Seduta del 10/11/1999


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La seduta comincia alle 20.25.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Audizione della dottoressa Caterina Chinnici, Procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni di Caltanissetta.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'applicazione della convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York nel 1989, l'audizione della dottoressa Caterina Chinnici, Procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni di Caltanissetta, che ringrazio per avere accolto il nostro invito.
La dottoressa Chinnici, nonostante sia molto giovane, ha una lunga esperienza in magistratura: è stata pretore e sostituto presso il tribunale ed ha un'esperienza ministeriale. Da quattro anni è procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni di Caltanissetta, distretto che comprende anche il tribunale di Gela e di Enna, una zona centrale della Sicilia, con parti particolarmente esposte sul piano della criminalità complessiva e dei minorenni.
La Commissione ha avviato un'indagine conoscitiva sui problemi che riguardano una realtà complessa contrassegnata da una rilevante dimensione del problema dei minori a rischio, con devianze e coinvolgimento in attività criminose, un'indagine che ha assunto connotazioni ampie. Il 20 novembre prossimo si celebrerà, come previsto da un'apposita legge, la giornata del fanciullo. Come lei sa, la Commissione si recherà a Gela per completare il ciclo di audizioni ascoltando soggetti locali istituzionali, dell'associazionismo e del volontariato.
Ritengo che la dottoressa Chinnici, per il suo ruolo e dal suo osservatorio, potrà fornire elementi utili per il lavoro della Commissione, che vuole completare il suo impegno con proposte, ritenendo che probabilmente sul versante dell'attuazione della Convenzione di New York e quindi della tutela dei diritti dei minori ci siano ancora passi importanti da fare.
In questo quadro, lei ci potrà dare elementi sia sulla dimensione del fenomeno, sia sul funzionamento dei servizi sociali, sia sull'attività di prevenzione dal punto di vista della qualità e dell'intensità.
Ringrazio ancora la nostra ospite e le cedo la parola.

CATERINA CHINNICI, Procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni di Caltanissetta. Desidero innanzitutto ringraziare il presidente, senatore Montagnino, per la presentazione che ha fatto di me e del mio lavoro e la Commissione che ha voluto convocarmi, dandomi così la possibilità di fare il punto su quello che è stato il mio lavoro in questi ultimi quattro anni e sulla situazione della devianza e della criminalità minorile nel distretto di Caltanissetta.


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Dirigo da quattro anni un piccolo ufficio che tratta problematiche molto complicate e delicate e forse un po' anomale rispetto alla generalità delle problematiche trattate da tutti gli uffici minorili sul territorio nazionale. Si tratta di un ufficio piccolo: ho un unico sostituto e un organico amministrativo veramente minimo; l'ufficio è assolutamente inadeguato rispetto alle esigenze del lavoro che copre territorialmente due province, Caltanissetta ed Enna, fino a comprendere un paese che in realtà è in provincia di Messina, ma è al confine con il territorio di Enna, e tratta tutta la materia penale. Questa è la funzione tipica della procura per i minorenni, che ha sostanzialmente le stesse attribuzioni delle procure ordinarie, però le procure per i minorenni hanno anche una competenza specifica nel settore civile ed una competenza amministrativa; comunque la competenza tipica è quella penale relativamente a tutti i reati commessi dai minorenni, che vanno dalle semplici contravvenzioni al codice della strada fino ai reati più gravi come gli omicidi e le stragi.
Per quanto riguarda la criminalità minorile nel distretto di Caltanissetta farei una distinzione fra la devianza e la criminalità. Esiste questa distinzione perché il settore della criminalità vera è propria è quello della criminalità organizzata che utilizza i minori, mentre il settore della devianza riguarda i ragazzi che commettono reati. Sotto questo profilo i reati comuni commessi nel distretto dai minorenni sono gli stessi di tutte le altre parti d'Italia: innanzitutto i reati contro la persona che vanno dalle percosse alle lesioni, che sempre più spesso - questo è un dato che considero allarmante - sono conseguenti ad aggressioni di gruppo, un fenomeno che purtroppo diventa sempre più consistente; poi ci sono le violenze sessuali: fortunatamente i casi non sono ancora molti, ma il dato è in aumento. In questi quattro anni vi è stato qualche tentativo di omicidio ed un omicidio non inserito nel contesto della criminalità organizzata però commesso con modalità particolarmente brutte e cruente. Altra tipologia di reati comuni sono quelli contro il patrimonio che vanno dai furti in appartamento commessi per lo più dai nomadi (si tratta comunque di un dato molto ridotto rispetto a quelli di città come Torino a Genova: da noi il fenomeno è ancora molto contenuto), ai furti con violenza, cioè gli scippi, ai tentativi di estorsione e alle estorsioni. Anche questi sono connotati più che dall'entità dell'estorsione - che spesso riguarda poche decine di migliaia di lire o un telefonino o un ciclomotore magari solo per poter girare un po' - dalla particolare violenza: comportamenti prevaricatori, aggressivi, violenti. C'è qualche rapina, per la verità pochissime e in genere consumate in concorso con i maggiorenni. C'è stato qualche episodio di truffa, uno particolarmente significativo perché ha visto coinvolti una ventina di minorenni insieme con alcuni maggiorenni ai danni del comune di San Cataldo e riguardante la falsificazione degli abbonamenti ai mezzi pubblici. Un reato molto diffuso è la ricettazione, soprattutto di ciclomotori, cosa che ci fa pensare ad un riciclaggio vero e proprio di ciclomotori rubati, sul quale si sta lavorando molto per cercare di conoscere meglio la situazione ed intervenire in maniera più efficace. In aumento sono anche i reati relativi alla detenzione e al porto di armi, anche se generalmente si tratta non di armi comuni da sparo ma di coltelli o di armi improprie come cacciaviti o tagliabalza. Pochi fortunatamente sono i reati connessi con lo spaccio di sostanze stupefacenti, un fenomeno ancora non allarmante quanto a dimensioni.
Si tratta di reati che provengono da tutte le parti del distretto, anche se purtroppo - questo è un dato significativo - la maggior parte delle segnalazioni proviene dalla città di Gela. Nell'ambito dei reati comuni, l'aspetto più allarmante è l'aumento dei reati connotati da comportamenti violenti ed aggressivi, soprattutto se si considera che sono commessi da ragazzi sempre più piccoli. Molti di questi reati vengono commessi da cosiddetti minori non imputabili, cioè ragazzi


