mico, però, doveva essere assolto per la questione legata a quel carcere: come del resto è stato sempre assolto nei casi delle «carceri d'oro» e del palazzo di giustizia di Padova, del quale non si è parlato più!
Come ho detto, nella vicenda della costruzione del palazzo di giustizia di Padova era fortemente interessato il procuratore generale. Caro signor sottosegretario, in questi palazzi di giustizia vi è qualcuno che assicura davvero la giustizia? Pongo questa domanda perché ormai nel nostro paese siamo abituati a tutto; è infatti la prima volta nella storia d'Italia che un procuratore generale fa sostituire nel corso di un'udienza dei sostituti procuratori. Nel passato vi sono stati molti casi di avocazione per evitare che venissero svolte le indagini; ciò si è verificato, però, quando era specificamente prevista l'avocazione del procuratore generale: oggi non è più previsto, ad eccezione del caso in cui si registri una mancanza di indagini. Nel caso di specie, però, non si può affermare che non fossero state svolte le indagini; forse, non erano state fatte sul procuratore generale, ma non certamente su questi signori!
Allora, in questo paese - che è abituato a tutto e che produce falsi eroi e falsi miti; dove non si apre mai la finestra del Palazzo per vedere che cosa succede al suo interno - non sarebbe bene se tutti noi (proprio nell'ottica di rendere umana la giustizia, cioè, fatta da uomini, con i limiti che tutti noi abbiamo, che si riproducono certamente nella giustizia pur non potendo andare più in là di tanto), se il ministro della giustizia aprisse una «finestra» su questo mondo che rischia veramente di provocare grandi ingiustizie e soprattutto grandi drammi per il nostro paese. Credo che questi fatti e quelli che si sono succeduti (mi riferisco alla grave inimicizia che si va creando all'interno dei palazzi di giustizia: a quella inimicizia tra diversi palazzi di giustizia, tra forze di polizia ed organi giudiziari) allarmino profondamente la gente.
C'è da chiedersi, allora, «chi» è amico di «chi» in questo paese, non «chi» è nemico di «chi»! «Chi» ha le carte di «chi»? «Chi» tiene impiccato «chi»? Questo è un grosso problema da risolvere, altrimenti il paese non avrà più pace e vivremo costantemente nell'instabilità dei ricatti, delle paure di essere da un momento all'altro defenestrati, come sta accadendo anche ora. Tutti sapevano, tutti potevano sapere; anche noi sappiamo e sarà ancor più grave quando ci diranno che noi sapevamo, che voi sapevate e che nessuno ha fatto nulla!
Credo che a Brescia si sia celebrato un altro momento veramente oscuro della nostra giustizia. Sembra un piccolo fatto; si potrebbe dire: «In fondo cosa è accaduto? Niente di male, alla fine sono stati tutti assolti, non è successo nulla». Invece è successo molto perché da qui in avanti tutti avranno paura di «chi» è amico di «chi». La Spezia è stata affossata nelle nebbie della futura Padania; Brescia già soffre delle nebbie e ci si è chiusa ancora di più; abbiamo visto quanti a Milano sono passati per caso, ma non si sono mai fermati.
Ma coloro che sono passati per caso nelle indagini e non si sono mai fermati sono coloro che forse ci possono tenere tutti in pugno e non credo che dobbiamo consentire questo. Non credo che dobbiamo consentire casi di «grave amicizia»; i casi di «grave inimicizia» non credo si celebrino nei tribunali: ciascun
pubblico ministero fa il suo lavoro, l'imputato può anche essergli antipatico, come al limite anche la persona offesa, ma naturalmente c'è un giudice che deve stabilire quali siano le prove e se queste vi siano o meno. Quindi i casi di «grave inimicizia» non possono riscontrarsi; quello che è grave nel nostro paese è il numero eccessivo di casi di «grande amicizia».
Se il ministro di grazia e giustizia vuole veramente rendere un'opera per la giustizia deve dare una scrollata a questi grandi casi di «grave amicizia» di cui effettivamente è ancora troppo pieno il nostro paese (Applausi).
Segue l'interpellanza Giovanardi n. 2-00166 (vedi l'allegato A).
L'onorevole Giovanardi ha facoltà di illustrare la sua interpellanza.
Mi auguro che il Governo voglia fornire una risposta non rituale, non formale, perché dietro il caso Mensorio vi è tutta una serie di questioni di principio, rilevanti per lo status del parlamentare, per la libertà del parlamentare stesso, per i diritti di libertà del cittadino.
Come voi ricorderete Mensorio era ancora senatore quando venne raggiunto da avviso di garanzia e da richiesta di arresto. Siamo nell'ambito del famigerato «concorso esterno». Io ho già avuto modo di dire in quest'aula che avrei bisogno di capire quando e come si configura questo reato.
