Back

Seduta dell'1/2/2000


Pag. 2


...
Audizione del professor Giuseppe Bertagna, docente di pedagogia generale presso l'Università di Bologna, del professor Paolo Crepet, docente di scienze della comunicazione presso l'Università di Siena, e del professor Gaetano De Leo, professore ordinario di psicologia giuridica presso l'Università «La Sapienza» di Roma, sul tema delle baby gang.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'applicazione della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New il 20 novembre York nel 1989, l'audizione del professor Giuseppe Bertagna, docente di pedagogia generale presso l'Università di Bologna, del professor Paolo Crepet, docente di scienze della comunicazione presso l'Università di Siena, e del professor Gaetano De Leo, professore ordinario di psicologia giuridica presso l'Università «La Sapienza» di Roma, sul tema delle baby gang. Vi ringrazio per essere presenti.
Abbiamo già ascoltato in audizione su questo tema la dottoressa Livia Pomodoro, presidente del tribunale per i minorenni di Milano, il dottor Giuseppe Magno, direttore dell'ufficio centrale per la giustizia minorile, e don Gino Rigoldi, cappellano dell'istituto penitenziario «Cesare Beccaria» di Milano; domani ascolteremo il senatore Massimo Brutti, sottosegretario di Stato per l'interno, e la senatrice Carla Rocchi, sottosegretario di Stato per la pubblica istruzione. Con la nostra indagine abbiamo cercato di toccare tutti gli aspetti del fenomeno: la famiglia, i servizi, i mezzi di informazione, l'educazione dei minori, la giustizia e la delinquenza minorile. È nostra intenzione, al termine del nostro lavoro, formulare una relazione, che sarà inviata al Governo, contenente i suggerimenti che riterremo opportuni anche sulla base dei contributi che abbiamo ricevuto nel corso delle audizioni e dei sopralluoghi che abbiamo effettuato.
Do la parola al professor De Leo.

GAETANO DE LEO, Professore ordinario di psicologia giuridica presso l'Università «La Sapienza» di Roma. Ho avuto occasione di vedere qualche documento relativo alle audizioni già svolte dalla Commissione. Studio da anni il fenomeno della delinquenza minorile in Italia, essendo anche impegnato come consulente dell'Ufficio per la giustizia minorile, e vorrei innanzitutto sottolineare che le


Pag. 3

principali emergenze della delinquenza minorile sono due: quella relativa ai preoccupanti dati statistici circa la sproporzionata presenza di minori nomadi e stranieri nell'ambito delle istituzioni della giustizia minorile e quella relativa al coinvolgimento di minori nelle diverse forme di criminalità organizzata.
La questione delle baby gang non è stata sollevata in questa fase storica dagli studiosi - e la cosa non deve sorprendere perché talvolta gli studiosi seguono itinerari non emergenziali - ciò però non vuol dire che il problema non ci sia. Gli elementi disponibili relativamente a questo fenomeno provengono soprattutto dall'abbondante letteratura straniera in merito, in particolare quella proveniente dagli Stati Uniti. Attualmente ci sono episodi di aggregazione minorile intorno ad attività illegali e c'è una diffusione di questa nozione da parte dei media che richiama una teoria, seguita dai sociologi soprattutto inglesi degli anni '70 e '80, circa un possibile effetto di amplificazione. Studiando le bande giovanili inglesi, i sociologi hanno notato che una rappresentazione enfatizzata di un problema da parte dei media può determinare una maggiore attenzione da parte della polizia, un maggior afflusso di dati statistici, un maggiore ingresso nelle carceri e quindi un incremento del problema stesso; d'altra parte, la forza di alcuni media può addirittura influenzare l'autopercezione dei gruppi, che possono definirsi con gli stessi concetti usati dalla stampa. Non è infrequente, per esempio, che gruppi di tifosi utilizzino per autodefinirsi termini comparsi prima sulla stampa.
Nell'ambito delle aggregazioni centrate su attività devianti bisogna distinguere tra diverse tipologie. Innanzitutto non abbiamo dati quantitativi circa questo fenomeno, ma soltanto una serie di episodi emersi sulla stampa e questo non dice nulla circa la sostanza del fenomeno ma solo sulla sua percezione sociale; tuttavia dal punto di vista della tipologia questo può cominciare ad orientare anche un'attenzione di tipo scientifico al problema. Io direi che c'è una rilevante componente di aggregazioni minorili incentrate su attività che hanno come oggetto, quindi come vittime, altri minorenni; questo è un primo aspetto che riconduce il fenomeno ad un problema già sotto osservazione da parte degli studiosi, cioè quello del «bullismo» nelle scuole. Credo che questi comportamenti siano un proseguimento di quelle prepotenze, prevaricazioni, attività al limite o oltre il confine della criminalità che si verificano in modo preoccupante all'interno della scuola e poi proseguono anche all'esterno.
Va sottolineato, tra l'altro, che in moltissime ricerche internazionali si evidenzia come le principali vittime della delinquenza minorile in tutto il mondo siano i minorenni stessi e questo è un indicatore di grandissima rilevanza: ci sono molti minorenni che sono contemporaneamente autori e vittime dei crimini. Credo che questo aspetto andrebbe sottoposto ad una verifica più attenta anche in Italia e magari tradotto in progetti di intervento.
La seconda tipologia, decisamente più tradizionale, è quella di giovani che si aggregano per attività che hanno come sfondo e obiettivo la violenza sessuale prevalentemente nei confronti di ragazze esse stesse minorenni, ma non solo.
La terza tipologia è quella di ragazzi che si aggregano per attività devianti per obiettivi di criminalità comune, come piccole rapine, che hanno per oggetto donne, anziani, persone che rientrano nella tipologia delle vittime generale. Non conosciamo la consistenza quantitativa di questo fenomeno in Italia e ci stiamo interrogando sulla genesi di questi problemi; dal punto di vista scientifico anch'io me ne sono occupato trasversalmente piuttosto che in modo focalizzato.
In generale in Italia abbiamo sempre fatto fatica a parlare di bande in senso stretto. Le aggregazioni minorili con gli obiettivi che ho appena segnalato in genere hanno un carattere transitorio o rappresentano una focalizzazione di attività all'interno di molte altre attività che un gruppo, esso stesso variabile, può compiere; non è detto che questa transitorietà


