COMMISSIONI RIUNITE
V (BILANCIO, TESORO E PROGRAMMAZIONE) DELLA CAMERA DEI DEPUTATI E
5a (PROGRAMMAZIONE ECONOMICA, BILANCIO) DEL SENATO DELLA REPUBBLICA

AUDIZIONE


Seduta di marted́ 11 luglio 2000


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La seduta comincia alle 9.45.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Se non vi sono obiezioni, rimane stabilito che la pubblicità dei lavori venga assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione di rappresentanti dell'UPI e dell'UNCEM.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'attività conoscitiva preliminare all'esame del documento di programmazione economico-finanziaria per gli anni 2001-2004, l'audizione di rappresentanti dell'UPI e dell'UNCEM.
Nel dare inizio a questa lunga mattinata di lavoro, invito i nostri ospiti ed i colleghi che interverranno a cercare di contenere la durata dei loro interventi, in modo da riuscire a rispettare i tempi che ci siamo dati.
Do subito la parola a Gino Nunes, componente dell'ufficio di presidenza dell'UPI e presidente della provincia di Pisa.

GINO NUNES, Componente dell'ufficio di presidenza dell'UPI. Abbiamo presentato qualche tempo fa al Governo un documento per la formazione del DPEF che lasciamo alla Commissione, perché contiene una serie di osservazioni che non sono state recepite all'interno del DPEF. Mi riferisco in particolare agli articoli 3-quater e 3-quinquies relativi alla politica tributaria ed al federalismo fiscale.
La valutazione che traspare dal DPEF, che le province abbiano bilanci sostanzialmente risolti, non corrisponde ai fatti. In realtà i bilanci delle province sono assolutamente rigidi, legati a meccanismi di trasferimento e tributari assolutamente indifferenti alle politiche di governo delle province. Riteniamo inoltre che una giusta politica di federalismo fiscale debba riguardare l'insieme dell'assetto istituzionale ossia regioni, province e comuni e non riteniamo condivisibile che per quanto riguarda decentramento e federalismo fiscale il documento faccia riferimento solo a regioni e comuni. Chiediamo che le province siano comprese nel processo di decentramento fiscale e di federalismo fiscale.
In particolare, riteniamo che questo meccanismo debba mettere in sintonia le province con lo sviluppo economico locale in un quadro nazionale di solidarietà. Deve cioè essere previsto un meccanismo che consenta ai territori, entro un quadro di revisione dei meccanismi di solidarietà e di fondo perequativo, di valorizzare le risorse che il territorio produce. Riteniamo anche che debba definirsi con chiarezza la valutazione da parte del Governo sui gettiti delle RC auto e dell'IPT, perché le province, ad oggi, si trovano in una situazione di incertezza di gettito che non consideriamo utile a fondare un nuovo meccanismo di decentramento e di federalismo fiscale.
Mentre va avanti un processo di decentramento amministrativo che, per ciò che ci riguarda, deve essere relativo al 2001 e non prevedere, come si ventila,


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dilazioni al 2002, deve essere sostenuta attraverso decentramento e federalismo fiscale la capacità di investimento delle province e la loro reale autonomia finanziaria, che ad oggi non consideriamo realizzata.

ALBERTO CAVALLI, Componente dell'ufficio di presidenza dell'UPI. Mi soffermerò su tre aspetti contenuti nel nostro documento che riteniamo centrali per le attività che le province hanno assunto e stanno assumendo: scuola e formazione professionale, lavoro e infrastrutture.
L'istruzione scolastica è una materia che ha subito in questi ultimi anni profondi mutamenti. Il decreto legislativo n. 112 del 1998 ha trasferito alle province fondamentali funzioni di programmazione dell'offerta formativa alle quali si affiancano, in alcune regioni, i compiti connessi alla formazione professionale. Le province sono direttamente coinvolte nel processo di riqualificazione di tutto il sistema scolastico superiore e riteniamo necessaria una chiara indicazione del DPEF circa opportuni stanziamenti finanziari anche in relazione all'attuazione dell'autonomia scolastica. I nostri bilanci sono gravati dal problema dell'edilizia scolastica. La legge n. 23 del 1996 affida la diretta responsabilità della manutenzione degli edifici scolastici della scuola media secondaria superiore alle province. Le province, a bilanci invariati, hanno seria difficoltà a mantenere la funzionalità e la fruibilità degli edifici sia in termini di gestione (abbiamo effettuato una verifica in gran parte delle province d'Italia e riteniamo necessari 70 miliardi annui in più per fare fronte ai maggiori oneri derivanti dalle spese di gestione e manutenzione), sia con riferimento all'adeguamento degli edifici alle norme di sicurezza e al superamento delle barriere architettoniche. Abbiamo ereditato dai comuni degli edifici in larga misura fatiscenti (anche perché da tempo era atteso il trasferimento dai comuni alle province) e riteniamo necessari un piano di cinque anni e circa mille miliardi annui per consentire un adeguamento autentico e rispondente alle norme di legge degli edifici scolastici attualmente in carico alle province.
La seconda questione è quella del lavoro. Da poco le province sono competenti per l'erogazione e la gestione dei centri per l'impiego, cioè degli ex uffici di collocamento. Sono chiamate a svolgere un ruolo complesso di coordinamento tra le politiche del lavoro, la formazione professionale e l'istruzione scolastica di cui ho parlato. Si tratta non di un semplice trasferimento di funzioni dallo Stato alle province, ma di una utile collocazione sul territorio del coordinamento di queste funzioni. Abbiamo tuttavia avuto risorse finanziarie e trasferimento di personale insufficienti anche soltanto a mantenere il servizio, peraltro non adeguato, che veniva svolto precedentemente. Su questa partita decisiva (anche perché è una delega diretta dallo Stato alle province) è necessaria l'appostazione di maggiori risorse finanziarie. Una parentesi, in tema di lavoro, è quella sui lavori socialmente utili, che in alcune aree del paese rappresentano una autentica emergenza sociale. Crediamo sia necessario uno svuotamento del bacino dei lavori socialmente utili attraverso fondi di stabilizzazione di progetti attivati, facendo però attenzione che tale operazione non si carichi sulla finanza degli enti locali, che non sarebbe in grado di assolvere a questo ruolo.
Vi è infine il tema delle infrastrutture. La crescita rilevante del ruolo del Mediterraneo evidenziata anche nel DPEF ha riproposto all'attenzione la funzione strategica del Mezzogiorno d'Italia nel traffico commerciale vicino e mondiale. Rafforzare la competitività al centro-sud è una necessità di ieri ma anche di oggi. Servono nuove politiche di sviluppo infrastrutturale estese all'intero territorio nazionale perché di un deficit di strutture si può parlare anche nelle aree forti del paese. Maggiori investimenti dunque, ferroviari, portuali, aeroportuali e autostradali, che hanno maggiori attrattive per i capitali privati. In questo senso abbiamo letto un


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positivo cenno di revisione e promozione del project financing nel documento predisposto.
Vediamo con favore - ma al tempo stesso ne siamo preoccupati - il prossimo trasferimento di gran parte delle strade ANAS alle regioni e prevedibilmente, attraverso queste, alle province. Tale trasferimento è atteso per il 1o gennaio 2001. Crediamo sia bene che questa data venga confermata; tuttavia non possiamo non rilevare che senza adeguati stanziamenti regioni ed enti locali non saranno né in grado di garantire idonea manutenzione né di modernizzare una rete stradale che soffre da decenni di interventi insufficienti da parte dello Stato. Serve quindi, se il calendario verrà confermato - e noi chiediamo che lo sia - un finanziamento pluriennale destinato all'ammodernamento e alla sicurezza delle strade statali. Invece, di strade statali nel DPEF non si parla.
Un'ultima nota a margine. Crediamo nella programmazione negoziata. Abbiamo riscontrato il ruolo fondamentale che questa ha assunto nella promozione dei territori (patti territoriali, contratti d'area, accordi di programma). Attraverso questi strumenti gli enti locali sono diventati protagonisti dello sviluppo economico. Chiediamo quindi al Governo di proseguire su questa strada anche incentivando il ricorso, attraverso lo stanziamento di nuove e maggiori risorse, a questo tipo di attività.

PRESIDENTE. Il documento che è stato distribuito raccoglie i vostri suggerimenti, in particolare sulla parte fiscale, che effettivamente non è contenuta, in termini di federalismo e di decentramento, nel documento di programmazione; sappiamo però che il Governo ha rinviato, entro settembre, un completamento della manovra, specie sotto il profilo fiscale.

VALERIO PRIGNACHI, Vicepresidente vicario dell'UNCEM. L'UNCEM ha già predisposto da tempo un documento sul DPEF che ha consegnato a rappresentanti del Governo in diverse occasioni di incontro e che riproporremo in questa sede, che riteniamo la più appropriata. L'UNCEM fa una specifica segnalazione in merito all'esigenza di un'appropriata tutela e di uno sviluppo complessivo dell'economia e delle condizioni di vita sociale e civile dei territori di montagna, che non può prescindere da una attenzione particolare alle tematiche che da tempo evidenziamo. In particolare, rispetto alle politiche per gli enti locali, evidenziamo alcune specifiche situazioni, relative alla parte corrente e alla parte in conto capitale.
Le comunità montane, come gli altri enti locali, hanno subito il blocco dei trasferimenti correnti fin dal 1993, ma nel frattempo sono notevolmente aumentate, a carico di esse, le funzioni delegate in materia di gestione di servizi, nonché quella come ente di coordinamento dell'attività dei comuni di minore dimensione demografica, riconosciuta come fondamentale. A tale proposito, la dotazione finanziaria si considera assolutamente insufficiente ed inadeguata. Ci troviamo in una situazione di reale emergenza che mettiamo in evidenza con la richiesta immediata di un fondo di 60 miliardi, fondamentale per garantire il minimo vitale alle oltre 350 comunità montane in Italia che - è bene ricordarlo - raccordano oltre 4 mila comuni, quindi circa la metà dei comuni italiani e che nelle varie evoluzioni normative degli ultimi anni, in primis le leggi Bassanini, sono state riconosciute come organismi fondamentali per il processo di aggregazione dei servizi e delle funzioni delegate ai comuni.
Riteniamo necessario sottolineare ed evidenziare in questa sede la necessità, anche per le comunità montane, di accedere in prospettiva ad una forma di trasferimento legato al gettito erariale in una misura pari allo 0,02 per cento, che abbiamo più volte citato, stimato in una cifra complessiva di circa 180 miliardi. È un'assegnazione che riteniamo necessaria per poter continuare a garantire il livello di funzioni che le comunità montane


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stanno raccogliendo e che riteniamo indispensabile per raggiungere gli obiettivi che ci siamo dati.
Per quanto riguarda la parte capitale, quella fondamentale, la legge n. 97 del 1994 istituisce il fondo nazionale per la montagna, che ha subito una evoluzione altalenante delle dotazioni, partendo da 50 miliardi per arrivare ai 300 ritenuti indispensabili per una dotazione finanziaria adeguata al numero delle comunità montane; la dotazione si è poi via via ridotta fino ai 129 miliardi di quest'anno. Riteniamo necessario il ritorno alla previsione di 300 miliardi considerando che le comunità montane, assieme a province e comuni, hanno attivato in questi anni una serie di investimenti, anche utili, per esempio nelle politiche dei fondi strutturali europei, ad attivare iniziative e progetti nella forma della concertazione e della cooperazione. La dotazione del fondo nazionale della montagna, dunque, che è un fondo di investimenti, è stata sempre più utilizzata in questo senso.
I mutui alle comunità montane a carico dello Stato sono stati un'innovazione di quest'ultimo anno. Le comunità montane italiane sono attive in questi giorni per la predisposizione dei loro piani di sviluppo; si imposta così una nuova era di programmazione per il territorio montano italiano, ma è evidente che limitare al solo anno corrente la dotazione dei mutui a carico dello Stato sarebbe assolutamente limitativo. Riteniamo che una dotazione di 30 miliardi annui sia importantissima per poter attivare progetti di cooperazione integrando il fondo nazionale della montagna.
Il fondo nazionale per le azioni di carattere statale ha dato risultati importantissimi. La dotazione è stata prevista in base alla legge n. 97 solo per il primo triennio 1994-1996, con un fondo di 60 miliardi, ma ha attivato iniziative fondamentali come il sistema informativo della montagna, che ci risulta essere il primo del genere su scala nazionale e che vede la collaborazione tra sistema degli enti locali, Stato e regione. Da questo nasce la richiesta di prevedere una nuova dotazione di circa 20 miliardi all'anno.
In conclusione, mi preme ricordare come le aree montane siano state spesso considerate un problema, una zavorra per l'economia nazionale. In realtà abbiamo dati che segnalano come in talune aree montane si trovino alcune eccellenze di produzione e di ricchezza che hanno sicuramente contribuito alla ricchezza nazionale. Sotto questo profilo riteniamo di poter svolgere fino in fondo il nostro ruolo accettando la sfida della concertazione e della cooperazione con gli altri enti locali. Crediamo che una politica legata solo ai tagli non possa essere una politica di risparmio. Crediamo invece di poter incentivare gli investimenti e con questo anche l'occupazione e la creazione di ricchezza.

PRESIDENTE. Vi ringrazio innanzitutto per la chiara illustrazione dei diversi punti.
Prima di passare la parola ai colleghi che la chiederanno, desidero rilevare come il Governo abbia accolto un auspicio delle Commissioni bilancio delle due Camere e abbia realizzato quest'anno un documento di programmazione particolarmente snello, dedicato fondamentalmente al quadro macro economico e alle tematiche generali. Ciò consentirà alle Camere di tenere conto delle priorità che emergeranno dalla discussione parlamentare e di quegli spunti e richieste, già formulati questa mattina, che non sono contenuti nel documento ma che potranno essere opportunamente oggetto delle risoluzioni in uno spirito di collaborazione tra forze sociali, Parlamento e Governo nella redazione del documento cardine e punto iniziale, secondo le attuali leggi di bilancio, delle scelte di politica economica e finanziaria del Governo.
Con questa disponibilità a tenere conto delle osservazioni che verranno fatte e ad includerle nelle risoluzioni che voteremo, invito i colleghi a porre le loro domande.

GIUSEPPE VEGAS. Rivolgerò due domande ai rappresentanti delle province.


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La legge finanziaria per il 2000 prevede appositi stanziamenti per la sicurezza stradale. Sono già stati attivati? È già stato fatto qualcosa?
Vi è un disegno di legge in Parlamento che tratta in parte la questione della perequazione tra cosiddette province madri e province figlie. Sotto questo aspetto la situazione finanziaria è risolta, si avvia a soluzione o bisogna operare ancora qualche intervento?

ANTONIO PIZZINATO. Rivolgerò due domande ai rappresentanti dell'UPI. Nella relazione si è fatto cenno ai temi della formazione e dell'avviamento al lavoro. Da quest'anno vi è l'obbligo della formazione professionale fino a 18 anni; vi sono ritardi, anche conseguenti a quelli delle leggi regionali nell'avviamento dei centri per l'impiego. A fronte di questi trasferimenti di funzioni e di competenze a regioni, province e comuni, come si è detto, non vi è stato un adeguato trasferimento di personale e di mezzi finanziari. Premesso che il personale trasferito e le quantità finanziarie sono stabiliti sulla base di un'intesa con le regioni ed è stato trasferito tutto il personale che prima si occupava di queste materie al Ministero del lavoro (circa 6 mila unità), vorrei sapere quanto personale si ritenga necessario per avere servizi per l'impiego efficienti, che mettano in rapporto in tempo reale domande e offerta di lavoro. Inoltre, come è possibile realizzare l'indispensabile raccordo tra formazione professionale, formazione continua e avviamento al lavoro? Poiché è una materia di competenza, in sinergia con regioni e comuni, delle province, desidererei sapere come fare e conoscere la quantità finanziaria necessaria qualora il decreto a suo tempo previsto non fosse adeguato.
In tema di lavori socialmente utili, la norma prevedeva già da tempo il loro svuotamento attraverso la formazione di imprese. Ho sentito dire dal rappresentante dell'UPI che bisogna provvedere in fretta ma senza caricarne gli oneri sulle amministrazioni locali. Non è che, per caso, si fa riferimento a quelli che lavorano negli ospedali? Altrimenti, dovrebbero essere già imprese. Quando parlo di ospedali o di altre attività lo faccio per cognizione di causa, giacché mi sono occupato per diversi anni della questione.

GINO NUNES, Componente dell'ufficio di presidenza dell'UPI. Con riferimento alla questione relativa a province madri e province figlie, immagino si voglia intendere con queste ultime le province di nuova formazione. Se la domanda è relativa ad eventuali esigenze delle province, noi riteniamo che debba essere prolungato il fondo di sostegno per le province di nuova formazione.
Circa i finanziamenti per la sicurezza mi risulta che una serie di province abbiano in corso di elaborazione - e che qualcuna abbia già presentato - richieste di partecipazione a programmi sulla sicurezza e quindi di accensione delle risorse relative al fondo per la sicurezza. Non sono in grado di quantificare le richieste delle province, ma si tratta tuttavia di un percorso già avviato.
Per quanto riguarda il sovraccarico sugli enti locali dei costi dei lavori socialmente utili, il programma che noi proponiamo è che nelle more e nel tempo di un processo di ricollocazione dei lavoratori socialmente utili in imprese, che si sta svolgendo, di formazione di nuove attività imprenditoriali che svuotino il bacino dei lavori socialmente utili, per gli enti locali, province e comuni c'è un problema di finanziamento del carico di tali lavori che in parte, a differenza degli anni passati, è trasferito sugli enti locali. Riteniamo che la decisione di trasferire sugli enti locali una quota del costo dei lavori socialmente utili nel tempo che serve ad una riallocazione di tali lavori sia un costo improprio, un sovraccarico. Il termine improprio forse non è esatto, perché tutti siamo Stato, ma comunque riteniamo sia un sovraccarico per le finanze degli enti locali.

ANTONIO PIZZINATO. Ma questo avviene quando si svolge un'attività per conto degli enti locali.


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GINO NUNES, Componente dell'ufficio di presidenza dell'UPI. Sì, tuttavia viene modificato un quadro precedente. Siamo passati da una situazione nella quale si svolgevano attività per gli enti locali ma erano finanziate in programmi nazionali, ad una nella quale l'attività prosegue - come lei sa perfettamente, anche per la difficoltà di svuotare il bacino - a carico degli enti locali. È mutato il quadro, questo è il punto che poniamo.

ALBERTO CAVALLI, Componente dell'ufficio di presidenza dell'UPI. Cercherò di rispondere alla questione che ho prima sollevato circa l'insufficienza dei trasferimenti finanziari e di personale per la formazione dei centri per l'impiego. Il senatore Pizzinato chiede giustamente quanto personale in più è necessario. La risposta non può essere precisa perché vorrei si comprendesse che siamo di fronte ad una sfida relativamente nuova. Non si tratta solo di continuare l'attività dell'ufficio di collocamento, ma di implementarla attraverso la realizzazione dei centri per l'impiego in condizioni parzialmente diverse dalla prima. Ricordo, per esempio, che si trattava di una competenza esclusiva dello Stato e della pubblica amministrazione; è stato poi introdotto il meccanismo per cui anche istituzioni non statali possono fare collocamento. Siamo di fronte ad una necessità di razionalizzazione, prevista per legge, anche della collocazione sul territorio dei centri per l'impiego. Una valutazione definitiva relativa al personale non è in questo momento attendibile. Riteniamo tuttavia necessario il 15-20 per cento di personale in più rispetto a quello che abbiamo in servizio in questo momento.

NICOLÒ SELLA DI MONTELUCE. Una domanda ai rappresentanti dell'UNCEM. Cosa pensate possa essere fatto per facilitare la fusione di comuni montani molto piccoli che potrebbero essere conglobati in comuni maggiori? Vi sono facilitazioni, agevolazioni, necessità finanziarie e fiscali che potrebbero facilitare tale processo?

VALERIO PRIGNACHI, Vicesegretario vicario dell' UNCEM. Siamo sempre stati assertori della teoria della unione dei comuni nella logica dell'unione dei servizi e delle funzioni, più che della fusione delle municipalità, considerando la differenza tra un comune e l'altro come una biodiversità e quindi come una ricchezza. Non è necessariamente riducendo il numero dei comuni che si contengono le spese, ma riducendo i centri di spesa e organizzando al meglio la politica dei servizi. Da questo punto di vista le comunità montane, soprattutto in alcune zone del paese, hanno fatto un notevole sforzo di coordinamento. È di poco tempo fa il decreto sugli incentivi per l'unione dei comuni in funzione della gestione associata dei servizi, ma è sicuramente solo un primo passo. La legge n. 97 del 1994, che è stata una pietra miliare nell'impostazione delle politiche per la montagna, riconosceva che in montagna esistono le pluriattività come elemento di base dell'aggregazione civile e sociale delle nostre comunità. Ciò sta a significare che occorrono una duttilità ed una elasticità particolari per queste situazioni e per queste zone marginali rispetto ai centri maggiori. La politica di concentrazione, sulla base di una scelta che porti ad unificare i servizi e le funzioni, deve essere perseguita come un elemento di valorizzazione di queste zone in modo da rendere, attraverso la bacinizzazione in ambiti ottimali, più efficace e più efficiente la politica dei servizi e della gestione delle funzioni. Su questo siamo pronti a raccordarci anche con altri livelli istituzionali. È evidente che una politica di incentivi va perseguita introducendo un concetto di «premio» per coloro che riescono ad attivare più servizi e più funzioni in forma associata.

GIOVANNI FERRANTE. Mi collego alla domanda del senatore Vegas in merito al problema delle province madri e figlie. L'UPI ha posto in essere un monitoraggio dell'esperienza svolta finora? Inoltre, rispetto alle frequenti, sempre più numerose richieste di istituzione di nuove


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province, l'UPI che indirizzo assume? Ritiene che siano plausibili alcune richieste e che altre lo siano meno? Non mi pare che rispetto al problema dell'esperienza e dell'eventuale istituzione di nuove province l'UPI non debba contribuire e fornire al Parlamento elementi che gli consentano di assumere orientamenti e decisioni.

GINO NUNES, Componente dell'ufficio di presidenza dell'UPI. Rispondo in termini chiari alla domanda del senatore Ferrante. Siamo contrari all'istituzione di nuove province. Riteniamo che un processo di riduzione delle dimensioni delle province sia negativo per la competitività dei territori. Non abbiamo un monitoraggio della situazione delle province madri e figlie ma consideriamo che la situazione esistente debba essere gestita in modo da fermare un processo che non condividiamo.

GIOVANNI FERRANTE. Le sono molto grato per la risposta sintetica ed esaustiva.

PRESIDENTE. Ringrazio i rappresentanti delle province e dei comuni montani per il contributo fornito ai nostri lavori. I loro documenti saranno sicuramente tenuti in adeguata considerazione nella risoluzione che conterrà gli indirizzi che le Camere daranno al Governo in merito al documento di programmazione economico-finanziaria.

Audizione di rappresentanti dell'Istituto di studi e analisi economica (ISAE).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'attività conoscitiva preliminare all'esame del documento di programmazione economico-finanziaria per gli anni 2001-2004, l'audizione di rappresentati dell'Istituto di studi e analisi economica. Sono presenti la professoressa Fiorella Padoa Schioppa Kostoris, che ne è il presidente, nonché il dottor Giampaolo Neto e la dottoressa Cristina Mercuri.
Do subito la parola alla professoressa Padoa Schioppa.