Ho ricordato che può capitare al capo dell'antimafia di viaggiare in aereo con il capo della mafia (e giustamente si disse che si trattò di una coincidenza, perché storicamente ciò può capitare). Sono stato ripreso dal sindaco di San Giuseppe Iato perché ero stato leggermente impreciso nell'attribuirgli una dichiarazione che invece era di un esponente di rilievo del PDS di quel paese, il quale aveva affermato che loro erano antimafiosi, avevano sempre combattuto la mafia, ma, se Riina prendeva qualcuno sotto braccio per offrirgli un caffè, non ci si poteva sottrarre. Evidentemente vi sono persone che non possono non andare a prendere il caffè con Riina e ciò nonostante sono ritenute impegnate nella lotta contro la mafia; vi sono invece persone come Mensorio che, per ragioni di nascita - Saviano, Nola, frazioni o comuni con il 70 o l'80 per cento di densità camorristica - vengono toccati e segnati.
Il caso del senatore Mensorio era stato già vagliato con grandissima attenzione dal Senato della Repubblica. Il Senato infatti aveva preso in esame una richiesta di arresto nei confronti del senatore Mensorio, giungendo alla conclusione che fosse assolutamente infondata e pertanto l'aveva respinta.
Com'è noto il senatore Mensorio, una volta non rieletto, sulla base delle stesse motivazioni che il Senato aveva respinto, ha ricevuto un mandato d'arresto. Vi è stato un periodo di latitanza ed alla fine il senatore, rientrando in Italia, com'è noto, si è suicidato. Badate, non è che avesse grandi alternative; l'ho detto e l'ho scritto. Oltre tutto stiamo parlando di una persona che tutti conoscevano, giacché è stato una ventina d'anni in Parlamento. Tutti sanno che si trattava di una persona assolutamente buona, una persona che a volte tutti prendevano in giro perché era sempre preoccupato del dover girare per ministeri e per uffici interessandosi di casi dell'uno o dell'altro. Vi sono parlamentari che lavorano nell'istituzione ed altri che storicamente hanno sempre avuto una speciale attenzione ai rapporti con gli elettori. Parlate con qualunque deputato o senatore che l'abbia conosciuto o con i suoi compaesani e, se qualcuno dirà loro che il senatore Mensorio aveva una mente criminale, si metteranno tutti a ridere.
Il senatore Mensorio, che forse, come tutti noi, ha commesso qualche peccato veniale - l'accusa non era della natura di quelle che riguardano alcuni pentiti che stanno raccontando i venti o trenta omicidi commessi -, era accusato di aver raccomandato presso il prefetto di Napoli un'agenzia di vigilanza privata i cui titolari sarebbero presunti camorristi (naturalmente però negano di esserlo).
Il senatore Mensorio, dunque, in base a tale concatenazione di eventi, si è trovato su quella nave nel dilemma o di ammazzarsi o di rimanere in carcere anche fino a sei anni. Infatti, secondo la nostra legislazione, chi ha un'accusa di quel tipo può rimanere in carcere fino a sei anni, senza nemmeno il processo di primo grado. Il suicidio è, sì, un gesto grave, ma rimanere sei anni in carcere, anche se è un'ipotesi lontana, è comunque una prova dura. Teniamo comunque presente che, nella storia di questi anni, vi sono persone che sono rimaste in carcere due o tre anni per accuse di questo tipo.
Ebbene, egli ha scelto il suicidio. Il giorno dopo il dottor Paolo Mancuso, coordinatore della direzione antimafia di Napoli, su la Repubblica, definisce Mensorio «personaggio terribile, spregiudicato, senza etica». Ripeto, l'ha definito terribile, spregiudicato e senza etica, e parlava di una persona che non c'era più, che non era mai stata processata, che non era ovviamente mai stata riconosciuta colpevole; era semplicemente un cittadino indiziato.
Il dottor Mancuso aggiungeva: «Secondo voi, un politico presunto camorrista è forse meno pericoloso di un boss assassino?». Meraviglioso! C'è da essere terrorizzati di simili affermazioni; forse gli è sfuggito il termine «presunto». Boss assassino è colui che è stato riconosciuto colpevole e condannato con sentenza passata in giudicato; il presunto camorrista è, appunto, presunto. Allora, se si chiede se un presunto politico camorrista sia uguale ad un boss pluriomicida, credo che anche un bambino di quinta elementare risponderebbe che non è uguale, perché per l'uno si sono accertate le responsabilità, per l'altro vi è un sospetto.
Questo magistrato, però, si è permesso di dire le cose che ho ricordato su Mensorio e di fare queste considerazioni. Naturalmente, sono passati i mesi e su la Repubblica non compare alcuna forma di smentita; anzi, i giornali confermano che quelle affermazioni sono state fatte. Mi attendo dunque una risposta non formale su tre quesiti di fondo. Il primo è come sia possibile che, dopo che il Senato aveva respinto nel merito le motivazioni dell'arresto, un ex senatore possa essere arrestato per quelle stesse motivazioni respinte dal Senato. In secondo luogo chiedo come sia possibile che un pubblico ministero si permetta di offendere una persona che non c'è più nei termini in cui egli si è espresso. Infine, vorrei sapere che tipo di valutazione dia il Governo su affermazioni di questo tipo, che nella lotta contro la criminalità immettono elementi di barbarie, perché la frase in questione, come riportata, è assolutamente inaccettabile.
L'unica risposta che non accetterei è del seguente tenore: «Mi hanno frainteso.
