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Seduta del 2/2/2000


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Audizione del sottosegretario per l'interno, senatore Massimo Brutti, e del sottosegretario per la pubblica istruzione, senatore Carla Rocchi, sul tema delle baby gang.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'applicazione della convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York nel 1989, l'audizione del sottosegretario per l'interno, senatore Massimo Brutti, e del sottosegretario per la pubblica istruzione, senatore Carla Rocchi, sul tema delle baby gang.
Vorrei ringraziare i sottosegretari Rocchi e Brutti per la loro presenza. Com'è noto, la Commissione sta svolgendo un'indagine conoscitiva sull'applicazione della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York nel 1989. Abbiamo proceduto ad una serie di audizioni e ad alcuni sopralluoghi; abbiamo acquisito informazioni e notizie da cui è emerso un quadro sicuramente preoccupante. In particolare, ci siamo soffermati su questioni che riguardano il disagio giovanile, la devianza, la criminalità minorile. Siamo convinti che non basti un'opera di repressione e che sia necessaria, invece, una forte opera di prevenzione; questo riguarda le famiglie, le istituzioni, l'amministrazione statale a qualunque livello, la scuola.
Nelle ultime audizioni abbiamo riservato un'attenzione particolare al tema delle cosiddette baby gang, con un allarme forte che riguarda non solo i ceti sociali con condizioni economiche basse e di degrado sociale, ma anche i cosiddetti ragazzi bene. Nell'audizione di ieri di alcuni studiosi, è emersa l'esigenza di un migliore rapporto tra famiglie, territorio e istituzioni perché il problema venga affrontato con la necessaria efficacia.
Dal vostro punto di osservazione ci attendiamo la possibilità di acquisire ulteriori notizie, informazioni e proposte perché è nostro intendimento formulare degli indirizzi al Governo per gli interventi che saranno ritenuti più efficaci.

CARLA ROCCHI, Sottosegretario di Stato per la pubblica istruzione. Lascerò per completezza di documentazione una relazione sul già fatto dal Ministero della pubblica istruzione e sui collegamenti che abbiamo con altri dicasteri e in generale con le nostre rappresentanze sul territorio per affrontare il problema con quella complessità e quella diversificazione che esso pretende.
È evidente che tutto questo lavoro è fatto traguardando l'impegno della Presidenza del Consiglio dei ministri, che su questo tema si è spesa e si spende con grandissima volontà.
Al di là degli atti, abbiamo linee metodologiche di intervento, programmi operativi, oltre al sovvenzionamento di questi programmi attraverso il plurifondo europeo; abbiamo progetti specifici tra cui


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uno molto interessante ed efficace che si chiama SPORA (sperimentare-orientare-accogliere). Sono esperienze che noi disseminiamo anche in relazione al nuovo assetto della scuola con il regime dell'autonomia.
Abbiamo una partecipazione degli studenti anche tramite le consulte studentesche che ormai operano stabilmente sia al ministero sia in relazione con il provveditorato. Ci muoviamo all'interno dei progetti di educazione alla salute, perché una parte dei fatti di violenza è comunque legato a uno stato connesso comunque con l'assunzione di droghe, di eccitanti e quant'altro. Abbiamo una forte attivazione dell'attività sportiva, che consideriamo un deterrente accettabile per molti casi critici; abbiamo un collegamento con le realtà territoriali che con la scuola delle autonomie in particolare si pongono in relazione.
Al documento che lascerò agli atti della Commissione ritengo di dover aggiungere che esistono oggi dei sintomi, delle spie di situazioni di disagio che, avvertite in altri paesi e ormai entrate nelle statistiche di essi, costituiscono un indizio di una situazione di violenza in fieri, una violenza contro compagni di scuola e contro adulti. Insomma, la banda giovanile quando opera è annunciata da comportamenti particolari. Sono reduce da una visita effettuata ieri in una scuola dove è avvenuto un fatto di violenza contro un animale: vi chiederete cosa questo abbia a che fare con ciò che stavo dicendo, ma penso che abbia molto a che fare. Ci sono studi molto articolati condotti negli Stati Uniti in cui nei centri dove vengono accolte le donne e i bambini maltrattati la rilevazione statistica fa emergere che nel 96 per cento questi casi di violenza sono stati preannunciati da violenze su animali. Per il 4 per cento che è fuori dalle statistiche la spiegazione risiede nel fatto che quelle famiglie non avevano animali in casa. Quindi, è un indizio gravissimo e spesso di esso viene fatta una sottovalutazione anche da parte della scuola; lo dico con rammarico, perché è come se ci fosse una linea di separazione: cose consentite fino a un certo punto e non consentite oltre quel punto. Ho fatto presente questa circostanza nelle occasioni di confronto con altre autorità: quanto meno sarebbe estremamente necessaria una rilevazione del dato nel senso che, se tutte le volte che siamo di fronte a episodi di violenza, questi sono stati preannunciati o accompagnati da violenze di questo tipo, anche in Italia presumibilmente verrebbe fuori che accade ciò che già si conosce per altri paesi. Dico per inciso che in studi ulteriori sugli assassini seriali si è accertato che essi sono stati sempre annunciati da episodi di violenza di questo tipo. Lo dico perché la mia attenzione è evidentemente sull'insieme, però sottovalutare quest'aspetto significa prendere con leggerezza un indizio formidabile: tutte le volte che un episodio di questo tipo è sottovalutato da parte degli insegnanti e di chi ha che fare con i ragazzi è una leggerezza imperdonabile, perché quello è il segnale di un disagio, di una situazione non controllata e che invece richiede controllo, integrazione, intervento. Il nostro progetto ha le dimensioni e le articolazioni che ho detto: l'attenzione che segnalo è culturale, perché a questo riguardo il Ministero della pubblica istruzione ha bisogno dell'aiuto di chi rileva gli episodi e dell'attenzione degli adulti nei confronti dei ragazzi per capire che quando una cosa del genere avviene è qualcosa che prelude, precede e annuncia episodi di violenza di altro tipo.
Volentieri lascio agli atti della Commissione questo mio profondo convincimento, perché spesso la convinzione che ci formiamo in Parlamento può perfino precedere un convincimento generale, però è giusto che chi ritiene di doverlo segnalare lo faccia. In buona sostanza, non esistono violenze di serie A e violenze di serie B, esistono violenze e quindi immaginare che possano esistere violenze tollerate, ma non capite o non segnalate, significa un ritardo colpevole nell'intervento di aiuto e di sostegno nei confronti di ragazzi che, se si comportano così,