FIORELLA PADOA SCHIOPPA KOSTORIS, Presidente dell'ISAE. Ringrazio i presidenti delle Commissioni bilancio della Camera e del Senato. Ho predisposto una memoria, che già ho consegnato agli uffici, della quale intenderei leggere le parti principali, per lasciare poi spazio al dibattito. Forse non riuscirò a restare entro i venti minuti, ma certamente non la leggerò tutta.
Il DPEF, per la prima volta quest'anno, lodevolmente riesce a inquadrare la discussione delle tendenze economiche correnti e dei programmi governativi per il prossimo quadriennio 2001-2004, in uno schema analitico di maggiore respiro, volto a esaminare il processo di risanamento della finanza pubblica, la crescita, le dinamiche occupazionali e territoriali durante il periodo che va dall'inizio della legislatura a oggi.
Non può che essere condivisibile l'orgoglio manifestato dal Governo in questo documento per la capacità dimostrata dall'azione pubblica, evidenziata a partire dal 1996, nell'operare drastici tagli del deficit. Basti pensare che quattro anni or sono il rapporto tra l'indebitamento netto delle Amministrazioni pubbliche e il PIL era pari al 7,1 per cento, a fronte di una media europea del 4,2 per cento, mentre a fine decennio il nostro paese, con un rapporto deficit-PIL ridotto all'1,9 per cento, ha quasi raggiunto la Francia, si pone per solo 0,8 punti percentuali al di sopra della Germania e per 0,7 punti al di sopra della media dei paesi dell'euro.
Si può anche essere d'accordo con la «Premessa e conclusioni» del DPEF 2001-2004, laddove si individua nella drastica manovra di risanamento della finanza pubblica avvenuta nell'ultimo quadriennio una delle ragioni principali della minore crescita economica del nostro paese rispetto a quella degli altri partner europei. Con tale affermazione si deve concordare,


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sia che si adotti un'ottica keynesiana, secondo cui ogni decremento del decifit implica effetti indesiderati sulla crescita, sia che si prediliga un approccio supply side - certo più consono allo spirito dei parametri di Maastricht - secondo cui lo sviluppo viene compromesso non già dalle diminuzioni quantitative del disavanzo, ma dal modo in cui esse si realizzano, sul piano qualitativo, cioè aumentando la pressione fiscale, diminuendo gli investimenti pubblici, lasciando inalterata (quando non incrementando) la spesa corrente, ad eccezione di quella per il servizio del debito. È precisamente quanto è successo in Italia, dove la pressione fiscale è risalita fino al 44,2 per cento nel 1997 (quasi 1,6 punti in più della media europea) per poi scendere a fine decennio al 43,7, quasi come presso i partner dell'euro. Si tratta di un livello che per il nostro paese è superiore di quasi 12 punti a quello di venti anni prima, mentre per l'area dell'euro è maggiore di solo 4,6 punti rispetto a quello del 1980. Anche la spesa pubblica per investimenti si è drasticamente ridotta in Italia, risollevandosi solo a fine decennio, senza peraltro ritornare ai valore degli anni ottanta; in questo caso, un fenomeno simile ha caratterizzato gli altri paesi europei e, segnatamente, quelli dell'euro.
Nello straordinario risanamento della finanza pubblica italiana degli ultimi quattro anni, le luci si combinano alle ombre. Non può stupire che lo sforzo comparativamente maggiore richiesto al nostro paese abbia condotto ad un differenziale di crescita, cumulato nel decennio 1990-1999, di sette punti percentuali di PIL rispetto agli altri dieci paesi dell'area dell'euro, come ricordato nelle considerazioni finali del governatore della Banca d'Italia il 31 maggio scorso. Non è, tuttavia, verosimile che ciò abbia implicato una perdita altrettanto ampia di posti di lavoro (e il 7 per cento degli occupati corrisponderebbe a oltre 1,4 milioni di unità), in quanto l'elasticità della domanda di lavoro al prodotto è in generale, sull'arco di un decennio, sensibilmente inferiore all'unità. In ogni caso, la dinamica occupazionale in Italia è molto cambiata negli ultimi anni, anche grazie alla recente maggiore attenzione della politica economica agli aspetti qualitativi del riequilibrio dei conti pubblici, alle nuove flessibilità del mercato del lavoro, all'acquisito ancoraggio alla stabilità nominale, ai ritrovati stimoli alla crescita economica in un quadro mondiale fortemente espansivo. Nei quattro anni terminanti ad aprile del 2000 (lo ricorda con soddisfazione il DPEF), la crescita registrata dagli occupati è pari a 830 mila persone (di cui 225 mila nel Mezzogiorno). Rimane che le unità di lavoro, sia pure dopo un così grande recupero, non sono ancora tornate al livello del 1990, pur essendovi ormai prossime.
L'unico aspetto in cui non si concorda con l'analisi illustrata nella «Premessa e conclusioni» del DPEF 2001-2004, riguarda il suo paragrafo dedicato alle «questioni aperte», laddove si afferma (a pagina XIV) che è «una analisi parzialmente distorta e distorcente, fonte di confusioni e strumentalizzazioni» quella di chi nega che «in campo previdenziale, la riforma realizzata nel 1995 è strutturalmente adeguata, anche se alcune criticità ancora permangono nella fase transitoria». In proposito, corre l'obbligo di ricordare che una riforma pensionistica, la quale anche nella fase di «stabilizzazione» nel 2045, implica che un quarto delle pensioni sia pagato in deficit (poiché esse non sono totalmente coperte dai contributi all'interno del sistema a ripartizione), non può dirsi soffrire esclusivamente di mali transitori. Né può dirsi strutturalmente adeguato un sistema contributivo a ripartizione, nel quale l'età pensionabile rimane prematura (nell'arco flessibile di 57-65 anni, essa è di fatto prossima al limite sinistro dell'intervallo) ed è inferiore al resto d'Europa, mentre il Belpaese presenta il secondo tasso di fertilità più basso e la seconda aspettativa di vita più alta in Europa, con una conseguente prevista caduta del livello della popolazione italiana nei prossimi trenta anni di 6 milioni di unità, quale risultato di un fenomeno di invecchiamento


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epocale che vedrà una diminuzione di ben 11 milioni di individui sotto i 60 anni e un aumento di 5 milioni di ultra-sessantenni.
Passando ora alla discussione della situazione congiunturale descritta nel DPEF 2001-2004, molti sono gli elementi di accordo che l'ISAE ritrova con il punto di vista del Governo. Le pagine successive e la nostra discussione qui li illustrano.
La ripresa produttiva dell'economia italiana, affermatasi nella seconda parte del 1999, ha segnato nei primi mesi di quest'anno un rafforzamento; il ritmo di espansione si è avvicinato a quello dell'insieme dell'area dell'euro. La crescita, alimentata dal recupero delle esportazioni e dall'andamento favorevole degli investimenti, ha beneficiato, nel periodo più recente, dello stimolo aggiuntivo proveniente dalla brusca accelerazione dei consumi privati. Sulla base dei segnali provenienti dagli indicatori anticipatori, tratti dalle inchieste dell'ISAE, la tendenza espansiva dovrebbe mantenersi sostenuta, continuando a trovare supporto sia nella componente estera della domanda, sia in quella interna.
Le informazioni provenienti dai conti economici nazionali indicano che la fase di ristagno dell'attività si è conclusa all'inizio dello scorso anno. La dinamica del PIL ha segnato una graduale accelerazione nel secondo e terzo trimestre del 1999, si è attenuata nel quarto e ha registrato un netto rafforzamento all'inizio di quest'anno (con un incremento congiunturale pari all'1 per cento). In tale periodo, il ritmo di crescita, misurato sull'arco di dodici mesi, ha toccato il 3 per cento, il risultato migliore dell'ultimo biennio. Il differenziale negativo rispetto al tasso di sviluppo dell'insieme dell'area dell'euro, che aveva raggiunto un massimo pari a circa 1,5 punti percentuali alla fine del 1998 e si era mantenuto poco al di sotto di un punto nel corso del 1999, si è quasi annullato.
Il settore industriale, dopo il marcato incremento dell'autunno, ha manifestato uno sviluppo meno sostenuto.
In base ai risultati dell'inchiesta dell'ISAE presso le imprese industriali, condotta in maggio, un significativo recupero di dinamismo è atteso nella seconda parte dell'anno. I giudizi degli operatori evidenziano un marcato rafforzamento della domanda, esteso tanto alla componente interna che a quella estera, una prosecuzione del processo di decumulo delle scorte e un significativo miglioramento delle prospettive di crescita della produzione. Gli indicatori tratti dall'inchiesta, riguardanti il livello degli ordini e le tendenze dell'attività produttiva, hanno raggiunto a maggio il valore più elevato a partire dalla fine degli anni ottanta.
Per quel che riguarda le principali componenti della domanda, le informazioni relative alla prima parte dell'anno segnalano una crescita sostenuta di esportazioni e consumi privati e la prosecuzione della tendenza espansiva degli investimenti.
I dati relativi al primo trimestre di quest'anno, provenienti dai conti nazionali, indicano un notevole, e per molti versi inatteso, rafforzamento della dinamica dei consumi privati. Dopo aver segnato una crescita assai modesta nella seconda parte del 1999, nei primi mesi del 2000 la spesa delle famiglie è aumentata, in termini reali, dell'1,2 per cento rispetto al trimestre precedente. L'accelerazione è stata trainata dai consumi di beni durevoli. Restano, tuttavia, alcuni dubbi sulla solidità della ripresa dei consumi, intervenuta in corrispondenza di un andamento molto incerto del clima di fiducia dei consumatori e di una risalita dell'inflazione che ha influenzato negativamente il potere d'acquisto delle famiglie.
La domanda ha continuato a ricevere una spinta rilevante dagli investimenti in beni strumentali. Favorita dal miglioramento delle attese di sviluppo e dal livello relativamente basso dei tassi di interesse reali, questa componente è cresciuta nel primo trimestre di circa il 2 per cento in termini congiunturali e di quasi l'8 per cento sull'arco di un anno.
L'espansione produttiva ha trovato un forte stimolo nella marcata accelerazione


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delle esportazioni di beni e servizi che nel primo trimestre sono aumentate, in termini congiunturali, del 3,6 per cento. Sull'arco di un anno, la ripresa delle vendite all'estero ha così raggiunto un tasso di sviluppo dell'ordine dell'11 per cento; un risultato così favorevole non era più stato registrato dalle metà del 1995.
Per converso, le importazioni hanno registrato, all'inizio di quest'anno, una nuova frenata, che conferma l'evoluzione discontinua già prevalsa lungo lo scorso anno. Il consolidarsi della crescita economica si è tradotto, nella prima parte dell'anno, in un significativo miglioramento della situazione del mercato del lavoro: all'accelerazione della dinamica degli occupati ha corrisposto un netto calo del numero di persone in cerca di impiego. Sulla base delle informazioni provenienti dall'indagine trimestrale sulle forze di lavoro di aprile, l'occupazione ha registrato un aumento dell'1,5 per cento (pari a circa 310 mila unità) rispetto ai dodici mesi precedenti. Al netto della stagionalità, il numero degli occupati è cresciuto per il decimo trimestre consecutivo, con un incremento complessivo, nel lasso di due anni e mezzo, di circa 750 mila unità. L'aumento dell'input di lavoro misurato in termini di unità standard, che tiene conto del diverso peso delle posizioni part-time e di altre forme di utilizzo parziale della manodopera, è stato più contenuto.
L'utilizzo di tipologie contrattuali flessibili ha contribuito in misura determinante all'aumento dell'occupazione. Le posizioni a termine e a tempo parziale, al netto delle sovrapposizioni, hanno rappresentato, nell'arco dell'ultimo anno, i quattro quinti della crescita totale del lavoro dipendente.
A partire dalla seconda metà del 1999, la dinamica dell'offerta di lavoro ha segnato un sensibile rallentamento rispetto ai ritmi molto elevati che avevano caratterizzato il precedente biennio. Il tasso di disoccupazione, ancora superiore all'11,5 per cento nella prima parte del 1999, è sceso all'11,1 per cento alla fine dell'anno, per poi portarsi al 10,7 per cento in aprile.
Il principale fattore di squilibrio all'interno degli sviluppi complessivamente favorevoli che caratterizzano la congiuntura italiana e, più in generale, quella europea, è costituito dalla risalita dell'inflazione. Le spinte provenienti dal rincaro del prezzo del petrolio e dall'aumento del costo dei prodotti importati dall'esterno dell'area, connesso al progressivo deprezzamento del cambio, hanno determinato una nuova accelerazione dei prezzi al consumo. Nel nostro paese, il tasso di inflazione ha toccato in giungo il 2,7 per cento, mentre nell'insieme dell'area dell'euro tale indicatore potrebbe essere risalito appena al di sopra del 2 per cento. Proprio in funzione della necessità di contrastare le pressioni sui prezzi, la Banca centrale europea ha deciso all'inizio di giungo un nuovo, più marcato, rialzo del tasso di intervento.
Le attuali tensioni si configurano essenzialmente come un fenomeno di inflazione importata, ma fattori endogeni di spinta hanno contribuito, soprattutto nei servizi, a mantenere elevata la dinamica di fondo dei prezzi. Nel settore industriale la prosecuzione della moderazione salariale e il recupero della produttività legato al rafforzamento del ciclo economico hanno determinato una compressione del costo del lavoro unitario. Tale effetto, combinandosi con una lieve riduzione dei margini unitari, ha attenuato l'impatto degli impulsi provenienti dalla componente estera. A livello di distribuzione finale e nel comparto dei servizi venduti alle famiglie hanno, invece, continuato ad operare meccanismi di amplificazione delle spinte inflazionistiche, connessi con l'insufficiente grado di competitività dei mercati.
I rincari dei prodotti petroliferi e l'aumento del costo degli input importati hanno provocato, in particolare nei settori dove più intenso ne è l'impiego, considerevoli spinte sui prezzi praticati dalle imprese industriali. È interessante osservare che le pressioni al rialzo provenienti


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dagli input importati, sebbene comparabili a quelle registrate in occasione dell'analogo episodio inflazionistico di fine 1994-inizio 1995, hanno fin qui prodotto in Italia ricadute di intensità più contenuta. Tuttavia, i rincari dei beni intermedi hanno cominciato ad estendersi gradualmente anche sui prezzi dei beni finali.
Il protrarsi delle spinte provenienti dai prezzi dei prodotti energetici e dalla debolezza della valuta europea, unitamente al rafforzamento della fase di ripresa economica, dovrebbero comportare il permanere di tensioni sui prezzi industriali anche nei prossimi mesi. I risultati delle inchieste condotte dall'ISAE presso le imprese manifatturiere sembrano prospettare sino all'inizio dell'autunno una dinamica ancora in accelerazione.
L'analisi disaggregata per le tre principali componenti dell'indice nazionale dei prezzi al consumo segnala la forte spinta esercitata dal raggruppamento dei beni non alimentari, una dinamica moderata ma in costante accelerazione per i beni alimentari e una evoluzione in leggera crescita e ancora superiore a quella media nei prime mesi dell'anno, per l'insieme dei servizi. Dal lato delle tariffe, si deve segnalare l'andamento complessivamente moderato di quelle relative ai servizi di trasporto, che hanno mantenuto ritmi di crescita quasi stabili rispetto alla seconda parte del 1999.
Gli impulsi di origine esterna hanno prodotto in quasi tutti i paesi aderenti alla moneta unica una accelerazione dei prezzi al consumo, ma l'intensità della crescita è risultata nei mesi più recenti mediamente inferiore a quella registrata in Italia. Il nostro differenziale d'inflazione rispetto alla media dell'area, riapertosi nei mesi centrali del 1999, si era progressivamente ristretto nell'autunno scorso; dall'inizio del 2000 ha segnalato un moderato ma costante ampliamento, riportandosi al di sopra del mezzo punto percentuale. Il divario a nostro sfavore risulta, inoltre, ancora più ampio se si considerano esclusivamente le componenti di fondo dell'inflazione, confermando come la nostra economia rimanga caratterizzata da un importante contributo inflazionistico proveniente da fattori endogeni di spinta sui prezzi. L'indice che esclude i beni alimentari e quelli energetici (il cosiddetto core inflation), calcolato da EUROSTAT, mostra, infatti un profilo di crescita notevolmente più sostenuto per l'Italia rispetto alla media dell'area, con una distanza che nei primi mesi dell'anno si è mantenuta vicina al punto percentuale. Nel quadro di un sistema di cambi fissi, l'erosione della competitività che ne consegue appare rilevante.
Per quanto riguarda lo scenario macroeconomico dell'ISAE per il biennio 2000-2001, alleghiamo alla memoria una tabella che vi dà tutti gli indicatori delle nostre previsioni.
L'ISAE presenta, in questa sede, comunque, un aggiornamento, ancora provvisorio, dello scenario di previsione per il biennio 2000-2001 da noi pubblicato all'inizio di giugno. Le informazioni resesi disponibili nell'ultimo mese confermano, nel complesso, le linee essenziali di quell'esercizio, rafforzando l'ottimismo riguardo alle potenzialità di crescita dell'economia italiana nel breve periodo.
Per quanto concerne il contesto internazionale, i principali segnali emerse nelle ultime settimane vanno nel senso di un'accentuazione del ritmo di espansione nell'area dell'euro, di un miglioramento della situazione congiunturale del Giappone e, all'opposto, di un'attenuazione della crescita dell'economia statunitense. Quest'ultimo dato, in ogni modo, è favorevole per il nostro sviluppo.
Per quanto attiene all'economia italiana, le principali «sorprese» delle ultime settimane sono venute dalle informazioni contenute nei conti economici nazionali relativi al primo trimestre del 2000. Per un verso, esse hanno messo in evidenza una crescita più robusta di quanto gli indicatori precedentemente disponibili lasciassero immaginare. Per l'altro, le importanti modifiche retrospettive, riguardanti il 1999, operate sulle informazioni diffuse in precedenza, confermano che le prime stime del PIL vanno considerate


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con molta cautela al momento del loro utilizzo a fini previsivi. Da questo punto di vista, lo scenario qui presentato non incorpora in modo meccanico i nuovi dati, ma tenta piuttosto di inserirli in un quadro che tiene conto anche di informazioni esterne alla contabilità nazionale.
All'interno di questo scenario di crescita complessivamente sostenuta dell'economia internazionale e, in particolare, di quella europea, le prospettive di sviluppo del nostro paese sono favorevoli e tali da permettere l'affermarsi di una tendenza espansiva relativamente robusta e protratta nel tempo. Tali condizioni rendono verosimile che il nostro paese registri sia quest'anno, sia il prossimo, un tasso di espansione del PIL del 2,8 per cento, doppio per il 2000 e il 2001 di quelli registrati nella media degli anni novanta in Italia.
La forte accelerazione della dinamica del commercio mondiale assicura nel 2000 una notevole crescita dei mercati di sbocco delle esportazioni italiane. Unendosi all'effetto del deprezzamento della lira rispetto al dollaro, ciò conduce a prevedere una forte crescita delle esportazioni di beni e servizi. Per il 2001, si prevede invece un rallentamento di tale dinamica, mentre l'espansione produttiva determina, nel corso del biennio, una accelerazione delle importazioni.
La domanda interna segna quest'anno una ripresa ancora modesta, trainata soprattutto dagli investimenti, per poi crescere in misura più accentuata nel corso del 2001, grazie al consolidarsi dell'espansione dei consumi privati.
Gli investimenti mantengono il ruolo di componente più dinamica della domanda interna, spinti dall'emergere di opportunità di ampliamento della base produttiva e favoriti dal permanere di tassi di interesse reali ancora relativamente bassi, sebbene in progressivo rialzo.
Nel complesso, il graduale recupero della domanda interna è destinato a compensare nel 2001 il venire meno della spinta delle esportazioni nette, mantenendo una dinamica piuttosto sostenuta dell'attività economica lungo tutto l'arco della previsione.
La tendenza espansiva dell'occupazione, affermatasi nel periodo più recente, è destinata a rafforzarsi. In confronto agli eccezionali risultati del biennio 1998-1999, l'elasticità della domanda di lavoro all'output si ridimensiona sensibilmente, ma rimane comunque elevata.
La dinamica salariale si mantiene moderata quest'anno, per poi segnare un'accelerazione l'anno prossimo, anche a causa del recupero ritardato dell'inflazione non prevista.
Il costo del lavoro per occupato manifesta un'evoluzione analoga a quella del salario. La ripresa ciclica dei guadagni di produttività nel complesso dell'economia è limitata ma contribuisce ad attenuare, nell'anno in corso, la dinamica del costo del lavoro per unità di prodotto. Nel 2001, l'aumento della produttività compensa solo in parte l'accelerazione dei salari e l'incremento del costo del lavoro unitario risale all'1,5 per cento.
Nel complesso della nostra stima le ipotesi sono che il tasso medio di inflazione cresca del 2,5 per cento nell'anno in corso, mentre cali al 2 per cento nel 2001, restando superiore di mezzo punto percentuale a quello previsto per l'area dell'euro.
Molte sono le incertezze della previsione di crescita dell'economia e io non ritengo di avere qui il tempo di discuterne, perciò lascio alla vostra lettura questa memoria e dico ancora qualche parola sulle previsioni della finanza pubblica.
Per quanto riguarda l'andamento degli aggregati di finanza pubblica nell'anno in corso e le previsioni tendenziali per il 2001 essi risultano, secondo l'ISAE, sostanzialmente in linea con quanto riportato nel DPEF. Per il 2000 le attese sono di un deficit delle amministrazioni pubbliche pari all'1,2 per cento del PIL (appena più favorevole dell'1,3 per cento ufficiale); per il prossimo anno (come nel documento) è previsto un indebitamento tendenziale pari all'1 per cento del prodotto,


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cioè uguale all'obiettivo indicato nell'aggiornamento del Programma di stabilità presentato a Bruxelles nel dicembre scorso e attualmente confermato.
Per la prima volta, dunque, dopo anni di interventi correttivi, le tendenze in atto consentono di centrare l'obiettivo e non c'è bisogno di una manovra di contenimento del disavanzo.
Prudenzialmente, il Governo attende i risultati dell'autotassazione per delineare un sentiero più espansivo delle entrate illustrate nel DPEF. Anche le stime dell'ISAE sono orientate alla prudenza, pur rilevando maggiori introiti rispetto a quanto evidenziato nel DPEF, specie con riferimento all'imposizione indiretta.
Dal lato delle spese, i consumi collettivi dovrebbero sperimentare un rallentamento nell'anno in corso e una successiva accelerazione. Nel loro ambito, particolarmente dinamici risultano gli esborsi per consumi intermedi, come riflesso di un andamento dei pagamenti effettuati dagli enti decentrati non in linea con quanto previsto dal Patto di stabilità interno.
Le prestazione sociali mostrano un incremento inferiore al PIL in questo biennio.
Il debito pubblico dovrebbe ridursi di quasi 9 punti percentuali di PIL nel biennio, passando a valori che sono dunque migliori rispetto ai target ufficiali nei due anni. Ciò avverrebbe anche grazie alla contabilizzazione degli introiti (ipotizzati pari a 30.000 miliardi) derivanti dalla concessione delle licenze UMTS, nonché alle entrate connesse alla liquidazione dell'IRI.
La pressione fiscale, dopo l'incremento registrato lo scorso anno, in assenza di imprevisti aumenti degli introiti tributari, dovrebbe ridursi appena nel 2000 e più consistentemente nell'anno successivo, portandosi al 42,4 per cento, cioè al livello più basso degli ultimi cinque anni.
Prima di concludere questa mia esposizione, vorrei dire ancora solo qualche parola sulla questione delicata della pressione fiscale e sul fatto se sia possibile o realistica una sua riduzione.
Lo scorso anno la pressione fiscale italiana è risultata più elevata, nell'ambito dell'Unione europea, di quella di cinque paesi, ma è rimasta inferiore al livello di quella degli altri nove Stati membri dell'Unione.
Il quadro tendenziale dei conti pubblici indica un decremento del carico fiscale dal 43,3 per cento del 1999 al 41,1 per cento del 2004: qualora si verificassero le attese circa un possibile futuro aumento del gettito, il Governo si impegna a destinarlo ad ulteriori alleggerimenti fiscali.
Si discute, tuttavia, sull'entità della riduzione. Più di un osservatore ha proposto di diminuire la pressione fiscale di 1 punto percentuale di PIL per vari anni (quattro o cinque). Dato il vincolo di bilancio, si è inteso accompagnare questo decremento con una diminuzione di pari ammontare della spesa di natura corrente.
A tale riguardo si possono avanzare alcune osservazioni. Nel DPEF è prevista una riduzione tendenziale, cioè senza manovre, di 2,1 punti del carico fiscale nel quadriennio 2001-2004. L'ipotesi di contrazione di 1 punto all'anno implicherebbe un calo cumulato della pressione fiscale di 4 punti, e dunque una manovra cumulata di 1,9 punti di PIL rispetto al tendenziale: ciò richiederebbe sgravi strutturali nel corso dei quattro anni pari rispettivamente allo 0,2 per cento del PIL nel 2001, allo 0,6 per cento nel 2002, allo 0,4 per cento nel 2003 e allo 0,7 per cento nel 2004.
La manovra di alleggerimento fiscale ammonterebbe a ben 48.300 miliardi nei quattro anni.
Simili tagli strutturali di spesa corrente appaiono realisticamente di difficile realizzazione. Prima che il processo di risanamento fosse decisamente avviato, la spesa corrente primaria italiana mostrava un tasso di incremento in termini di PIL quasi doppio rispetto a quello realizzato in media da Francia, Germania e Regno Unito. Dopo sei anni di manovre, l'incidenza sul PIL della spesa corrente primaria si è ridotta di 2,1 punti, risultando in Italia inferiore alla media dell'Unione


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europea e a quella dell'area dell'euro. In tale ambito, inoltre, la Germania e la Francia presentano quote ben più elevate di quelle del nostro paese, mentre in paesi come il Regno Unito, in cui l'incidenza sul PIL si è ridotta consistentemente, ciò è avvenuto in concomitanza di un aumento della pressione fiscale.
In ogni caso, una riduzione delle uscite in percentuale del PIL (non comunque facile in termini di 1 punto all'anno) appare prioritaria, così come una loro ricomposizione, sia all'interno della spesa corrente stessa, sia tra quest'ultima e la spesa in conto capitale. Bisogna puntare all'efficienza degli esborsi e, in particolare, di quelli di funzionamento della pubblica amministrazione, in quanto anche la qualità dell'amministrazione costituisce un fattore critico della concorrenza tra paesi.
Le pagine successive, che qui non illustrerò, descrivono alcuni elementi della manovra programmatica, che, come voi sapete, non è caratterizzata nei suoi dettagli dal DPEF. In particolare, nella memoria che lascio a vostra disposizione sono simulati gli effetti di alcune manovre, specificatamente una manovra che riguarda la deduzione dal reddito dell'abitazione principale per tutti i contribuenti.
Si tratta di una manovra che costerebbe circa 900 miliardi di lire, riguarderebbe il 14 per cento delle famiglie: particolarmente quelle con reddito più elevato perché, come è noto, il reddito della prima casa è già in deduzione per coloro che possiedono una casa con reddito inferiore a 1,8 milioni.
Una seconda manovra descritta è quella relativa alle detrazioni per redditi da lavoro e, in particolare, all'incremento della soglia di esenzione del reddito da lavoro, fino a 15 milioni per il lavoro dipendente e da pensione e a 7,5 milioni per il lavoro autonomo, da attuare attraverso un aumento delle relative detrazioni di imposta.
Circa il 26 per cento delle famiglie trarrebbe un guadagno da questa misura. La percentuale di famiglie beneficiarie sarebbe più elevata nei primi due quintili di reddito, i più bassi, ma non soltanto i nuclei meno benestanti trarrebbero vantaggi: ben il 17 per cento delle famiglie dell'ultimo quintile e il 22 per cento di quelle del penultimo godrebbero dell'agevolazione. Ciò sembra dipendere principalmente dal fatto che i redditi famigliari maggiori sono ottenuti in molti casi grazie alla compresenza di più percettori con reddito relativamente basso.
In ultima analisi questo provvedimento, anche se rivolto teoricamente alle fasce di reddito più basso, non risulta precisamente mirato sull'obiettivo: in particolare, nulla concede ai senza reddito. Perciò un'altra manovra simulata e descritta in queste pagine riguarda l'offerta di un reddito minimo generalizzato a tutti coloro che si trovano sotto la soglia di povertà. Si tratta di circa il 3,9 per cento delle famiglie italiane, alle quali bisognerebbe assicurare un reddito minimo, con un costo che viene valutato dal nostro Istituto in 4.900 miliardi di lire.
La memoria si conclude parlando di altri aspetti, meno tradizionali, di possibili manovre di intervento; per esempio, quelle legate a maggiori semplificazioni amministrative e sburocratizzazioni, poiché è noto che la competitività del paese dipende anche da questi elementi.
Da ultimo, si discute del potenziale utilizzo degli introiti dell'UMTS in funzione dello sviluppo, da favorire senz'altro, della previdenza complementare, sia nel campo del settore privato, sia anche nel campo, forse più futuribile ma altrettanto opportuno, del settore pubblico. Grazie.