Non mi hanno capito. L'ho detto ad otto colonne, ma adesso che mi chiedono perché l'ho fatto non mi ricordo di averlo detto». Chiedo invece al sottosegretario sui tre quesiti posti una qualche considerazione precisa.
Dagli elementi forniti alla procura della Repubblica presso il tribunale di Napoli emerge che il dottor Mancuso ha smentito categoricamente di aver effettuato le dichiarazioni pubblicate sul quotidiano la Repubblica il 18 agosto 1996 (Commenti) e che egli ha inviato il 19 agosto 1996 allo stesso giornale una lettera di smentita che è stata trasmessa in copia a questo ministero.
Il giornale ha pubblicato la smentita il giorno 20 agosto, aggiungendo in calce la nota dell'intervistatore secondo cui, invece, le frasi risulterebbero pronunciate.
In relazione alle spiegazioni fornite questo dicastero non ha rilievi di natura disciplinare, non essendovi elementi oggettivi per stabilire l'attribuibilità delle frasi pubblicate al magistrato che le ha negate.
C'è una versione del giornalista che conferma che le affermazioni richiamate sono state fatte; almeno il ministero mi avesse risposto dicendo che, se quelle frasi fossero state dette, sarebbero state censurabili!
Eh no! Questa è la politica giudiziaria dell'Italia di oggi, che il ministro avalla; è la fotografia storica della realtà. Né il ministro né il sottosegretario sono venuti a dirmi che vi è qualcosa di anomalo in tale situazione, perché questi signori arrestano le persone sulla base di simili considerazioni: sei un politico, sei un parlamentare? C'è un sospetto - che naturalmente è riferito solo ad una parte dello schieramento politico, perché, come vi ho già detto, l'altra parte può andare al bar, può andare a cena con i mafiosi e i camorristi, ma questo non costituisce reato! - c'è una presunzione di colpevolezza? Ebbene, non l'assassino che collabora, che accusa Andreotti e quindi solo per questo ottiene tutti i benefici, ma il sospettato viene paragonato ad un assassino! E il giornalista mi conferma per iscritto su la Repubblica che queste cose sono state dette e virgolettate!
Ebbene, probabilmente da qui a poco avremo la risposta del procuratore Cordova, il quale, dopo aver detto che l'attuale
è il Parlamento degli inquisiti, ha inviato al Presidente Violante una lettera nella quale non si capisce - dovrò decifrarla bene - se certe cose siano state dette o meno; comunque, si getta il sasso e poi si ritrae la mano!
Scusatemi, ma di questa magistratura non so che cosa farne! Qui veramente va in corto circuito il rapporto fiduciario tra chi sa leggere e scrivere e la magistratura! Siamo veramente al livello di una presa in giro, almeno per quanto mi riguarda (ma credo anche che ciò valga per gli altri deputati). Qui non ci sono dei geni e delle cime; c'è gente che credo abbia un'intelligenza media, come il cittadino medio che legge i giornali! Ebbene, non siamo qui per farci prendere in giro! Non siamo qui per sentirci rispondere dal ministero che, dopo che un giudice, un procuratore ha reso certe affermazioni terribili su otto colonne e dopo che un quotidiano le ha confermate, è sufficiente che il giorno dopo mandi una lettera per smentire quello che ha detto il giorno prima, di fronte alle reazioni di tutti, e il caso è chiuso! È troppo comodo! Come mai, invece, nei confronti di un cittadino che sbaglia, o che si presume che sbagli, vi è - in certi casi, perché in altri non c'è! - questa severità così giustizialista, così ferrea, così manichea, così moralista? Perché mai questo signore si è permesso, dopo la morte di un indiziato, di parlare di lui? E oltretutto ora nega anche di aver fatto l'intervista!
Allora, signor sottosegretario, l'ho già detto in un'altra occasione allo stesso ministro di grazia e giustizia: se questo è il livello delle risposte che il suo dicastero fornisce ad interpellanze di tal genere, sarà meglio - almeno per quanto mi riguarda - rinunciare ad ascoltarle perché, almeno dal punto di vista esistenziale, la mia mattina inizierebbe meglio!
Il sottosegretario di Stato per la giustizia ha facoltà di rispondere.
Felice Maniero, colpito da ordinanza di custodia cautelare in data 1 luglio 1994 della Corte d'appello di Venezia, che lo condannava per una serie di gravi reati alla pena di 33 anni di reclusione, è stato rimesso in libertà nell'aprile del 1995 in considerazione della collaborazione nel frattempo prestata. Va aggiunto che la procura generale presso la Corte d'appello di Venezia ha proposto il ricorso in Cassazione avverso il provvedimento di remissione in libertà del Maniero.
Da quanto comunicato dall'autorità giudiziaria, l'esame del ricorso era fissato per il 27 novembre 1996 dinnanzi alla seconda sezione di Cassazione, ma è stato rinviato ad altra udienza, in data da destinarsi.