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evidentemente mandano in giro dei segnali molto evidenti di richiesta di aiuto.

PRESIDENTE. Senatrice Rocchi, molto volentieri riceviamo questa riflessione che lei ci ha consegnato, una riflessione peraltro totalmente inedita rispetto a quanto abbiamo ascoltato fino ad oggi. Riceviamo anche agli atti la relazione che lei ha predisposto.

CARLA ROCCHI, Sottosegretario di Stato per la pubblica istruzione. Vorrei chiedere scusa alla Commissione e al presidente per il fatto che tra breve dovrò assentarmi in quanto al Senato si discute in sede legislativa la legge sull'integrazione scolastica degli alunni portatori di handicap; poiché è raro avere la sede legislativa ed esaminare un provvedimento di questo rilievo, scusandomi con la Commissione, ad un certo punto dovrò assentarmi.

PRESIDENTE. Accettiamo senz'altro le sue scuse prendendo atto di questa esigenza prioritaria. Do ora la parola al sottosegretario Brutti.

MASSIMO BRUTTI, Sottosegretario di Stato per l'interno. Ringrazio il presidente e la Commissione per questa occasione di incontro e di riflessione. In quest'ultimo periodo si sono verificati vari episodi che hanno suscitato attenzione ed allarme. Prima di proporre considerazioni più generali e dati conoscitivi, vorrei rapidamente rievocare la qualità di questi episodi facendo riferimento a quello che è accaduto negli ultimi mesi a Milano. Si tratta di uno spaccato circoscritto, che contiene in sé alcuni elementi la cui conoscenza sfugge alle rilevazioni statistiche, sulle quali mi soffermerò tra momento.
29 settembre 1999: un giovane di 14 anni all'interno della scuola media viene aggredito da quattro coetanei che, al suo rifiuto di entrare nel gruppo, lo colpiscono, gli procurano una sospetta frattura ai polsi, ecchimosi alle braccia e alla schiena. I responsabili vengono identificati: tre di loro hanno 14 anni, il quarto ne ha 13.
16 ottobre, Abbiategrasso: un ragazzo di 15 anni viene rapinato, minacce, percosse, gli sottraggono la mountain bike e si accerta che gli autori sono due ragazzi, uno di 17 e l'altro di 16 anni.
Il 12 dicembre un gruppo di 20 minori accerchia, presso una stazione della metropolitana di Milano, 5 militari in servizio di leva, procura a tre di essi lesioni guaribili in 17 giorni, si impossessa di un orologio da polso e di un cappello. Anche in questo caso le indagini del commissariato consentono di localizzare la banda e di individuare i responsabili.
Il 19 dicembre un altro minore, un quindicenne, sotto la minaccia di un coltello viene rapinato del ciclomotore, dell'orologio Swatch, del telefono cellulare. L'autore del reato è un giovane di 16 anni spalleggiato da una decina di coetanei.
Il 3 gennaio un ragazzo di 16 anni viene rapinato di 220 mila lire e del telefono cellulare da un gruppo di giovani; questi vengono identificati, uno di essi ha 16 anni, due hanno 15 anni, un altro ne ha 17 e un altro ancora 13.
4 gennaio: due cittadini statunitensi denunciano di essere stati derubati da un gruppo di giovani teppisti e viene tratto in arresto un ragazzo di 14 anni.
Ancora il 4 gennaio: 2 ragazzi, uno di 14 e l'altro di 13 anni, vengono avvicinati da alcuni coetanei, questi li minacciano, si fanno consegnare una piccola somma di danaro, un cellulare, due cappellini. Gli autori di questo atto sono tre ragazzi, due di 16 anni, l'altro di 14.
9 gennaio: anche questo caso lesioni personali, detenzione illegale di arma da taglio, due ragazze una di 17 e l'altra di 16 anni, più una terza ragazza non italiana.
Il 30 gennaio un ragazzo di 16 anni denuncia una rapina: viene rapinato della somma di lire 50 mila e di alcuni capi di abbigliamento; gli autori sono quattro coetanei di 16 e 15 anni.
Mi sono limitato a richiamare la vicenda milanese, avendo essa suscitato la maggiore attenzione e quelli che ho ricordato sono alcuni dei fatti che inducono