Pag. 4

sia quotidiana o settimanale, qualche volta ha una durata anche maggiore ed in questo caso preoccupa di più.
Voglio citare alcune ipotesi che possono rendere ragione di questo fenomeno in questa fase storica in Italia. Un'ipotesi che stiamo cercando di definire e precisare anche al centro interuniversitario di Roma è quella dello sviluppo nei giovani, nelle famiglie e nei gruppi di appartenenza di quello che viene chiamato il disimpegno morale, cioè tecniche e modalità attraverso le quali un soggetto, ma anche un gruppo o una famiglia, si disimpegna moralmente rispetto a norme che pure in astratto condivide. Se andiamo a parlare con i ragazzi custoditi in un carcere minorile, ma spesso anche con adolescenti che non sono in carcere, possiamo notare alcune modalità di disimpegno morale come, per esempio, l'etichettamento eufemistico, che consiste nel dare un significato positivo o migliorativo ad un'azione considerata reato dal codice penale. È abbastanza frequente che i ragazzi che hanno compiuto violenze sessuali, ma qualche volta anche i loro genitori o i giornalisti, dicano che si è trattato di una «ragazzata». Così pure una rissa violenta tra ragazzi o altri comportamenti trasgressivi possono essere etichettati in modo eufemistico non soltanto dopo, il che rappresenterebbe una giustificazione comprensibile e strumentale, ma anche come cultura di fondo.
Ci sono poi altre tecniche come quella del confronto vantaggioso, una tecnica diffusa anche a molti altri livelli; è la tecnica per la quale «rubano tutti, ho rubato anch'io, rubano i giudici, rubano i politici, rubo anch'io». I ragazzi usano molto questa modalità del confronto vantaggioso ed anche quest'aspetto contiene un elemento che evidentemente viene rafforzato dalla partecipazione all'interno di un gruppo.
Un'altra tecnica è quella del diniego del danno, della diminuzione del danno compiuto: molti ragazzi dicono «ho rubato in un grande magazzino, ma non ho fatto nessun danno, ha rubato a una persona ricca, ma non ho fatto nessun danno».
Ci sono due di queste tecniche (si tratta di un aspetto molto importante e presente nella letteratura in generale) che riguardano i gruppi: si tratta in primo luogo della deresponsabilizzazione possibile che avviene all'interno dei gruppi; una tecnica di disimpegno morale è proprio la diffusione della responsabilità: i ragazzi tendono a dire «io facevo parte del gruppo ma non ha fatto io quella cosa, non ho messo in atto io quel comportamento». Gli psicologi da tempo hanno studiato che i gruppi producono tendenzialmente forme di deindividuazione, cioè di allentamento dei confini individuali e quindi anche delle responsabilità individuali. Poiché il problema di cui ci stiamo occupando avviene in gruppo, questo è un fenomeno molto rilevante ed importante: il gruppo tende ad attenuare, a ridurre la responsabilità individuale.
Un'altra modalità molto conosciuta dagli psicologi è quella della dislocazione della responsabilità, che viene attribuita al capo, al leader. In psicologia sono ben noti esperimenti che dimostrano la tendenza all'ubbidienza dell'essere umano e come l'ubbidienza talvolta può far commettere azioni terribili senza un'adeguata percezione della responsabilità individuale coinvolta nel problema.
Vi sono poi altre due tecniche di disimpegno morale, anch'esse molto importanti, che riguardano la vittima: una è la deumanizzazione della vittima e questo avviene soprattutto nella violenza sessuale, ma anche nella violenza contro i diversi, gli appartenenti ad altre culture e perfino ad altri gruppi di tifosi, che vengono privati, per così dire, delle loro caratteristiche umane e che in questo modo possano essere colpiti dall'aggressività della violenza. L'altra modalità è quella di attribuzione della colpa alla vittima in quanto provocatrice (questo è molto evidente nella violenza sessuale) o in altri contesti. Questi studi, ripetuti non solo a livello individuale ma anche delle famiglie e dei gruppi, evidenziano che probabilmente


Pag. 5

vi è una diffusione nell'ambito dei giovani, ma non solo dei giovani, di queste tendenze giustificatorie, di questi meccanismi giustificatori che evidentemente creano un rapporto molto debole con le regole, con le norme sociali, e predispongono verso l'orientamento criminale. Alcune ricerche che abbiamo condotto a livello italiano dimostrano che dove è forte e persistente questo aspetto di disimpegno morale è più probabile, anche in termini statistici, che vi sia una persistenza della criminalità, della devianza. Sappiamo che quasi tutti gli adolescenti occasionalmente commettono qualche lieve infrazione, ma il problema della delinquenza minorile è la persistenza nella devianza e nella criminalità, cosa ovviamente legata al disimpegno morale.
Vorrei ora soffermarmi su un'altra fonte di ipotesi che è abbastanza recente e che può spiegare ciò che avviene in alcune aree del mondo minorile. L'ipotesi a cui mi riferisco è quella della deprivazione relativa, aspetto che si sottolinea anche a livello di senso comune: non sono più tanto importanti le deprivazioni assolute (un ambiente emarginato, la disoccupazione in famiglia, la carenza di denaro, la povertà); queste rimangono importanti in generale, ma soprattutto per queste forme ancora più importanti sono le deprivazioni relative che sono collegate dallo scarto crescente che sembra esserci tra la percezione delle aspettative, per come i giovani se le formano, e la percezione delle opportunità. Sembrerebbe allargarsi questo scarto tra come i ragazzi si costruiscono le aspettative in famiglia, nei gruppi, a scuola e come si costruiscono la percezione delle loro opportunità di socializzazione in rapporto diretto con le aspettative. I sociologi spiegano questo fenomeno in molti modi, anche con l'allungamento della fase precedente all'inserimento sociale e lavorativo dei giovani, ma ci sono anche altri aspetti di ordine culturale. Sembrerebbe che vi sia già uno scarto forte tra la costruzione delle aspettative dei ragazzi all'interno della famiglia e nella costruzione delle aspettative all'interno della scuola. All'interno della famiglia si stimolano, soprattutto nei ceti medi, alte aspettative quasi per soddisfare i bisogni della famiglia stessa; nella scuola la modalità di costruzione delle aspettative è più confusa, forse perché ciò che avviene all'interno della scuola è già più piatto e meno promettente in termini di aspettative.
Pertanto, i ragazzi reagiscono in vari modi: o si accorgono abbastanza rapidamente che le aspettative familiari sono del tutto astratte e quindi non ci credono più, oppure sono fortemente stimolati a mantenere molto alte le loro aspettative, il che ovviamente fa aumentare grandemente la probabilità di frustrazione di queste aspettative, di un malcontento, di un sentimento di ingiustizia, di una canalizzazione di questi sentimenti verso atti teppistici, razzisti e violenti in varie direzioni. Credo che questa ipotesi, che andrebbe testata e specificata, sia comunque interessante dal punto di vista delle dinamiche complesse che oggi ci sono tra famiglia, scuola, differenziando ovviamente tutto ciò che va differenziato, anche ciò che avviene nella scuola, malgrado tutti sappiamo che dalla scuola arrivano forti segnali di disagio.
L'ultima ipotesi alla quale voglio accennare e che negli ultimi anni è divenuta molto nota è quella della forbice che si creerebbe tra competenze intellettive di vario tipo dei ragazzi e competenze sociali ed emotive. Questa forbice è stata segnalata dagli Stati Uniti in modo drammatico, tant'è vero che ha modificato anche la concezione dell'intelligenza e sta modificando la modalità di perseguire la didattica. Volendo usare un termine giornalistico e forse un po' brutale, ci siamo accorti che abbiamo costruito dei mostri intelligenti capaci di usare tecnologie, che ricevono un'infinità di informazioni, molto di più che nel passato, ma sempre più fragili dal punto di vista emotivo e sociale, in termini di comunicazione sociale, di abilità di stare con gli altri, di accorgersi delle proprie emozioni, di avere empatia rispetto agli altri. Gli studiosi statunitensi in questo momento sono altamente allarmati riguardo a questo problema perché