A seguito della scelta di collaborare con la giustizia, il Maniero è stato ammesso a speciale programma di protezione: in conseguenza, è stato trasferito in luogo protetto, è stato sottoposto a vigilanza continuativa da parte di personale della Criminalpol e tenuto costantemente a disposizione della procura della Repubblica di Venezia per le esigenze istruttorie inerenti alla sua collaborazione. L'interessato ha però ripetutamente mostrato insofferenza per le limitazioni impostegli dal programma di protezione ed ha violato le regole di comportamento prescritte ed accettate. Tali violazioni sono state segnalate alla commissione centrale di protezione e alla procura di Venezia per le determinazioni di competenza.
Il 28 agosto 1996 la commissione centrale ha deliberato di non prorogare il programma di protezione nel frattempo scaduto. Nel settembre scorso la procura di Venezia ha chiesto il riesame di tale decisione, ma la commissione ha ritenuto di doverla confermare. La decisione evidenzia
la volontà di assicurare che l'attuazione dei programmi di protezione nei confronti dei collaboratori di giustizia avvenga nel massimo rispetto delle prescrizioni imposte e nel rispetto delle indicazioni emergenti dalla relazione del ministro dell'interno al Parlamento.
Per quanto concerne gli specifici quesiti posti dall'interrogante in ordine alle disponibilità patrimoniali del Maniero e alle modalità della sua protezione, si precisa anzitutto che nessun reparto del corpo della Guardia di finanza ha svolto compiti di istituto al fine di attribuire al Maniero stesso lo status di collaboratore di giustizia. Al Maniero sono state poi sequestrate dal GICO di Venezia disponibilità patrimoniali per un ammontare complessivo di lire 1 miliardo e 361 milioni. Dette disponibilità sono state confiscate. L'autorità giudiziaria non ha autorizzato la comunicazione di altre notizie utili per la risposta al quesito sulla natura e qualità delle fonti personali di reddito che hanno consentito al collaboratore di tenere un elevato tenore di vita nello stesso periodo in cui è stato sottoposto al programma.
Il Ministero delle finanze, con nota del 22 novembre 1996, ha comunicato che dai dati disponibili presso l'anagrafe tributaria non risulta che Felice Maniero abbia effettuato alcuna operazione patrimoniale né tributaria.
Anche la vicenda del Maniero si colloca nella tematica della revisione della legislazione relativa alle persone che collaborano con la giustizia. Su di essa, com'è stato già ricordato in altre occasioni, è allo studio una commissione mista, composta da rappresentanti del Ministero dell'interno e del Ministero della giustizia, le cui linee di intervento sono state già illustrate nella risposta ad un'interpellanza dell'onorevole Carotti e sono volte ad arginare le lamentate degenerazioni del fenomeno del pentitismo, anche sotto i profili relativi al suo costo e alla tutela dell'ordine pubblico.
Quello di Felice Maniero è uno dei casi che ha colpito più negativamente l'opinione pubblica, in particolare quella del Veneto, perché - ripeto - egli continua a condurre una vita da nababbo, anche se (è l'unico punto positivo della risposta del sottosegretario, di cui ero già venuto a conoscenza quando si è data risposta ad una mia precedente interrogazione) il programma di protezione nei suoi confronti è stato sospeso. Ciò però non vuol dire che non debba lamentare il ritardo con cui è stata fornita la risposta alla mia interrogazione. Mi meraviglio che essa non sia stata data contemporaneamente a quella riguardante il mio documento ispettivo precedente, perché, in un momento in cui l'attenzione e diciamo pure la rabbia per il trattamento riservato a Felice Maniero era forte, ciò sarebbe stato più tranquillizzante della promessa, che il sottosegretario ed altri rappresentanti del Governo hanno fatto, che il programma riguardante i pentiti e la legislazione ad essi relativa saranno rivisti. Mi auguro davvero che questo avvenga, perché nell'opinione pubblica vi sono forti disappunti e rabbia per il trattamento riservato ai pentiti, per le loro condizioni economiche e per l'assistenza fornita ai loro famigliari in una misura non riscontrabile in nessun'altra parte del mondo.
Questa estate, mentre mi trovavo negli Stati Uniti, mi sono dettagliatamente informato su questo tema ed ho raccolto informazioni innanzitutto concernenti il numero dei pentiti, proporzionalmente molto basso rispetto a quello italiano, ed il loro trattamento economico, che non continua all'infinito come avviene in questo
momento in Italia. Temo davvero che si crei una nuova categoria di professionisti, i professionisti del pentitismo ai quali probabilmente prima o poi verrà assicurata anche la pensione per tutta la vita, magari con finti contributi. Non vorrei che quella che in questo momento può apparire come una battuta o una provocazione divenisse una realtà «sociale» del nostro paese.
Il richiamo che ho l'opportunità di fare va proprio in questa direzione. Casi come quello di Maniero e molti altri sono l'indicazione che davvero questa legislazione va rivista, ristretta, resa molto più severa. Non so neanche quale sia l'effettivo contributo reale che i pentiti forniscono alla lotta alla mafia ed alla camorra. Mi auguro che davvero sia pari ai benefici che essi ricevono dallo Stato italiano, dai contribuenti, ma non vi è dubbio che, per come si stanno svolgendo i fatti la legislazione vada rivista.