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ad una particolare vigilanza per la qualità dei fenomeni perché, come dirò tra un momento, non vi sono novità rilevanti nell'analisi dei dati statistici che relativi alla devianza minorile. Tuttavia, la qualità dei fatti induce allarme e determina anche la necessità di strategie peculiari, che abbiano funzione preventiva e che vadano al di là del profilo meramente repressivo o giudiziario.
Vorrei anzitutto fornire alcuni elementi di conoscenza di carattere generale sul fenomeno della devianza minorile e, in particolare, delle bande giovanili. Riassumerò gli elementi principali che si possono ricavare dalle statistiche di cui dispone l'amministrazione dell'interno. Il dato di partenza è quello che viene ritenuto più indicativo per analisi di questo tipo: si tratta delle denunce presentate nel territorio nazionale a carico di minori, negli ultimi anni, in relazione ad un'altra «tabella» di reati (omicidi, lesioni dolose, violenze sessuali, furti, rapine, estorsioni, incendi dolosi, reati in materia di stupefacenti, eccetera) assunti come tipici e sui quali costruiamo il concetto di devianza minorile.
Il primo elemento generale che emerge è l'omogeneità dei dati statistici: non vi sono salti rilevanti nell'ultimo periodo. Nel decennio 1989-1999 la cifra complessiva della delittuosità minorile, calcolata come ho appena detto, risulta pressoché invariata in termini assoluti: il numero di minori denunciati oscilla regolarmente attorno alle 22-23 mila unità, salvo una punta nel biennio 1991-1992.
Poiché nello stesso arco di tempo il numero dei reati comuni e delle relative denunce è invece sensibilmente cresciuto, si può concludere che è in corso una tendenziale riduzione percentuale dei minori denunciati rispetto ai maggiori di 18 anni. Per quanto riguarda gli anni più recenti, se si raffronta il numero delle denunce a carico di minori nei primi nove mesi del 1999, ultimo arco temporale del quale si hanno dati certi, con quello dell'analogo periodo del 1998, si ha addirittura una flessione percentuale del 6,87 per cento. In definitiva, la percentuale di reati attribuiti a minori, rispetto al totale, tende ormai a collocarsi attorno a poco più del 3 per cento.
I dati statistici che inducono a pensare, da un lato, che non siamo in presenza di una nuova «emergenza criminalità» e, dall'altro, che la situazione italiana è notevolmente diversa da quella che si registra in altri paesi occidentali, come gli Stati Uniti, la Francia o l'Inghilterra, nei quali, nello stesso arco temporale, la criminalità minorile ha fatto registrare picchi evolutivi ben maggiori e decisamente preoccupanti.
Questa prima conclusione, tuttavia, a non deve condurre ad alcuna sottovalutazione del fenomeno, che viene percepito con crescente allarme dalla società civile e che presenta obiettivi caratteri di pericolosità e novità, richiedendo perciò specifiche politiche di prevenzione e contrasto.
Al di là dell'entità oggettiva dei delitti che stiamo considerando, l'anormalità del coinvolgimento di adolescenti o bambini in atti illeciti è la spia di processi di disgregazione sociale che genera una peculiare insicurezza e che riguarda la vita dei giovanissimi: insicurezza nella scuola e nei luoghi dove si svolge il tempo libero dei ragazzi e delle ragazze. Vorrei insistere sul dato qualitativo: se i dati statistici dimostrano che non ci sono novità, anzi, che la devianza minorile si attesta su livelli medi (siamo sul 3 per cento del totale), tuttavia i singoli episodi determinano una percezione di rischio, di pericolo in luoghi della vita nei quali non ci si attenderebbe di scontrarsi con atti criminali. In questo caso il dato qualitativo colpisce molto al di là del dato quantitativo.
Passando a un esame più dettagliato, emerge che la tendenza che ho appena indicato si presenta tutt'altro che uniforme: i dati disponibili indicano una riduzione netta della cifra complessiva della criminalità attribuibile ai minori in regioni con uno sviluppo economico consolidato. Per esempio, in Lombardia abbiamo visto quegli episodi che tanto hanno colpito l'opinione pubblica, però in tale regione nei primi nove mesi del 1999