PRESIDENTE. Ringrazio, anche a nome dei colleghi, la professoressa Padoa Schioppa per il quadro completo e molto chiaro che ci ha delineato. Molto interessante ed illuminante è, devo dirlo, la parte finale, cioè quella concernente i costi e gli obiettivi che si andrebbero a colpire con gli interventi di cui pur molto si è discusso.
Prima di dare la parola ai colleghi, vorrei formulare anch'io una domanda. Quando si parla di pressione fiscale e di sua possibile riduzione si fa riferimento


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alla discussione che si è fatta a proposito della riduzione di 1 punto per un certo numero di anni; credo che la prospettiva di un certo numero di anni sia opportuna e necessaria proprio per assicurare un percorso, ma credo anche che sia importante, nella chiave della competitività del sistema paese che è sottostante a tutto il DPEF e che ha costituito oggetto anche di un'indagine da parte della Commissione bilancio della Camera, tenere conto di come ci guardano i nostri competitori. Abitualmente scopriamo sempre con una certa insoddisfazione che siamo in fondo alla lista dei paesi nei quali è auspicabile investire. La pressione fiscale si determina in un modo, ed ha un suo peso, ma ciò che attrae l'investitore o ciò su cui si prendono le decisioni di business è più facilmente la struttura delle aliquote, rispetto alla quale interventi recenti, anche molto mirati e molto selettivi, diventano poco percepibili.
Ecco, dunque, la domanda. Se, invece di ridurre di 1 punto la pressione, si riducesse di 1 punto l'aliquota IRPEF è evidente che il costo sarebbe più o meno la metà. Quali potrebbero essere gli effetti della riduzione di 1 punto di tutti gli scaglioni delle aliquote IRPEF? Potrebbe essere questa, probabilmente, una soluzione intermedia, non eccessivamente costosa e quindi affrontabile, auspicabile perché leggibile dai mercati internazionali e che proietta in un percorso - se così si può dire - l'intervento fiscale effettuato.
Do ora la parola ai colleghi che hanno richiesto di intervenire.

GUIDO POSSA. La prima domanda che desidero rivolgere alla professoressa Padoa Schioppa riguarda la competitività del sistema Italia, vedendola con altri indici rispetto a quelli qui presentati. La quota delle esportazioni italiane sulle esportazioni mondiali, ha avuto un brusco calo nel 1999: in che modo si prevede che si configuri nel 2000-2001?
La seconda domanda, sempre sulla competitività, riguarda il fatto che stiamo perdendo competitività anche perché i prodotti e i servizi che esportiamo sono sempre meno high tech.
La terza domanda attiene alla pressione fiscale. Come mai la pressione fiscale diminuisce così tanto nel quadriennio 2000-2004 (2,1 punti percentuali)? In effetti, l'IRPEF si mantiene tale e quale, non c'è alcun recupero del fiscal drag; l'IVA rimane tale e quale; non vorrei, quindi, che vi fosse qualche mera distorsione di calcolo. In ogni caso, non è corretto paragonare tout court la pressione fiscale in Italia e in Germania: noi sappiamo che in Italia vi è una percentuale di sommerso enorme, per cui la pressione fiscale sul contribuente, non quella sul PIL, è molto più elevata in Italia che non in Germania.

MARIA CARAZZI. Intendo riferirmi anch'io alla questione delle modifiche fiscali, in particolare a quella che viene chiamata un'azione di restituzione. Se si opera un'azione di restituzione verso i soggetti che sono, anche se sommariamente, identificati nel DPEF (le famiglie a basso reddito e alcune tipologie di impresa), questo può avvenire mantenendo la pressione fiscale invariata, con una redistribuzione all'interno. È molto utile il meccanismo che viene analizzato dall'ISAE, che ci aiuta a capire come gli obiettivi rivolti ad alcune fasce di reddito basso a volte per distorsione del meccanismo redistribuiscano, invece, in modo diverso; di questo dobbiamo tenere conto se il nostro scopo è quello di favorire i redditi bassi, cosa che io penso sia assodata anche nel DPEF. Se, invece, aderiamo alla visione di possibile riduzione della pressione fiscale - mi pare che anche il presidente accennasse ad un caso di riduzione delle aliquote IRPEF, immagino tutte, a scalare - succede un'altra cosa: con una politica di riduzione fiscale dobbiamo prendere in considerazione una riduzione della presenza dello Stato nell'economia, quindi una riduzione dei servizi, il che significa che contraddiremmo quell'ipotesi redistributiva che mi pareva l'aspetto più importante del DPEF.


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LIVIO PROIETTI. Io vorrei brevemente soffermarmi, professoressa Padoa Schioppa, sulla questione del reddito minimo, che comincia ad essere particolarmente avvertita, visti anche i dati pubblicati nei giorni scorsi sull'aumento delle famiglie che non raggiungono la soglia minima di reddito per essere al di fuori della cosiddetta soglia di povertà.
L'ISAE valuta la spesa in 4.900 miliardi. Non ritiene che tale spesa dovrebbe essere in qualche modo depurata dall'aumento del reale potere di acquisto di queste famiglie, per cui vi sarebbe comunque il sostegno ad una domanda interna di beni? Se pensiamo ad un permanere delle esenzioni fiscali per la tassazione diretta, ovviamente non è pensabile (a meno che non si vada ad un regime, ormai non più applicato da nessuna parte, di prezzi amministrati o di tessera annonaria) che su questi consumi irrobustiti non incida una tassazione indiretta. Quindi, probabilmente sui 4.900 miliardi di spesa presumibile potrebbe esservi, appunto tramite il meccanismo di sostegno alla domanda, un qualche rientro. Consideriamo che la tassazione indiretta, tra IVA al consumo, tasse e balzelli vari, incide per una percentuale che possiamo desumere non inferiore, comunque, al 15 per cento per cui parte di quei 4.900 miliardi potrebbe essere recuperata. Questo è un primo dato.
Secondo dato. Nel calcolo è stata considerata la questione del reddito minimo di ingresso dei lavoratori iscritti da lunga durata nelle liste di collocamento, che spesso coincidono con le famiglie al di sotto della soglia di povertà ma a volte possono anche non coincidere? Domando, quindi, se in questo quadro dobbiamo ricomprendere anche il problema dei disoccupati di lunga durata che sono, come dicevo, inseriti nelle liste. Mi auguro che possa essere dato questo chiarimento riguardo alle cifre.

NICOLÒ SELLA DI MONTELUCE. Riprendendo quanto già detto dall'onorevole Possa, la mia domanda verte sull'aspetto metodologico dell'approccio che sia l'ISAE sia il Governo nel DPEF utilizzano. Mi chiedo se nel predisporre il quadro riassuntivo (nell'ultima pagina della relazione della professoressa Padoa Schioppa) sia stato utilizzato un modello econometrico o, invece, un modello qualitativo e, poi, se tale modello qualitativo regga, dal punto di vista econometrico, nella proiezione per gli anni a venire.
Questo mi porta anche a guardare il quadro programmatorio a pagina 9 del DPEF ed a chiedermi come mai un documento che viene prodotto da un organo fondamentale del sistema economico italiano, cioè il Governo, non abbia né un riassunto metodologico di come si siano ottenuti tutti i dati (crescita del PIL, tasso di inflazione, crescita dell'occupazione, import, export, eccetera) e non abbia una sua analisi congruente, che, in base a tecniche econometriche, ci indichi come tali grandezze possano reggere assieme proiettate nel futuro. Da quello che sono venuto a sapere attraverso un'analisi che ho condotto personalmente, risulta, invece, che le analisi vengono fatte qualitativamente. La mia domanda è: è possibile che queste previsioni reggano econometricamente? Esiste una metodologia ed è possibile ottenerla sia per l'ISAE sia per quanto contenuto nel DPEF?

LUIGI VIVIANI. All'interno di una pluralità di giudizi convergenti con il documento di programmazione economico-finanziaria ve ne è uno che si discosta, quello relativo alla valutazione del sistema pensionistico a regime; mi pare, infatti, che vi sia un giudizio netto di inadeguatezza strutturale del sistema pensionistico così come è uscito dalla legge n. 335 del 1995, anche qualora tutte le pensioni venissero erogate in base al sistema contributivo al 100 per cento. Dal testo si evince che il punto su cui bisognerebbe intervenire è l'età pensionabile; poiché ritengo che la flessibilità dell'età in uscita sia un dato strutturale corrispondente alle esigenze della nostra società rispetto al lavoro, che prevedono modalità di uscita diverse, non capisco quale tipo di intervento sarebbe necessario. Bisogna forse


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innalzare l'età pensionabile oltre i 65 anni? È vero che ragioniamo al 2045, quindi a distanze molto elevate, ed il giudizio è anche sottostante alle dinamiche delle nascite e delle morti previste per quel periodo, tuttavia mi pare che esso sia piuttosto drastico, per cui vorrei capire meglio quale tipo di intervento sarebbe possibile.

PRESIDENTE. Dopo gli interventi dei colleghi, do la parola alla professoressa Padoa Schioppa per la replica.

FIORELLA PADOA SCHIOPPA KOSTORIS, Presidente dell'ISAE. Intanto ringrazio i deputati e i senatori per le domande che mi hanno rivolto, tutte interessanti e che meriterebbero ben altro approfondimento.
Prima risposta telegrafica al presidente Fantozzi. Certo, un'ipotesi intermedia a quella della riduzione di 1 punto della pressione fiscale potrebbe essere quella della riduzione di 1 punto dell'IRPEF per tutti gli scaglioni. L'anno scorso, quando fu attuata una riduzione di questo genere sul secondo scaglione, noi presentammo in questa sede una simulazione nella quale si indicava quali fossero gli effetti; ugualmente si potrebbe vedere quali siano gli effetti nell'ipotesi delineata questa mattina. Mi sembrerebbe in ogni modo utile prendere in considerazione questa prospettiva, anche alla luce della concorrenza fiscale, di cui dobbiamo tenere conto, all'interno dell'Europa e nel mondo della globalizzazione. Peraltro, come tutti sappiamo, la concorrenza fiscale agisce più fortemente sulle imposte dei fattori più mobili, come il capitale, per cui ciò rischia, in assenza di manovre specifiche, particolarmente adatte allo scopo, di lasciare relativamente troppo tassato il fattore lavoro, che è meno mobile. Quindi, direi che la modifica della struttura delle aliquote potrebbe, anche secondo noi, essere presa in considerazione come un'ipotesi interessante.
L'onorevole Possa mi domanda come si potrebbe configurare nel 2000-2001 la quota delle esportazioni italiane. Secondo le nostre previsioni, il calo della quota delle esportazioni sul commercio mondiale dovrebbe arrestarsi nel biennio analizzato, essenzialmente grazie al miglioramento di competitività assicurato dal deprezzamento del cambio. Ricordo - ma credo di averlo già detto - che nelle nostre previsioni le esportazioni crescono di quasi il 9 per cento quest'anno e del 6 per cento l'anno prossimo. La competitività che abbiamo perduto e che dobbiamo tenere alta, come l'onorevole Possa ricordava, non riguarda solamente il prezzo: bisogna essere competitivi sui prezzi ma anche su tanti altri aspetti, compresi i servizi.
La pressione fiscale in Italia si riduce, secondo le nostre previsioni, per vari motivi. Ricordiamo che il gettito nell'anno in corso è in fortissimo aumento, anche grazie all'imposizione sui capital gain, e un aumento significativo riscontriamo anche per l'IRAP. Nel 2001, pur in assenza di ulteriori sgravi, il gettito di natura corrente dovrebbe risultare contenuto per i minori introiti previsti per la tassazione relativa ai capital gain; mentre le entrate in conto capitale dovrebbero avere un aumento, dovuto al fatto che verranno contabilizzati 4.000 miliardi di maggiori entrate attese dalle dismissioni immobiliari (quelle che pensavamo sarebbero entrate in cassa nell'anno in corso e che, invece, sono state posposte di fatto al 2001).
L'onorevole Carazzi parla di ipotesi redistributive contenute nel DPEF ed anche nelle simulazioni di cui abbiamo scritto in questa memoria, sulle quali io ho detto poche parole qui davanti a voi. In effetti, in alcune delle manovre proposte nel DPEF o ipotizzata da membri del Governo in varie occasioni si può osservare una specie di eterogenesi dei fini. Sostanzialmente, si vorrebbero ottenere risultati a favore dei redditi meno alti, ma, di fatto, si finisce con l'agevolare anche i redditi più alti. Questo - ed è la ragione per cui abbiamo fatto altre simulazioni - suggerisce di intervenire direttamente sui


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redditi meno favoriti, per cui abbiamo formulato quest'ipotesi di reddito minimo di cittadinanza per tutti.
La questione del reddito minimo viene toccata anche dall'onorevole Proietti. Devo ammettere che quando abbiamo stimato questa possibile manovra nell'ordine di 4.900 miliardi non abbiamo in alcun modo tenuto conto degli effetti indiretti, che sarebbero numerosi: quelli di cui parla l'onorevole Proietti ma anche altri tra cui, in particolare, un sostegno alla domanda per consumi, che creerebbe un sostegno al reddito, il quale, a sua volta, produrrebbe aumenti di imposte, sia legate ai consumi (IVA e accise) sia legate al più generale aumento del reddito.
Il reddito minimo di cui abbiamo parlato, peraltro, non tiene conto neanche in via immediata dei disoccupati di lungo periodo, perché non è una misura pensata per gli individui: è una misura pensata per le famiglie. Altre analisi che l'ISAE ha fatto mostrano che i disoccupati in generale appartengono a famiglie povere ma poiché, come ho detto, il nostro obiettivo è quello di intervenire non sugli individui ma sulle famiglie, nel caso in cui un disoccupato di lunga durata vivesse in una famiglia che può sostenerlo con un reddito adeguato, non rientrerebbe tra coloro che ricevono il reddito minimo di cui ora stiamo analizzando il potenziale effetto.
Il senatore Sella di Monteluce mi chiede quale sia l'approccio metodologico che le nostre stime e quelle del DPEF adottano. Per quanto riguarda il DPEF, francamente non so come operino; quello che so per certo è che sentono molti istituti di ricerca, hanno previsioni di consenso di istituti vari, i quali, probabilmente, hanno modelli seri, econometrici e non, per fare le loro stime. Rispondo, dunque, soltanto per quanto riguarda il mio Istituto e in questo caso posso dire che noi abbiamo sia un modello di tipo qualitativo sia un modello di tipo econometrico, trimestrale. Con questo secondo siamo in grado di indicare ipotesi non di tendenza di medio periodo ma di tipo congiunturale, nei mesi successivi a quelli per i quali si conoscono i dati. Con il modello di tipo qualitativo siamo in grado di andare un po' più avanti. È però in costruzione nel nostro Istituto - che, non dimentichiamolo, è nato solo un anno e mezzo fa, quindi ritengo abbia già compiuto un certo sforzo per dotarsi di un modello econometrico di medio periodo - un modello econometrico anche annuale e pluriennale, proprio perché sappiamo che ferma restando l'importanza di quella che io chiamo nasometria (cioè il modello di tipo qualitativo), il modello econometrico è importante, se non altro perché è in grado di verificare la coerenza interna delle varie ipotesi e dei vari risultati.
La ragione per la quale non ho descritto la metodologia che noi adottiamo è che riteniamo che in questa sede ci sia chiesto di indicare quali siano i nostri risultati, non gli strumenti di analisi. Tuttavia, gli strumenti di analisi sono descritti in altri prodotti del nostro Istituto e, naturalmente, siamo a disposizione di deputati e senatori per poter fornire, in altra occasione, tutte le delucidazioni che fossero richieste.
Stavo dimenticando di rispondere al senatore Viviani sul tema delle pensioni; forse è perché si tratta di un argomento nel quale sono particolarmente coinvolta che cercavo di non dire niente! È con piacere, invece, che rispondo. È evidente, come risulta nella memoria che ho predisposto, che si pensa che sia l'età pensionabile quella sulla quale bisogna agire in un contesto così sfavorevole sul piamo demografico. Credo che le dinamiche demografiche che ho illustrato siano davvero molto preoccupanti. L'unico strumento di politica economica su una demografia che è fondamentalmente esogena per i politics maker è l'età pensionabile. Il senatore osserva che questa è già abbastanza alta, poiché vi è un intervallo flessibile che va dai 57 ai 65 anni: questo è vero, però bisogna anche tenere conto della propensione effettiva al pensionamento. Tutte le analisi di cui disponiamo indicano che in Italia la gente tende ad andare in pensione appena possibile, il che significa che se l'intervallo flessibile riguarda gli anni tra i 57 e i 65, una buona parte degli


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italiani andrà in pensione non appena arriverà ai 57 anni. Dunque, se vogliamo mantenere la flessibilità, che per certi versi è un beneficio per i pensionandi, dobbiamo spostare l'intervallo flessibile invece che dai 57 ai 65 ad esempio dai 65 ai 70. In moltissimi paesi europei l'età pensionabile è ormai quella di 65 anni; la nostra aspettativa di vita, come ho detto, è la seconda più alta in Europa, praticamente quello che bisogna accorciare è il periodo nel quale si sta in pensione. Tenuto conto dell'aspettativa di vita, ogni paese dovrebbe spostare verso l'alto l'età, flessibile o non flessibile, per il pensionamento, ma tenendo conto della propensione effettiva al pensionamento e non di quella teorica.

PRESIDENTE. Credo che vada espresso un convinto ringraziamento da parte di tutti alla professoressa Padoa Schioppa, che ha risposto a tutti i commissari in modo veloce ma esaustivo. La ringraziamo molto e sicuramente avremo altre occasioni in cui ascoltarla.

Audizione di rappresentanti dell'ISTAT.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'attività conoscitiva preliminare all'esame del documento di programmazione economico-finanziaria relativo alla manovra di finanza pubblica per gli anni 2001-2004, l'audizione del presidente dell'ISTAT, professor Alberto Zuliani, accompagnato dalla dottoressa Luisa Picozzi, capo del dipartimento contabilità erariale ed analisi economica dello stesso Istituto.
Do quindi la parola al professor Zuliani.

ALBERTO ZULIANI, Presidente dell'ISTAT. Signor presidente, l'Istituto ha predisposto un documento di sintesi che è a vostra disposizione ed al quale potrete riferirvi per qualsiasi esigenza, corredato da quattro dossier relativi al quadro macroeconomico, alle retribuzioni ed inflazione, alla specializzazione produttiva dei sistemi locali del lavoro e infine alla manovra di finanza pubblica per gli anni 2001-2004. Nel mio intervento farò qualche volta riferimento ai grafici contenuti in questi documenti.
Il DPEF 2001-2004 afferma, con fondamento, che il processo di risanamento perseguito nel paese durante la seconda metà degli anni novanta ha posto fine ad oltre vent'anni di disordine finanziario, che hanno fortemente condizionato l'economia. Si traccia l'immagine di un paese che ha sistemato i fondamentali macroeconomici, che può predisporre riforme strutturali necessarie per cogliere pienamente le opportunità offerte dall'evoluzione dell'economia mondiale fortemente favorevoli e annullare il divario di performance che ancora esiste rispetto agli altri paesi con i quali solitamente ci confrontiamo e comunque con il complesso dell'Unione monetaria europea, divario che ha caratterizzato l'ultimo quindicennio.
Nel recente rapporto annuale che è stato presentato al Parlamento, durante un incontro che si è svolto nella Sala della lupa il 25 maggio, questa situazione è stata definita come un decennio di crescita rallentata, dovuto ai motivi che ho precedentemente considerato.
Tralascio la parte relativa al quadro congiunturale internazionale, al quale è dedicato un paragrafo del documento. Il segnale complessivo è comunque un riavvio della crescita, particolarmente interessante, che potrà essere sfruttato anche dall'Italia. Mi soffermerò invece sul quadro congiunturale italiano.
Nel 1999 il prodotto interno lordo è aumentato in Italia dell'1,4 per cento, un tasso inferiore a quello registrato nella media dei paesi dell'area UE (più 2,3 per cento). La debole crescita dell'economia italiana è riconducibile alla dinamica non brillante dei consumi delle famiglie (più 1,4 per cento) e al contributo negativo della domanda estera netta (meno 1 per cento, rispetto a meno 0,4 per cento nella media dei paesi dell'UE). Alla scarsa vivacità dei consumi hanno concorso la debolezza della capacità di spesa delle


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famiglie e il permanere di un clima di incertezza sull'evoluzione della situazione economica. Nonostante la dinamica positiva degli investimenti fissi lordi, cresciuti del 4,4 per cento (in virtù del basso livello dei tassi di interesse reali e del miglioramento delle aspettative di crescita), il contributo complessivo della domanda interna è risultato inferiore a quello del 1998, dell'area UE nel suo complesso e, in particolare, di Francia e Spagna.
L'analisi del profilo congiunturale dei principali aggregati mostra il progressivo consolidamento dei segnali di ripresa. Il PIL, dopo il minimo ciclico toccato nell'ultimo trimestre del 1998, è cresciuto in termini tendenziali in tutti e quattro i trimestri del 1999 e anche nel primo trimestre 2000, con una progressiva accelerazione e una corrispondente riduzione del differenziale di crescita dell'economia italiana con quelle degli altri maggiori paesi europei.
Il primo trimestre del 2000 è risultato particolarmente brillante, nel quale il congiunturale destagionalizzato, rispetto al quarto trimestre del 1999, è stato dell'1 per cento. È ovvio che questo risultato non può essere moltiplicato per quattro, anche considerando che abbiamo usufruito di un numero di giorni lavorativi abbastanza alto rispetto a quello dei successivi tre trimestri. In termini tendenziali la crescita è stata, rispetto allo stesso periodo del 1999, del 3 per cento. Pertanto, l'acquisito congiunturale al primo trimestre risulta del 2 per cento, raddoppiato rispetto all'ultimo trimestre del 1999. Il DPEF prevede un incremento del PIL del 2,8 per cento e quindi nei tre trimestri successivi sarebbe necessario un ritmo di sviluppo tendenziale medio del 2,7 per cento, avendo già il 3 per cento del primo trimestre. Questo risultato appare in linea con le tendenze in atto, anche se va espressa una certa cautela perché mancheranno alcune giornate lavorative, se non sbaglio sette.
Il quadro congiunturale recente è caratterizzato da una crescita sostenuta e anche più equilibrata rispetto alle diverse componenti della domanda. Al contributo positivo che proviene dalla domanda estera netta si è infatti accompagnato quello proveniente dall'interno, in linea con le previsioni del DPEF.
Per la produzione industriale, il quadro dei primi quattro mesi del 2000 conferma la fase di crescita nella quale l'indice della produzione industriale è entrato a partire dall'inizio del 1999. Rispetto agli ultimi quattro mesi dell'anno, l'indice al netto dei fattori stagionali, in base ai dati definitivi di aprile, ha segnato un incremento dello 0,9 per cento, dovuto alla forte crescita della produzione dei beni di investimento e dei beni intermedi (che sono quelli che intervengono nel processo produttivo e quindi il dato mostra che in prospettiva l'andamento è di crescita) frenato dal calo della produzione di beni di consumo. L'acquisito per il 2000 risulta pari all'1 per cento.
Quanto ai servizi, richiamo la vostra attenzione sulla figura del documento di sintesi dove compaiono i numeri indici della produzione industriale per alcune sezioni e sottosezioni di attività economica. È la variazione della media dei primi quattro mesi del 2000 rispetto al quarto trimestre 1999 e sono valori destagionalizzati. Sono in sofferenza i settori che hanno un numero indice che va su valori negativi; gli altri, che stanno nella parte alta del grafico, sono in posizione positiva. Scorrendo le didascalie potete capire quali siano gli uni e gli altri.
Il valore aggiunto dei servizi, a prezzi costanti 1995, nel primo trimestre 2000 è aumentato del 1,5 per cento rispetto all'ultimo trimestre 1999, con un acquisito pari al 2,2 per cento, molto elevato, a testimonianza della vivacità della crescita del settore terziario, significativa soprattutto nei settori maggiormente market oriented.
Le vendite del commercio fisso al dettaglio sono aumentate del 1 per cento rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Poiché la percentuale incorpora la dinamica sia delle quantità sia dei prezzi, si delinea un quadro di relativa debolezza del settore; analizzando i dati, si capisce che sono deboli gli esercizi che