Se il Presidente me lo consente colgo l'occasione, per evitare di far perdere tempo alla Camera in un altro momento, approfittando della presenza di un rappresentante del Governo disponibile e gentile come il sottosegretario Ayala, per fare il bilancio delle risposte che il Governo fornisce alle interrogazioni. Nel secondo semestre del 1996 ho presentato 37 interrogazioni, delle quali (la cifra è importante) 20 scritte. Di queste interrogazioni, fra orali e scritte, soltanto 8, compresa quella di oggi, hanno ricevuto risposta. Mi associo dunque completamente alle perspicaci affermazioni di altri colleghi circa il fatto che o il sindacato ispettivo ha la funzione di fornire tempestivamente risposte, oppure è quasi inutile continuare in questo rito, che presenta oltretutto caratteristiche di un burocraticismo del quale anche questa volta mi devo lamentare.
La ringrazio, signor Presidente, e devo ritualmente affermare che prendo atto della risposta, dichiarando né soddisfazione né insoddisfazione, ma la mia neutralità di giudizio sul testo che mi è stato letto dal sottosegretario.
Il sottosegretario di Stato per la giustizia ha facoltà di rispondere.
GIUSEPPE MARIA AYALA, Sottosegretario di Stato per la giustizia. D'altra parte, ci troviamo in questo paese e siamo stati tutti eletti dal popolo italiano.
Chiedo scusa per questa digressione, ma mi sembrava doveroso integrare la risposta.
Sulla vicenda cui fa riferimento l'interrogante, onorevole Selva, sono state acquisite informazioni da cui risulta che il 16 giugno 1996, la seconda sezione della Corte d'assise di Roma condannava all'ergastolo Germano Maccari per concorso nel sequestro e nell'omicidio del compianto onorevole Aldo Moro e della sua scorta e per la partecipazione alla banda armata denominata brigate rosse. Il Maccari era stato scarcerato il 2 novembre 1994, dalla sezione per il riesame del tribunale di Roma a seguito dell'annullamento dell'ordinanza del 2 ottobre 1994, con la quale il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Roma aveva prorogato i termini di custodia cautelare. Il 17 giugno 1996 il procuratore della Repubblica presso il tribunale di Roma chiedeva alla Corte d'assise di ripristinare la custodia cautelare in carcere. La Corte di assise con ordinanza del 19 luglio 1996 disponeva il ripristino della custodia cautelare in carcere del Maccari.
Su richiesta della difesa del Maccari il tribunale per il riesame riformava detta decisione disponendo il 2 agosto 1996 la scarcerazione del Maccari con sostituzione della custodia cautelare in carcere con la misura dell'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria due volte al giorno.
L'interrogante sostiene che il Maccari «paga il suo debito con la giustizia con sedici giorni di carcere» (quelli dal 19 luglio al 2 agosto 1996). L'affermazione, per la verità, non risponde al vero. In proposito va, infatti, precisato che il Maccari ha comunque espiato in custodia cautelare un congruo periodo durante la fase delle indagini, se è vero che è stato scarcerato il 2 novembre 1994 per decorrenza dei termini; che la decisione di condanna della Corte d'assise di Roma del 16 giugno 1996 non è definitiva, ma ove confermata, non potrà che dar luogo ad espiazione della pena; che nell'inverso prima della sentenza definitiva la custodia in carcere è ammessa solo per specifiche esigenze cautelari e non può costituire anticipazione di pena; che nel nostro ordinamento non esistono regole che consentano di anticipare l'effetto della condanna soggetta ad impugnazione e di mettere in esecuzione la pena, neppure quando si formi acquiescenza e non vi sia impugnazione su un capo della condanna che comporterebbe comunque una pena non ancora espiata.
Dall'esame della decisione del tribunale per il riesame risulta che la scarcerazione è avvenuta sulla base di una diversa valutazione dell'esigenza cautelare del pericolo di fuga, che era il requisito della misura coercitiva della libertà personale.
La decisione in questione, ampiamente e congruamente motivata, non ha ravvisato che nei fatti presi in esame dal provvedimento restrittivo poi riformato potesse rappresentarsi la concretezza del pericolo di fuga che è richiesta dall'articolo 274, comma 1, lettera B), del codice di procedura penale, né che vi fossero elementi da cui fosse logicamente possibile dedurre la reale ed effettiva preparazione della fuga.
Nella decisione risulta preso in considerazione anche il comportamento precedente del Maccari che, essendo stato scarcerato fin dal 2 novembre 1994, come sopra ricordato, per decorrenza dei termini di custodia cautelare, ed avendo avuto la disponibilità del passaporto, non aveva mai sfruttato le possibilità di allontanarsi dal territorio nazionale.
Trattandosi di valutazione discrezionale della autorità giudiziaria devo ricordare che il merito degli atti e dei provvedimenti dei magistrati è soggetto al controllo endo processuale coi mezzi di impugnazione e non può formare oggetto di valutazioni da parte del ministro se non in presenza di fatti di grave negligenza e colpevole ignoranza, ovvero di elementi sintomatici di abuso di funzione per fini diversi da quelli di legge dei quali non vi è alcuna traccia nel caso di specie. Pertanto,
non può il ministro neppure indicare la vicenda e la decisione del riesame a modello positivo o negativo da seguire.