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abbiamo una riduzione del 15 per cento dei delitti commessi da minori rispetto ai primi nove mesi dell'anno precedente. In Piemonte, in base alla stessa rilevazione, meno 10 per cento. In Friuli-Venezia Giulia meno 31 per cento, in Emilia Romagna meno 14 per cento, in Toscana meno 22 per cento. Vi sono poi alcune regioni meridionali, che pure sono colpite da presenze criminali, nelle quali ugualmente vediamo una riduzione dei reati commessi da minori. In Campania meno 12 per cento, in Calabria meno 18 per cento, mentre abbiamo un forte incremento della devianza minorile nel Lazio (più 21 per cento), in Puglia (più 11 per cento), in Sicilia (più 6 per cento). Poi abbiamo regioni nelle quali la questione della devianza minorile conserva la sua carica di pericolosità e in cui non si registrano segnali di miglioramento, come il Veneto e la Liguria.
In termini assoluti, le regioni che risultano maggiormente colpite dal fenomeno sono la Lombardia dove, nonostante la riduzione del 15 per cento che abbiamo visto, nel periodo gennaio-settembre 1999 sono stati denunciati oltre 2.600 giovani. In Piemonte ve ne sono oltre 1.700, nel Lazio oltre 1.600, in Sicilia oltre 1.500.
Non è facile ricondurre ad una spiegazione unitaria il quadro che ho sommariamente delineato, un quadro palesemente a macchia di leopardo. Per comprendere l'articolazione di queste situazioni occorre considerare l'incidenza di fattori locali, legati al tipo ed al livello di sviluppo economico di ciascuna area territoriale, al grado di tenuta degli istituti familiari e sociali nei quali si sviluppa la personalità dei giovani, la loro vita collettiva, nonché all'efficacia delle politiche di prevenzione e tutela della sicurezza urbana poste in essere dallo Stato e dagli enti locali.
Ad una prima approssimazione possiamo dire che al centro-nord la devianza giovanile si riscontra soprattutto nei grandi agglomerati urbani, dove l'alta densità della popolazione si accompagna a fattori di degrado sociale e culturale. Qui è anche più elevata l'incidenza dei reati consumati da minori extracomunitari o nomadi. Nelle regioni meridionali, invece, l'elemento prevalente è dato da una maggiore gravità dei reati commessi e da una maggiore pericolosità dei minori, prevalentemente italiani, che mostrano rispetto al resto del paese una tendenza più spiccata ad associarsi nell'orbita della criminalità organizzata.
Dal punto di vista del tipo di reati commessi, si riscontrano significative differenze fra le varie aree geografiche: nel nord d'Italia, compresa l'Emilia Romagna, le denunce per furto presentate nei confronti di minorenni ammontano a poco meno della metà del totale delle denunce presentate nelle relative regioni e alla metà del totale delle denunce per furto presentate in tutto il territorio nazionale. Ciò sia nel 1998 sia nei primi mesi del 1999. Anche i reati connessi allo spaccio di stupefacenti risultano avere, nel nord d'Italia, un'incidenza percentualmente assai superiore rispetto al centro (Toscana, Marche, Umbria, Lazio), al sud e alle isole. Al sud e nelle isole, invece, prevalgono le denunce per estorsione, contrabbando, associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso. Nelle regioni meridionali, infatti, sembra essere in atto un salto di qualità della devianza minorile; si hanno segnali del diffondersi di forme di sfruttamento e persino di inserimento organico di minori in organizzazioni criminali, anche di stampo mafioso.
In Campania nel 1997 vi sono state tre denunce di minori per il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, nessuna nel 1998 e una nei primi mesi del 1999; in Puglia, nessuna denunzia è stata inoltrata nel biennio 1997-1999, mentre ne viene segnalata una nel 1999. Per quanto riguarda la Calabria solo nel 1998 risulta denunciato un minore per il reato di cui all'articolo 416-bis del codice penale, mentre in Sicilia, a fronte delle quattro denunce prodotte nel 1998, i primi nove mesi del 1999 si sono chiusi con il bilancio di tre minori denunciati. Stando ai dati in possesso del Viminale, il fenomeno in esame fortunatamente sembra non interessare la Sardegna. È preoccupante