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operano su piccole superfici (più 2,2 per cento) mentre la grande distribuzione ha avuto una crescita del 4,4 per cento.
La ripresa delle esportazioni avviata nella seconda metà dello scorso anno è accelerata nel corso del 2000, favorita dall'ulteriore deprezzamento dell'euro nei confronti del dollaro e dalla buona dinamica congiunturale sia degli Stati Uniti sia dei principali mercati asiatici; dopo una crisi finanziaria che li aveva investiti, questi mercati hanno invece recuperato molto, qualcuno al di là delle aspettative.
Per l'occupazione, segnali positivi sono venuti nella rilevazione trimestrale svolta ad aprile. Su base congiunturale destagionalizzata, l'aumento è stato di 130 mila unità, che su base tendenziale annua (aprile rispetto ad aprile dell'anno precedente) è stato di 313 mila unità. Il progresso è risultato più marcato nel Mezzogiorno ma è generalizzato a tutte le ripartizioni, con qualche maggiore debolezza nel centro-nord. La crescita è da attribuire quasi esclusivamente al sensibile incremento del terziario e, in misura minore, anche alle costruzioni; come avrete letto dalle notizie apparse sui giornali quotidiani, la crescita è dovuta all'incremento dei lavori atipici, a tempo parziale e a tempo determinato, che rappresentano circa il 70 per cento delle nuove attività.
I prezzi alla produzione dei prodotti industriali, soprattutto per effetto del prezzo dei combustibili, in particolare del petrolio, stanno aumentando in modo non banale, anche se negli ultimi 12 mesi, rispetto ai precedenti 12 mesi, la variazione di tipo tendenziale è leggermente al di sotto della media. In realtà, il prezzo del petrolio non aumenta soltanto per noi.
Per i prezzi al consumo, l'ultimo dato consolidato è quello del mese di maggio (per il mese di giugno le cifre sono ancora provvisorie) e indica un aumento congiunturale dello 0,4 per cento e un aumento tendenziale del 2,5 per cento, innescato in qualche misura dall'aumento del prezzo del petrolio ma non riconducibile esclusivamente ad esso; molte cause alla base dell'aumento dei prezzi al consumo risiedono nei prezzi dei servizi, in particolare di quelli bancari ed assicurativi, nelle spese per l'istruzione, la salute, gli alberghi e ristoranti e, risalendo indietro nel tempo, anche gli affitti.
Vorrei ora fare qualche riflessione più generale. In un orizzonte di medio periodo, quale quello assunto nel DPEF, le opportunità di crescita dell'economia sono determinate da un insieme di fattori di natura congiunturale e strutturale. L'informazione congiunturale è in accordo col quadro tracciato dal DPEF nell'indicare prospettive incoraggianti e una combinazione di condizioni particolarmente favorevoli. Si delinea, infatti, la possibilità di un ciclo espansivo altrettanto vigoroso di quello della seconda metà degli anni ottanta, ma, a differenza di quest'ultimo, accompagnato da una ritrovata stabilità finanziaria, da una crescita dell'occupazione e da un moderato aumento dei prezzi. A questo contesto favorevole si contrappone un quadro strutturale problematico, in riferimento soprattutto al funzionamento dei mercati, alla collocazione internazionale dell'economia e alle politiche di più lungo respiro, descritto dall'ISTAT nel rapporto annuale per il 1999.
Non ripeterò i risultati in termini di finanza pubblica, dei quali sicuramente avrete avuto modo di parlare nel corso delle precedenti audizioni, ovvero le aspettative per il prossimo anno, che a nostro modo di vedere possono realizzarsi, anche perché alcune poste (come la cessione delle licenze per gli UMTS) non sono state contabilizzate - correttamente a mio avviso - perché il DPEF si fonda su dati accertati; sicuramente potranno incidere positivamente. È ancora controversa in sede internazionale la modalità di contabilizzazione di queste poste e la loro incidenza, se diluita nel tempo o no, si vedrà soltanto quando sarà stato raggiunto un parere unanime da parte dei contabili internazionali e delle banche mondiali.
Ho già parlato dei prezzi, descritti nella relativa figura per le variazioni tendenziali e variazioni congiunturali relativamente


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ai capitoli che influiscono sulla variazione di quelli al consumo. Nella precedente figura sono illustrati per l'Italia e la Germania i trend di variazioni percentuali che mostrano cosa accade, al lordo e al netto, per i prodotti energetici; si evince che esiste uno zoccolo duro dell'inflazione che non dipende dall'aumento dei prezzi dei beni energetici, anche se da esso viene stimolato.
Quanto alle performance delle attività industriali, rispetto alle analisi che sono state presentate nel mese passato, la nostra prospettiva è di più lungo periodo e dunque il nostro atteggiamento è meno pessimistico, anche se non sottovalutiamo alcuni problemi: gli scarsi investimenti in hi-tech; una quota di esportazione da parte dell'Italia molto più bassa di quella di altri paesi avanzati; una dimensione media delle imprese molto bassa a causa della forte polverizzazione dell'attività produttiva sul territorio. Tuttavia, se si compiono analisi di brevissimo periodo, di due o tre anni, il risultato che si ottiene è un po' più drammatizzato di quello che si ha se la prospettiva di analisi si estende all'arco di dieci anni.
Il documento contiene anche alcune riflessioni sulle retribuzioni, sui prezzi, su aspetti che non ho affrontato, ad esempio relativi alla struttura territoriale produttiva ed all'andamento dei distretti industriali. Forse varrebbe la pena di considerare che l'approccio ai sistemi locali di lavoro utilizzato dall'ISTAT è stato fatto proprio nelle sedi internazionali, ad esempio dall'OCSE per il rapporto sull'Italia e dall'Unione europea quando si discusse dei fondi strutturali.

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Zuliani per il suo intervento, così ricco di informazioni puntuali. Ho potuto dare una rapida scorsa ai dossier e ho rilevato che coprono tutta l'area del DPEF e dei temi che dovremo affrontare in sede di approvazione della risoluzione parlamentare.
Procediamo ora con gli interventi dei senatori e deputati.

GIUSEPPE NIEDDA. L'incremento del gettito fiscale alla fine del 1999 aveva fatto dire a qualche commentatore che probabilmente stava affiorando un pezzo di economia sommersa. Le ipotesi di crescita del prodotto interno lordo per il 2000-2001, abbastanza consistenti, in che misura sono dovute all'emergere del sommerso, alla perdita di una riserva strategica della nostra economia che, per quanto vituperata, svolgeva anche un ruolo economico sociale?

ALBERTO ZULIANI, Presidente dell'ISTAT. I dati sull'economia sommersa già sono contenuti nel PIL perché quando si fa una valutazione comparativa delle risorse da una parte e degli impieghi dall'altra, possono emergere dei divari che, se non trovano riscontro, corrispondono all'economia sommersa. La nostra metodologia di stima dell'economia sommersa è acquisita all'interno dell'Unione europea ed è anzi suggerita come una delle modalità secondo le quali portare avanti il cosiddetto esercizio di esaustività del PIL, cioè che tutto quello che viene prodotto nel paese deve essere contenuto nel PIL. Qualifichiamo questa parte come economia non osservata dopodiché, se emerge, ben venga, perché vuol dire che porta con sé un carico contributivo e un carico fiscale e quindi emergono contributi ed entrate fiscali. Mentre il rapporto tra contributi, fisco e PIL è dato, più elementi emergono e meglio è, perché comparativamente il carico si distribuisce su una pluralità di soggetti più ampia e si possono apportare ritocchi su un versante o su un altro.

NICOLÒ SELLA DI MONTELUCE. Vorrei sapere quale sia il sommerso che viene aggiunto al PIL e quali siano le tecniche e i parametri utilizzati per definire questo sommerso.

ANTONIO PIZZINATO. Riferendosi ai sistemi di lavoro lei, professor Zuliani, ha accennato alle dinamiche. Sempre più emergono, in particolare in certe aree del paese, tensioni nel mercato del lavoro, in


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particolare per determinati settori e professioni. È in grado di illustrarci le dimensioni di questo nuovo fenomeno, dopo un decennio che si verifica nel nostro paese?

TERESIO DELFINO. Vorrei affrontare un tema che è stato sempre monitorato dall'ISTAT, cioè la ricaduta sulle famiglie degli interventi previsti dalle leggi finanziarie. In presenza di un così rilevante surplus fiscale, una politica di sostegno alla famiglia che passi sempre e soltanto attraverso strumenti che, per brevità, definirei assistenziali e non coinvolga una politica fiscale più ampia, come potrebbe essere l'adozione dello splitting, corrisponde veramente da un lato alle esigenze di equità sostanziale e, dall'altro, alla necessità di rilancio dei consumi delle famiglie proporzionato alla consistenza dei nuclei famigliari? Non siamo di fronte ad una possibilità che in passato non esisteva e che oggi potrebbe essere coraggiosamente utilizzata dal Governo?

LUISA PICOZZI, Capo del dipartimento contabilità erariale ed analisi economica dell'ISTAT. La stima del PIL comprende le attività sommerse. L'ISTAT stima infatti l'occupazione alla base del PIL e questo dato viene distinto tra lavoro regolare e lavoro non regolare. Già in passato abbiamo diffuso queste stime, anche a seguito della revisione che abbiamo fatto per l'adozione del SEC 1995, e un accenno è contenuto nel rapporto annuale. Queste stime sono disponibili fino al 1998 e indicano che il peso del lavoro irregolare sul totale dell'occupazione è passato dal 13 per cento del 1992 al 15 per cento del 1998. In termini di PIL la quantificazione è molto problematica sia perché dobbiamo fare ipotesi sulla produttività degli occupati non regolari, sia perché alcuni settori della produzione vengono stimati non attraverso i dati relativi al lavoro ed alla produttività, ma direttamente; è il caso dell'agricoltura, del settore delle costruzioni, della produzione dei servizi delle abitazioni, quindi degli affitti, per i quali non possiamo calcolare direttamente la quota del sommerso.
Stiamo cercando di risolvere questi problemi e puntiamo ad avere una stima esaustiva del PIL, ad esempio cogliendo i dati sulla produzione agricola da tutte le fonti dirette; non sappiamo però quanta parte può sfuggire agli effetti delle entrate previdenziali e tributarie.
Il peso dell'occupazione non regolare, come ho detto, è stato del 15 per cento circa nel 1998 e potrebbe corrispondere ad un 6-7 per cento del PIL. Le correzioni che facciamo sulla base delle dichiarazioni delle piccole imprese, ricorrendo ad una metodologia accettata a livello internazionale, potrebbero attestasi su una quota del PIL pari al 3-4 per cento. È un dato indicativo perché a queste rettifiche si sommano gli aggiustamenti che derivano dal sommerso statistico che, in alcuni casi, si confonde con il sommerso economico; isolare esclusivamente il sommerso economico e il suo peso sul PIL è molto difficile, perché facciamo soltanto stime prudenziali.

ALBERTO ZULIANI, Presidente dell'ISTAT. L'onorevole Pizzinato ha chiesto quali siano i riflessi, in termini di tensioni, su alcuni settori e professioni. Le tensioni esistono in agricoltura, dove sta fortemente diminuendo e invecchiando la forza lavoro, perché sono i giovani che escono dal settore, così come nella piccola distribuzione, che è in forte sofferenza.
Quanto alle professioni, può trovare nel rapporto annuale una riflessione molto attenta sul destino professionale tra il 1993 e 1999. Tuttavia anche nel documento di sintesi che vi ho consegnato oggi, quando si parla della ripresa dell'occupazione, si fa un cenno, che io ho tralasciato nella mia esposizione, al fatto che in questo periodo il sistema economico per generare una variazione economica di circa 200 mila unità ha creato occupazione per un 1 milione e 272 mila unità e ha distrutto occupazione per un 1 milione e 64 mila unità. Tuttavia, mentre ha creato occupazione nelle professioni non manuali per il 72 per cento e nelle professioni manuali per il 19 per cento, tutta la perdita è stata nelle professioni


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non manuali. Dunque vi è una tensione violenta sul mercato del lavoro, naturalmente secondo il trend mondiale, perché aumenta la formazione e fatalmente l'economia porta verso una diversa richiesta di manodopera. Se poi questo si somma alla riflessione sul lavoro atipico, appare evidente la necessità di una attenzione vigile e costante al settore.
All'onorevole Delfino vorrei dire che ogni anno, nel rapporto annuale, facciamo una valutazione dell'impatto della legge finanziaria per categorie professionali, per tipologia del capofamiglia, per decile di reddito; per il 1999 gli effetti della legge finanziaria sono descritti nell'ultimo rapporto annuale. Tuttavia, se il Parlamento lo chiede, siamo disponibili a compiere valutazioni di impatto della legge finanziaria, sulla base di un modello che però possiamo usare nei casi in cui i dati siano circostanziati, nel senso che possiamo valutare gli effetti delle scelte sulle varie categorie.
Abbiamo fornito qualche giorno fa i dati sulla povertà relativa, che non va demonizzata perché, essendo un concetto relativo, per definizione esisteranno sempre persone che hanno meno rispetto ad altri. Abbiamo anche fornito i dati sulla povertà assoluta, definita sulla base di un paniere di beni e servizi essenziali per la vita delle famiglie; in base a questo parametro, i poveri assoluti sono molti di meno. Risulta che sono povere soprattutto le famiglie con figli minori in numero superiore a due, per cui l'assegno per il terzo figlio va sicuramente nella direzione giusta. Nel paniere sulla base del quale si definisce la povertà assoluta, il 50 per cento del reddito delle famiglie composte da una sola persona è assorbito dall'affitto, per cui anche gli interventi in sostegno delle spese per l'abitazione vanno nella direzione giusta.
La manovra fiscale può certamente comportare effetti positivi e si può fare una valutazione più approfondita se si circostanzia la modalità dello splitting. Certamente la guardia quanto al deficit e al debito va mantenuta alta, perché abbiamo sottoscritto patti in sede europea che occorre rispettare. Potrebbero comunque delinearsi forti benefici sulla domanda interna e ho avuto già modo di dire che si registra uno sbilanciamento, un po' compensato nell'ultimo trimestre, tra la componente estera e la componente interna. Si tratta comunque di una considerazione generale, di larga massima.

PRESIDENTE. Ringrazio professor Zuliani, al quale chiedo una elaborazione sul costo dello splitting aggiornato, che metterò a disposizione della Commissioni appena perverrà.
Dichiaro pertanto conclusa l'audizione.

Audizione di rappresentanti dell'UGL e della CISAL.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'attività conoscitiva preliminare all'esame del documento di programmazione economico-finanziaria relativo alla manovra di finanza pubblica per gli anni 2001-2004, l'audizione del dottor Nazzareno Mollicone e della dottoressa Valli, responsabili dell'ufficio studi dell'UGL; del dottor Ulderico Cancilla, segretario confederale della CISAL e del dottor Liccardo, segretario generale vicario della CISAL.
Do quindi la parola al dottor Mollicone.

NAZZARENO MOLLICONE, Responsabile dell'ufficio studi dell'UGL. Ringrazio il presidente e i membri delle Commissioni bilancio della Camera e del Senato per la possibilità che ci viene data di esprimere le nostre osservazioni sul DPEF. Ci riserviamo comunque di consegnare un testo scritto.
Vorremmo far presente che, nella fase di elaborazione del DPEF siamo stati ascoltati come organizzazione sindacale dal Presidente del Consiglio e dai ministri responsabili, per esporre le nostre impressioni. Siamo ora di fronte al documento elaborato che indica andamenti positivi per la finanza pubblica e per il bilancio dello Stato per gli anni a venire. Nella


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premessa e nelle conclusioni si fa un riepilogo a partire dall'inizio della legislatura, con un confronto tra i dati iniziali e quelli finali. Riconosciamo che quel confronto è supportato da dati numerici, ma abbiamo l'impressione che sia stato fatto più per motivi propagandistici che per illustrare contenuti veri.
Analizzando il documento, emergono infatti alcuni punti che contrastano con l'ottimismo di fondo. Ci riferiamo, in particolar modo, alla sottovalutazione dell'inflazione, perché i dati dell'ultimo mese confermano un incremento stabile al 2,7 per cento, che è circa del 40 per cento maggiore rispetto alla media europea. Le cause sono numerose, molte esogene, come il prezzo del petrolio, altre endogene, perché riguardano ad esempio l'aumento delle tariffe pubbliche. Pochi giorni fa l'autorità per l'energia ha fatto presente che le tariffe del gas e dell'energia elettrica sono aumentate in una percentuale molto maggiore rispetto a quella europea; in proposito il Governo nazionale e quelli locali dovrebbero svolgere un'azione di contrasto.
Nel documento si afferma poi che è in regresso il dato relativo alla povertà. Il caso ha voluto che pochi giorni dopo la presentazione del DPEF venissero pubblicati i dati relativi alle famiglie considerate povere, dai quali si evince che la povertà è cresciuta anche nelle regioni più sviluppate (soprattutto in Umbria e nel Lazio). Questo dato, correlato all'aumento dell'occupazione, che si riferisce a lavori precari e quindi incerti, fa riflettere sul fatto che alcuni aspetti restano in ombra nel DPEF. Su di essi vorremmo attirare l'attenzione.
Rileviamo inoltre che il risanamento dell'economia nazionale è stato possibile anche grazie alla concertazione, che ha portato al contenimento degli incrementi salariali; le retribuzioni sono infatti aumentate in misura inferiore sia al tasso di inflazione sia al costo del lavoro per unità di prodotto tanto che, in base ai dati recentemente pubblicati dall'Economist, risulta in Italia il più basso di tutta Europa. Il fatto che all'interno del CLUP ci sia un'ulteriore divaricazione, per cui la retribuzione netta per il lavoratore risulta ancora più bassa, ribadisce ancora una volta il sacrificio delle famiglie dei lavoratori dipendenti e dei pensionati per ottenere il risanamento economico esaltato nella premessa del DPEF. Vorremmo che ci fosse più attenzione al contributo dato da queste categorie.
Rileviamo inoltre che la spesa per le pensioni e le prestazioni sociali - argomento di cui si parla quotidianamente sui giornali per affermarne l'insostenibilità - si attesta, per il passato e per il futuro, sul 30-28 per cento del PIL e quindi sostanzialmente non aggrava la situazione. Non vogliamo dire che tutto debba restare immutato e il sindacato si è impegnato ad una verifica nel 2001, ma ribadiamo che il dato conferma l'incidenza della spesa per le prestazioni sociali e pensionistiche sul PIL, per cui non esistono quelle condizioni di drammaticità che spesso vengono enunciate.
Indubbiamente la spesa per le prestazioni sociali e le pensioni, con riferimento all'assistenza, andrebbe rielaborata tenendo conto della reale situazione in cui versano i lavoratori dipendenti, i pensionati ed i disoccupati. Ci riferiamo in particolare alla riforma degli ammortizzatori sociali, che è stata oggetto di un precedente documento di programmazione economico-finanziaria poi trasformato in un disegno di legge collegato alla legge finanziaria, che non è stato approvato e per il quale è stata chiesta una delega, che tra l'altro, a nostro parere, è inattuabile perché il prossimo anno si svolgeranno le elezioni politiche e sarà difficile che il Parlamento possa esprimersi in tempo. È un danno al sistema della protezione sociale perché restano invariate strutture che invece, visto l'evolversi della situazione occupazionale, dovrebbero ricevere la massima attenzione da parte del Governo.
Procedendo con rapidità, vorrei affrontare il punto del DPEF dove si afferma che ci sarà una manovra-zero perché il risanamento finanziario è stato attuato in modo da far rientrare l'Italia nei parametri stabiliti in sede europea e perché il


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PIL sta aumentando, tanto da creare occupazione. Credo che ciò non sia del tutto vero perché nel DPEF è anche scritto che, fermo restando il saldo zero, ci saranno delle ricomposizioni della spesa, quindi anche delle entrate per aggiustamenti; si dice inoltre che verrà presentata una nota integrativa entro settembre, tenendo conto dei risultati reali degli introiti fiscali che si avranno con l'autotassazione. Questo vuol dire che la manovra potrebbe non essere «zero» ovvero che si potrebbero avere degli avanzi. In quest'ultimo caso, solleviamo un altro problema. Sappiamo che gli avanzi, soprattutto se derivanti da privatizzazioni e dalla concessione delle licenze UMTS, dovrebbero essere finalizzati alla riduzione del debito pubblico. Riteniamo però che i maggiori introiti dovrebbero essere destinati anche alla riduzione della pressione fiscale delle famiglie di dipendenti e pensionati. Ricordo in particolare che le pensioni, non essendo agganciate alla dinamica contributiva, hanno subìto una sorta di fiscal drag che si sta facendo abbastanza pensante perché scattano le aliquote superiori; mi riferisco soprattutto alle pensioni medie di lavoratori con 35-40 anni di servizio.
Concludo dicendo che non saremo certo noi a proporre un aumento della spesa, però occorre una maggiore attenzione alle carenze strutturali, che vengono indicate ma per le quali non si avanzano soluzioni pratiche. Ad esempio, il sistema Italia perde posizioni sul commercio estero; esistono carenze nei settori ad alta tecnologia rispetto al resto del mondo: da un lato abbiamo produzioni di beni di consumo per i quali c'è la concorrenza dei paesi dell'est europeo e dell'Asia, dall'altro non riusciamo ad avere quella produzione specialistica che ci potrebbe far conquistare mercati più evoluti; esiste una carenza nelle infrastrutture, come rilevato nella relazione annuale dalla Corte dei conti, dalla quale si evince che il Ministero dei lavori pubblici è stato di fatto inattivo negli ultimi anni e che bisogna velocizzare gli investimenti programmati e non spesi; sta nascendo una nuova occupazione che, pur essendo esaltata come un dato positivo, è di fatto precaria e di minore qualità rispetto alla preparazione scolastica, con un conseguente impoverimento della qualità umana facilitato dalle imprese che preferiscono eliminare la manodopera con venti o trent'anni di esperienza per sostituirla con giovani ai quali si offre un lavoro precario, non qualificato.
L'ultimo dato è relativo alla situazione del Mezzogiorno ed alla sicurezza. Il mancato sviluppo del sud deriva da problemi antichi e recenti; il passaggio dalla Cassa per il Mezzogiorno a nuovi strumenti di intervento ha eliminato i vecchi aiuti ma non ne ha creati di nuovi: i patti territoriali sono in gran parte fermi e così via. Il vero problema del sud è tuttavia la mancanza di sicurezza, che impedisce alle imprese di operare. Su questo aspetto vorremmo un maggiore impegno.
Il DPEF rileva, senza entrare nei particolari, la necessità di rinnovare i contratti dei pubblici dipendenti, tra cui gli addetti alla sicurezza e il personale di polizia, limitando l'aumento all'1-2 per cento. Forse, si dovrebbe fare qualcosa di più.

ULDERICO CANCILLA, Segretario confederale della CISAL. Signor presidente, ringrazio le Commissioni bilancio della Camera e del Senato per questa audizione e premetto che lasceremo anche noi un documento scritto, rispetto al quale sarò molto sintetico.
Parto da una considerazione ottimistica: per la prima volta dopo molti anni sembra che non sarà necessaria nessuna manovra per raggiungere l'obiettivo di contenimento del disavanzo pubblico previsto dal Patto di stabilità a cui si è impegnato il nostro paese in ambito comunitario. Infatti nel 2001 finalmente il deficit pubblico sarà pari all'1 per cento del PIL.
Certamente resta una grave perplessità sull'enorme debito pubblico che purtroppo è ben lontano dai parametri fissati nel Trattato di Maastricht, pari al 60 per cento del PIL. La prima conseguenza è


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che parte delle risorse saranno assorbite per pagare il debito, mentre potevano essere dirette a sostenere lo sviluppo.
Procedendo con rapidità, sul piano delle previsioni economiche rileviamo con ottimismo la crescita del PIL, prevista al 2,9 per cento, per i suoi effetti positivi sull'occupazione. Ci lascia perplessi la diminuzione del lavoro tradizionale a fronte di un aumento dei lavori atipici; la perplessità non nasce dal tipo di rapporto di lavoro ma dalla differente tutela per il lavoratore. Forse si dovrebbe svolgere una maggior riflessione su queste nuove forme di lavoro, per inserirle in un contesto di sicurezze maggiori.
Vorremmo poi evidenziare le cifre relative all'andamento dell'inflazione, superiori alle previsioni ed alle speranze. Le conseguenze sono chiare e vorrei soltanto accennare al fatto che il rialzo dell'inflazione comporta un aumento dei tassi di interesse sul debito pubblico e di conseguenza il rischio che gli avanzi servano a pagare l'aumento della quota interessi.
Entrando nel merito, non possiamo evitare una critica garbata. Mancano indicazioni chiare di politica economica e di bilancio; tutto viene rinviato alle note di aggiornamento. Ci preme comunque rilevare che le entrate, per questo e per i prossimi anni, dovrebbero essere superiori al passato e che quindi per la prima volta si potrebbero avere inattese risorse finanziarie. Il fatto che per la prima volta l'andamento sia positivo, ci sembra molto importante ma andrebbe precisato meglio come utilizzare queste risorse.
È stato proposto di modificare l'IRPEF, con particolare attenzione ai redditi più bassi; in altri casi si è parlato di riduzione della tassazione sulle abitazioni. Si tratta di interventi che ci trovano d'accordo, anche se riteniamo importante considerare anche le esigenze delle imprese minori, il lavoro sommerso, l'esigenza di creare nuova occupazione e di dare impulso allo sviluppo. Quanto al costo del lavoro, cito solo la differenza tra la retribuzione netta e quella lorda: è abissale. Se potessimo incidere su questo aspetto, potremmo avere risultati eccezionali perché si rimetterebbero in circolazione risorse finanziarie e di conseguenza si darebbe un incentivo alla ripresa economica.
Procedendo sempre per flash, passo alla questione degli introiti derivanti dalla vendita delle licenze UMTS. L'orientamento è di utilizzarli per diminuire il debito pubblico e questa ci sembra una scelta giusta anche se crediamo che l'Italia dovrebbe fare rilevanti investimenti nel Mezzogiorno, per ridurre il divario tra nord e sud e per le grandi infrastrutture. Basta pensare che l'autostrada Salerno-Reggio Calabria non si sa quando verrà completata. Rilevanti investimenti in questo settore potrebbero attirare capitale dall'estero e creerebbero una situazione appetibile per chi volesse investire nel nostro paese.
Abbiamo calcolato che, dei 98 mila miliardi di investimenti per il Mezzogiorno tra il 2000 e il 2006, per anno la cifra sarebbe di circa 14 mila miliardi. Ci sembra troppo bassa e ci chiediamo se sia possibile incrementarla.
Concludendo, inviterei, a snellire la procedura prevista per i patti territoriali ed i contratti d'area, che spesso creano sistemi burocratici allucinanti.
Come dicevo all'inizio, siamo moderatamente ottimisti su quanto contenuto nel DPEF, ma ribadiamo che, in mancanza di indicazioni precise, potremo esprimere un giudizio compiuto soltanto quando sarà presentata la nota di aggiornamento, perché solo allora conosceremo le reali intenzioni del Governo in materia fiscale, previdenziale e per il rinnovo dei contratti dei lavoratori nel pubblico impiego. Speriamo di potervi dare a settembre, se la chiederete, una valutazione definitiva.