Pag. 6

negli Stati Uniti gli episodi di questo genere sono estremamente più violenti e clamorosi e spesso rappresentano degli indicatori di questa forbice e dell'aggravamento del problema.
Infine, siccome ho detto che una parte di queste baby gang ha certamente a che fare con il problema del bullismo, cioè delle prepotenze e delle prevaricazioni che avvengono all'interno della scuola, vorrei richiamare un libro recente, a cui ho partecipato in piccolissima parte anch'io, quello contiene l'indagine che abbiamo fatto in Italia sulla base degli strumenti di ricerca di Dan Olweus, lo scandinavo che ha proposto ricerche in questo campo. Da tale indagine si è evidenziato che in Italia avremmo una livello di bullismo nelle scuole più alto di quello dei paesi che in Europa lo hanno più alto degli altri. Siamo attorno al 30-35 per cento nelle scuole elementari, va diminuendo alle medie e va stabilizzandosi alle medie superiori. È possibile che i termini da noi usati, cioè prepotenze e prevaricazioni, che sono un po' più fluidi del termine buonismo, abbiano indotto i ragazzi che ad allargare in una certa misura il dato che veniva loro richiesto. Comunque, è un dato molto preoccupante, anche per gli altri aspetti qualitativi di queste ricerche. Vorrei altresì ricordare che le ricerche sul bullismo sia in Europa sia in Italia hanno evidenziato che in tutta Europa e anche negli Stati Uniti nella scuola sta aumentando il fenomeno delle prepotenze tra ragazzi, fenomeno che in qualche modo somiglia a quello del nonnismo in un'altra fase giovanile; sono prepotenze anche gravi che talvolta determinano fenomeni che eccezionalmente possono arrivare al suicidio, all'abbandono della scuola, a forme di difficoltà scolastiche, psicologiche ed anche familiari. Lo studio è interessante perché mette insieme aspetti individuali (cioè il profilo, l'identikit del bullo) con aspetti di gruppo (attraverso quali dinamiche psicologiche questi gruppi si aggregano) ed anche il profilo della vittima, nel senso che una parte può essere giocata anche dal ragazzo vittima di bullismo e può esser una parte più o meno attiva. Quindi, vedendo nell'insieme il problema, abbiamo una specie di spaccato dei problemi esistenti nella scuola e nella classe. L'autore del volume sottolinea che ci sono classi nelle quali i bambini perdono il senso della sicurezza e delle regole democratiche: in quelle classi i bambini si trovano come ci troveremmo noi in uno Stato totalitario del quale non sappiamo quali siano le regole e da dove potrebbe arrivarci violenza e prevaricazione. Si tratta ovviamente di un aspetto di grandissima rilevanza, perché in una classe con un clima di questo tipo, che forse è non è molto frequente, ma che spesso c'è, si crea un clima educativo altamente a rischio, anche perché genera nei ragazzi probabilmente l'idea che la prepotenza, la forza e la prevaricazione siano una regola per farsi strada nella vita. Le famiglie sono ovviamente molto importanti in questo fenomeno: emerge da questi studi che tutto sommato le famiglie preferiscono avere figli prepotenti e prevaricatori piuttosto che figli vittime, sia pure con varie modalità espressive rispetto a tale questione, il che significa che c'è una cultura che si sta allargando in questa direzione. È molto interessante che Olweus ed altri studiosi del settore segnalino una cosa che sappiamo molto bene, cioè che è molto importante rafforzare la presenza regolativa degli adulti rispetto a questo fenomeno; mi riferisco alla capacità di risposta dell'adulto, alla sua capacità contenitiva. L'errore peggiore che gli insegnanti possono commettere in questo campo è quello di far finta di non vedere e lasciar passare questi fenomeni. Olweus segnala l'importanza di lavorare a vari livelli: di scuola in generale, di classe per ristabilire le regole e degli episodi specifici.

PRESIDENTE. Professore, sento il dovere di precisare che il mio generico richiamo alla sinteticità dei tempi di intervento e non aveva assolutamente l'intenzione di comprimere gli interventi stessi. Credo che il contributo che voi ci consegnate, contributo peraltro inedito rispetto alle audizioni precedenti, sia di tale


Pag. 7

rilevanza da imporci di darvi il modo di esprimere con chiarezza il vostro punto di vista.

PAOLO CREPET, Docente di scienze della comunicazione presso l'Università di Siena. Non posso che condividere la preoccupazione, che credo non riguardi solo chi viene ascoltato qui come esperto ma anche tutti voi. Questo ci richiama ad una responsabilità nuova e diversa: abbiamo passato interi decenni pensando che in questo paese il mondo dell'adolescenza vivesse in una grande serenità, accompagnato da un grande progredire sociale ed economico, stiamo invece facendo i conti con l'esatto contrario. I dati delle emergenze e della cronaca nera non sono altro che la punta di un iceberg: o andiamo a guardarlo, oppure avremo grandi preoccupazioni per il futuro. Ci sono infatti tutti gli indicatori circa il fatto che quello che abbiamo sotto gli occhi non può altro che peggiorare, a meno che non si intervenga. Gli interventi non possono esser semplicistici e non si può delegare un settore dello stato, per esempio la magistratura, ad occuparsi di queste cose; se pensiamo questo, abbiamo trovato l'ennesima scappatoia di fronte alle enormi responsabilità del mondo degli adulti.
Detto questo, vorrei spendere una parola a favore dei gruppi giovanili, perché se non ci fossero i gruppi non ci sarebbe gioventù. Da adolescenti non sappiamo chi siamo, non abbiamo avuto il tempo di capire chi siamo stati, temiamo molto - ognuno di noi lo ha temuto - di non poter essere quello speriamo; questa identità fisiologicamente fragile necessita di una composizione in un gruppo in cui ci riconosciamo e di cui ci sentiamo parte, e ciò non è necessariamente l'introduzione a chissà quale capitolo di criminalità giovanile. Ogni generazione ha avuto i suoi gruppi ed i suoi gruppi estremi, la sua quota-parte di dolore e di morte.
Voglio ricordare che circa 40 anni fa, in questo Parlamento, si parlò di una proposta di legge riguardante quelli che allora si chiamavano teddy boys (era primo ministro Scelba), con la quale si proibivano le giacche di pelle, i blue jeans ed il ballo del rock and roll. Grazie al cielo non fu approvata dai vostri predecessori, ma evidentemente nelle generazioni degli adulti di allora si respirata una certa preoccupazione per i nuovi movimenti giovanili che forse, a ragione o a torto, inquietavano le coscienze. Certo James Dean è stato molto amato da qualcuno ma probabilmente anche molto detestato dei genitori di allora.
Il nostro dovere è monitorare la situazione, vedere dove e come i fenomeni si aggravano, vedere dove e come intervenire. Che oggi sia sotto gli occhi di tutti un fenomeno nuovo rispetto al passato è abbastanza evidente, basterebbe confrontare i problemi dell'epoca dei primi romanzi di Pasolini con i gruppi di oggi: sono due mondi assolutamente lontani. Una volta il problema riguardava una gioventù che aveva un connotato sociale molto chiaro di degrado e di emarginazione, fenomeni tipicamente metropolitani di allora. In proposito l'eroina è stata una grande maestra - ci sono stati 35 mila morti in questo paese - ma non abbiamo voluto capire; se lo avessimo capito forse ora saremmo in una situazione diversa, ma abbiamo voluto rimuovere quei 35 mila morti, cercando - ognuno di noi - una spiegazione che ci potesse far addormentare più tranquillamente la sera. Oggi abbiamo un problema legato al disagio dell'agio, e questa è una bella fregatura, ma il disagio del disagio non è sparito, come segnala la vera e propria criminalità giovanile. Ho scritto un libro che si intitola Cuori violenti in cui descrivo un viaggio in questo mondo - in cui ho conosciuto di tutto - che è il prodotto di periferie inabitabili (non solo al sud: Milano docet e Como docet) e della coesistenza con un fenomeno di criminalità degli adulti.
Su questo bisogna riflettere. È vero che c'è un evidente interesse della criminalità degli adulti ad utilizzare adolescenti e bambini (perché un ragazzo di 15 anni anche se viene «beccato» mentre saccheggia un TIR, dopo una settimana è libero