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anche l'aumento, rispetto allo scorso anno, del numero dei minori denunciati per contrabbando in Puglia (più 16 per cento), regione che com'è noto è in questo periodo la più esposta al contrabbando.
Si tratta di segnali di un coinvolgimento di giovani nelle cosche non infrequente, anche se non sistematico; esso riguarda i minori italiani che provengono spesso da famiglie collegate ad organizzazioni criminali e che vengono utilizzati principalmente come manovalanza. La loro posizione nella gerarchia del gruppo può tuttavia modificarsi in relazione alle capacità dimostrate e alle caratteristiche personali. In conclusione, comunque, anche sotto il profilo della tipologia dei reati attribuiti, il quadro si presenta variegato e con tratti peculiari in ciascuna regione.
Per quanto riguarda più in particolare il fenomeno delle «bande giovanili», malgrado l'eco prodotta da recenti fatti di cronaca, è da ritenere che, almeno allo stato, esso sia comunque circoscritto. Si tratta, infatti, per ora di episodi isolati posti in essere da gruppi che non operano con un'organizzazione strutturata, ma si limitano ad occasionali atti di vandalismo o a reati contro il patrimonio. Ciò non toglie che l'impressione suscitata nell'opinione pubblica sia forte.
Le preoccupazioni sono giustificate e nascono dalla percezione di un allentamento dei legami di coesione sociale che ingenera una sorta di amoralità in gruppi sia pure circoscritti di giovani che - a quanto risulta da alcuni recenti episodi - neanche si rendono pienamente conto dell'illiceità e della gravità dei propri comportamenti.
Tuttavia, come è stato riconosciuto anche dei magistrati inquirenti, siamo di fronte a vicende totalmente diverse dalle vere e proprie gang formatesi nelle grandi metropoli americane o del nord Europa, con il loro nome di battaglia, i loro codici, i loro segni distintivi tipici e una vera e propria organizzazione. Nel caso italiano si tratta ancora di gruppuscoli spontanei, nati occasionalmente fuori da una scuola o da un locale per una singola bravata. Ciò non esclude la gravità del fenomeno e la possibilità di una sua più pericolosa evoluzione. S'impone, quindi, una risposta esattamente calibrata da parte delle istituzioni.
Si può ulteriormente rilevare che l'estrazione di questi adolescenti non è omogenea dal punto di vista sociale; in vari casi essi sono risultati appartenere a famiglie benestanti e in tali casi il fenomeno non può essere spiegato in termini di situazioni di degrado familiare o di marginalizzazione sociale ed economica.
Una tipologia particolare è data dai gruppi di tifosi «ultras», dei quali parlano le cronache di questi giorni, o dai gruppi che si distinguono per scelte ideologiche, sia pure elementari.
Debbono ancora considerarsi eccezionali ed appartengono ad un altro genere di criminalità minorile i casi, pur verificatisi, in cui dei ragazzi si sono associati spontaneamente proprio allo scopo di costituire un gruppo malavitoso autonomo, che ha assunto la completa responsabilità, anche progettuale, di reati anche gravi.
Faccio riferimento alla cosiddetta «banda dei TIR» formata da giovanissimi e operante, fino ad un paio di anni fa, nella zona di Cerignola e Bitonto, rispettivamente in provincia di Foggia e di Bari, e ad altre bande, pure operanti nel meridione, dedite ai furti di auto da destinare al mercato dei pezzi di ricambio o al traffico con i paesi dell'est. In questi casi le indagini hanno portato ad escludere qualunque collegamento tra la banda di minorenni e altre organizzazioni criminali operanti sul territorio, né il coinvolgimento dei giovani era stato effetto di una qualsiasi cooptazione da parte di adulti. È un fenomeno singolare, certamente circoscritto, ma che va compreso, esaminato e che deve dare luogo a specifiche attività di prevenzione. In un contesto sociale nel quale comportamenti illeciti sono più diffusi si organizzano bande tutte costituite da minori che sono in grado di progettare e intraprendere attività criminali in proprio.


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Dunque, la risposta che i pubblici poteri debbono dare ad un fenomeno così articolato non può che commisurarsi ai tipici e particolari fattori di rischio presenti in ciascuna realtà territoriale.
Occorre certamente mettere a punto adeguati piani di vigilanza e di controllo, specie nei luoghi più «sensibili», come le scuole. Questo problema si sviluppa in Italia in modo diverso da ciò che avviene in altri paesi europei: non so che se nei giorni scorsi vi sia capitato di leggere i giornali francesi e in particolare Le monde, dove il fenomeno della violenza nelle scuole occupa la prima pagina di un quotidiano così importante per due o tre giorni di seguito, con dichiarazioni del ministro dell'interno, con l'indicazione di strategie operative che puntano sulla collaborazione tra forze di polizia e l'istituzione scolastica, anche per il rafforzamento delle sanzioni disciplinari e dei meccanismi di controllo all'interno della scuola. Oggi in Francia questo è un problema emergente e drammatico. Naturalmente in Italia non siamo nella stessa situazione e proprio per questo possiamo definire e sviluppare strategie preventive.
Occorre, come da più parti rilevato, un'azione in profondità, concertata tra tutti soggetti pubblici e privati che possono incidere sulle molteplici cause del fenomeno: certamente lo Stato, ma anche la scuola, le regioni, gli enti locali, il mondo del volontariato e determinati settori dell'associazionismo.
In definitiva, si tratta di delineare e sviluppare una serie di politiche volte a fronteggiare quello che verosimilmente costituisce l'aspetto degenerativo più drammatico di un malessere che colpisce larga parte dei giovani del nostro paese soprattutto nelle grandi aree urbane.
In questo quadro assumono, a mio avviso, particolare importanza gli sviluppi che dovrà avere la collaborazione già in atto tra l'amministrazione dell'interno e le autorità scolastiche, ad esempio allo scopo di mettere a punto piani di intervento e controllo nelle scuole situate in aree a rischio di devianza sociale e di criminalità minorile. Al riguardo vi è già un impegno del Ministero della pubblica istruzione e delle organizzazioni sindacali, sancito nel contratto collettivo di comparto per il triennio 1999-2001, che prevede specifici e mirati incentivi per gli operatori scolastici impegnati in queste aree. Partendo da questa mappa delle situazioni a rischio, penso che si possa puntare ad una collaborazione tra le forze di polizia e l'istituzione scolastica.
Per quanto riguarda, comunque, l'amministrazione dell'interno, già da vari anni il dipartimento della pubblica sicurezza cerca di operare coerentemente con questa impostazione, dotandosi anche di strutture organizzative apposite e mettendo a punto moduli operativi e di comportamento specifici.
Sono state a più riprese emanate direttive a prefetti e questori affinché, per la intensificazione sia dell'attività investigativa relativa ai reati dei quali vittime o autori fossero minori sia dell'attività di prevenzione, si è comunque ribadita l'indicazione di svolgere sia l'attività di prevenzione sia quella di recupero dei minori deviati in stretto raccordo con i tribunali per i minorenni, con i servizi sociali dei comuni, con i provveditorati agli studi, nonché, infine, con gli enti e le associazioni di volontariato. In particolare, già nel 1996 è stato realizzato uno specifico progetto nazionale al riguardo, denominato «Progetto Arcobaleno», nell'ambito del quale sono stati istituiti in ogni questura appositi «uffici minori», ai quali è stato addetto personale particolarmente preparato attraverso appositi seminari. A tali uffici furono demandati non solo funzioni di tipo investigativo, ma soprattutto di sostegno e aiuto dei minori vittime di reati e, più in generale, delle famiglie in difficoltà, di raccordo con gli enti ed istituzioni operanti nel settore e di monitoraggio delle fenomenologie delittuose di cui stiamo parlando.
Come ho accennato, il progetto prevedeva come momento centrale la specifica formazione, sensibilizzazione e qualificazione del personale addetto. Sono stati perciò organizzati numerosi seminari ed incontri di orientamento operativo ai