PRESIDENTE. Do ora la parola ai deputati e senatori che intendano intervenire.

LIVIO PROIETTI. Il patto di Natale è stato firmato anche dall'UGL e dalla CISAL e uno dei punti qualificanti di quel documento era il riordino del sistema degli ammortizzatori sociali, nonché lo


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studio di un possibile salario minimo da assicurare agli iscritti nelle liste di collocamento; vi era inoltre l'impegno solenne del Governo a rispettare la delega conferita con la legge n. 488 del 1999. Il dottor Mollicone ha accennato al fatto che i tempi della delega sono scaduti e che se ne chiede il rinnovo; nella proposta di legge che giace alla Camera dei deputati, il termine sarebbe differito al 31 marzo 2001, una data molto vicina alla scadenza elettorale. Un altro problema che non mi sembra ancora risolto, anzi neppure affrontato adeguatamente, riguarda la formazione professionale, un altro punto cardine del patto di Natale.
Vorrei chiedere al dottor Mollicone se non ritenga giunto il momento di rivedere quell'accordo, aggiornarlo e magari mettere in mora il Governo. Sembra di capire, anche in base al DPEF, che sull'argomento si tenda a glissare. Gli ammortizzatori sociali, la sperequazione tra lavoratori in mobilità e disoccupati tout court, la formazione, l'apprendistato restano questioni centrali per la nostra economia, in una fase di globalizzazione. Vorrei sapere se, a vostro avviso, la concertazione abbia funzionato o meno. Se non ha funzionato, perché?

TERESIO DELFINO. Dopo anni di audizioni sul DPEF, mi aspettavo indicazioni precise dagli interlocutori, soprattutto in termini propositivi. Rilevo invece una indeterminatezza che dovrebbe essere superata per rendere il nostro rapporto più fruttifero.
La mia domanda verte sull'utilizzo delle risorse disponibili. Qual è l'indicazione che viene dalla CISAL e dall'UGL in termini di priorità? Si propone come prioritario un incremento dei salari, il rilancio dell'occupazione, ovvero uno sviluppo dei patti territoriali? Poiché non si può fare tutto, perché le risorse sono limitate, chiedo un'indicazione più coraggiosa.

PRESIDENTE. Do la parola al dottor Mollicone per la replica.

NAZZARENO MOLLICONE, Responsabile dell'ufficio studi dell'UGL. Rispondendo all'onorevole Proietti, vorrei dire che la nostra valutazione sulla concertazione è che, con l'evoluzione verificatasi nel mondo del lavoro, risulta indispensabile una riforma degli ammortizzatori sociali, affinché il carico non gravi tutto sulla finanza pubblica, con i prepensionamenti e così via. Le organizzazioni sindacali, tra cui la nostra, erano disponibili ad affrontare il problema. Con la legge n. 144 del 1999 è stata data una «maxidelega» che doveva riguardare anche il funzionamento degli istituti di previdenza, gli ammortizzatori sociali ed altro. Ci sono state continue proroghe e l'unica delega attuata è stata la riforma dell'INAIL, per iniziativa non del Governo ma del presidente di quell'istituto.
Se potessi riferirmi a fatti e nomi concreti, vorrei far presente che, fino a quando è stato ministro del lavoro l'onorevole Treu, la concertazione ha funzionato. Dal ministro Bassolino in poi si è fermata ovvero si è limitata, senza risultati, a colloqui privilegiati con alcuni.
A questo punto mi domando provocatoriamente a cosa serva il DPEF, nato nel 1978 in un regime di concertazione e di politica di piano. Tra l'altro, il DPEF è influenzato dalle decisioni assunte a livello comunitario.
Poiché questo documento affronta tutte le questioni, anche noi parliamo un po' di tutto. Se dobbiamo indicare delle priorità, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, non poniamo al primo punto l'aumento dei salari. Certo, vorremmo abolire il fiscal-drag e mantenere il potere reale d'acquisto, ma la priorità per noi è rappresentata dalle infrastrutture, perché il problema dell'economia italiana non si risolve con il lavoro precario; occorre portare l'Italia ai livelli di competitività del gruppo dei sette paesi più industrializzati del mondo, di cui facciamo parte.

ULDERICO CANCILLA, Segretario confederale della CISAL. Cercherò anch'io di rispondere in modo telegrafico.


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Il patto di Natale, come tutti gli accordi, è rivedibile in qualunque momento, purché la volontà non sia soltanto da parte nostra ma veda il concorso della maggioranza delle forze che l'hanno sottoscritto, per verificare quali siano i problemi insorti e quali le possibilità di sviluppo. Dobbiamo però stare attenti a che l'alternativa al patto di Natale non sia il niente.
A nostro avviso, la concertazione non ha dato i risultati sperati, né prima né adesso, senza voler togliere meriti ad alcun ministro. La concertazione prevedeva infatti una disponibilità per strumenti come i patti d'area, che è mancata da parte del Governo centrale e di quelli periferici. Ci troviamo spesso di fronte a pastoie e a normative che bloccano il meccanismo. Quando parliamo di concertazione, a cosa facciamo riferimento? Quella centrale, tutto sommato, procede ma poi non si va avanti, non si arriva a quella di livello regionale, provinciale e comunale, per ottenere qualcosa di veramente concreto.
Quanto all'utilizzo di risorse disponibili ed alle priorità, forse non sono stato chiaro perché ho voluto seguire il criterio della massima sinteticità. La nostra scelta è secca: l'occupazione è al primo punto. Colgo l'occasione per chiarire che non intendiamo l'occupazione atipica a discapito del lavoro tradizionale, non perché non riteniamo queste forme di occupazione dignitose, ma perché crediamo che lo sforzo da compiere sia quello di creare un nuovo modello di lavoro, moderno, rapportato al 2000 ed alle esigenze italiane. Non viviamo purtroppo negli Stati Uniti, dove una persona perde oggi il lavoro e domani lo ritrova. In Italia, quando una persona perde il lavoro, nel 99 per cento dei casi non lo ritroverà più, soprattutto se ha compiuto cinquant'anni. Cosa faranno queste persone? In tal senso invito ad immaginare un nuovo modello di lavoro, più realistico e attuale.

ANTONIO PIZZINATO. Signor presidente, vorrei dare un'informazione ai segretari delle due organizzazioni sindacali. La riforma dell'INAIL è figlia degli emendamenti che abbiamo presentato lo scorso anno ed ha avuto l'apporto del presidente Billia. Vorrei ricordare che dal 1o di settembre l'indennità di disoccupazione si colloca al 40 per cento della retribuzione e abbiamo prorogato i termini per la delega, per cui entro gennaio verrà fatta la riforma degli ammortizzatori sociali.
Mi risulta che nell'incontro, che poi ha portato il Governo a decidere sia la proroga sia l'aumento dell'indennità di disoccupazione, erano presenti le organizzazioni sindacali, comprese UGL e CISAL. Ho fatto questa precisazione affinché, insieme alle richieste, ci si diano anche informazioni esatte.

PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti e dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione di rappresentanti della Confindustria.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'attività conoscitiva preliminare all'esame del documento di programmazione economico-finanziaria relativo alla manovra di finanza pubblica per gli anni 2001-2004, l'audizione dei rappresentanti della Confindustria.
Do quindi la parola al presidente D'Amato.

ANTONIO D'AMATO, Presidente della Confindustria. Signor presidente, nel mio intervento introduttivo cercherò di dare un quadro della nostra valutazione sul DPEF e di fare alcune specifiche considerazioni.
Il primo elemento che vorremmo mettere in luce è una sostanziale divergenza tra l'assunto di fondo del documento e il modo in cui noi consideriamo l'attuale fase congiunturale e le necessità di intervento strutturale che questo momento della vita economica e produttiva internazionale ci obbligherebbe a compiere. In sostanza, siamo convinti di trovarci di fronte ad un'opportunità positiva, perché finalmente dopo molti anni abbiamo


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una congiuntura interna e internazionale positiva ma il trend di crescita non si fonda sulle capacità autonome del nostro continente di mantenere strutturalmente questi livelli di crescita e le attuali quote di mercato; dipende piuttosto da quello che sta accadendo al di fuori dei nostri confini, nell'economia americana, nel far east, in America latina. Senza interventi strutturali forti di recupero di competitività, questo trend è destinato ad essere una breve parentesi, non riproducibile in maniera automatica del tempo.
Ci sembra che questo elemento venga valutato in maniera diversa nell'impostazione del DPEF e riteniamo improbabile che la fotografia di questo momento congiunturale possa servire automaticamente a proiettare nel corso degli anni una serie di andamenti molto ottimistici e positivi quanto alla crescita di occupazione e prodotto interno lordo, alla diminuzione del fabbisogno e della spesa pubblica e quant'altro. Piuttosto, siamo convinti che questa fase di congiuntura positiva debba essere utilizzata per compiere investimenti in competitività e aggiustamenti strutturali che in passato il nostro paese non ha avuto la forza di fare e la cui mancanza ci ha paralizzato.
È sempre difficile fare accostamenti tra periodi diversi, ma quella attuale è una congiuntura simile a quella che il paese ha sperimentato nella prima metà degli anni ottanta; anche in quell'occasione potevano essere fatti aggiustamenti strutturali che non vennero compiuti, a differenza di altri paesi, Gran Bretagna in testa. Poi, negli anni novanta abbiamo dovuto pagare un costo altissimo per le mancate scelte in termini di liberalizzazioni, privatizzazioni, di adeguamenti infrastrutturali e di politica fiscale. Quegli anni sono poi stati quelli della grande crisi finanziaria che è costata al paese moltissimo in termini di disuguaglianze geografiche e sociali e di forte impoverimento e marginalizzazione produttivi. Negli ultimi cinque anni, infatti, il sistema economico italiano ha perso quote di mercato e d'interscambio internazionale, passando dal 4,6 a 4,1 per cento del 1999. Questi dati sono stati, anche nel tempo recente, un po' «drogati» in termini di comunicazione, per cui nessuno poi è andato a verificare in realtà quale fosse davvero la quota dell'Italia nell'interscambio internazionale; oggi è comunque certificato che abbiamo perso punti di mercato anno dopo anno.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE DELLA V COMMISSIONE DELLA CAMERA PIETRO ARMANI

ANTONIO D'AMATO, Presidente della Confindustria. Di fronte ad una prospettiva di questo tipo, oggi dobbiamo tentare tutto il possibile per far compiere quel salto di qualità alla struttura produttiva del paese che ci consenta di rendere la congiuntura più duratura. Da questo punto di vista, la nostra analisi risulta ancora più preoccupante se commentiamo quello che si sta verificando in questi giorni nelle nostre aziende. Stiamo vivendo, anche come effetto indotto della forte espansione dell'economia internazionale, una crescita molto alta dei costi delle materie prime e delle commodities internazionali; queste ultime, che anticipano e segnano il ciclo della congiuntura internazionale, stanno sperimentando aumenti in dollari a due cifre percentuali. Cellulose, plastiche, alluminii, commodities di varia natura, metalli non ferrosi e così via stanno registrando aumenti che, tradotti in euro, sono del 50, 60, 80, 100 per cento.
Dall'altro lato, data la tendenza dei mercati ancora fortemente competitiva e sostanzialmente deflazionalistica, il sistema produttivo ha forti difficoltà nel ridossare a valle questi aumenti di costi e quindi in questo momento si sta verificando sulle imprese italiane ed europee una fortissima pressione sui margini operativi e sui livelli di profittabilità, quindi sulla capacità di investire e di competere per conquistare nuove quote di mercato. Altri paesi, avendo a disposizione sistemi


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più competitivi del nostro, riescono in parte a ridurre il forte impatto dell'aumento del costo delle materie prime, tant'è che crescono di più ed hanno un'inflazione minore. L'Italia, essendo rimasti elevati i livelli di inefficienza del sistema con altre diseconomie esterne, la crescita è più bassa e il tasso di inflazione più alto.
Quello che oggi sta accadendo nelle nostre fabbriche lo leggeremo nei bollettini di statistica tra qualche mese. Non tenerne conto nell'elaborazione del quadro di riferimento e nelle proiezioni del DPEF è, secondo noi, un elemento che indebolisce l'affidabilità della previsione. In assenza di interventi strutturali, noi pensiamo che dati così ottimistici sulla crescita per gli anni a venire non siano fondati.
Vorrei anche sottolineare - sulle questioni particolari interverrà meglio di me il dottor Galli - che siamo insoddisfatti dell'atteggiamento fortemente «rinunciatario» della manovra, perché crediamo che in questo momento sarebbe possibile fare di più sul versante delle riforme, pur nel quadro complesso di fine legislatura. Verifichiamo in particolare una grande debolezza nell'approccio strutturale sistematico su due capitoli fondamentali: le privatizzazioni e il Mezzogiorno.
Non ci è dato di capire, al di là della previsione di un introito di 65 mila miliardi tra UMTS e privatizzazioni per gli anni 2000-2001, quale sia il piano di privatizzazioni e conseguenti liberalizzazioni che si intende attuare. Mi sembra una carenza non indifferente dal momento che ci troviamo di fronte ad uno scenario di tassi di interesse crescenti: una programmazione sistematica delle privatizzazioni aiuterebbe la riduzione del debito pubblico e quindi la spesa per interessi.
Un analogo approccio non sistematico rileviamo per il Mezzogiorno. Credo sia nota la posizione di Confindustria: se vogliamo consentire al Mezzogiorno di sostenere il tasso di crescita che riteniamo possa realizzare, abbiamo bisogno di riposizionarlo sul piano degli investimenti esteri diretti, il che richiede un approccio integrato, che da tempo chiediamo al Governo e che noi non troviamo in questo DPEF.
L'economia del Mezzogiorno ha manifestato segni di vitalità molto forti; sono stati fatti investimenti cospicui rispetto al passato da parte di imprese meridionali nel Mezzogiorno; sono in cantiere interventi per circa 150 mila nuovi posti di lavoro, come dimostrano i dati della legge n. 488 del 1999. Non è stato però messo ancora in moto quel salto di qualità nella creazione di sviluppo e di occupazione nel sud che si potrà realizzare solamente riposizionando il paese - ed il Mezzogiorno in testa - sul fronte degli investimenti esteri diretti, nel quale siamo gli ultimi in classifica. Anche in questo caso è necessario un approccio di carattere più sistematico e strutturale.
Da questo punto di vista, abbiamo posto al Governo un piano di azione che aggredisca il problema intervenendo sulla pressione fiscale, destinando in maniera più focalizzata i fondi di Agenda 2000 (rileviamo con preoccupazione che per questi fondi si registra già un ritardo di più di un anno ed esiste una grave discrasia tra i programmi delle regioni e agli obiettivi che a monte erano stati delineati, a partire dal convegno di Catania in poi), definendo un business planning per il Mezzogiorno con interventi sul mercato del lavoro e sul costo del lavoro che abbiano anche effetti positivi nella lotta all'economia sommersa.
La Confindustria ha dichiarato la sua disponibilità ad una diversa articolazione del mercato del lavoro e degli strumenti di pensione integrativa, se ciò può mettere in moto un intervento più strutturato nella lotta al lavoro sommerso, contro l'evasione fiscale, per recuperare risorse che possano poi essere investite per ridurre il prelievo fiscale sul reddito di impresa.
Nel DPEF rileviamo una sostanziale rinuncia ad articolare strumenti e politiche che, nel medio periodo, diano competitività al nostro sistema. È per questo che riteniamo opportuno destinare eventuali dividendi fiscali, nella misura che


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oggi non è possibile predeterminare, ad interventi per la competitività piuttosto che a piccoli sconti fiscali, che non comporterebbero benefici nel medio e lungo periodo.
Il DPEF dovrebbe essere riportato alla sua funzione originaria di documento che aiuti a compiere interventi di programmazione di medio e lungo periodo, non di atto che si configura come una specie di legge finanziaria sperimentale, prima che la finanziaria vera e propria venga discussa. Non si capisce che senso abbia un DPEF con un respiro così corto e un approccio poco strutturale se non ad anticipare il dibattito che si dovrà svolgere sulla legge finanziaria. A questo atto dovrebbe essere invece data l'incisività di un intervento strutturato e programmatico, capace di segnare target e linee di azione sulle quali misurarsi in futuro.

GIAMPAOLO GALLI, Direttore del centro studi della Confindustria. Vorrei brevemente argomentare il giudizio di fondo già espresso dal presidente D'Amato.
Nel DPEF è contenuto un capitolo dedicato al tema competitività che però contiene poco. L'impressione che se ne trae è che il sistema va avanti in automatico a ritmi del 3 per cento annuo, per virtù propria o per interventi positivi fatti in passato, con particolare riferimento all'aggiustamento macroeconomico, alle riforme del sistema pensionistico (di cui si dà un giudizio positivo, che francamente mi preoccupa), alle riforme del mercato del lavoro (anch'esse giudicate come valide). Si afferma che l'occupazione è destinata a crescere al ritmo dell'1 per cento e la finanza pubblica, con questa forte crescita del sistema, a rispettare gli obiettivi del Patto di stabilità.
Il nostro giudizio è che l'aggiustamento macroeconomico è stato assolutamente fondamentale e che tuttavia è necessario l'aggiustamento microeconomico; ciò significa intervenire su fisco, infrastrutture, formazione, flessibilità, liberalizzazione, ricerca scientifica e così via. Ci auguriamo che la crescita sia del 3 per cento da qui al 2004, ma si tratta dello scenario più ottimistico tra quelli possibili ed è assai imprudente, a nostro avviso, costruire un budget basandosi sull'ipotesi più ottimistica, ancorché non irrealistica; è meglio essere prudenti.
Mi sembra non ci sia una consapevolezza, che invece esiste in Europa, del fatto che attualmente si sta verificando una congiunzione di eventi estremamente favorevole, data da un euro molto basso, da tassi di interesse al minimo storico (adesso stanno aumentando), dalla crescita negli Stati Uniti, dal «botto» del far east. Questa congiunzione di eventi non è destinata a durare in eterno e in questi giorni più volte il presidente della Banca centrale europea ha fatto presente che in Europa bisogna stare attenti perché la nuova economia ancora non esiste; decriptando le sue affermazioni, questo significa che il potenziale di crescita dell'Europa non è del 3-3,5 per cento, cioè il ritmo di crescita attuale del continente, ma più verosimilmente del 2-2,5 per cento, che può essere il 7 dell'Irlanda ma anche l'1-1,5-2 per cento di paesi come la Germania e l'Italia. Già adesso vediamo le tensioni che si creano in un sistema che sta crescendo ad un ritmo maggiore di quello potenziale sostenibile nel lungo periodo. Ovviamente, la Banca centrale europea si preoccupa del fatto che il costo delle materie prime è aumentato mediamente negli ultimi 12 mesi quasi del 70 per cento, valutato in euro, a fronte di aumenti del prezzo ex fabbrica che non superano il 2 per cento (sia in Europa, sia in Italia); dunque, siamo in presenza di un fortissimo schiacciamento dei margini di profitto che inciderà sull'inflazione futura, anche se tutti ci auguriamo che i prezzi, tra cui quello del petrolio, comincino a scendere. Comunque, l'insieme dei fattori favorevoli probabilmente non si replicherà, comunque non fino 2004.
Passando ai punti più specifici, nel DPEF sono contenuti obiettivi molto ambiziosi quanto all'inflazione (una crescita del 2,3 per cento quest'anno, poi dell'1,7 per scendere ancora all'1,2). Concordiamo sull'opportunità di porsi sempre obiettivi ambiziosi nell'opera di contenimento dell'inflazione,


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malgrado le ovvie difficoltà esistenti alla luce dell'andamento dei costi delle materie prime. Vorrei però sottolineare che, nello stesso DPEF, si afferma che questi obiettivi sono coerenti oltre che con un'ipotesi di prezzo del petrolio a 23 dollari, con l'andamento delle retribuzioni al 2 per cento. L'anno scorso nell'industria l'incremento delle retribuzioni è stato del 2,9 per cento; c'è ancora molta strada da fare e ci auguriamo che venga percorsa cominciando dai contratti del settore pubblico, che sono in discussione in questo momento.
Quanto alla finanza pubblica, mi sembra che la scelta esplicita del documento sia quella di utilizzare dati ottimistici, per esempio un decremento delle spese correnti primarie rispetto al PIL, quindi al netto degli interessi, di quattro punti percentuali da oggi al 2004. Sappiamo che negli ultimi anni le spese correnti non sono mai diminuite, salvo un anno, tanto che nel 1999 si sono attestate sulla stessa percentuale del 1990. Dunque, si ipotizza che nei prossimi anni, senza fare nulla, diminuiscano le spese per pensioni e sanità; al tempo stesso si rilevano i rischi presenti in questi due settori.
Abbiamo rielaborato queste ipotesi sulla base di previsioni non pessimistiche ma, come dire, intermedie sia quanto alla crescita del PIL, sia quanto all'aumento della spesa pensionistica e sanitaria. Fatti i conti, per soddisfare i parametri del Patto di stabilità, non c'è lo spazio enunciato nelle tabelle del DPEF per la riduzione della pressione fiscale e contributiva, che a nostro avviso dovrebbe essere uno dei punti qualificanti della manovra.
Un'altra questione specifica riguarda gli investimenti pubblici, che diminuiscono moltissimo rispetto al PIL, perché si fa la pianificazione a legislazione vigente. Sarebbe invece utile sapere quali siano le risorse che si intendono devolvere per gli investimenti pubblici. Evidentemente, se si utilizzano dati «auspicabili», o quanto meno non variati rispetto al livello previsto per quest'anno per il rapporto tra investimenti e PIL, ci si deve chiedere quali spese correnti dovranno diminuire per fare spazio alla riduzione della pressione fiscale.
Nel DPEF c'è un capitolo dedicato alle piccole e medie imprese e il problema della competitività è affrontato soltanto sotto l'aspetto del diritto societario. Visto che di questo si parla, vorrei comunque dire che la riforma del diritto societario è importante purché serva a creare flessibilità. Preoccupa la scelta di codificare per legge o per decreto la costituzione in Srl o Spa in funzione del numero dei soci.
Un altro capitolo fondamentale riguarda i rapporti con il Mediterraneo e comunque le esportazioni delle imprese italiane con paesi extra-OCSE. Sarebbe opportuno riflettere sulle risorse necessarie perché gli enunciati di ordine generale diventino realtà. Credo che già sia stata emanata una delibera CIPE per SACE 2001 che, in base alla nostra analisi, è assolutamente incoerente con gli enunciati.

PRESIDENTE. Intervenendo (anche se presidente di turno) come deputato dell'opposizione, rilevo che l'esposizione del presidente della Confindustria ha sollevato diversi problemi. Innanzitutto, vorrei domandare se non ritenga preferibile, piuttosto che incentivi fiscali ( mi sembra che già ne siano previsti per 2670 miliardi nel collegato alla legge finanziaria 2000 appena licenziato dal Senato e che quindi verrà approvato definitivamente quando si comincerà a discutere della nuova legge finanziaria, che vanno dalle detrazioni per cani e gatti tenuti in casa alla restituzione dell'80 per cento della tassa per il medico di famiglia), una riduzione delle aliquote, anche al fine di modificare le aspettative delle imprese.
Confindustria ha avuto, nelle settimane scorse, una vivace contrapposizione con una delle tre centrali sindacali sul tema della contrattazione nazionale, aziendale o territoriale; sostanzialmente si tende ad unificare il livello della contrattazione in modo da creare una specie di icona della contrattazione nazionale, che dovrebbe mantenere i minimi salariali e le normative


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generali, per il resto dando contenuti specifici diversificati secondo gruppi aziendali e situazioni territoriali. Vorrei sapere a che punto sia questa riflessione e quali prospettive ci possano essere di un accordo. Mi sembra che il passaggio al piano aziendale e territoriale sia uno dei punti essenziali per rilanciare l'occupazione nel Mezzogiorno.
Quanto all'incidenza dell'aumento del prezzo delle materie prime registrato negli ultimi mesi, esiste uno «zoccolo duro» dell'inflazione dovuto ad un monopolio residuale ma soprattutto alla trasformazione in tasse di tariffe relative a servizi di pubblica utilità a prezzi politici, che dovrebbero adeguarsi al costo di produzione se vogliamo che le aziende municipalizzate, sia pubbliche che private, coprano i costi. Non crede, presidente D'Amato, che intervenendo più decisamente sul prezzo della benzina, con uno sconto fiscale non di 30 o 50 lire ma di 100-150 lire, si potrebbe dare un contributo maggiore al contenimento dell'inflazione?
Il presidente della Confindustria ha parlato di lotta al sommerso. A tal fine, quale può essere il contributo dei distretti industriali del Mezzogiorno? Qual è il futuro di questa formula di organizzazione delle piccole imprese?