Pag. 8

e immediatamente riutilizzabile e questo lo hanno capito la mafia, la camorra e la sacra corona unita), ma è vero anche che i minori sono sempre più disponibili a farsi utilizzare e non solo per una questione di denaro, che comunque non è poco. Non è male per un ragazzo di 15 anni guadagnare due o tre milioni a settimana spacciando droga, ma non c'è solo questo. Ho conosciuto ragazzi di 16-17 anni con sette guardie del corpo: voi capite che fa un certo effetto e che in quel quartiere le ragazze li guardano con ammirazione; questo significa moto di grande cilindrata, ristoranti in cui io sono andato perché pagavano loro, altrimenti avrei avuto difficoltà a frequentarli tutti giorni come fanno quei piccoli boss. Non va sottovalutato questo aspetto di identità forte. Molti genitori di questi ragazzi sono orgogliosi di avere un piccolo «capitano coraggioso» del quartiere, che non si piega mai, che può lasciare la macchina aperta in quartieri come San Paolo a Bari.
C'è poi anche una questione di forte appartenenza, perché la criminalità ha capito una cosa che noi stentiamo a capire: il bisogno di autorevolezza. L'appartenenza criminale consente l'adesione a regole determinate e chiare. Mi diceva un ragazzino, che poi all'età di 18 anni ha compiuto tre omicidi, che quando fu preso per il primo furto e condotto nella caserma dei carabinieri il padre, fruttivendolo, gli disse che la prossima volta che lo avessero preso gli avrebbe spaccato la testa; poi, invece, le altre volte che è stato preso, il padre non si è fatto più vedere. La settimana scorsa, a Milano, la Questura ha mandato a chiamare i padri dei sei ragazzini che avevano commesso un furto o non so quale atto violento: di quei sei padri, non fruttivendoli ma professionisti, se ne è presentato solo uno, gli altri cinque avevano da fare.
Come vedete, l'irresponsabilità genitoriale è trasversale e non ha alcun riferimento con la classe sociale: sei irresponsabile da fruttivendolo e da chirurgo, tutti miserevolmente uguali nel non occuparsi minimamente dei propri figli. Questo è un punto fondamentale, comune alla vecchia declinazione del disagio giovanile, inteso come disagio economico e sociale, ed a quello nuovo, il disagio dell'agio.
Il passaggio da quello a questo comporta un problema per voi che dovete e proporre delle politiche per intervenire su questo problema. A lungo ho coltivato il sogno di poter vivere in un paese dove le diseguaglianze sociali si sarebbero appiattite e, grazie a questa migliore distribuzione delle risorse, tanti problemi correlati sarebbero stati risolti, ma così non è stato e quel disagio è rimasto. In passato ho obiettato al ministro Turco che non sono solo i poveri avere problemi con i ragazzi, ma anche le famiglie che hanno redditi sbalorditivi; io faccio lo psichiatra, mi occupo di adolescenti, e mi preoccupo molto di questi ultimi genitori ai quali è inutile proporre lo sconto sul 740. Alla fine, stringi stringi, noi diamo soldi: all'avvocato che guadagna 400 milioni l'anno, può interessare lo sconto sul 740? Posso aiutare quella famiglia disgraziatissima dal punto di vista dei rapporti con i figli solo con uno sconto economico? Questo indurrà quel padre ad andare in questura ad occuparsi di suo figlio?
Mentre una volta potevo cullarmi nell'illusione che tra vent'anni ci sarà una società migliore in cui la manovalanza della criminalità troverà meno giustificazione, oggi mi chiedo in che modo posso aiutare queste famiglie. Io giro molto l'Italia, ho fatto circa centocinquanta conferenze l'anno e l'altro giorno ero a Reggio Emilia, città e che adoro dal punto di vista pedagogico, dove però ci sono asili nido, e scuole materne e poi ci si ferma lì. Cito questa città per una questione puramente pedagogica: «Reggio children» è l'orgoglio di una città, ma «Reggio adolescent» dov'è?
In una realtà che si complica via via non ci vuole molto per capire cosa succederà. Quando vado nei paesi dell'hinterland del parmense i sindaci mi dicono: qui cresciamo solo perché aumentano i cinesi. Ha partecipato all'inaugurazione di due asili nido aperti solo perché c'erano i cinesi: se i cinesi non ci fossero stati, non ci sarebbero stati neppure asili nido perché non ci sono