Per quanto riguarda il dato sulla durata della detenzione posso riferire che alla data dell'8 novembre 1996 vi erano 1.655 detenuti in attesa di giudizio che avevano espiato fino a sedici giorni di carcere e 11.325 detenuti da oltre sedici giorni pure in attesa di giudizio. Non si dispone di dati sui soggetti agli arresti domiciliari.
I dati appena forniti non possono peraltro essere accostati a quelli della vicenda Maccari perché come è stato già detto la detenzione del Maccari di pari durata è solo quella intercorsa tra la data della nuova incarcerazione del medesimo e quella della sua scarcerazione per effetto dell'annullamento del provvedimento che tale carcerazione aveva ripristinato ed in ogni caso si tratta di vicende con una loro propria specificità sul punto della sussistenza e della valutazione delle specifiche esigenze cautelari.
Prendo atto che la nostra Costituzione vuole che un soggetto sia da considerarsi innocente, chiunque egli sia, fino all'esaurimento di tutti i gradi di giudizio. Dunque anche in questo caso vale tale norma costituzionale, tuttavia a me sembra che comparandola con quella seguita in altri casi in cui la carcerazione preventiva è stata molto più severa, possiamo dire che nel caso in ispecie la discrezionalità è andata tutta a beneficio dell'inquisito e non delle norme - se non per il rispetto formale - che regolano la carcerazione preventiva.
Lo spunto è per dire (anche se mi rendo conto che ciò non poteva rientrare nella risposta fornita dal sottosegretario) che la lunghezza dei procedimenti rappresenta una grave lacuna del nostro sistema giudiziario. Maccari, come ogni altro, ha diritto di fruire dei benefici della legge ma avrebbe anche il diritto di vedere il suo procedimento giudiziario svolto il più rapidamente possibile. Questa è una amara notazione che dovrà essere ripresa e valutata perché (pentiti a parte) questo è un tema importantissimo e che grava sulla libertà di ciascun cittadino italiano.
Snellire le procedure, fare in modo che i processi si svolgano rapidamente è il modo migliore per rendere giustizia; una giustizia ritardata è infatti una specie di giustizia denegata.
Queste interrogazioni, che vertono sullo stesso argomento, saranno svolte congiuntamente.
Il sottosegretario di Stato per la giustizia ha facoltà di rispondere.
Alla data del 12 novembre 1996, ossia nel periodo preso in esame dagli interroganti, erano presenti 1.303 detenuti uomini e 129 donne. Sempre a metà novembre erano in corso ulteriori sfollamenti diretti a stabilizzare in modo permanente la popolazione detenuta in San Vittore.
La definizione, la realizzazione dei circuiti penitenziari e la correlativa razionalizzazione delle risorse strutturali dovrebbero comportare a breve termine un notevole ridimensionamento del problema sovraffollamento del carcere milanese.
Vanno altresì considerati i probabili benefici effetti che si ripercuoteranno sulla generale situazione delle carceri italiane se sarà approvato il disegno di legge sulle pene alternative al carcere, attualmente all'esame del Parlamento.
Per quanto riguarda la situazione sanitaria della casa circondariale di Milano si fa presente che tale istituto è organizzato in modo tale da poter assicurare numerosissime prestazioni mediche, in quanto è dotato di un attrezzato centro diagnostico-terapeutico avente una capienza di 90 posti letto per detenuti (uomini) malati.
Si deve far presente altresì che a metà novembre era entrato in funzione anche il centro diagnostico-terapeutico annesso alla casa di reclusione di Milano-Opera per una capienza di 98 posti letto, che è in grado di assicurare altrettante prestazioni mediche.
Dall'analisi delle numerose prestazioni sanitarie realizzabili nei centri diagnostici terapeutici annessi alla casa circondariale di Milano e alla casa di reclusione di Milano-Opera si evince che solo per circostanziate ipotesi, tra l'altro non numerose, si deve ricorrere al ricovero del detenuto in un luogo esterno di cura, in conformità a quanto previsto dall'articolo 11 dell'ordinamento penitenziario e dall'articolo 17 del relativo regolamento di esecuzione.
È da far presente, infatti, che con l'apertura del centro clinico della casa di reclusione di Milano Opera, adibito anche alla custodia di detenuti affetti dal virus HIV, si ridurrà ulteriormente il numero dei detenuti da ricoverare all'esterno e si potrà con maggiore efficacia controbattere quell'interesse della criminalità organizzata a strumentalizzare singoli episodi al fine di ottenere una legislazione più benevola in tema di incompatibilità con il regime carcerario per motivi di salute.
Per quanto concerne il personale di polizia penitenziaria in servizio presso la casa circondariale di Milano San Vittore, si evince dai dati forniti dall'amministrazione penitenziaria che su un organico previsto di 850 uomini ne erano presenti 781 e su un organico previsto di 115 donne ne erano presenti 115, per un totale di 864 presenze su 965 posti previsti in organico. La carenza del 10 per cento è comune a tutti gli istituti. Peraltro non appena conclusi i corsi conseguenti al concorso a 1.220 unità di polizia penitenziaria, si provvederà ad incrementare il numero di personale di San Vittore, compatibilmente con le esigenze di altri istituti e servizi penitenziari.