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al di sotto dei 14 anni. Ho portato un prospetto con alcuni dati, che posso mettere a disposizione della Commissione, dal quale si evince l'aumento, soprattutto negli ultimi anni, di questa tipologia di reato, anche se i dati purtroppo non sono del tutto aderenti alla realtà, perché questi reati spesso non vengono denunciati e quando lo sono, ciò avviene perché il minore aggredito ha riportato lesioni di una certa gravità, per cui i genitori o il minore stesso si determinano a fare la denuncia, oppure ne abbiamo notizia perché la vittima viene portata al pronto soccorso per essere medicata e il posto di polizia dell'ospedale ci manda il referto. Soltanto in questi casi abbiamo notizia dei reati, perché normalmente si tende ad evitare di denunciare il ragazzino per evitare che incorra nelle conseguenze penali del suo gesto. Comunque, quasi sempre il fatto viene denunciato come accidentale, cioè il ragazzino che si fa medicare al pronto soccorso dichiara che si è fatto male accidentalmente; altre volte dice che è stato un compagno di cui non sa il nome. In questo caso lo iscriviamo come ignoto. Queste persone, prima di dirci il nome, quando lo dicono, specificano che non intendono fare denuncia. Quindi, i dati di cui dispongo sono indicativi ma non sono del tutto esaurienti, perché purtroppo i casi di aggressioni di gruppo, in costante aumento soprattutto a scuola, non risultano numericamente per quelli che sono.
A questo proposito mi sento di sottolineare l'esigenza di porre l'attenzione su tale fenomeno. Naturalmente non voglio fare censure di alcun genere - anche perché non spetta a me -, però ho potuto constatare come la violenza, che oggi ci invade da tutte le parti, cinema, televisione, giornali, anche per i fatti di cronaca, esercita sui ragazzi uno strano fascino, soprattutto nei ragazzi che sono in quella delicata fase della crescita che è l'adolescenza i quali vedono la violenza come un mezzo per affermarsi e dimostrare di essere i più forti, vedono stimolato dalla violenza il loro spirito di emulazione. Allora credo che, in esecuzione della Convenzione che vuole che noi tuteliamo i diritti del fanciullo, dobbiamo intervenire a tutela dei minori rispetto alla violenza. L'aumento di questo tipo di reati, infatti, denota come anche quelli che vogliono essere stimoli educativi purtroppo possono diventare dei cattivi stimoli in quei ragazzi che vivono qualche condizione di disagio e non hanno il supporto di un'educazione che li aiuti a discernere il positivo dal negativo.
Ho dei bambini piccoli e spesso ho guardato con loro i cartoni animati: essi trasmettono il messaggio che il bene prevale sul male attraverso la lotta tra supereroi e mostri di vario tipo. Il minore percepisce lo stimolo educativo positivo del bene che deve prevalere sul male, ma se non è adeguatamente sorretto o versa in una condizione di disagio, purtroppo talvolta percepisce soltanto il messaggio della violenza. Senza voler fare censure che non mi competono, credo sia giunto il momento di porre attenzione anche a questi aspetti.
Per quanto riguarda il distretto di Caltanissetta, vi è poi la questione relativa al coinvolgimento dei minorenni in reati di criminalità organizzata. Nell'ambito del distretto tale fenomeno è isolato alla città di Gela e credo si tratti di un fenomeno in qualche modo unico nella realtà nazionale per le peculiari modalità con le quali si verifica. In realtà non è un fenomeno nuovo, perché già nei primi anni 90, al culmine della guerra di mafia tra Cosa nostra e la Stidda (al tempo della cosiddetta strage della sala giochi), si è avuto notizia del coinvolgimento di minorenni in alcuni fatti criminosi e già allora si parlò di ragazzi che avevano commesso omicidi. Oggi alcuni sono collaboratori di giustizia e uno addirittura è diventato collaboratore già da minorenne.
Il fenomeno è tornato prepotentemente all'attenzione generale l'estate scorsa, quando vi è stato un altro momento critico della guerra di mafia - questa volta si trattava della lotta tra due famiglie emergenti per il predominio all'interno dell'organizzazione di Cosa nostra - culminato in una serie di omicidi