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quali sono stati invitati rappresentanti della magistratura, di enti pubblici e privati e anche di organismi internazionali operanti nel settore. A tali seminari hanno partecipato anche i medici della Polizia di Stato, che hanno concorso e tuttora concorrono all'attuazione dell'iniziativa.
Successivamente è intervenuta la legge 3 agosto 1998, n. 269, che ha dettato «Norme sullo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno dei minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù». Questa legge ha permesso di realizzare nuovi e particolari strumenti investigativi e ha determinato un'evoluzione delle strutture di polizia specializzate del settore.
Infatti, in attuazione dell'articolo 17 di tale legge, con decreto del ministro dell'interno del 30 ottobre 1998 sono state istituite presso le questure delle sezioni specializzate all'interno delle squadre mobili, con compiti esclusivamente investigativi in relazione ai reati previsti dalla stessa legge; inoltre sono stati istituiti, con lo stesso provvedimento, presso le divisioni anticrimine delle questure dei rinnovati uffici minori, che non svolgono attività d'indagine, ma compiti di raccolta dati, di osservatorio del fenomeno e delle sue dinamiche, di scambio di informazioni e raccordo con le altre istituzioni, soprattutto scolastiche e enti locali.
Anche il personale di tali strutture, specificamente preposto a compiti investigativi ovvero di studio e analisi sulla criminalità minorile, è stato appositamente preparato attraverso seminari di orientamento tecnico-operativo, che hanno particolarmente insistito sulla necessità di peculiari modalità di dialogo e supporto agli operatori di polizia e ai ragazzi autori o vittime di reati.
Per quanto riguarda in particolare i casi di violenze sessuali nei confronti di donne e minori, si è curato che presso le sezioni specializzate, alle quali, come ho detto, è attribuita la competenza sui reati concernenti abusi sessuali in genere, operassero quote di elementi femminili della Polizia di Stato, per unire ad una collaudata esperienza professionale di polizia anche peculiari qualità di intuito, sensibilità, dialogo e discrezione.
Attualmente viene rivolta una particolare attenzione alle problematiche della dispersione scolastica e dello sfruttamento del lavoro minorile. Si cerca di svolgere un'azione quanto più possibile mirata e in raccordo con le altre istituzioni, enti ed organismi interessati. Si tengono regolarmente in ciascuna provincia apposite riunioni tra le amministrazioni statali, gli enti locali e le strutture scolastiche interessate, per individuare le più incisive misure di carattere preventivo e per attuarle con la maggiore sinergia possibile tra i vari enti. Sono state raggiunte intese con i provveditorati agli studi per realizzare iniziative congiunte sul tema della prevenzione e della devianza minorile; inoltre, i funzionari delle questure partecipano alle riunioni di osservatori per la prevenzione delle devianze minorili, istituiti presso gli stessi provveditorati, appunto per individuare le forme di controllo ed intervento più adeguate. Sulla base di un esame così condotto, vengono definiti i piani di controllo di determinati quartieri o anche di determinati locali, quali sale da gioco o altri luoghi di ritrovo.
In molte province i funzionari di polizia responsabili delle strutture specializzate che ho citato hanno promosso o comunque partecipato ad incontri nelle scuole con gli studenti per realizzare forme concrete di di educazione alla legalità e per favorire il dialogo dei giovani con le istituzioni e in particolare con quelle preposte alla pubblica sicurezza.
Tutto ciò potrà avere un impatto inevitabilmente relativo se non è accompagnato dal coinvolgimento di specifiche professionalità nell'ambito delle sezioni specializzate che dedicano particolare attenzione anche ai profili di ordine psicologico degli interlocutori.
Si può concludere che questa metodologia di approccio al problema ha permesso di conseguire positivi risultati, specie nel campo della prevenzione, anche


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grazie alla specifica professionalità acquisita nel settore dagli operatori preposti alle unità specializzate, i quali rappresentano inoltre un qualificato punto di riferimento della magistratura. Infatti le stesse unità operano in stretta intesa con i magistrati delle procure presso i tribunali per i minorenni e svolgono un ruolo non secondario anche ai fini del recupero e del reinserimento nella società dei minori che siano stati condannati dal giudice penale.