Pag. 9

bambini italiani. Data questa situazione, cosa succederà tra 15 anni? Basta andare in una banlieue parigina per accorgersene, per capire che problemi non sono rappresentati dalla prima ondata migratoria, ma dalla seconda; questo lo hanno capito tutti: lo capiamo noi? No. Ce ne occupiamo noi? No. È chiaro che questa diventerà la contraddizione evidente in tutte le nostre città; la gestiamo? No.
Vengo ora ad un altro problema: la famiglia. La famiglia è cambiata, ve lo avranno detto tutti, però io sono stufo di dire che la famiglia è cambiata e basta: dobbiamo fare uno sforzo in più perché, se la famiglia è cambiata, non possiamo tornare indietro perché nessuno di noi ha una buona reminiscenza del tempo andato, delle famiglie patriarcali violentissime di cinquant'anni fa. Dobbiamo riconoscere che adesso la famiglia è una struttura anoressica, che funziona un quarto d'ora al mattino davanti alla macchina del caffè e un quarto d'ora la sera. Questa è una struttura che va bene se tutto va bene, ma alla minima incrinatura si spacca tutto.
A Genova abbiamo lavorato nelle scuole medie su adolescenti di vari quartieri; abbiamo fatto una cosa abbastanza divertente, cioè misurare minuto per minuto la giornata media di una ragazzina o di un ragazzino di 16 o 17 anni. È venuto fuori un quadro che non avrei mai pensato sarebbe stato così allarmante: innanzitutto si cena in 13 minuti, la durata media di una cena nel nostro bel paese è di 13 minuti; può darsi che a Roma o Milano le cose stiano diversamente, ma a Genova vi assicuro che è così. Nei 13 minuti è compreso ovviamente anche il telegiornale. Dopo di che, avviene una specie di migrazione, ognuno nei propri loculi e quello dei nostri ragazzi è il più tecnologizzato, dove finalmente si avvera un assoluto autismo tecnologico: il 65 per cento dei ragazzi e delle ragazze hanno in camera la playstation, la televisione, Internet: e tutto questo non ce l'hanno messo i marziani, ce lo abbiamo messo noi, di modo che finalmente non parleranno più; parleranno con la Nuova Zelanda, ma non con il padre che sta guardando la partita in salotto.
Successivamente abbiamo fatto dipingere questi minuti della giornata chiedendo ai ragazzi di usare il colore grigio quando si annoiano e i colori vivaci quando si divertono. Com'è la scuola? È una laguna grigia, tranne degli spazi di cinque minuti coloratissimi che sono gli intervalli. Lo dico ogni volta agli insegnanti, loro si arrabbiano, ma non sono stato certo io a produrre questa situazione, siamo stati noi. Attenzione, è qui che si annida il morbo, nella noia.
Umbria, straordinaria regione dove sembra che sia stato realizzato il paradiso terrestre. C'è il verde, i paesi sono a misura d'uomo, si va in bicicletta: chi sta meglio di loro? Il 75 per cento dei ragazzi che frequentano il liceo scientifico di Foligno, molti dei quali vengono da paesi vicini, come Bevagna, che è una vera chicca, hanno detto di annoiarsi tutto il giorno. Questo è un dato sul quale bisogna ragionare, perché la noia è la madre delle peggiori tempeste; non è la solitudine, è la noia che è legata a quello che poc'anzi diceva il professor De Leo, cioè allo scarto fra le aspettative e ciò che si fa, ciò che si vorrebbe fare e ciò che si può fare. Su questo abbiamo messo il peso della pubblicità, della televisione, dei giornali. Prendete un qualsiasi giornale di quelli che leggono i ragazzi: come minimo si deve stare con Naomi Campbell in un appartamento al centro di New York, altrimenti si è nulla. Andate a vedere American beauty: volete capire qualcosa della famiglia? American beauty trasportato ad Abbiategrasso è uguale, uguale identico: stessa noia, stessa incomunicabilità, stessa totale mancanza di relazioni emozionali ed affettive, con una scuola totalmente incapace di capire questo problema.
Venendo al dunque, occorre rinegoziare il rapporto scuola, famiglia, territorio, perché il mondo è cambiato e non possiamo mantenere le cose come erano ai tempi di mio padre. Questo vuol dire innanzitutto un imperativo: scuola a tempo pieno; non può essere - scusate la


Pag. 10

battuta - Maria De Filippi a fare la baby sitter dei nostri adolescenti dalle tre alle cinque del pomeriggio. Questo è un insulto alla nostra intelligenza, con tutto il rispetto naturalmente per la moglie di Costanzo. Scusate, ma questo vedono i ragazzi: in una casa dove non c'è nessuno alle 3 del pomeriggio cosa volete che faccia una ragazzo di 15 o 16 anni? Se gli va bene vede Maria De Filippi! Non si può pensare che fuori c'è il nulla, o la sala di videogiochi o il baretto; la parrocchia è diventata una società sportiva. Questa è una cosa che chiama in causa immediatamente le amministrazioni pubbliche. C'è un problema di cittadinanza di diritti dell'adolescenza. Io sarei favorevole a farli votare a 16 anni: se si votasse a 16 anni, vedreste come i sindaci comincerebbero ad occuparsi anche di loro! Vedreste come i piani regolatori delle città prevederebbero anche i loro diritti! Ho fatto un'esperienza molto bella ed interessante al comune di Lucca dove, con il professor Insolera e un gruppo di straordinari urbanisti, abbiamo tentato di vedere come fosse possibile cambiare una città per farla rispondere almeno ad alcune delle esigenze di base di un adolescente. Pensate che sia un gioco semplice? Andate a parlare con i commercianti! Vi faccio un esempio banalissimo: Forlì, 9 mila metri quadrati al centro della città, un ex hangar bellissimo di Piacentini del 1920, costruzione straordinaria di architettura industriale. Fino a pochi anni fa è stato il ricovero degli autobus della città. La giunta comunale deve decidere se usare quello spazio per realizzarvi un ipermercato (il settimo!) o un luogo per i ragazzi. Tutto questo c'entra con il discorso che stiamo facendo? Certo che c'entra, eccome, perché se c'è un luogo vicario dove finalmente si possono creare affettività e possibilità per un ragazzo di esprimersi, un luogo dove i ragazzi possano andare, ecco che allora anche le nostre preoccupazioni di genitori (cosa sta facendo alle cinque del pomeriggio? Come mai non risponde neppure al telefonino?) sarebbero diminuite perché sapremmo che il nostro ragazzo sta in un posto buono, positivo per lui, dove anche la scuola si possa inserire.
Quindi, rivedere i tempi della scuola, il che vuol dire rivedere i tempi non dell'istruzione, ma dell'educazione, che è cosa totalmente diversa. Per esempio, c'è bisogno di educazione sessuale? Assolutamente no, i ragazzi sanno tutto di educazione sessuale; c'è bisogno di educazione sentimentale, che è un'altra cosa. Un ragazzino che ha stuprato la sua compagna di banco sa tutto dal punto di vista biologico, anche troppo, ma non sa nulla, è un analfabeta dei sentimenti e delle relazioni ed è quello il campo che si deve ricomporre. Lo fece straordinariamente il tribunale dei minori di Perugia quando condannò due ragazzi, che avevano usato violenza, a trascorrere il dopo scuola in un luogo dove c'erano dei bambini handicappati: in questo modo si ricostruisce l'ABC del proprio mondo emozionale ed affettivo. È semplice, direte voi, però bisogna farlo. Se quei due ragazzi fossero stati rinchiusi in un carcere minorile, sarebbero usciti in condizioni tali che, invece di saper fare solo uno stupro, avrebbero saputo anche come si rapina un TIR, perché per due anni sono stati a scuola da straordinari maestri di questo; d'altronde, di cosa si potrà parlare dentro un carcere minorile? Tra l'altro, come ho avuto modo di proporre anche quando c'era Palomba al ministero che si occupava di affari minorili, continuo a proporre che vengano chiusi i carceri minorili: chiudeteli, fate un'opera buona, economicamente vantaggiosa. Spendiamo miliardi per nulla; sostituiteli con agenzie regionali: non sto parlando di nulla, non sto proponendo di rimandare i ragazzi a casa, il contrario, sto dicendo di luoghi dove anche i giudici non li manderebbero perché, piuttosto che mandarli in carcere, preferiscono pensarci, mentre non avrebbero dubbi se vi fosse un luogo davvero pedagogico, rieducativo. Luoghi regionalizzati, dove ogni regione si gestisce i pochissimi casi, che non solo così numerosi come potrebbe apparire, perché molti sono reati reiterati dalla stessa