Questo rivela, peraltro, quello che già l'onorevole Selva aveva segnalato e cioè che forse l'istituto del sindacato ispettivo dovrebbe essere rivisto, perché la necessità e l'urgenza dovrebbero trovare una coerenza temporale di interlocuzione, non necessariamente di risposta. Io credo, infatti, che dobbiamo collaborare insieme, anche perché il compito di un parlamentare non è solo quello di denunciare strumentalmente per mettere in discussione un Governo, quanto piuttosto quello di aiutare l'esecutivo a conoscere in rete realtà possibilmente da superare. Dove si denuncia, se non c'è malafede, si evidenzia una sofferenza, una difficoltà, un problema che a tutti è dato il diritto-dovere di contribuire a risolvere.
Quindi è vero che certi dati che io avevo denunziato - non contro qualcuno, ma in assoluto - sono lievemente migliorati. Detto questo, però, sottosegretario, conoscendo benissimo (e non vi è alcuna complicità) la stima che ho per lei anche a livello personale, quale persona che ha rischiato la vita nell'ordinaria straordinarietà del suo mandato di lavoro precedente e quindi è un esempio per tanti di noi, devo dire che sto notando questa mattina con amarezza, probabilmente per la complessità del suo mandato attuale, una tendenza a fornire risposte - mi perdoni - lievemente indotte dalla burocrazia e carenti di quella indignazione e di quella voglia di cambiamento che l'ha sempre contraddistinta. Ciò credo sia dovuto - lo ripeto - alla complessità del suo mandato.
Come sempre, con la mia interrogazione ho cercato di dare un contributo e non di creare grimaldelli per mettere in discussione questo o quello, anche perché - lo ripeto - quando si parla di sofferenza, singola o collettiva o di odio - e mi scuso se introduco questo elemento così forte - non ci deve essere nessuno che strumentalizza, sia dai banchi del Governo che dell'opposizione o della maggioranza.
Detto questo, quello che lei afferma mi rassicura solo parzialmente. Certo, il sovraffollamento del carcere di San Vittore in termini assoluti è diminuito, anche se i dati sono legati ad una rilevazione di medio periodo; infatti, nella quotidianità, per motivi straordinari, il sovraffollamento è molto maggiore perché abbiamo spostamenti da un carcere ad un altro; dal momento che vi sono gruppi di persone che transitano all'interno dell'istituto di San Vittore, le persone quotidianamente ospitate sono di più.
Vorrei dire inoltre che forse non ci rendiamo conto di quanto si sta asserendo. Affermare che le persone sono diminuite e che c'è meno sovraffollamento non implica...
Signor sottosegretario, anche qualora la situazione fosse così positiva come lei asserisce, vorrei far presente che stiamo parlando in ogni caso di più del doppio rispetto al numero di persone che San Vittore potrebbe ospitare. Ma al di là del dato numerico, il problema è rappresentato dal tipo di persone: si tratta di giovani, di anziani, di soggetti in attesa di giudizio o recidivi. Ciò implica che in uno dei tre luoghi in cui la sofferenza, la pena e la giustizia si intersecano - gli istituti per handicappati, gli ospedali psichiatrici e gli istituti di pena - la sorveglianza e la punizione prevalgano sulla riabilitazione.
Vi è inoltre un altro fattore che desidero sottoporre alla vostra attenzione. Lo dico in conclusione del mio intervento, ringraziando per la pazienza l'onorevole sottosegretario e l'onorevole Presidente.
Questa mattina abbiamo parlato della giustizia e di persone in qualche modo potenti e conosciute; in questo caso parliamo di migliaia di persone sconosciute, alle quali tuttavia deve essere riconosciuto il diritto-dovere di espiare la pena e di vivere in maniera civile.
PRESIDENTE: L'onorevole Cento ha facoltà di replicare per la sua interrogazione n. 3-00257.
Per quanto attiene al caso specifico, quello della vicenda che ha avuto luogo nel settembre scorso a Milano, non si possono non ricordare i ritardi con cui i tribunali di sorveglianza sono intervenuti rispetto alle richieste di concessione dei benefici previsti dalla «legge Gozzini». Non si può non rilevare quindi l'enorme contraddizione costituita, da un lato, dall'enorme sovraffollamento del carcere di San Vittore nel quale si trova più del doppio delle persone che potrebbero essere ospitate civilmente e, dall'altro, dal fatto che il tribunale di sorveglianza non si esprime tempestivamente sulle forme alternative alla detenzione e sui benefici previsti da leggi approvate dalle Camere. In questo ritardo sta forse una parte della soluzione del problema. Constatare che la risposta preparata dagli uffici del ministero nega queste evidenze e queste problematiche è un fatto che non ci fa ben sperare. Mi auguro, per quanto ho potuto apprezzare dell'impegno del dottor Coiro in altri uffici, che questo sia solo l'inizio di un lavoro che dovrà vederlo impegnato ad una riforma che, prima ancora di essere rivolta esclusivamente alle leggi, deve essere una riforma di buon senso nell'applicazione delle norme già esistenti e nel rendere il carcere extrema ratio della punizione penale, sviluppando nel contempo misure alternative di pena.