PRESIDENTE. Ringrazio il sottosegretario Brutti. Credo che le considerazioni che ha svolto evidenzino la rilevanza del problema e giustifichino, quindi, l'allarme sociale che suscita. La sua relazione conferma, infatti, che il fenomeno delle cosiddette baby gang richiede l'impegno non solo della polizia e della giustizia minorile ma, soprattutto, di ogni parte delle istituzioni e della società.
Do la parola al senatore De Luca.

ATHOS DE LUCA. Chiedo che la relazione del sottosegretario Brutti e i dati che ci ha fornito siano acquisiti agli atti della Commissione, in quanto li riteniamo senz'altro utili alla conoscenza del tema delle baby gang.
Nel corso delle audizioni che la Commissione ha tenuto nei giorni scorsi, alcuni psichiatri e psicologi hanno sottolineato come, a differenza di quanto si riteneva nei primi anni cinquanta, o comunque nel passato, le devianze in questione non siano più legate al disagio sociale, cioè alla miseria, alla povertà e all'emarginazione; oggi, infatti, si sviluppano anche nei ceti sociali più emancipati dal punto di vista sia sociale sia culturale. Mi sembra che di ciò si faccia cenno nella relazione, però vorrei conoscere qualche dato in proposito e sapere se si condivida tale opinione. Mi pare anche che gli psichiatri e psicologi che la Commissione ha ascoltato suggerissero l'eliminazione del carcere minorile, in quanto strumento non adeguato che, in realtà, anziché rimuovere il problema, rischia di peggiorarlo. Anche su questo vorrei conoscere il suo punto di vista, sottosegretario Brutti.

FRANCESCA SCOPELLITI. Anzitutto chiedo scusa al presidente e al sottosegretario Brutti del mio ritardo, ma purtroppo gli orari dei nostri lavori sono tali che è difficile essere puntuali. Comunque, leggerò attentamente lo stenografico della seduta e la relazione che il sottosegretario Brutti ha lasciato agli atti della Commissione.
Una domanda che mi premeva in particolare l'ha già fatta il collega De Luca: mi riferisco al fatto che la chiusura delle carceri minorili potrebbe già rappresentare un primo passo verso la soluzione del problema; ciò per il principio che il carcere genera carcere, la violenza genera violenza. Facendo i conti in tasca allo Stato, il professor Crepet ha affrontato il problema anche da un punto di vista economico ed ha evidenziato che quanto si risparmia chiudendo le carceri minorili si potrebbe utilizzare per sviluppare città e paesi che rispondano maggiormente alle esigenze dei giovani.
Mi è sembrato di capire, se non ho interpretato male la parte conclusiva della sua relazione, sottosegretario Brutti, che è stata fatta o sta per essere fatta una mappatura delle zone a rischio e delle scuole a rischio. A me sembra che anche questo sia un po' in contraddizione con quanto ci è stato detto nelle precedenti audizioni non solo dagli psicologi e psichiatri, che probabilmente hanno una visione diversa del problema, ma anche dalla presidente del tribunale dei minori di Milano: tutti hanno confermato che il fenomeno è trasversale, come si dice in politica. Se si escludono i fenomeni delle baby gang e delle criminalità organizzate legate a mafia, n'drangheta e Sacra corona unita e si considera la trasversalità del fenomeno milanese, per esempio, esso appare legato ad una fascia sociale ben precisa; si tratta infatti di un fenomeno che nasce nelle scuole e che interessa sia il ragazzo di buona famiglia sia quello che ha difficoltà economiche oltre che familiari.

PRESIDENTE. Do la parola al sottosegretario Brutti.