Pag. 11

persona; in tali luoghi finalmente si potrebbe legare la rieducazione al territorio, si potrebbe davvero pensare alla fase successiva alla detenzione, a dove metterli, perché un altro problema è quello che faranno una volta usciti dal carcere minorile. Se calcolate quanto costano le misure restrittive tradizionali allo Stato, vedrete che esse costano moltissimo e che non producono nulla. Questo lo dicono tutti, lo avrà detto anche don Rigoldi, anche se, stando lì da trent'anni, avrà la malinconia il giorno in cui chiuderanno l'istituto Cesare Beccaria.
Rinegoziare a questo proposito vuol dire rinegoziare un luogo dell'educazione: quando parlo di tempo pieno nella scuola penso, per esempio, alla necessità di eliminare il sabato come giorno di scuola; d'altronde, siamo in Europa, e nei due terzi dell'Europa il sabato non si va scuola; ancora non ho capito - chiedetelo al ministro - perché in Italia si va ancora a scuola il sabato. Dico questo perché l'eliminazione del sabato come giorno di scuola dipende da una ragione banale: se durante la settimana siamo fuori dalle otto del mattino alle sette di sera, stare insieme ai ragazzi almeno nel weekend serve per prevenire tutto ciò di cui stiamo parlando, serve per individuare tutte le forme più latenti, di silenzio. Vedete, quando un ragazzo fa qualcosa nella metropolitana, almeno si vede; ho ancora più paura di un disagio molto più silenzioso, più camuffato, invisibile com'è nel nostro tessuto sociale e che ha molto dolore dentro, che a volte comporta poi delle scelte estreme. Chi l'ascolta? Dov'è lo spazio perché questo possa esprimersi? Dove può esprimersi la ragazzina che non ha le mestruazioni da un anno e pesa 20 chili? Non è forse disagio questo? Dove la mandiamo? Nella clinica sul lago di Garda con una flebo o costruiamo un progetto di vita diverso? Se pensiamo che dobbiamo programmare qualcosa del genere, dobbiamo trovare i soldi.
Non stiamo parlando per adesso; vorrei pensare ad un progetto da realizzare nei prossimi lustri perché so che non sono scelte facili; si dovrebbe ricominciare dalla formazione degli educatori, si dovrebbe pensare, come dicevo prima, ad una città diversa, e non sono cose che si cambiano facilmente, però qualcosa sta avvenendo, tenete le antenne alzate perché nella gente c'è questa grande inquietudine e, soprattutto tra i genitori e gli educatori, si sa che qualcosa stavolta sta scricchiolando davvero. C'è una buona parte di loro che vuole fare qualcosa, ma non sa cosa fare. Credo che questo sia il momento per agire e bisogna farlo con grande creatività: non basta la lezione ben assestata che va a finire sul giornale, non basta il caso clamoroso risolto, dobbiamo occuparci davvero dei nostri ragazzi. Questo, fra l'altro, vuol dire creare una società felice: credo che in una città dove vivono bene i ragazzi, vivrei bene anch'io e personalmente vorrei evitare una società geriatrica, perché odorerebbe di camposanto. Vorrei sperare in qualcosa di meglio per mia figlia ed è da qui che bisogna partire; gli strumenti ci sono e ci sono anche i soldi, perché parliamo di città dove c'è un benessere straordinario.
A Como, dove ieri pomeriggio è stato massacrato un ragazzo, c'è un grande benessere economico, ma benessere economico non è più sinonimo di benessere sociale e questo è inquietante. Andiamo verso una società sempre più ricca e più avida di sentimenti? Verso una società tecnologicamente avanzata e autistica?
Noi siamo qui per aiutarvi, ma la responsabilità è più vostra che nostra. Io posso urlare e sfogarmi; lo faccio da tanto tempo e posso farlo ancora domani, se mi richiamerete ancora, ma bisogna confrontarsi sui problemi.
Il progetto del ministro Turco è stato utile perché è stato interpretato in maniera abbastanza positiva. Ho visto molti genitori che attraverso i finanziamenti da esso previsti sono riusciti a trovare occasioni di confronto la sera insieme agli insegnanti. È questa la via: uscire di casa e occuparsi del problema collettivamente, la soluzione non può trovarla ogni famiglia per sé. È questo vuole la gente, che non vede l'ora di spegnere il televisore; le sale dove si svolgono questi incontri sono


Pag. 12

sempre piene, al nord come al sud, nelle grandi come nelle piccole città, e questo vuol dire che la gente vuol capire, vuole trovare strumenti di indagine di riflessione, vuole vedere che cosa si può fare oltre che parlarne.

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Crepet e do la parola al professor Bertagna.

GIUSEPPE BERTAGNA, Docente di pedagogia generale presso l'Università di Bologna. Io coltivo una disciplina che dovrebbe essere progettuale, mi devo quindi compromettere anche con valutazioni e giudizi su cose concrete che si sono fatte e che si dovrebbero fare; consentitemi però di partire da una premessa, perché se c'è un aspetto che mi ha colpito, anche nella pubblicistica che ha dato conto del fenomeno oggetto della nostra audizione, è che si parla di ragazzi che provengono da famiglie normali. Questo però mi pare un modo di dire sociologico e psicologico - nel senso affiorato dalle diagnosi molto pertinenti e profonde fatte prima - che descrive una situazione di incomunicabilità che c'è, piuttosto che valutarla normativamente.
Secondo i dati Eurispes - che paradossalmente ho visto confermati anche dai vostri documenti - sono normali il 7 per cento di famiglie composte soltanto da un genitore; il 32 per cento di famiglie di fatto, che pur essendo programmaticamente mobili mettono al mondo il 23,3 per cento dei nati; il 18 per cento di famiglie che non ha figli; il 50 per cento di famiglie che ha figli ma solo la metà con un numero superiore a uno. È normale che abbiamo 94.320 ragazzi coinvolti in separazioni e divorzi dei genitori, il 35 per cento delle famiglie costituite da meno di dieci anni, che si rompono e ricompongono in altre situazioni. Normali sono anche le famiglie nelle quali il dialogo tra genitori e figli è sbrigativamente basato sulla soddisfazione dei bisogni e dei desideri piuttosto che sulla lenta e faticosa negoziazione ed elaborazione di quest'ultimi, che costringe a motivare i no ed sì e ad essere coerenti con le prescrizioni di cui consigli che si danno, mentre questa coerenza oggi normalmente non esiste. Normali, infine, sono anche le famiglie in cui i genitori lavorano ambedue, stanno fuori casa tutto il giorno e confessano di cominciare ad avere problemi nel tenere i figli, non tanto e non solo come custodia, ma soprattutto come stile relazionale ed educativo, fin da quando hanno 3 anni. Sentire genitori che non sanno che pesci pigliare con un figlio di tre anni non può che destare preoccupazioni.
Perciò questi genitori «normali» cercano, man mano che il figlio cresce, il cosiddetto aiuto degli esperti (psicologi, psichiatri, curatori di rubriche di consulenza giornalistica o televisiva) oppure di servizi istituzionali, che dovrebbero essere più seri a che non sempre si dimostrano tali per il fatto singolo (dai consultori alla scuola). Davvero credo anch'io che la normalità sia diventando da noi American beauty che il professor Crepet vi invitava ad andare a vedere, invito cui mi associo. Oggi in treno ho letto qualcosa che mi ha scandalizzato; ho letto che anche l'Italia si sta mettendo al passo dei paesi più industrializzati in fatto di suicidi dei preadolescenti e degli adolescenti: in America raggiungono quasi il 9,5 per mille, mentre noi adesso siamo al 4,7 per mille. Ci globalizziamo anche noi e arriviamo a percentuali più vicine a quelle dei paesi più industrializzati.
Se questo è il quadro generale, le storie singole dei ragazzi coinvolti nei fenomeni di disagio introducono décalage molto significativi in questa situazione di pretesa normalità delle famiglie da cui statisticamente provengono. Anch'io lascerei stare i minori che giungono a comportamenti devianti o per evidenti problemi patologici in o perché nati e cresciuti in famiglie disastrate, quando non addirittura senza famiglia, o perché vivono in famiglie socialmente liminari se non esplicitamente paradelinquenziali (alcuni settori dell'immigrazione clandestina o della criminalità organizzata); li lascerei stare non perché non costituiscano un fenomeno importante e una grande emergenza educativa,