Quella in cui versa San Vittore è una situazione estremamente grave ma comune a molti altri penitenziari. A mio parere il ministero competente e l'opinione pubblica si occupano della condizione del detenuto solo in presenza di grandi casi ma il vero dramma è quello che vivono le migliaia di cittadini il cui nome non viene pubblicato sui giornali e che vengono abbandonati a loro stessi, più della metà in attesa di giudizio, in condizioni di grave pericolosità sociale e sanitaria all'interno di penitenziari vecchi e obsoleti, nei quali è impossibile l'applicazione di qualsiasi forma di intervento e di recupero.
Concludo auspicando che in futuro il Ministero di grazia e giustizia avvii nella sostanza questa riforma (mi rendo conto comunque che va richiamata la responsabilità del ruolo del sindacato ispettivo per cui le risposte ai parlamentari non possono essere formali, come spesso accade). San Vittore è diventato un po' il simbolo di questa battaglia e nelle settimane scorse si è conclusa proprio, davanti a questo carcere, una manifestazione della società civile milanese che reclamava dignità per i detenuti. Non vorrei che Cusani, oggi rinchiuso all'interno del carcere di San Vittore un po' come vittima unica sacrificale di Tangentopoli, divenisse, nel suo meritorio lavoro che ha iniziato a svolgere, il simbolo del riscatto dei detenuti. Il Ministero di grazia e giustizia, in considerazione della crescita di una nuova coscienza civile all'interno del carcere di San Vittore (che è comunque un fatto positivo), deve dare una risposta che non sia burocratica ma adeguata alla necessità di rendere quel carcere e l'intero sistema penitenziario italiano degno di un paese civile, cosa che oggi spesso purtroppo non è.
Il sottosegretario di Stato per la giustizia ha facoltà di rispondere.
è stata disposta dall'apposito servizio ministeriale l'acquisizione e la trascrizione delle registrazioni degli interventi, tra i quali quello del dottor Gerardo D'Ambrosio, al convegno indicato nell'atto ispettivo su Capitalismo e legalità, tenutosi a Milano il 12 ottobre 1996 e organizzato dalla rivista Micromega. Il tema del convegno era così ampio da consentire e presupporre analisi storiche, economiche, sociali e politiche sulla situazione italiana, dal dopoguerra ad oggi, da parte dei relatori.
Come si evince dai verbali della trascrizione delle bobine sulle quali sono stati registrati gli interventi (ai quali si allega quella del dottor D'Ambrosio), la relazione del citato magistrato risulta del tutto in linea con i temi affrontati.
Nel corso della stessa, inoltre, non sono stati fatti riferimenti a procedimenti penali in corso, né è stata strumentalizzata la qualità del magistrato in modo da turbare l'esercizio di funzioni costituzionalmente demandate ad altri organi dello Stato. Non si può ritenere pertanto in alcun modo violato il codice etico delle esternazioni, così come delineato dal ministro di grazia e giustizia nella nota del 20 settembre 1996.
Quanto al secondo quesito posto dall'onorevole interrogante, le istanze eventualmente presentate dal dottor D'Ambrosio per il conferimento degli incarichi direttivi non potranno che essere valutate dal ministro della giustizia nell'esercizio dei poteri dalla legge conferitigli per l'espressione del relativo concerto.
In conclusione, chiedo alla Presidenza di autorizzare la pubblicazione in calce al resoconto stenografico della odierna seduta antimeridiana del testo dell'intervento del dottor D'Ambrosio al convegno di Milano.
L'onorevole Selva ha facoltà di replicare per l'interrogazione Gasparri n. 3-00331, di cui è cofirmatario.
Non mi resta, quindi, che prendere atto della risposta fornita dal rappresentante del Governo, pur restandomi il dubbio che, conoscendo le esternazioni del dottor D'Ambrosio, probabilmente, alcuni dei sospetti indicati dall'onorevole Gasparri nella sua interrogazione potrebbero corrispondere al vero. Tuttavia, leggeremo con maggiore attenzione la trascrizione delle bobine e vedremo se l'interpretazione dell'intervento del dottor D'Ambrosio data dall'onorevole Gasparri sia stata maliziosa, o se sia stata invece in qualche modo assolutoria la risposta del sottosegretario (peraltro, sempre fornita con una forma molto gentile e dettagliata).
Pur non essendo state quindi violate le regole del codice etico delle esternazioni, mi permetto di fornire qualche suggerimento. Non vi è dubbio che, da parte di alcuni magistrati (ed il pool di Milano da questo punto di vista detiene dei primati), il tempo per le esternazioni e gli spazi occupati nei giornali è almeno pari qualche volta alle relazioni ufficiali che vengono svolte in occasione delle inaugurazioni degli anni giudiziari o in occasioni similari.
Vanno bene, quindi, le esternazioni che rientrano nel quadro del diritto di espressione ma, forse, un po' di prudenza, soprattutto quando quelle esternazioni dovessero interferire su di un potere costituzionale del Parlamento, sarebbe necessaria.
PRESIDENTE. È così esaurito lo svolgimento delle interpellanze e delle interrogazioni all'ordine del giorno.