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MASSIMO BRUTTI, Sottosegretario di Stato per l'interno. Alcuni degli episodi che abbiamo preso in esame certamente si riferiscono ad un contesto sociale degradato e a situazioni di particolare disagio. Rifacendomi ai fatti avvenuti in questo ultimo periodo nella provincia di Milano, che abbiamo assunto un po' come campione per individuare la qualità del fenomeno, ricordo l'episodio del 9 gennaio in cui sono state coinvolte due ragazze italiane e una ragazza di origine extracomunitaria: da quanto ho visto mi è sembrato che tale episodio affondasse le radici in una situazione di profondo degrado, visto che una di loro aveva subito violenze e un'altra era completamente analfabeta. Rammento anche che un collega dei Verdi che si era occupato della vicenda non riusciva a capire come una ragazza di 14 o 15 anni potesse trovarsi in una situazione di totale analfabetismo. Ma rispetto a casi come questo ve ne sono altri in cui sono protagonisti ragazzi di estrazione medio-borghese o appartenenti a ceti agiati. Quindi non si può dire che siano il disagio sociale e il degrado all'origine di atti criminali compiuti da giovanissimi in gruppo: si tratta di comportamenti che di volta in volta si realizzano in ambienti sociali diversi tra loro e che però si rassomigliano, nel senso che ci sono il branco e l'aggressione nei confronti di un coetaneo più debole oppure isolato. Vi è soprattutto una sorta di leggerezza nel commettere questi atti illeciti, forse con l'idea che in fondo non si tratti di atti tanto gravi. Di qui la necessità di agire a più livelli, anche a quello che, in senso più generale, si può chiamare educativo.
In questo quadro, la mappa delle scuole situate in aree a rischio è uno strumento che si riferisce, evidentemente, soltanto ad un aspetto particolare del problema. Ci sono effettivamente delle scuole che, per la loro collocazione nel territorio, sono più esposte a fatti di violenza; in esse è allora necessaria una particolare attenzione preventiva ed educativa. Questo, però, non copre tutta l'area del problema della devianza giovanile perché, come abbiamo visto, vi è poi tutta una dimensione che sfugge al degrado sociale legato alla povertà ma riguarda la devianza giovanile delle classi agiate, che richiede altre risposte.
Quanto all'abolizione del carcere minorile, prendo atto di questa notazione, ma credo che la riflessione debba ulteriormente svilupparsi prima che possano trarsene indicazioni sul piano politico ed istituzionale. È evidente che abbiamo bisogno di esercitare nei confronti dei giovani che abbiano commesso reati da un lato un controllo tale da evitarne la ripetizione, dall'altro un'attività educativa e di recupero. Misure restrittive che non tengano conto di questi due obiettivi o che li realizzino in modo approssimativo rischiano di essere controproducenti, ma tra questo e parlare di abolizione del carcere c'è uno spazio di riflessione che deve essere sviluppato: bisogna capire bene in che modo si effettui il controllo e quali siano le forme della rieducazione. Per adesso credo che l'impegno che il Governo può assumere sia quello di evitare che i giovani vengano messi in condizione di peggiorare anziché di migliorare e che il carcere assuma una connotazione negativa diventando criminogeno.
È un problema aperto: aspettiamo le indicazioni e le riflessioni che si svilupperanno in sede parlamentare per tenerne conto.

FRANCESCA SCOPELLITI In effetti, più che di chiusura si deve parlare di trasformazione del concetto di carcere in quello di pene alternative, per esempio in centri sociali che impegnino e coinvolgano i ragazzi.

MASSIMO BRUTTI, Sottosegretario Stato per l'interno. Credo che su questa via di riforma e trasformazione possiamo certamente cimentarci. C'è una riflessione in atto ed il Governo è disponibilissimo al confronto.

ATHOS DE LUCA. Ci è stato riferito di una sentenza emblematica nei confronti di un minore al quale è stata inflitta come


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pena l'obbligo di lavorare in un centro per handicappati; si riteneva che, essendo il ragazzo arrivato a disumanizzare gli altri ed a considerarli come oggetti, l'obiettivo della rieducazione fosse quello di fargli recuperare l'ABC della moralità costringendolo a dedicarsi ad una persona debole.

MASSIMO BRUTTI, Sottosegretario Stato per l'interno. Tutto quello che si risolve in prestazioni coatte apre il rischio dell'assenza di garanzie nella coazione e di mettere in moto meccanismi psicologici esattamente inversi rispetto a quelli desiderati. Prendere un giovane che ha manifestato atteggiamenti arroganti e di razzismo e, senza passare attraverso un reale percorso rieducativo, costringerlo a prestare servizio presso una comunità di handicappati potrebbe anche essere controproducente. All'epoca in cui c'era il problema dei naziskin, ricordo che si discusse l'ipotesi di costringerli a svolgere attività di servizio, ma la costrizione a compiere attività è una cosa che va regolamentata e definita con particolare cura ed attenzione, altrimenti, lo ripeto, rischia di diventare controproducente. Dobbiamo affrontare il problema tenendo conto che, se si costringe qualcuno a fare qualcosa, questa diventa un lavoro forzato, quindi si devono stabilire garanzie ed è necessario avere qualche ragionevole sicurezza che questo non determini un incattivimento del soggetto.

FRANCESCA SCOPELLITI. Peggio ancora è la coazione fine a se stessa dove non c'è impegno fisico né mentale.

MASSIMO BRUTTI, Sottosegretario Stato per l'interno. Bisogna riflettere su questo perché, a mio parere, in questo campo non ci sono scorciatoie. Comunque, se la Commissione vorrà fornire indicazioni articolate in base al lavoro che sta svolgendo, assumo a nome del Governo l'impegno a trarre da esse tutto quanto sarà possibile in termini operativi.

PRESIDENTE. Sicuramente si tratta di un problema complesso su cui tutti, Governo, Parlamento e altri soggetti istituzionali, dobbiamo riflettere. La soluzione non può essere affidata ad un solo intervento, ma è necessaria una serie di interventi organici tra loro con un unico filo conduttore; l'auspicio è che questi interventi non rappresentino una risposta emotiva ad un fenomeno che crea allarme ma siano una risposta strategica ad un problema che ha bisogno di risposte efficaci.
Ringrazio ancora il sottosegretario Brutti ed i colleghi intervenuti.

La seduta termina alle 15,30.

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