Pag. 13

ma perché tutti davanti a questi fenomeni siamo pronti a dire che si tratta di ragazzi che non provengono da famiglie normali. In fondo, sul piano psicologico e sociologico, con un ambiente di provenienza di questo tipo ci aspettiamo come normale che i ragazzi possano delinquere, anzi poiché invece spesso i figli di delinquenti non delinquono, ce ne sorprendiamo perché disobbediscono ad una regola statistica, anche se ciò testimonia la forza che possono avere l'esperienza educativa e l'incontro relazionale con persone per loro decisive.
Li lascerei stare anche perché mi preoccupano di più i ragazzi che vengono dalle cosiddette famiglie normali nel senso prima fotografato. Pur non essendo un sociologo, ho fatto una specie di sociologia sineddochica estraendo dalle notizie apparse sui giornali una tipologia dei giovani che hanno commesso questi atti. Essi provengono generalmente da famiglie che hanno alle spalle almeno una separazione o comunque una situazione di disagio; prevalgono i genitori che non sospettavano nemmeno da lontano che i propri figli potessero essere coinvolti in comportamenti trasgressivi (non si dice se era una negazione, una denegazione, una rimozione); prevalgono i genitori che non controllano ciò che i loro figli portano a casa o portano via da casa (è significativo il fatto di non accorgersi che un figlio torna a casa con le Nike o con il Moncler senza avere i soldi per acquistarli); prevalgono inoltre le scuole nelle quali anche i docenti, che pure hanno compilato progetti antidispersione e antidisagio finanziati dei relativi provveditorati, non hanno mai raccolto i segni di questo disagio né in un testo scritto né in una discussione.
Questa fotografia ci mostra che corriamo alcuni pericoli. Il primo è quello di sottovalutare il fenomeno e di ricondurlo ad una specie di eruzione cutanea determinata dalla transizione a paese civile, industrializzato, avanzato. Non è un'eruzione cutanea, non è un fenomeno da sottovalutare, probabilmente in prospettiva lo vedremo moltiplicato perché la situazione descritta non segnala un'inversione di tendenza sul piano statistico; domani non avremo famiglie che si compongono, che parlano, che hanno le caratteristiche che tutti auspichiamo, il fenomeno quindi è strutturale.
Il secondo pericolo è quello deprecatorio o nostalgico: ogni età ha i suoi problemi, ma non c'è mai stata un'età che non avesse questi problemi. La congregazione dei gesuiti ha rischiato di non poter più proseguire la sua attività perché, quando ha aperto il primo collegio a Gubbio nel 1567, bande di giovani distrussero le suppellettili e fecero un violenza ai ragazzi e agli insegnanti.
Il terzo rischio è quello tecnicistico, cioè individuare interventi che in sé e per sé sono tutti giusti e presi uno per uno sono tutti doverosi, come aumentare il tempo scolastico, aumentare la presenza della polizia, aumentare i centri di consulenza psicologica sul territorio fino a giungere all'istituzione dello psicologo scuola; attivare finalmente una politica di sostegno alla famiglia (non per aiutare l'avvocato con un reddito da 400 milioni ma quelli che ne hanno bisogno). Attivare a scuola le offerte formative che costituiscono un'alternativa credibile alle tentazioni delinquenziali o semidelinquenziali: da un preside meno burocrate e più attento alla risoluzione dei problemi all'incentivare i docenti affinché predispongano più di quanto già fanno progetti didattici mirati per queste situazioni a rischio. Introdurre anche (mi sembra che sia un'ottima idea quella contenuta nel collegato alla finanziaria) un tutor per ogni studente; nell'800 si faceva così, uno studente più grande seguiva uno più piccolo negli studi. Conquistare i giovani anche a scuola con la seduzione di aule informatiche o con la seduzione di strutture sportive che non ripetano i difetti che i giovani trovano invece nella solitudine della casa o allo stadio. Sono interventi che presi uno a uno, in sé e per sé, sono tutti necessari ed indispensabili; però, presi insieme e soprattutto visti nel significato che possono acquisire visti tutti insieme, possono