NICOLA BONO. Porrò una sola domanda, perché molte le ha già avanzate il collega Armani e perché nel suo intervento introduttivo lei, presidente D'Amato, ha svolto considerazioni che noi deputati di Alleanza nazionale abbiamo avuto modo più volte di evidenziare nella stessa direzione.
Siamo d'accordo sull'esigenza di individuare per il Mezzogiorno percorsi per l'attrazione di capitali e riteniamo che la grande assente nella politica meridionale sia la politica di contesto e quindi la capacità di attrarre capitali. Vorrei sapere, in base alle vostre stime, su quali basi siano stati calcolati tassi di sviluppo del PIL e soprattutto quale sia l'attendibilità della crescita prevista.
Mi rendo conto che lei ha già in parte risposto quando ha messo in discussione - è un'opinione da me personalmente condivisa - i tassi di sviluppo del PIL del paese, ma vorrei un particolare approfondimento per ciò che riguarda il Mezzogiorno.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA V COMMISSIONE DELLA CAMERA AUGUSTO FANTOZZI

SALVATORE CHERCHI. Il giudizio della Confindustria è stato esposto in maniera assolutamente chiara dal presidente D'Amato e dal dottor Galli. Prima di porre domande vorrei però far rilevare che alcune affermazioni non corrispondono alla verità effettuale. Ad esempio, quando si parla delle previsioni, bisognerebbe dire che a sbagliare non è solo il Governo italiano ma anche l'OCSE, Prometeia, Merril Lynch, e così via. Questi organismi elaborano il loro rapporto sull'Italia ma non mi risulta che abbiano mai previsto un'evoluzione del quadro macroeconomico diversa da quella prospettata nel DPEF.
Il presidente della Confindustria ha detto che l'Italia è ultima quanto agli investimenti diretti dall'estero. Non è così: lo scorso anno l'Italia è stata tra i primi paesi in questo campo; non ho con me i dati, ma potrei mostrarvi un'intera pagina de Il Sole 24 ore dedicata al fatto che nel 1999 l'Italia è stata tra i primi paesi quanto agli investimenti diretti dall'estero, per i quali ha registrato il raddoppio rispetto all'anno precedente, al netto dell'operazione Omnitel. Sono state cioè attuate riforme nel nostro paese i cui effetti si manifesteranno nel tempo in modo ancora più cospicuo.
Il dottor Galli ha chiesto dove prendere i soldi per gli investimenti. Il tendenziale a legislazione vigente manifesta, al terzo e quarto anno, un saldo positivo: avremo oltre un punto, al quarto anno, di saldo positivo. È evidente che sarà lo spazio per la finanza pubblica. Il Parlamento, non il Governo, ha scelto di costruire i dati della


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finanza pubblica a legislazione vigente in modo d'essere assolutamente consapevoli del tenore delle nostre decisioni. Se al quarto anno avanza un punto e mezzo di PIL, dobbiamo decidere se destinarlo agli investimenti e ricavare diversamente le risorse per intervenire sulla parte più propriamente fiscale.
Ho ritenuto opportuno fare queste precisazioni, rispetto al quadro delineato dai nostri ospiti, perché siamo qui soprattutto per interloquire e confrontare posizioni. Passo ora a porre alcune rapidissime domande.
Vorrei che il presidente D'Amato nella sua replica affrontasse nuovamente il problema del TFR.
Siete d'accordo sulla proposta, che incontra molte difficoltà a livello europeo, di un fisco differenziato per aree che, situate all'interno dello stesso paese, presentano problemi differenziati?
Sarebbe opportuna una precisazione, da parte della Confindustria, sulla riforma del diritto societario. Il giudizio sulle proposte di legge all'esame del Parlamento mi è sembrato divergente rispetto a quello manifestato in altre occasioni.
Vorrei anche una valutazione sulla riforma dei servizi pubblici locali, che libererà spazi enormi per ulteriori privatizzazioni.
Infine, una domanda tutta rivolta alle imprese: per investire in innovazione cosa chiedete al DPEF ed alla prossima legge finanziaria?

GIUSEPPE VEGAS. Posto che il problema principale del sistema imprese è, nello scorcio dei prossimi anni, quello della competitività e quindi dei costi eccessivi di cui sono gravate, il mercato del lavoro rigido attualmente esistente fino a che punto penalizza i costi e la competitività? A che livello di sopportabilità si attestano i costi che la pubblica amministrazione comporta per l'impresa?
L'ultima questione è legata alla possibilità di diminuire la pressione fiscale e all'eventualità di opting out in molti servizi pubblici. A vostro avviso, da quali servizi pubblici si potrebbe più efficacemente uscire a domanda individuale?

NICOLÒ SELLA DI MONTELUCE. Partendo dal recupero di competitività, di cui ha parlato il presidente D'Amato, che si riversa sulla nuova economia da una parte e su quella tradizionale dall'altra, vorrei porre alcune domande.
La Confindustria è d'accordo sulla politica di riduzione degli incentivi e favorevole ad una distribuzione di sgravi fiscali, o addirittura anche a trattare certe spese come spese reali, ad esempio quelle per le automobili?
La filiera ricerche-investimenti-prodotti, molto complessa e poco sviluppata in Italia anche per la bassissima spesa che la sostiene, come può essere ristrutturata? Siete d'accordo sul modo in cui adesso è indirizzata la spesa, in gran parte verso il nucleare?
Quanto agli investimenti, con riferimento sia ai privati sia al sistema borsistico, è possibile trovare formule per detassare il privato e consentirgli di accedere direttamente alla borsa, nei settori di sviluppo?
La Confindustria ritiene opportuna una ristrutturazione del Ministero dell'industria, anche alla luce della riforma del ministro Bassanini?

TERESIO DELFINO. Non sorprende la divergenza della Confindustria rispetto al dibattito di questi giorni, anche se indubbiamente constato un'insoddisfazione che deriva, a nostro giudizio, da una valutazione troppo di parte. Lo dico non come esponente dell'opposizione, ma richiamandomi ad un dato che il presidente D'Amato ha ricordato: i grandi sacrifici che questo paese ha sostenuto negli anni novanta per il risanamento della finanza pubblica.
I governi che si sono succeduti hanno posto in essere politiche diverse e da quattro anni viene attuata una politica che sostanzialmente non condividiamo. Oggi, rispetto ai grandi sacrifici chiesti alle imprese piccole e medie ed alle famiglie, è necessaria una politica economica che si misuri anche sulle «sofferenze» che questi


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anni hanno comportato? La domanda, in altre parole, è se sia meglio accentuare le misure fiscali o gli incentivi. La nostra opinione è che sia preferibile una misura fiscale generale che consenta da un lato alle imprese di risollevarsi e, dall'altro, dia alle famiglie un maggiore potere di acquisto.
Quanto alle privatizzazioni, cui lei ha fatto cenno, abbiamo sostanzialmente recepito un atteggiamento poco coraggioso del Governo per il risanamento della finanza pubblica e per il rilancio economico. Vorrei in proposito una valutazione del presidente D'Amato.
La terza questione è quella dei costi di sistema, con riferimento al mercato del lavoro ed alla pubblica amministrazione. Anche in proposito vorrei una puntualizzazione sulle misure che sono state adottate.

GIOVANNI FERRANTE. Mi sembra di partecipare ad un'audizione nella quale si sta valutando un diverso documento di programmazione economico-finanziaria. Non sono state infatti avanzate osservazioni puntuali quanto invece un giudizio di assoluta divergenza del presidente D'Amato, suffragato poi all'intervento del dottor Galli. Ho partecipato alle precedenti audizioni e rilevo che questo giudizio perentorio contrasta non tanto con il documento di programmazione economico-finanziaria, quanto con i contributi offerti dalla Commissione tecnica per la spesa pubblica, dall'ISTAT, dalla Corte dei conti, dall'ISAE, i quali sostengono che i risultati conseguiti sono stati possibili perché sono stati attuati interventi strutturali che hanno permesso di fare un DPEF a legislazione vigente, senza alcuna manovra correttiva.
La Commissione per la spesa pubblica ha sottolineato che, per la spesa relativa agli interessi, si è verificata una ampia riduzione della spesa corrente primaria, tanto da arrivare all'impossibilità di un'ulteriore compressione. D'altra parte, questa valutazione viene suffragata da avanzi primari mantenuti costanti ed elevati per tutto il periodo di previsione dei precedenti DPEF, confermati da quello attuale. Vorrei sapere se la riduzione della pressione fiscale debba avvenire attraverso interventi sul sistema dello Stato sociale.

ANTONIO ENRICO MORANDO. Signor presidente, non è questa la sede per una discussione tra noi; le audizioni si fanno per cercare di avere indicazioni, condivisibili o meno da parte di ciascuno, ed ulteriori indicazioni per le correzioni da apportare al documento di programmazione economico-finanziaria in sede di approvazione della risoluzione parlamentare. Mi limiterò pertanto alla parte della relazione del presidente D'Amato nella quale egli ha cercato di dimostrare perché questo DPEF non è orientato al recupero di competitività.
Il presidente della Confindustria ha parlato delle liberalizzazioni. Teniamo presente che in questi anni è stato realizzato un processo gigantesco, partendo da un punto drammaticamente arretrato rispetto agli altri paesi nostri competitori. Vorrei chiedere quali settori, oltre quelli già interessati dalla liberalizzazione ed oltre ai servizi pubblici locali - per i quali c'è un progetto di legge approvato da un ramo del Parlamento che presto si trasformerà in legge - lei vorrebbe che fossero interessati da un immediato processo di liberalizzazione. Forse quello delle professioni liberali? Elettricità, gas e servizi pubblici locali sono già in un processo che può esser accelerato. È questo che voleva sostenere?
Nel DPEF si ipotizza che le privatizzazioni, alle quali si sommano i proventi delle gare per le licenze UMTS, realizzeranno un introito di 65 mila miliardi. Ritiene che si dovrebbe superare questa dimensione? In tal caso, ritiene che ci sarebbero conseguenze sui patrimoni? Si tratta di un introito che è pari o addirittura più alto di quelli realizzati del corso degli ultimi anni, che pure hanno visto l'Italia eccellere quanto ad introiti da privatizzazioni.
Il DPEF propone di utilizzare per l'innovazione, la ricerca e la formazione, decisive per la competitività del paese, il


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10 per cento dei proventi da UMTS. Rispetto alla quota attualmente destinata a questo campo, si tratta quasi di un raddoppio. Lei pensa che bisognerebbe destinare una quota ancora più elevata?
L'ultima domanda riguarda la spesa della pubblica amministrazione. Un intero capitolo del DPEF propone una specie di rivoluzione copernicana nel sistema degli acquisti di beni e servizi da parte della pubblica amministrazione, introducendo principi elementari di trasparenza, di concorrenza e di competizione tra fornitori. C'è poi un progetto argomentato e ben delineato per l'acquisizione di nuove tecnologie nella pubblica amministrazione, specialmente con riferimento alle gare per le forniture. Devo interpretare il suo giudizio sulle previsioni di calo della spesa corrente come una presa di distanza da queste ipotesi così radicalmente innovatrici, che vedono le imprese molto interessate ad avere finalmente una pubblica amministrazione che corrisponda a criteri competitivi?

PRESIDENTE. Do la parola al presidente D'Amato per la replica.

ANTONIO D'AMATO, Presidente della Confindustria. Vorrei fare una piccola precisazione preliminare. Nella nostra valutazione del DPEF, che riteniamo importante strumento di programmazione e di governo dell'economia, abbiamo fatto assoluta astrazione da ogni giudizio di carattere politico, sia sul passato sia sul presente. Abbiamo cercato di esprimere una valutazione dal punto di vista assolutamente tecnico e imprenditoriale, chiarendo quali debbano essere, a nostro avviso, le priorità e l'opportunità, nonché quali siano i rischi che può incontrare il sistema paese di fronte alla portata della competizione. Naturalmente, se volete potrò esprimere un giudizio di merito - ma non credo che sia questo l'oggetto dell'audizione odierna - su come sia stato attuato il risanamento, su quali siano le responsabilità dei diversi soggetti e delle diverse componenti politiche. Vi prego perciò di considerare che le nostre dichiarazioni sono oggettivamente documentabili e sarò lieto di offrire tutti i dati a sostegno dei nostri ragionamenti.
Onorevole Cherchi, vorrei far presente che ogni anno vengono pubblicate statistiche precise, di divulgazione internazionale, sugli investimenti esteri diretti. Tali dati, che sarò lieto di fare avere alle Commissioni alla fine di questa audizione, testimoniano in maniera purtroppo sconcertante il fatto che il nostro paese è purtroppo da dieci anni ultimo in classifica nell'attrazione di investimenti esteri diretti. Questo è un dato di fatto.
Alcuni degli interventi svolti sembravano quasi voler insinuare che la posizione della Confindustria sia specialmente e aprioristicamente schierata in un modo piuttosto che in un altro. Vi prego di credere che così non è e cercherò di documentarlo. Abbiamo affrontato nel corso degli anni novanta una durissima crisi finanziaria. Il paese era sull'orlo di un crack finanziario che è stato fronteggiato con un sacrificio molto imponente, su due fronti documentabili: da un lato sono aumentati i livelli del divario, delle disuguaglianze e dell'iniquità nel paese, che si è impoverito, particolarmente in alcune zone e relativamente ad alcune generazioni; dall'altro lato, c'è stato un impoverimento della nostra capacità competitiva ed una perdita secca di quote di mercato. Oggi abbiamo la possibilità di compiere un forte investimento in sviluppo e in civiltà, che sarebbe alla nostra portata se facessimo quegli aggiustamenti strutturali che in questo momento, per la fase di politica complessa, perché esistono ancora fattori di instabilità, perché siamo alla fine della legislatura, è difficile compiere. È di questo che ci preoccupiamo perché non fare oggi questi aggiustamenti strutturali fa accelerare la perdita di competitività rispetto agli altri paesi che li hanno già realizzati 15 anni fa, quando avevano il nostro stesso quadro congiunturale e che oggi stanno rinnovando ulteriormente. Ad esempio, la Germania ha vissuto negli ultimi dieci anni una forte crisi, comune a tutto il continente ad eccezione della Gran Bretagna, ma ha


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«digerito» a tappe forzate il recupero della Germania dell'est, facendo in pochi anni quello che abbiamo fatto in cinquant'anni per il Mezzogiorno. Certo, ha imposto un peso fiscale importante sul sistema produttivo ed ha indebolito il suo meccanismo competitivo e di attrazione degli investimenti, ma da due anni - lo posso testimoniare, operando in quel paese con la mia azienda - la Germania distribuisce il 10 per cento di riduzione della pressione fiscale alle aziende che offrono dividendi, perseguendo una politica che tende ad accelerare l'entrata in borsa delle imprese. Nel frattempo sono stati messi in moto interventi, nel corso degli ultimi 18 mesi, che hanno fatto rimbalzare in alto la Germania nella classifica degli investimenti esteri diretti e nella capacità di ridurre il CLUP (costo del lavoro per unità di prodotto), che risulta oggi essere più competitivo rispetto a cinque anni fa. Noi nel frattempo abbiamo perso quote di mercato.
È sulla nostra differente capacità di attuare riforme strutturali rispetto a quella dei concorrenti che dobbiamo soffermare la nostra attenzione; questo il giudizio che dobbiamo dare del DPEF. Rinvio per gli aspetti specifici al documento che consegnerò alla Commissione, perché nei 20 minuti introduttivi ho ritenuto opportuno fornire un quadro di insieme e penso che, diversamente dalla legge finanziaria, il DPEF debba «aprire una finestra » e dire programmaticamente quali sono le priorità, quali i target, quali gli strumenti che si intendono mettere disposizione e sui quali misurarsi nei prossimi anni.
Venendo ai quesiti specifici, è stato chiesto se siano preferibili incentivi fiscali o riduzioni delle aliquote. Senza dubbio riteniamo opportuno andare ad una semplificazione del sistema fiscale perché è difficile vendere il pacchetto-Italia agli investitori internazionali se costoro non riescono a capire quale sarà per loro il prelievo fiscale sul reddito di impresa; per saperlo dovrebbero conoscere tutte le ipotesi, che variano a seconda della struttura patrimoniale, del tipo di indebitamento, e così via. Chi investe, ai primi posti nella scala delle priorità pone innanzitutto il costo della logistica, cioè l'esistenza di mercati di sbocco e mercati di approvvigionamento facilmente raggiungibili; in secondo luogo il costo fiscale, che va pagato ogni anno, e che insieme alla certezza del diritto e al rapporto con l'amministrazione fiscale è uno dei driver fondamentali nella scelta. L'Italia non attrarrà investimenti se non affronterà in questa chiave il processo di riforma fiscale.
Quanto alla contrattazione nazionale, aziendale e territoriale il problema è, più ancora di dove contrattare, cosa contrattare. Non abbiamo quasi margini perché la struttura del costo del lavoro è diventata anelastica e continuiamo ad avere salari netti bassi e costo del lavoro alto perché c'è di mezzo un cuneo fiscale e previdenziale oneroso; senza una sua modifica, tutti gli elementi di produttività che possono manifestarsi verranno «succhiati» dal mercato. Nel sistema produttivo italiano, nel quale c'è una percentuale di ritorno sulle vendite, secondo le statistiche acclamatissime di Mediobanca, tra il 2,5 ed il 3 per cento e una violenta pressione sui costi, i margini di profitto e di produttività vengono portati via dal mercato. Dobbiamo allora cercare di diminuire il cuneo fiscale e destinare parti del costo del lavoro o all'aumento della produttività - da contrattarsi poi nei luoghi più opportuni, che sono a nostro avviso quelli più vicini al luogo dove si svolge il lavoro - o piuttosto ad investimenti per aumentare le capacità competitive o l'innovazione. In proposito c'è la nostra proposta sul TFR di cui parlerò tra poco.
Circa l'inflazione e il costo delle materie prime, è vero che negli altri paesi il tasso è inferiore al nostro, ma ciò accade perché il sistema è più competitivo. Nel nostro caso il processo di liberalizzazione è incompiuto (non basta iniziarlo od annunciarlo, bisogna compierlo) e imponiamo al sistema paese un costo insopportabile. La vertenza dei trasportatori è stata risolta incrementando le tariffe, in modo assolutamente inaccettabile: si impone


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per legge il costo del trasporto delle merci in un settore che dovrebbe essere aperto e competitivo, creando un cartello che va contro ogni normativa comunitaria oltre che nazionale; mi riferisco alle tariffe forcella per le quali esiste un disegno di legge del Governo tendente ad eliminarle, eppure come si risolve la questione dei trasportatori? Riscaricandole sulle tariffe forcella. È chiaro che le liberalizzazioni sono un fattore fondamentale.
Lo stesso vale per i costi dell'energia. Non basta dire che possiamo comprarla all'estero, perché bisogna che sia realmente accessibile. Oggi abbiamo una liberalizzazione virtuale nel senso che io, come azienda, possono comprare energia all'estero ma, guarda caso, non riesco a farlo e continuo a pagare un costo energetico ben più alto di qualunque mio concorrente.
Mi sembra paradossale che si debba pagare anche l'IVA sulle tasse, sulla bolletta energetica già fiscalmente molto pesante. Il presidente Fantozzi è molto più esperto di me su questa materia, ma mi sembra che questa sia una delle questioni da affrontare.
Quanto al sommerso, credo che si tratti di una grande opportunità sulla quale lavorare. Una delle più ampie aree di inciviltà e di debolezza economica del nostro sistema competitivo è rappresentato dall'economia sommersa, rispetto a tale questione Confindustria è molto determinata e risoluta: non possiamo più permetterci di dire che è meglio il lavoro sommerso che la disoccupazione. Molti sanno dove è il sommerso - lo sanno le autorità, le istituzioni locali, i vigili urbani, i sindacati - che è il luogo dove si realizza lo sfruttamento dei lavoratori, l'evasione fiscale, la concorrenza sleale per le imprese e soprattutto molto spesso l'intreccio tra malavita e malaeconomia, perché l'impresa sommersa è quella che non può reagire alzando il telefono e chiamando le forze dell'ordine. Quindi, è così che si alimenta la corrosione della vita civile e si impedisce di combattere l'illegalità e quindi di compiere quel salto qualitativo senza il quale non ci sarà mai il salto competitivo.
Confindustria ritiene la lotta al sommerso la priorità delle priorità, una grande battaglia di civiltà e per la competitività. Non ritengo però che questa lotta si possa affrontare con i contratti di emersione, che non hanno prodotto negli ultimi dieci anni alcun vantaggio in termini reali. Si affronta rendendo il costo del lavoro sopportabile per le imprese sommerse e per tutto il sistema paese.
La nostra ricetta è la seguente: si deve intervenire sui costi fiscali e contributivi e sulla flessibilità del mercato del lavoro, creando per il sommerso e per il Mezzogiorno un pacchetto di costi di sistema analogo a quello degli altri paesi occidentali. Prendiamo la Gran Bretagna come target perché è il paese leader nell'attrazione di investimenti esteri (circa il 35-40 per cento, contro il nostro 3 per cento). Questo pacchetto dovrebbe essere realizzato subito per il sommerso ed il Mezzogiorno e, entro tre anni o comunque nell'arco di una legislatura, per tutto il paese e consentirebbe di attrarre investimenti esteri nel Mezzogiorno e di combattere il sommerso. In particolare, si dovrebbero concedere sei mesi di tempo per l'autodenuncia da parte delle aziende sommerse, dopodiché chi non si è autodenunciato, non può più svolgere la sua attività; non ci deve essere tolleranza perché, se resta la scelta, è chiaro che chi non paga niente non ha nessuna intenzione di pagare il 30 o il 35 per cento di tasse o il 50 per cento di contributi. Quindi, si deve fare un calcolo sui costi di sistema, dare un periodo di tempo per l'autodenuncia, prevedere un «condono» ed un regime di emersione graduale (18, 24, 36 mesi), ma stabilire con chiarezza che quando un'azienda emerge paga, a regime, un costo che sia sopportabile e sostenibile; se non lo vuole pagare, vada fuori dall'Italia. Questa politica per il sommerso e per il Mezzogiorno deve essere il target di competitività per tutto il paese e non crea problemi a livello europeo come politica fiscale differenziata:


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nessuno potrà dire che non si può anticipare per il Mezzogiorno una politica fiscale differenziata se il Governo si impegna ad estenderla, in un arco di tempo predeterminato, a tutto il paese. Se ci si pone l'obiettivo di un prelievo fiscale, tra IRAP ed IRPEG, che complessivamente si collochi tra il 30 e il 35 per cento, come accade in tutti i paesi europei, e si decide di iniziare dal sommerso e dal Mezzogiorno per estenderlo tra 3 o 5 anni a tutto il paese, nessuno potrà sollevare obiezioni.
L'onorevole Bono ha chiesto quale sia l'attendibilità, in questo quadro, dei tassi di sviluppo del PIL del Mezzogiorno e di tutto il sistema. Rispondo: bassissima, perché una proiezione che non si basi su strumenti non funziona. Se noi facessimo i budget delle nostre aziende come è stato fatto il DPEF, saremmo tutti falliti. Non posso prendere gli ordini del miglior mese dell'esercizio e farli diventare la proiezione per i successivi quattro anni della mia politica di gestione aziendale!
È stato preso un flash congiunturale, in un momento molto specifico, astraendolo da ogni considerazione di carattere strutturale e competitiva e lo si è fatto diventare il programma dei prossimi quattro anni. Crediamo che ciò sia molto pericoloso, anche perché questa fase della congiuntura sta già cambiando: mentre discutiamo di questo DPEF, nell'economia reale delle nostre fabbriche e dell'Europa si stanno producendo fatti che saranno oggetto di statistiche solo fra qualche mese. È questa discrasia che ci preoccupa e che ci fa assumere atteggiamenti che non credo siano pessimistici e lamentosi né semplicisticamente ottimistici. Diciamo soltanto che di fronte alle possibilità dobbiamo fare i cambiamenti strutturali, altrimenti corriamo il rischio di fare qualche «piccolo» errore.
È stato chiesto cosa proponiamo per il TFR. Ci rendiamo conto che il quadro complessivo è molto difficile e che per compiere riforme coraggiose occorre una stabilità ed una solidità di governo che oggi non è data, ma riteniamo che la riforma delle pensioni sia assolutamente indispensabile - tutti gli organismi internazionali prima citati continuano a dirlo - anche se probabilmente non potrà essere affrontata compiutamente prima della prossima legislatura. In questo momento pensiamo però che, per combattere il sommerso e per creare un ponte che faciliti una vera riforma del sistema pensionistico, per pagare le pensioni che promettiamo, dobbiamo mettere in moto un processo di ridefinizione degli strumenti di pensione integrativa.
Da questo punto di vista, la Confindustria si dichiara disponibile ad affrontare il tema della ridefinizione del TFR e del mercato del lavoro, creando strumenti di maggiore flessibilità in ingresso ed uscita; in tal modo si avrebbe una potente arma per combattere il sommerso e al tempo stesso la possibilità di mettere mano alla struttura del TFR, il che ci consentirebbe di anticipare forme di pensione integrativa anche in via anticipata rispetto alla riforma delle pensioni, purché ci siano i tre presupposti che riteniamo fondamentali: la libertà di scelta del lavoratore su dove collocare le risorse, se cioè debbano restare nel TFR ovvero se debbano andare in fondi chiusi o fondi aperti; la piena equiparazione tra fondi chiusi e fondi aperti, anche perché non sarebbe possibile immaginare qualcosa di diverso per ragioni di concorrenza (è questo l'unico modo per assicurare una vera forma di tutela dei lavoratori ed una garanzia di concorrenza); una chiara riduzione del cuneo fiscale e previdenziale, per le ragioni già esposte.
Rispondendo con la massima celerità agli altri quesiti, credo che il controllo acquisti della pubblica amministrazione sia una delle cose migliori contenute nel DPEF; abbiamo visto quale sia il beneficio che deriva dal concentrare e rendere più trasparenti le politiche di acquisto. In questo modo si può avere un grande risparmio e possono essere tagliate molte inefficienze.
Per il diritto societario, siamo favorevoli complessivamente al progetto di legge Mirone, ma pensiamo che sia corretto estendere alle imprese artigiane i vantaggi


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fiscali che hanno le società di capitali e lo stesso ragionamento vale per le società cooperative, perché si creerebbe una fondamentale distorsione della parità di trattamento all'interno dell'ordinamento.
Siamo assolutamente favorevoli alla privatizzazione dei servizi pubblici locali ma crediamo che il progetto di legge in corso di esame sia timido e non siamo d'accordo perché vorremmo vedere una fortissima accelerazione delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni.
Quanto alle privatizzazioni, ci sarebbe piaciuto che, in un documento che affronta gli anni a venire, fossero stati forniti dati anche per il 2002, 2003, 2004; se avessimo avuto un'articolazione programmatica e strutturale, avremmo avuto senz'altro un'indicazione sugli anni a venire, cosa che non c'è. Siamo preoccupati, perché il processo di liberalizzazione e privatizzazione, che pure è partito, si è bloccato; non si capisce, ad esempio, perché la privatizzazione dell'ENI non proceda, anche se conosciamo tutte le giustificazioni di carattere politico.
È stato chiesto cosa serva per incentivare gli investimenti in innovazione. In una recente trasmissione sulle aziende Microsoft, fatta dal TG, venivano mostrate alcune donne sudamericane, quindi manovalanza a basso costo, che imballavano a mano i pezzi di software nelle scatole. In Italia non esiste alcuna azienda che produca ancora manualmente quelle fasi di lavoro; per evitare tutte le rigidità sindacali che hanno caratterizzato l'evoluzione industriale del nostro paese negli ultimi trent'anni abbiamo un livello di automazione di processo formidabile e siamo leader del mondo nella creazione di tecnologie di processo e di automazione. Non abbiamo però investimenti in innovazione e questo per due ragioni, la prima delle quali è che le imprese non guadagnano abbastanza per investire in innovazione; comunque, gli investimenti sono soprattutto per l'innovazione di processo.
Cosa si può fare? Molto, sul piano della ricerca, del rapporto tra università, enti di ricerca - sui quali andrebbe fatta un'audizione a parte - e sistema produttivo, ma il problema è soprattutto di denari e di focus: se gli investimenti continuano ad essere convogliati verso vecchi modi di fare ricerca non servono a nulla, sono investimenti autoreferenzianti, come quelli dei vari enti come il CNR, per i quali non si capisce quale sia l'impatto in termini di innovazione.
È stato chiesto se riteniamo adeguata la soluzione adottata dal DPEF per il ricavato delle licenze UMTS, cioè se quei duemila miliardi siano importanti o meno. Certo che lo sono, ma dipenderà molto da come saranno investiti e se saranno indirizzati a ricerca vecchio stile. Ricordiamoci che negli ultimi anni i soldi spesi così non hanno dato risultati.