Pag. 14

addirittura rivelarsi sterili quando non pericolosi perché, pensati per una logica educativa e di servizio, finiscono per avere effetti perversi.
Certo, non posso chiedere di argomentare su tutti gli aspetti di questa tesi alquanto temeraria e un po' avventurosa, però vorrei soffermarmi su un esempio specifico, piccolo ma significativo. L'esempio riguarda la scuola e, in particolare, il modo con cui si sta oggi pensando all'incentivazione e alla creazione di maggior entusiasmo nel corpo docente. Mi sarebbe piaciuto dimostrare la tesi che questi provvedimenti presi tutti insieme hanno effetti perversi andando a vedere la legge di riforma degli organi collegiali, improvvidamente ferma nelle aule parlamentari, e dico improvvidamente perché, se è vero che bisogna ricostruire la scuola, bisogna rinegoziare il rapporto tra scuola, famiglia, territorio e gli organi collegiali attuali della scuola non servono un questo tipo di attività. Come ha già detto, intendo soffermarmi su un aspetto riguardante una microattività. Parto da una premessa che è generale e che riguarda tutti gli altri aspetti: è un principio generale della scienza dell'organizzazione che ogni ambiente interno (e parlo di famiglia, di scuola, di gruppo, di azienda) nei suoi rapporti con gli ambienti esterni faccia emergere di preferenza e selezioni dagli ambienti esterni gli aspetti che meglio si accordano con le sue esigenze intrinseche e con i suoi valori. In questo caso non si giudicano i valori, perché i valori che uno ha tende a confermarli e, poiché ogni ambiente interno non esiste in astratto ma in concreto, cioè esiste in quanto modo di essere, di fare, di relazionarsi, di significare delle persone che lo compongono, risulta che le persone che compongono una famiglia, un gruppo, un'azienda o qualsiasi organizzazione pescano di solito fuori di loro ambienti i cui modi di essere, le cui relazioni, i cui significati rafforzano i propri. Questo spiega perché tra le organizzazioni sociali che sviluppano alcuni modi di essere delinquenziali non vi sia la rottura o la ricerca di alternative, ma piuttosto si cerchino altri ambienti che hanno lo stesso potere di attrattiva: è la stessa ragione per cui il carcere produce carcere. Quindi, è difficile che una famiglia di spostati cerchi di relazionarsi con una buona famiglia che condivide regole e valori diversi dai propri; allo stesso modo, un gruppo adolescenziale in cui si concentrano comportamenti a rischio difficilmente si integra, anche se ha una struttura disponibile e fatta apposta per questo, con un gruppo di coetanei dai valori e dai comportamenti opposti.
Se si vuole spezzare il circolo negativo dei peggiori che cercano i peggiori e che dunque, ad un certo punto, facciano relazioni con i positivi, con i migliori, proprio per rompere questo circuito e quindi evitare la polarità, è necessario introdurre nell'esperienza personale, sociale di ciascuno la pratica di organizzazioni, di istituzioni nelle quali esistono modi di essere, di fare, di relazionarsi e significati che esaltino la rottura dei circoli viziosi, che siano veri e propri controesempi non tanto espliciti, perché sulla carta siamo quasi tutti controesempi, ma impliciti, taciti, reali, sostanziali alle pratiche e ai significati negativi prima che si polarizzino. La scuola è sicuramente un'istituzione strategica a questo riguardo, perché è un'istituzione a cui vanno tutti, pericolosi e non pericolosi, buoni e cattivi, poveri e ricchi, fortunatamente, e speriamo che sia sempre più così; i negativi possono incontrare i positivi. La scuola è anche un'istituzione nella quale non si trattano bene i posizionali, si trattano bene i relazionali e noi sappiamo che i beni relazionali hanno caratteristiche diverse da quelli posizionali. Quando i beni relazionali sono consumati da tutti, aumentano loro stessi, mentre invece i beni posizionali fanno l'opposto: quando sono consumati da tutti, diminuiscono o danno comunque somma zero. Un bene relazionale ha bisogno di solidarietà, di relazione, di fiducia reciproca, di partnership e non di gerarchia, mentre invece un bene


Pag. 15

posizionale ha bisogno di gerarchia, di competenze sgranate, di ordinamenti, e così via. Un bene relazionale è tale perché la sua produzione esige la compartecipazione di tutti membri dell'organizzazione, senza che i termini della compartecipazione siano negoziabili, perché nessuno riesce ad insegnare una cosa a una persona che non vuole apprenderla e d'altra parte nessuno riesce ad apprendere una cosa se non trova qualcuno che vuole insegnargliela. Questo è un bene relazionale in cui l'identità di ciascuno è decisiva, conta e decide della qualità dell'apprendimento. Così è per il consumo ed è per questo che, essendo un bene relazionale, ha molta importanza la comunicazione che nella scuola dovrebbe essere al primo punto.
Ancora, nella scuola riusciamo a creare una situazione tale che porta alla creazione di un sistema che i teorici dei sistemi chiamano transazionale: la scuola non è un sistema chiuso, non è nemmeno un sistema aperto, però è un sistema che ha una chiusura operazionale; prende dall'esterno qualche cosa che incrementa il proprio equilibrio interno e che resiste alle perturbazioni eccessive che vengono dall'esterno, ma interagisce anche con l'esterno per essere a tal punto flessibile da anticipare l'equilibrio e da aumentarlo per rispondere alle provocazioni, alle domande che vengono dall'esterno.
Proprio perché la scuola è un'istituzione che ha queste caratteristiche e proprio perché tutti i soggetti umani devono paritariamente essere coinvolti, invito a riflettere sul fatto che non dovremmo essere molto contenti di certe posizioni tayloriste che stanno affiorando proprio nel momento in cui il taylorismo è in crisi anche nelle aziende. Se noi facciamo in modo che si aggravino le posizioni interne alla scuola tra i docenti perché qualcuno svolge una funzione che in termini spazio-temporali è visibile, documentabile e quindi la si può ottimizzare o la si può premiare e un altro invece non svolge questa funzione; però, com'è capitato a Brescia, una sola insegnante tra tutti è riuscita a scoprire l'abuso sessuale continuo e ripetuto su una ragazzina di 12 anni da parte di un gruppo di coetanei ed è riuscita a scoprirlo proprio attraverso questa capacità relazionale, educativa e umana che non è visibile, non è documentabile. Se questa persona non facesse qualcosa di visibile e tangibile, non avrebbe nessun riconoscimento, quando invece dovrebbe essere una delle persone maggiormente aiutate perché è qui che si gioca lo spessore educativo della scuola.
Analogamente, siccome le istituzioni che trattano i beni relazionali hanno bisogno della solidarietà e del coinvolgimento di tutti, l'esasperazione dirigenziale è assurda perché, invece di incrementare la cooperazione e la solidarietà, rischia di incrementare funzioni opposte. Già oggi i neurologi hanno abbandonato la teoria del cervello centrale, in cui c'è una specie di cabina di comando che dà tutte le disposizioni ai neuroni cerebrali; a maggior ragione dovremmo abbandonarla nei sistemi sociali dove già è difficile vedere questo tipo di struttura e, in particolare, dovremmo abbandonarla nella scuola, dove per eccellenza abbiamo a che fare con un ambiente che è cooperativo, volontario e strutturato a rete e non per gerarchia. Da questo punto di vista, non si deve minare la cooperazione, la solidarietà, la condivisione, lo scambio, la comunicazione perché si aprono campagne elettorali per essere eletti oppure si manifestano fenomeni di protagonismo e di spettacolarizzazione tra i docenti, oppure addirittura si giunge all'assurdo della gelosia comunicativa, quando la più grande tradizione della scuola italiana era quella di socializzare i metodi, i modi attraverso i quali si insegnava che si riusciva trattare con le persone. Oggi invece c'è la tendenza ad avere il copyright perché un'idea può essere premiata, incentivata e utile. Se questa è l'idea di organizzazione che diamo con la scuola, è inutile che poi introduciamo lo psicologo o auspichiamo un preside che abbia attenzioni educative o insegnanti qualificati, perché il vero messaggio che l'istituzione dà è di tipo


Pag. 16

sistemico, implicito, tacito, non di tipo formale o comunque sempre negoziato in termini contrattuali, di protocolli di tipo corporativo, burocratico, sindacale o sem plicemente tecnico. Da questo punto di vista credo che se tutti gli interventi tecnici che prima ricordavo e che definivo, presi in sé e per sé, tutti giusti, messi insieme, vanno a finire in un'istituzione che lancia questo messaggio a quei ragazzi che hanno invece bisogno di incontrare la positività e la cooperazione, è difficile che questi ragazzi potranno scoprire il vantaggio della cooperazione e della solidarietà, perché hanno l'esempio tacito del contrario e quindi, invece di risolvere problemi, alla fine contribuiamo ad incrementarli.

PRESIDENTE. Considerati l'interesse e l'attenzione che merita la materia e le numerose richieste di intervento da parte dei colleghi, rinvio il seguito dell'audizione a martedì 8 febbraio 2000, alle ore 20.

La seduta termina alle 15.

Back