PRESIDENTE. Ringrazio il presidente D'Amato gli altri rappresentanti della Confindustria e mi scuso se, essendo il tempo a nostra disposizione limitato, sono stato costretto a chiedere di rispettarlo. Purtroppo stanno per iniziare i lavori in Assemblea e abbiamo ancora due audizioni da svolgere.
Dichiaro pertanto conclusa l'audizione.

Audizione di rappresentanti della Confcommercio, della Confartigianato, della Confesercenti, della Confapi, della CNA e della CASA.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'attività conoscitiva preliminare all'esame del documento di programmazione economico-finanziaria relativo alla manovra di finanza pubblicaper gli anni 2001-2004, l'audizione di rappresentanti della Confcommercio, della Confartigianato, della Confesercenti, della Confapi, della CNA e della CASA.
Dai nostri ospiti non ci aspettiamo valutazioni di carattere generale ma suggerimenti ed indicazioni ai fini di una migliore predisposizione delle risoluzioni di approvazione del documento di programmazione economico-finanziaria. Vi saremo quindi particolarmente grati se vorrete fornirci un contributo in termini propositivi.


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MARCO VENTURI, Presidente della Confesercenti. Mi limiterò a fare una sola valutazione. La mancanza di nuovi tagli e nuove spese nel documento di programmazione economico-finanziaria è a nostro avviso un fatto positivo. Esprimeremo peraltro un giudizio quando conosceremo l'entità degli interventi che saranno posti in essere e come verranno orientati. La nostra valutazione si baserà quindi sui contenuti specifici.
Nello scenario prefigurato vi sono alcuni elementi positivi, dai conti pubblici al PIL, all'occupazione, ma anche problemi che condizionano le prospettive, quali l'inflazione, l'andamento delle vendite (in particolare per le piccole e medie imprese) e i tassi, che sono a rischio in conseguenza dell'andamento dell'inflazione. Nell'ambito di tale quadro, dobbiamo capire come proseguire nel risanamento, quindi come rafforzare lo sviluppo, come far aumentare l'occupazione e rendere più innovativo e competitivo il sistema paese. Tutto questo deve essere definito meglio nel documento di programmazione economico-finanziaria.
Deve essere approfondita la questione della spesa pubblica, che non ci sembra sotto controllo. Mi riferisco in particolare alla voce relativa agli stipendi pubblici, che deve essere adeguata ad una inflazione che è diversa da quella prevista nel documento di programmazione economico-finanziaria dello scorso anno. Il rischio è quindi legato alla crescita dell'occupazione negli enti locali. Voglio ricordare che lo scorso anno il documento di programmazione economico-finanziaria prevedeva un aumento dell'1 per cento degli occupati negli enti locali.
Sulla questione delle pensioni mi limito a dire che bisogna intervenire; ma credo che i sei mesi che ci separano dalla fatidica data del 2001 non possano consigliarci di rompere una coesione sociale che in qualche modo sta tenendo ed ha aiutato il paese. Siamo quindi favorevoli ad una riforma, ma riteniamo che occorra aspettare che trascorrano i prossimi sei mesi per affrontare il nodo della previdenza.
Il documento di programmazione economico-finanziaria a nostro avviso deve porsi soprattutto due obiettivi: quello di ridurre la pressione fiscale sulle piccole e medie imprese e sulle famiglie e quello di scommettere sulla sfida dell'innovazione.
Per quanto riguarda il fisco, gli interventi realizzati finora sono stati orientati a favore della grande impresa. Interventi come quello relativo alla dual income tax di fatto sono stati indirizzati solo a favorire gli investimenti della grande impresa. Non è stata peraltro quest'ultima a rispondere all'esigenza di maggiore occupazione e di sviluppo del paese, ma sono state le piccole e medie imprese. Credo che alcune affermazioni della Confindustria siano finalizzate ad ottenere altri vantaggi e altri risultati. Le piccole e medie imprese, che hanno dato un contributo determinante al maggiore gettito fiscale con gli studi di settore, vogliono aiuti non solo per sopravvivere ma anche per cercare di crescere, per svilupparsi, per aumentare la loro capacità di competere. Per questo sono necessari un intervento di carattere fiscale e più innovazione tecnologica finalizzata proprio a favorire le piccole e medie imprese.
Occorre inoltre un chiaro patto fiscale di stabilità con le regioni e gli enti locali, perché il meccanismo delle addizionali ha sempre determinato microriduzioni a livello centrale del prelievo fiscale, compensate abbondantemente dalle addizionali e da altri interventi di tipo territoriale. Abbiamo sempre affermato che secondo noi sarebbe più importante allargare la compartecipazione alle imposte erariali, che darebbe certezza non solo agli enti locali e allo Stato ma agli stessi contribuenti.
Propongo poi un intervento sull'IRAP, con esenzione dei primi 15 milioni per le imprese individuali, società di persone o società a responsabilità limitata fino a 50 addetti, oppure, in alternativa, una rimodulazione delle aliquote che tenga conto delle diverse tipologie di impresa. Soprattutto le imprese più piccole, infatti, non hanno neppure beneficiato dell'abolizione dell'ILOR perché non pagavano tale imposta.


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Propongo inoltre di aumentare il tasso di rendimento della DIT al 12 per cento (altrimenti continuerebbe ad essere una scatola vuota per le piccole e medie imprese) e di rendere permanente la cosiddetta legge Visco, in modo che anche le imprese a contabilità semplificata possano utilizzare gli sgravi previsti per i loro investimenti.
Propongo ancora di elevare da 20 a 50 milioni la forfettizzazione attuale (ma questa dovrebbe riguardare l'imposta e non solo il livello, in modo da semplificare in maniera drastica) e di alleggerire il prelievo locale per le piccole e medie imprese dei centri urbani (penso alla TOSAP, alla TARSU, all'ICI). Poiché infatti le piccole e medie imprese commerciali stanno chiudendo, vi è il rischio di una desertificazione dei centri urbani, di cui gli amministratori locali, primi fra tutti, dovrebbero tenere conto.
Vi è poi la partita relativa allo scontrino fiscale. Il ministro delle finanze si è dichiarato disponibile in questo senso, ma gli ho ricordato che anche l'allora ministro Fantozzi aveva manifestato la stessa disponibilità. Questo problema deve essere affrontato perché ormai esistono gli studi di settore; credo che sia venuta meno la funzione fiscale dello scontrino, che rimane comunque uno strumento importante sia per il rapporto con il consumatore, sia per la gestione delle imprese.
Un'altra partita è quella della sfida per l'innovazione: l'informatizzazione, lo sviluppo di Internet, l'e-commerce, la formazione legata a questi settori, sono strumenti fondamentali per le piccole e medie imprese ma soprattutto per il paese. Il maggiore gettito fiscale deve essere destinato alla riduzione del prelievo fiscale, ma non in forma generica; non concordo con chi afferma che bisogna ridurre la pressione fiscale di un punto. Vi sono stati interventi di riduzione della pressione fiscale ma anche aumenti della stessa per le piccole e medie imprese: gli interventi, quindi, devono essere mirati. Proprio per questo ho elencato una serie di proposte. Per l'innovazione dobbiamo utilizzare le maggiori entrate provenienti dall'UMTS e dalla Borsa. Basta pensare agli obiettivi che si è posto il Consiglio europeo di Lisbona con riferimento alla scuola e alle piccole e medie imprese. La nostra scuola è ancora molto indietro su questo piano: negli Stati Uniti ci sono voluti otto anni per realizzare un collegamento al 100 per cento!
L'ultimo punto riguarda le infrastrutture. Occorre investire nelle dotazioni infrastrutturali nel sud e nel nord. Basta pensare al problema dell'acqua che in questo momento esiste in Sicilia e in altre regioni del Mezzogiorno: immaginate quali effetti può avere sul turismo la mancanza dell'acqua e di adeguati sistemi stradali o autostradali, che peraltro servono anche al sistema produttivo avanzato del nord. Per infrastrutture turistiche intendo non solo porti e aeroporti, ma anche porti turistici, impianti sportivi, strumenti di riqualificazione urbana, che rendono più competitivo il turismo, soprattutto nel Mezzogiorno d'Italia, che ha bisogno di sviluppo ed occupazione.

CARLO MOCHI, Vicesegretario generale della Confcommercio. Cercherò di essere estremamente sintetico.
Noi ci attendevamo che il documento di programmazione economico-finanziaria puntasse ad utilizzare la situazione congiunturale presente a livello internazionale per trasformare in pausa strutturale una serie di vantaggi che il nostro paese poteva trarre. Se è vero, come sembra, che in Europa si prevedono tre anni di vacche grasse, l'Italia ha la possibilità, in questi tre anni, di realizzare una serie di interventi di carattere strutturale che in altri momenti di vacche grasse non ha attuato.
Il discorso del welfare state, nelle sue varie accezioni, nel corso degli anni novanta è stato portato avanti solo in termini di contenimento perché quelli erano anni di vacche magre, per cui un intervento anche sul settore pensionistico avrebbe determinato ulteriori problemi sotto il profilo della tenuta della domanda interna del nostro paese, con gli effetti di carattere economico noti a tutti. Sembra


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però che ora ci stiamo avviando verso un periodo di espansione nella misura del 3 per cento l'anno, se le previsioni sono corrette e se le variabili esogene di carattere internazionale rispettano tali previsioni (mi riferisco al costo del petrolio o al rapporto tra euro e dollaro, che forse dovremmo auspicare che si mantenesse sempre al livello attuale, perché ciò è positivo per le esportazioni).
Occorrono sostanzialmente quattro interventi. Il primo è un intervento sotto il profilo sociale, con una particolare attenzione su pensioni e sanità, in termini di revisione per le prime e di costi per la seconda, cioè restituendo al privato quel ruolo che con l'ultima riforma è stato in gran parte compresso.
Il secondo intervento riguarda il mercato del lavoro e l'occupazione, settori nei quali vi è moltissimo da fare. Bisogna rivedere la normativa sull'ingresso e sull'uscita dal mercato del lavoro e la struttura dei costi, cioè il cuneo fiscale e i costi di carattere previdenziale e fiscale che incidono sul costo del lavoro, nonché gli ammortizzatori sociali. A questo riguardo vi è soprattutto un problema di esercizio della delega e di previsione della copertura finanziaria, affinché gli ammortizzatori sociali riguardino tutti i settori e siano davvero un volano di sviluppo occupazionale.
Vi sono inoltre gli interventi specifici, cioè mirati allo sviluppo, che sono di due tipi, gli uni finalizzati al contesto (cioè alle infrastrutture di sistema, che sono sia materiali sia immateriali, dalle strade alle autostrade fino alle reti), gli altri riguardanti le piccole e medie imprese in quanto tali. Dobbiamo ricordare che per il settore del commercio dovrebbe funzionare con una certa continuità la legge n. 448 del 1998, rispetto alla quale si incontrano molti problemi. Vi sarà probabilmente un bando che consentirà di finanziare per la prima volta il settore del commercio; ma non sappiamo come si procederà dopo. Lo stesso discorso vale per il turismo. Esiste cioè una serie di fattori dai quali ci attendiamo che i fenomeni di carattere congiunturale consentano quelle pause necessarie per lavorare in termini strutturali. Investire a tre anni significa investire in termini strutturali; altrimenti, superata la congiuntura favorevole, probabilmente ci troveremo di fronte agli stessi problemi di oggi.

SANDRO NACCARELLI, Direttore della Confapi. Ringrazio le Commissioni per questa audizione, che è fondamentale per mantenere attivo il rapporto tra struttura dell'economia e Parlamento.
Voglio richiamare, in apertura, una valutazione contenuta nel testo del documento di programmazione economico-finanziaria. Si afferma esplicitamente che la ripresa dell'economia deriva da una serie di fattori che si sono verificati in questi anni, cioè la discesa dell'inflazione, la discesa dei tassi di interesse, la riforma fiscale e la riduzione del costo del lavoro. Sono quattro pilastri fondamentali sui quali deve mantenersi attiva l'attenzione da parte delle forze politiche. Se infatti questi fattori hanno determinato una ripresa dell'economia e quindi un risanamento complessivo del bilancio del nostro paese, gli stessi sono di nuovo sotto pressione: l'inflazione è in fase di ripresa, così come i tassi d'interesse; la riforma fiscale ha iniziato alcuni timidi passi ma è ben lungi dall'incidere in modo sostanziale sulla redditività delle imprese; la riduzione del costo del lavoro è sottoposta anch'essa ad una riduzione contributiva molto forte e non si riesce a vedere l'inizio di un cambiamento di marcia.
Il primo segnale che intendiamo portare all'attenzione del Governo e del Parlamento è che, se tutti questi elementi non saranno tenuti sotto controllo, il risultato positivo di questi anni potrebbe rapidamente disperdersi. Siamo estremamente preoccupati, perché un'operazione di espansione della spesa pubblica, specialmente riferita alle retribuzioni del settore del pubblico impiego, potrebbe impedire qualunque ulteriore riduzione dell'inflazione ed anzi potrebbe determinare un consolidamento dei prezzi, e quindi la fissazione dell'inflazione italiana ad un livello di «zoccolo duro» incomprimibile


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e sicuramente più alto di quello dei paesi nostri concorrenti.
Lo stesso discorso vale per i tassi di interesse. Sappiamo che il recupero di redditività delle imprese deriva fortemente dalla riduzione dei tassi d'interesse. Se, come sembra, i tassi sono in fase di ulteriore veloce ripresa, i margini di operatività per le imprese si ridurranno, anche perché (è una delle proposte che intendiamo sottoporre all'attenzione delle Commissioni e del Governo) i tempi sono completamente sfalsati tra l'effetto dell'IRAP sui bilanci delle piccole e medie imprese e l'effetto positivo della DIT, che doveva compensare l'aumento della pressione fiscale derivante dall'IRAP. Questo è un problema che abbiamo ben presente. Riteniamo che occorra ampliare l'efficacia della DIT, che attualmente è ancora marginale rispetto alle sue potenzialità, mentre l'incidenza dell'IRAP sui bilanci delle imprese è stata molto forte ed istantanea ed ha riguardato cespiti, come quello del costo del lavoro e degli interessi, che di fatto hanno aumentato notevolmente la base impositiva e quindi, al di là della redditività delle imprese, anche l'incidenza della pressione fiscale.
Concordo quindi con le valutazioni espresse dai rappresentanti del settore del commercio sul quadro generale della congiuntura e sulla necessità di utilizzare gli anni a venire per operazioni di carattere strutturale. Mi permetto solo di sottolineare che è necessaria un'attenzione particolare nei confronti dei meccanismi di pressione fiscale sul settore delle piccole e medie imprese ed anche sul tema della crescita delle imprese, che ci sta molto a cuore e che abbiamo rappresentato sia all'ex Presidente del Consiglio D'Alema sia all'attuale Presidente del Consiglio Amato. A nostro avviso sarebbe strategico che nel documento di programmazione economico-finanziaria fosse definita come linea politica l'esigenza di favorire la crescita dimensionale delle imprese in senso lato. Ci sono problemi di carattere fiscale e problemi che attengono al mercato del lavoro e alla vita complessiva delle imprese, rispetto ai quali abbiamo più volte segnalato l'esistenza di decine di provvedimenti che tendono a rendere conveniente la dimensione minima. Bisogna rompere questo meccanismo di convenienze, che porta la maggior parte delle nostre imprese ad assumere dimensioni assolutamente marginali. Anche oggi il Presidente della Repubblica ha parlato di innovazione tecnologica, di sviluppo, di mondializzazione dei mercati: per questo occorrono aziende con strutture produttive più grandi di quelle attuali. Il discorso sui provvedimenti che debbono realizzare un cambiamento di marcia del nostro paese deve portare con sé anche un cambiamento di marcia della legislazione nel suo complesso.
Questo è l'invito forte che rivolgiamo al Governo, perché riteniamo che qualsiasi riorganizzazione dell'economia del nostro paese debba partire da una struttura produttiva che abbia le spalle più larghe dal punto di vista dimensionale, finanziario e strutturale. Chiediamo al presidente di farsi portavoce di questo invito nei confronti del Governo, affinché nella legge finanziaria la nostra indicazione generale di tipo strategico si traduca in provvedimenti concreti.

PRESIDENTE. Le Commissioni terranno in grande considerazione i rilievi e le indicazioni che ci fornite non solo nella legge finanziaria ma anche nella risoluzione di approvazione del documento di programmazione economico-finanziaria.

IVANO SPALANZANI, Presidente della Confartigianato. Voglio soffermarmi su un tema che è già stato toccato da rappresentanti intervenuti prima di me, quello relativo alla pressione fiscale.
Abbiamo effettuato studi di settore su questo tema e nel 1996 abbiamo siglato un accordo con il ministro delle finanze, che è stato approvato dal Parlamento e quindi dal popolo italiano. Riteniamo pertanto di avere pagato quello che dovevamo pagare. In alcune aree abbiamo pagato l'80 per cento di congruità, a Treviso addirittura il 99 per cento: nessuno quindi ci può più considerare degli evasori, come


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è avvenuto per tanti anni! Dal momento che nell'accordo da me citato era scritto che l'eventuale dividendo fiscale avrebbe dovuto essere distribuito tra chi aveva pagato, in questa sede avanziamo proprio questa richiesta, che è semplice, logica e in linea con le leggi dello Stato e con i patti. Sappiamo che i soldi ci sono, ma ci è stato detto che avremmo saputo quanti sono a luglio; adesso sembra che lo sapremo a settembre. Dato che gli incassi ci sono stati, si deve procedere ad una riduzione della pressione fiscale, che secondo noi dovrebbe essere di quattro punti in tre anni.
Abbiamo suggerito all'allora ministro delle finanze di istituire il credito di imposta: ebbene, si sono ottenuti 136 mila occupati con 10 milioni per ognuno. Le cose devono essere semplici, chiare, comprensibili, automatiche, perché in questo modo si spende poco e si crea occupazione, come è avvenuto nel Mezzogiorno. Noi avanziamo la stessa richiesta per le nuove imprese del Mezzogiorno e per quelle della montagna, che hanno gli stessi problemi delle imprese meridionali: dobbiamo fare in modo che la gente non venga sradicata dalla propria terra. Mi riferisco, naturalmente, alle aree più depresse della montagna, dove la disoccupazione è più elevata. Abbiamo chiesto per queste zone la riduzione dell'IRAP, la legge Visco a regime, l'eliminazione dell'IRAP per chi assume disabili e per le nuove imprese. La pressione fiscale sulle piccole imprese deve essere ridotta perché la DIT è servita a ben poco; vorremmo quindi che andasse a regime la legge Visco.
Vi è poi la questione del lavoro sommerso, gran parte del quale deriva, specie in certe zone del paese, dal fatto che la legislazione non può essere rispettata e quindi la gente si nasconde. Il presidente della Confindustria D'Amato ha sollevato molti problemi che sicuramente devono essere risolti, ma il primo problema del Mezzogiorno è che la gente non sa dove andare a lavorare e pertanto rimane nascosta e lavora nelle cantine! Fino a quando non saranno messe a disposizione della gente aree attrezzate, il problema del lavoro sommerso non potrà essere risolto. Avevamo suggerito che di questo problema si occupasse Sviluppo Italia e lo stesso Presidente del Consiglio ne ha parlato nel suo programma di Governo: aspettiamo i risultati.
Vi è poi la questione delle società a responsabilità limitata. Abbiamo apprezzato l'atteggiamento del Governo e del Senato, che va nella direzione di una modernizzazione del paese. Non si possono mantenere come società in nome collettivo 250 mila imprese artigiane, soprattutto in tempi di new economy. Lo scorso anno ci è stato detto che eravamo un'anomalia; abbiamo chiesto al Parlamento che le imprese artigiane fossero trasformate in società a responsabilità limitata e qualcuno ci fa la guerra! Le nostre 250 mila imprese artigiane vogliono diventare società a responsabilità limitata per modernizzarsi e per essere finanziate. Tra l'altro, visto che le organizzazioni dell'artigianato sono polverizzate sul territorio, ci si può associare liberamente. La raccolta è fatta dalle banche locali e non dalla Banca nazionale del lavoro, che ha sede solo nel centro delle città. Non si possono fare questioni di parrocchia quando si tratta di sviluppare le aziende del paese. Riteniamo che questa sia una battaglia fondamentale, non per noi, perché non ci interessa avere un maggior numero di associati, ma perché con la new economy 250 mila aziende artigiane possono essere finanziate anche dall'estero. Chi produce caciocavalli a Ragusa, per fare un esempio, può essere finanziato dal ristoratore della quinta strada di New York, mantenendo i requisiti attuali.
Chiediamo inoltre incentivi fiscali per i fondi chiusi, affinché siano equiparati ai fondi aperti. Vi è poi il problema dei parasubordinati. Visto che hanno la partita IVA, non si capisce perché non si chiamino parautonomi; si potrebbe trovare una mediazione chiamandoli paraordinati. Una legge approvata dal Senato prevede una serie di vincoli e comporterà che 500 mila paraordinati lavoreranno in


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nero: infatti, ogni volta che si toccano i rapporti di lavoro si hanno mille occupati in meno. Più si alza l'acqua, più la gente si nasconde nel sommerso!
Sottolineo che per creare nuova occupazione e nuova imprenditorialità è necessario che il sistema dei crediti d'imposta sia automatico, perché dobbiamo sempre ricordarci che il 95 per cento delle imprese del nostro paese ha meno di 10 dipendenti.

GONARIO NIEDDU, Presidente della CNA. Non vi nascondo che avrei preferito partecipare alla discussione sul documento di programmazione economico-finanziaria avendo superato la legge finanziaria precedente, anche se il fatto che i provvedimenti collegati debbano essere ancora approvati non può essere interpretato come mancanza di interesse per le cose che stiamo dicendo. Spiegherò nel mio breve intervento perché questo mi preoccupa.
Sono preoccupato, innanzitutto, perché i provvedimenti collegati affrontano questioni, come quelle delle società a responsabilità limitata e della legge n. 488 del 1999, che non sono irrilevanti rispetto ai nostri interessi e sono parte integrante della politica economica del Governo, nonché - voglio sottolinearlo - delle valutazioni di segno positivo che abbiamo espresso in sede di concertazione nei confronti del lavoro svolto in quel periodo. Mi preoccupa moltissimo anche il fuoco di sbarramento da parte di chi ha meno numeri da mettere in campo ma più armi pesanti. Avrei preferito quindi che il terreno fosse stato già sgombrato da tale questione.
Sulle questioni specifiche affrontate dal documento di programmazione economico-finanziaria, il documento unitario presentato dalle organizzazioni di rappresentanza dell'artigianato ha il compito di entrare nello specifico e di elaborare proposte che sottoponiamo all'attenzione delle Commissioni.
Credo che la preparazione di questa legge finanziaria rappresenti una grande opportunità per il nostro paese, per due motivi molto importanti. Il primo è che i conti cominciano ad avere la loro giusta collocazione e a creare una serie di possibilità. Al di là delle riflessioni che si possono fare sulla tempistica delle statistiche e sull'influenza che la stessa può avere sulle nostre analisi, non vi è dubbio che siamo di fronte ad un momento di crescita importante del nostro paese. La macchina dell'economia è sicuramente in moto e credo che questo sia il momento più adatto per imprimere ad essa un'ulteriore spinta. La situazione è simile a quella che riguarda le imprese: si investe e si decide più volentieri quando ci si trova in una fase di segno positivo.
Voglio essere chiarissimo a questo proposito. A mio avviso, bisogna avere il coraggio di invertire le abitudini del nostro paese. Credo sia questo l'elemento più importante. Da un po' di tempo sento dire che le agevolazioni di cui gode l'artigianato dovrebbero essere estese anche ad altri sistemi imprenditoriali. A parte il fatto che mi risulta difficile capire quali siano queste agevolazioni, non mi pare che nel mondo dell'artigianato vi siano state grandi rottamazioni! Vi è, semmai, la necessità di invertire un trend, soprattutto in relazione al fatto che è stato proprio il mondo dell'artigianato, in questi anni molto duri, che si è rimboccato le maniche e ha continuato a lavorare e a produrre risultati. Oggi ci troviamo in questa fase proprio grazie al fatto che il settore dell'artigianato, pur con le sue difficoltà e i suoi problemi, continua a trainare e ad essere una forza portante della nostra economia. Questo ci consente di affermare che siamo in presenza di un'opportunità importante che abbiamo l'obbligo di cogliere, se non vogliamo arrivare in ritardo rispetto agli altri paesi.
Voglio sottolineare quattro aspetti sui quali, a mio avviso, si misura l'inversione di tendenza di cui ho parlato. In primo luogo, la riduzione della pressione fiscale, che è l'elemento principale e che secondo noi deve essere ridotta di quattro punti. Riteniamo che vi siano tutte le condizioni per fare questo e che ciò sia possibile


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nell'arco di due anni, quelli che ci consentono di arrivare al 2002, quando dovremmo essere più vicini agli altri meccanismi del sistema europeo. Ma non è questo il problema principale. Abbiamo bisogno di un segnale forte da questo punto di vista, che si traduca nelle risorse che sono necessarie ad imprimere un'ulteriore spinta.
In secondo luogo, occorre ridurre e porre sotto controllo la spesa pubblica. Questo non è effetto degli allarmismi determinati dalle affermazioni di chissà quali illustri economisti: sono i dati che ci preoccupano. Vorremmo che, contemporaneamente, vi fosse una qualificazione dei servizi, che è molto importante per il nostro mondo.
Vi è poi l'annosa questione della semplificazione burocratica. Anche in questo campo i risultati non sono adeguati a quanto stiamo facendo, per cui occorre imprimere un'ulteriore spinta a tale meccanismo. Abbiamo bisogno inoltre di un mercato del lavoro con criteri di maggiore flessibilità e di una rivisitazione del sistema contrattuale, sul quale stiamo aprendo una discussione e una riflessione. Abbiamo già offerto la nostra disponibilità su materie importanti quali pensioni, TFR e lavoro sommerso; in realtà si tratta di capire non tanto quali siano i suggerimenti che vi possiamo dare noi, ma quanto voi siete in grado di decidere e di operare scelte in tali materie.
Concludo riprendendo la riflessione con cui ho iniziato il mio intervento. Vi dico con molta sincerità che mi aspetto che le indicazioni da noi formulate siano recepite dalla prossima legge finanziaria. Avrei difficoltà ad esprimermi in senso favorevole su una legge finanziaria che operasse delle scelte solo su alcune questioni e che rinviasse le scelte da noi proposte ai provvedimenti collegati, relegandole quindi tra le promesse. Non vorrei ritrovarmi, come oggi, a discutere della prossima legge finanziaria senza che sia stata chiusa la partita precedente e lasciando in quella partita scelte importanti che riguardano il nostro mondo e sono figlie delle proposte da noi avanzate nelle varie Commissioni e in tutte le fasi della concertazione. Se questo documento di programmazione economico-finanziaria costituisce un'opportunità, deve esserlo in tutti i sensi, anche per cominciare a parlare con maggiore chiarezza e ad assumere le decisioni, ognuno nell'ambito delle proprie responsabilità. Non me la sento più, francamente, di andare a dire certe cose alle 350 mila imprese che mi onorano di fare parte della CNA. Voglio cominciare a ragionare con loro seriamente e, per farlo, devo essere io a ragionare seriamente e a porre le questioni in modo fermo.

PAOLO MELFA, Segretario generale della CASA. Sarò telegrafico, presidente, perché abbiamo presentato un documento unitario e condivido quanto è stato detto dal presidente della Confartigianato e dal presidente della CNA.
Mi soffermerò su un aspetto che consideriamo fondamentale per la competitività del sistema Italia: l'emersione del sommerso e le infrastrutture per il sud. Ormai non possiamo più fare a meno di ragionare su questo aspetto né, tanto meno, di trovare soluzioni che siano veramente adeguate.
Il problema del sommerso parte naturalmente dalla situazione pregressa. La mia richiesta quindi è che si proceda ad una vera chiusura del pregresso, il cosiddetto condono tombale, che a tanti non è piaciuto e non piace ma è l'unico sistema per ridare slancio ad una serie di imprese che operano già nella piena illegalità. Ciò potrebbe avere anche un ritorno positivo in termini di ordine pubblico e di sicurezza sociale.
Quanto alle infrastrutture, non mi soffermerò molto su questo punto perché ne hanno già ampiamente parlato i colleghi che mi hanno preceduto. Se è vero che il turismo è il nodo gordiano su cui si fondano il rilancio e la crescita del Mezzogiorno, è inevitabile che nel sud il livello delle infrastrutture debba essere adeguato a quello delle infrastrutture presenti nel resto d'Italia. Credo che nella legge finanziaria relativa al prossimo anno vi siano le


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risorse necessarie e che si possa quindi cominciare realmente ad investire.
Infine, ritengo che anche la legge n. 488 sia fondamentale per il rilancio del sud; bisogna fare in modo che alcuni benefici previsti da questa legge non rimangano lettera morta.

PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti e riassumo brevemente le richieste che hanno formulato.
È stata posta una forte attenzione sui temi fiscali, sulla ricerca, sul problema dell'occupazione, sulle strutture societarie, sulla legge n. 488 del 1999 e su una serie di ulteriori profili, quali l'emersione del sommerso. Terremo conto di queste richieste nella discussione e nella predisposizione delle risoluzioni di approvazione del documento di programmazione economico-finanziaria.
Dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione di rappresentanti della Confcooperative, della Lega delle cooperative, della Confagricoltura, della Coldiretti e della CIA.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'attività conoscitiva preliminare all'esame del documento di programmazione economico-finanziaria relativo alla manovra di finanza pubblica per gli anni 2001-2004, l'audizione di rappresentanti della Confcooperative, della Lega delle cooperative, della Confagricoltura, della Coldiretti e della CIA.
Nel ringraziarvi per la vostra presenza e per la documentazione che avete prodotto o che eventualmente riterrete di farci pervenire in un secondo momento, vi invito ad andare alla sostanza dell'argomento, non tanto esprimendo valutazioni sul documento di programmazione economico-finanziaria, quanto esponendo le vostre richieste, indicando gli aspetti che vi stanno a cuore. Tutto questo costituirà un supporto nella redazione delle risoluzioni che rappresentano la conclusione del nostro lavoro ed alle quali sono finalizzate le audizioni cui stiamo procedendo.

VINCENZO MANNINO, Segretario generale della Confcooperative. Non ho portato con me alcun documento, tuttavia ve lo faremo pervenire in tempo utile nelle prossime ore. Credo che riusciremo ad essere rapidi, anche perché l'impostazione stessa del documento obbliga a rinviare una serie di approfondimenti e di valutazioni specifiche all'appuntamento rappresentato dalla legge finanziaria.
Per la prima volta da molti anni, ci troviamo in una situazione di manovra correttiva zero e in una contemporanea situazione di ripresa. Mi sembra che questa duplice congiuntura suggerisca due azioni verso le quali bisogna incoraggiare il Governo ed impegnare il Parlamento. In primo luogo, proprio questo è il momento di accelerare le riforme strutturali. Il nostro paese ha una lunga tradizione di riforme rinviate nelle situazioni di stagnazione o di recessione, perché il sistema non aveva elasticità e risorse, e rinviate nelle situazioni di ripresa, perché ci si faceva trasportare dalla cresta dell'onda. Occorre invece utilizzare la congiuntura di ripresa per accelerare su una serie di temi, dal mercato del lavoro alla riforma del diritto societario, ad altri che sono all'ordine del giorno.
In secondo luogo, credo che sia possibile un maggiore sforzo nella direzione della riduzione della pressione fiscale; in un contesto di ripresa, il coraggio nell'assecondarla riducendo incisivamente la pressione fiscale può avere una ripercussione positiva sul gettito. Ritengo dunque che si possa sostenere un maggiore impegno in tale direzione senza che questo sia percepito come contraddittorio rispetto all'esigenza di proseguire nell'attenuazione del peso del debito pubblico accumulato.
Il documento traccia un bilancio molto positivo della riforma tributaria realizzata attraverso vari provvedimenti nel corso della legislatura. Credo che alcuni aspetti necessitino di perfezionamenti. Tra questi, schematicamente indico almeno l'IRAP, che in generale ha manifestato una serie di effetti che vanno in parte corretti; specificamente per le società cooperative,


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come è noto, ha comportato un aggravio pesantissimo, dato che si sostituivano con un'imposta applicata talune imposte - come nel caso dell'ILOR - per le quali vi erano esenzioni o agevolazioni, ma ha provocato anche una redistribuzione inappropriata dell'onere fiscale tra i settori cooperativi. Alcuni correttivi introdotti hanno carattere meramente settoriale o transitorio; considero opportuna un'opera serena di riconsiderazione e perfezionamento sulla base dell'esperienza.
Il documento di programmazione economico-finanziaria privilegia, anzi quasi prende soltanto in considerazione politiche generali di contesto e di sistema. Credo che sia difficile non condividere questa impostazione, che è la stessa che mi pare sia emersa nel corso dell'indagine conoscitiva sulla competitività del sistema paese svolta dalla Commissione bilancio della Camera. Sarebbe tuttavia sbagliato trascurare totalmente la necessità di alcune politiche settoriali che consentano di attivare specificamente un maggior potenziale di contributo alla ripresa, alla creazione di nuove imprese, alla creazione di occupazione specialmente in alcune aree. Penso che un'attenzione specificamente più incisiva, una moderna politica cooperativa di sviluppo, una politica di sostegno dell'agroalimentare in alcune aree particolari, come quelle montane, possano essere un modo non di stemperare o contraddire questa prevalente attenzione alle politiche generali di contesto e di sistema, ma di rafforzarle e di implementarle, estendendo nel paese la platea dei soggetti in grado di concorrere alla ripresa.
Infine, vorrei fare una sottolineatura di metodo. Mi pare che l'esperienza dei collegati al plurale e sganciati dall'allineamento temporale all'approvazione della legge finanziaria si sia rivelata quanto meno problematica ed abbia introdotto un elemento di incertezza sul se, quando e in che termini andranno in vigore norme che originariamente erano percepite come strettamente connesse alla finanziaria. Credo che Parlamento e Governo debbano riconsiderare tale aspetto per evitare che anche in futuro si determini questo scollamento così ampio, dal punto di vista temporale e sostanziale, tra le due fasi di un disegno che dovrebbe essere politicamente unitario ed organico.

PRESIDENTE. Questo è un tema al quale le Commissioni bilancio di Senato e Camera sono molto sensibili ma che probabilmente non si pone per questo documento di programmazione economico-finanziaria, avendo il Governo dichiarato che non ci saranno collegati, almeno al momento. In linea generale indubbiamente la sua osservazione è assolutamente fondata; ci siamo già occupati della questione e sicuramente occorrerà porre rimedio ad una riforma che è stata pensata per altre finalità, per accorpare e non certo per diluire e rendere incerta la manovra complessiva.

ELIO GRASSUCCI, Vicepresidente della Lega delle cooperative. Poiché è stato predisposto un documento, che consegno alle Commissioni, il mio intervento sarà alquanto schematico, e me ne scuso.
Innanzitutto, a nostro giudizio sono credibili le previsioni di crescita contenute nel documento di programmazione economico-finanziaria. So che si è svolta una discussione in proposito; da quello che ci risulta, queste previsioni sono, ripeto, perfettamente credibili, anche perché sussistono le condizioni. Infatti, per la prima volta da molti anni a questa parte, è possibile avere un percorso di crescita dell'economia italiana su presupposti di stabilità e sostenibilità; abbiamo un sistema di cambi fissi, di prezzi stabili, di bilancio pubblico in equilibrio, di tassi dei mutui contenuti. Esistono quindi le condizioni orizzontali per avere una fase di crescita positiva e non drogata.
Vi è da chiedersi se sull'occupazione, almeno per quanto è previsto nel documento di programmazione economico-finanziaria, si possa fare qualcosa di più. La mia opinione è che bisognerebbe destinare maggiormente le risorse liberate dal servizio del debito a sostegno della domanda aggregata, soprattutto in materia di investimenti strutturali e di consumi


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delle famiglie. Nel documento si avverte infatti una prudenza eccessiva nello stabilire le certezze del piano di riduzione della pressione fiscale. In tal senso condivido quanto è stato già osservato: occorre maggiore certezza sul percorso di alleggerimento progressivo della pressione fiscale. La mia opinione è che, più che sulle tasse, bisognerebbe agire sui contributi, in modo da abbassare la pressione fiscale più complessivamente ma alleggerire quella componente che grava sul lavoro, se vogliamo attuare maggiormente una politica di occupazione.
A mio avviso sarebbe opportuno in primo luogo prevedere nella prossima legge finanziaria un modesto ammontare di risorse per aiutare le piccole e medie imprese ad aggregarsi in forme societarie, affinché possano anch'esse accedere al capitale finanziario in modo più netto, ma soprattutto per poter lavorare su project financing, perché quello è uno degli obiettivi che il Governo si pone.
In secondo luogo, poiché il Governo nel DPEF parla di un sistema di produzione che qualifica la spesa sociale, i servizi alle persone e quant'altro, vorrei sottolineare in proposito che il pubblico non può chiamarsi fuori da questo mondo, ma che nell'ambito di una politica della sussidiarietà questa realtà dovrebbe essere prevalentemente lasciata alle istanze della società civile, di cui la cooperazione ed il terzo settore sono elementi centrali.
Considero altresì opportuno (e mi scuso, signor presidente, perché non voglio sembrare irriverente) che il Parlamento approvi prima della fine della legislatura la riforma del diritto societario; mi pare una questione importante ai fini del decollo ulteriore delle imprese. Inoltre, poiché si parla - e credo che sia ora di farlo - del decollo dei fondi pensione integrativi, ed in questo senso si pensa di utilizzare il TFR, il Governo ed il Parlamento sanno che ciò creerà problemi alle piccole e medie imprese e alle cooperative. Si tratta allora di valutare quale sostegno possa essere fornito per compensare questo sacrificio, che comunque va fatto. Riteniamo che si potrebbe lavorare attorno alla ridefinizione della struttura delle aliquote o della base imponibile dell'IRAP. Mi pare che ciò aiuterebbe anche l'alleggerimento del costo del lavoro.
Infine lancio un appello alle forze parlamentari affinché siano approvati tre provvedimenti che ci stanno a cuore e che sono stati già presentati in Parlamento da tempo, quello sul socio lavoratore, quello sulla ex legge Marcora inserito nel collegato per l'ampliamento dei mercati e quello sulla ridefinizione delle imprese agricole, anch'esso all'interno di quel provvedimento.

FRANCO PASQUALI, Segretario generale della Coldiretti. Questo documento di programmazione economico-finanziaria è certamente importante, come è stato ricordato, ed è di rilancio della manovra zero. Cosa significa per l'agricoltura? Noi siamo impegnati da tempo nel raggiungimento di certezze con una legge di orientamento, cioè non una legge di spesa ma una legge che dia certezze e regole e che oggi è collocata in uno dei collegati e da troppi mesi ferma alla Camera. Per noi questa finalità diventa decisiva nel portare avanti quel disegno di ammodernamento che il nostro settore oggi è in grado di sopportare e che gli compete, per arrivare in ambito europeo a quel ruolo che indubbiamente il nostro paese riveste come seconda realtà agricola d'Europa. Pertanto nel DPEF vediamo troppo blandamente richiamato un collegamento tra questo discorso e quello del documento di programmazione agroalimentare. Certamente il tema del collegamento tra il DPAF e il DPEF è importante ed è troppo debole nel documento in discussione. Dobbiamo quindi conferire una più completa organicità a questo tipo di intreccio.
Per quanto riguarda gli strumenti di ammodernamento del settore, abbiamo parlato in precedenza della legge di orientamento, oggi parliamo ulteriormente della fiscalità. Per quanto riguarda quindi la fiscalità, che è uno degli elementi decisivi di ammodernamento, noi per vari anni abbiamo sostenuto l'esigenza di per


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venire alla riscrittura del sistema fiscale in agricoltura; riteniamo sia ancora un elemento importante e decisivo per una moderna politica agricola. Certamente oggi, agli sgoccioli della legislatura, i tempi ormai sono passati e quindi, anche in questa logica, diciamo di fermare la situazione IRAP e IVA ed iniziare però contestualmente una riflessione per avviare la riforma fiscale in agricoltura, guardando anche per questo comparto ad esperienze quali gli studi di settore e quant'altro, non dimenticando il forte ruolo che in questo ambito rivestono le regioni nei prossimi anni, per cui dobbiamo iniziare a governare un «atterraggio».
Altro aspetto per noi rilevante diventa la politica del lavoro per un settore caratterizzato da un sommerso importante. Riteniamo che occorra impiegare al massimo gli strumenti per l'emersione, come il riallineamento, iniziare ad adottare politiche più certe per i lavoratori extracomunitari, guardare con più attenzione all'utilizzo sia degli anziani sia dei giovani portandoli ad emersione, anche con progetti complessivi di rapporti, per esempio, tra università ed imprese agricole, e chiamando i pensionati a momenti di corresponsabilità nelle campagne lavorative che sono chiamati a fare. Da un lato questo è un fenomeno che caratterizza parte del paese, mentre dall'altro esiste il problema degli extracomunitari. Gli strumenti per portare ad emersione il lavoro esistono e noi siamo impegnati a perseguire l'obiettivo, insieme ad una nuova elasticità, perché per l'agricoltura flessibilità del lavoro significa portare ad emersione questi aspetti.
Un altro punto per noi importante riguarda le infrastrutture. Nel DPEF viene citato il sistema delle grandi reti telematiche e non; sono due aspetti che ci interessano in modo particolare. La telematica può essere uno dei momenti di nuova competitività per un settore di alta qualità come l'agricoltura italiana; occorre collegarla meglio, anche per le sfide che può avere e che ha il nostro settore. Peraltro, noi apriamo anche alla necessità di far accedere l'agricoltura alla legge n. 488 del 1999 (ovviamente sto cercando di sintetizzare).
Cito infine due aspetti che caratterizzano l'agricoltura. Il primo è il rifinanziamento del decreto legislativo n. 173 del 1998, il cosiddetto decreto taglia-costi per la competitività delle imprese, che è un elemento importante per mantenere la competitività a livello europeo. Il secondo è un aspetto che negli ultimi tempi sta diventando non più contingente ma strutturale ed è rappresentato dalle grosse incidenti di carattere sanitario: mi riferisco ad alcune esperienze come l'influenza aviaria, che ha colpito il settore avicolo, la sciarca e la flavescenza dorata, che detti così sembrano aspetti modesti ma comportano danni per migliaia di miliardi e ormai diventano quasi strutturali nel sistema. Pertanto non occorre solo una ridefinizione delle leggi ma anche un'aggressione più organica di questi aspetti, che rischiano di mettere in ginocchio branche importantissime dell'economia del settore nel nostro paese.
Per concludere, ribadisco l'esigenza di un collegamento più organico tra il DPEF e il DPAF, che non abbiamo rinvenuto nel documento.

CARMINE MASONI, Componente della direzione generale della CIA. Consegno alle Commissioni riunite un documento contenente alcune nostre osservazioni. La valutazione sul documento di programmazione economico-finanziaria è articolata, nel senso che non possono che essere positivi i giudizi in merito alla previsione di assenza di manovre correttive nell'anno 2000 e in particolare al fatto che per il 2001 non siano previsti incrementi di carattere fiscale e/o contributivo; dall'altra parte, però, esiste una situazione generale di incertezza circa le entità e le destinazioni delle misure specifiche, che poi troveranno concreta attuazione nelle leggi di bilancio e nella finanziaria per l'anno prossimo. Quindi il confronto reale è probabilmente rinviato ad altra sede e la Confederazione italiana agricoltori ritiene che, al di là del rapporto con il Parlamento,


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un rapporto prioritario debba essere instaurato con il Governo e con il Tavolo agricolo, che consideriamo la sede opportuna in cui procedere a questo confronto sui contenuti.
Per quanto riguarda le priorità indicate dalla CIA, rimando al documento da noi predisposto, limitandomi ad esprimere poche considerazioni. Innanzitutto, l'agricoltura deve essere inserita a pieno titolo in tutte le politiche generali del paese. Sulla politica dei trasporti, è bene tener conto della necessità che le derrate agricole siano trasportate in tempi brevi, in maniera tale da arrivare utilmente sui mercati. Quanto alla politica per le esportazioni, si sottolinea la necessità di rivalutare anche le nostre produzioni agricole. Analogo discorso vale per la politica del lavoro, per le politiche contributive, per le politiche infrastrutturali. Occorre cioè tenere l'agricoltura al centro delle politiche di carattere generale, in maniera tale che essa possa svolgere la sua azione di carattere economico e di riequilibrio sociale e territoriale.
All'interno di queste politiche e nel collegamento tra DPEF e DPAF occorre avere come punto di riferimento l'impresa agricola. La politica di tutela del territorio, di tutela del consumatore, di miglioramento delle qualità può essere svolta se il sistema delle imprese agricole è pienamente responsabile e cosciente di questa grande opportunità. All'interno di questo esiste il protagonismo delle imprese agricole, che dunque come protagoniste principali possono supportare le nostre richieste.
Un'ultima considerazione riguarda il problema dell'inflazione, cui va posta molta attenzione. L'agricoltura paga l'inflazione due volte, una volta come produttore ed una come consumatore. L'aumento dell'inflazione, che progressivamente, alla fine del 1999 e nei primi mesi del 2000, si è verificato per quanto riguarda in particolare i costi energetici, che nel sistema agricolo si ripercuotono su tutti i prodotti che acquistiamo, deve essere considerato come priorità all'interno del documento di programmazione economico-finanziaria.

FILIPPO TRIFILETTI, Responsabile dell'area ambiente e struttura della Confagricoltura. Lei sa, presidente, che l'agricoltura è il settore primario; oggi è «ultimario»... ma questa è solo una battuta!

PRESIDENTE. È vero, però gli ultimi saranno i primi!

FILIPPO TRIFILETTI, Responsabile dell'area ambiente e struttura della Confagricoltura. Siamo comunque onorati di essere presenti oggi, insieme ad altre categorie imprenditoriali. Se avessimo tempo svolgeremmo una riflessione sulle prospettive del settore, ma il gesto più corretto e più pratico che mi sento di compiere in questi pochi minuti è quello di fornire alle Commissioni riunite copia della lettera che il presidente Bocchini ha inviato al Governo nell'imminenza dell'approvazione del DPEF e che contiene alcune richieste estremamente chiare e precise, riguardanti essenzialmente il fisco, l'energia e il settore previdenziale. Le espongo molto brevemente.
Per il fisco noi abbiamo due dossier aperti. Il primo riguarda l'IRAP, imposta per la quale è previsto un innalzamento progressivo per il settore agricolo; avevamo ottenuto un congelamento per un solo anno, il 2000, e riteniamo fondamentale che questo congelamento si perpetui nel corso del prossimo anno almeno, in vista di quella convocazione di un tavolo di concertazione su tutto il regime fiscale di cui parlava il segretario generale della Coldiretti. Analogo discorso vale per l'IVA: doveva già cessare nel 2000 il regime speciale IVA per il settore agricolo, sono in ballo maggiori versamenti a carico del settore per circa 800 miliardi, quasi tutti peraltro a carico delle produzioni agricole a più alto assorbimento di manodopera (quindi zootecnia, vitivinicoltura, florovivaismo) e noi vorremmo che si prestasse fede all'impegno assunto dal Governo, cioè


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che questo maggiore gettito venisse reindirizzato al settore agricolo. Vorremmo altresì che questa partita di giro - se così possiamo definirla - avvenisse in termini automatici.
Quindi il primo esempio che facciamo di un settore di intervento, in cui sarebbe possibile agire con relativa facilità e con effetti diretti e immediati sulle imprese, è quello del settore dell'energia. Praticamente gli stessi comparti che prima citavo sono quelli a maggior consumo di energia. L'impatto dell'aumento dei prodotti petroliferi è stato drammatico, in modo particolare per il florovivaismo; esiste la possibilità e l'opportunità di una riduzione delle accise assolutamente necessaria per questo settore, il quale ha un'incidenza della bolletta energetica che arriva anche al 20 o 30 per cento dei costi di produzione.
Per la parte previdenziale abbiamo espresso tre richieste. La prima riguarda un intervento di revisione del regime della fiscalizzazione, tale da premiare le imprese con più alta occupazione. Credo che abbiamo un dovere nei confronti del settore agricolo, che ha mantenuto a lungo un livello occupazionale probabilmente superiore alle sue possibilità e che vive un calo progressivo di questa occupazione, un calo tuttavia dovuto in grandissima parte al costo riflesso degli oneri previdenziali, che crescono nel settore più che altrove. È necessario invertire questa tendenza soprattutto a vantaggio delle imprese che, ripeto, hanno un maggiore assorbimento di manodopera.
La seconda richiesta è molto simile a quella espressa dalla Coldiretti; mi riferisco ad un'agevolazione dell'inserimento nel settore agricolo di manodopera extracomunitaria, anche attraverso un percorso formativo ad hoc, affinché ci sia una manodopera non solo a basso costo ma anche professionalizzata e stabilmente inserita.
L'ultima richiesta riguarda una questione che non è stata citata ma che brucia letteralmente nelle campagne e che credo interessi anche le altre organizzazioni. Si tratta della cartolarizzazione dei crediti INPS (ed INAIL in prospettiva), cartolarizzazione avvenuta senza una necessaria preventiva valutazione delle posizioni aziendali. Siamo di fronte ad un fenomeno per il quale si ripeterà in agricoltura la triste esperienza delle «cartelle pazze» e non si riesce a convincere l'INPS a fare marcia indietro. Questo è un provvedimento d'urgenza per il quale ci aspettiamo qualcosa dalla finanziaria.

PRESIDENTE. Scusandomi ancora con i nostri ospiti per la ristrettezza dei tempi, li ringrazio per gli aspetti essenziali che ci hanno illustrato e per la documentazione fornitaci; sono certo che ne terremo adeguato conto nel formulare la risoluzione. Ci rivedremo a settembre, in quanto il DPEF in due fasi richiederà o comunque renderà utile un ulteriore confronto.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15.35.