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nel luglio scorso. Nell'ambito delle indagini avviate dalla direzione distrettuale della procura ordinaria, un minorenne si è presentato spontaneamente affermando di essere in grado di riferire alcune circostanze relative a quegli omicidi e, dopo qualche esame come persona informata sui fatti, ha cominciato parlare di uno suo coinvolgimento nei fatti stessi. A questo punto è stata interessata la mia procura ed io e il mio sostituto siamo andati a sentirlo. Anche a noi ha raccontato i fatti di sua conoscenza e ci ha parlato del suo coinvolgimento nell'attività della criminalità organizzata fino a riferirci della sua partecipazione ad uno di quegli omicidi.
Ci ha raccontato che fin da quando aveva 11 anni ha cominciato a seguire uno zio, personaggio di un certo rilievo nell'ambito di una delle due famiglie che si contendevano il potere, dal quale all'inizio ha avuto confidenze sulla sua attività, poi gli è stato richiesto qualche piccolo servizio, per esempio portare pacchetti di cui non conosceva il contenuto o trasportare denaro; a poco a poco lo zio gli ha chiesto di commettere qualche piccolo reato, piccoli furti, attentati incendiari, piccole estorsioni; poi è stato incaricato di trasportare una pistola o un pacchetto di droga ad uno spacciatore, riportando indietro il denaro. Alla fine lo zio ha cominciato a mostrargli come funzionava l'arma ed a fargliela provare in campagna contro dei bersagli, fino a quando lo ha incaricato di andare a commettere un omicidio insieme ad altre persone.
Questo racconto ha fatto sì che si parlasse di scuola della criminalità, una espressione allarmante che significa che a Gela ci sono bambini che vengono indirizzati a commettere reati per i quali vengono ben istruiti. È un'espressione forte che però, a mio avviso, non dà l'idea della reale gravità del fenomeno, il vero problema, infatti, si colloca a monte. Quasi l'ottanta per cento del mio lavoro proviene da Gela e mi sono resa conto che nella città ci sono interi quartieri (Settefarine, Scavone) nei quali il contesto è di totale degrado ambientale, culturale, economico: l'illegalità generalizzata e diffusa è l'unica regola di vita. Sono quartieri nei quali in ogni famiglia c'è un padre, uno zio, un fratello maggiore, un nonno che sono in carcere o vi sono già stati; molti componenti della famiglia non hanno un'occupazione o l'hanno estremamente saltuaria, quindi l'unico modo per sopravvivere è commettere reati. Ecco allora che in questi quartieri i bambini vengono ben presto distolti dalla scuola e nella migliore delle ipotesi vengono indirizzati verso qualche attività lavorativa precaria o saltuaria, sia perché non sono interessati alla scuola sia perché in famiglia nessuno se ne preoccupa e così rimangono sulla strada , dove apprendono i principi che ispireranno i suoi comportamenti e che l'aiuteranno nella sua crescita. Dalla strada apprendono le regole di sopravvivenza quindi, ancora una volta, prevaricazione, aggressività, violenza, assoluta mancanza dei valori normali della società civile.
Si tratta di ragazzi che crescono molto velocemente, purtroppo, ed arrivano alla fase in cui avvertono il desiderio di affermarsi, il bisogno di dimostrare di essere forti, di essere uguali agli altri, il desiderio di avere il giubbotto firmato e il motorino, di andare nella sala giochi. È in questo momento, a mio avviso, che i ragazzi diventano facile preda della criminalità organizzata sia perché i loro comportamenti sono improntati a quelle regole di violenza sia perché sono spinti dal desiderio di guadagnare denaro rapidamente.
Questo tipo di manovalanza, tra l'altro, comporta un doppio vantaggio per la criminalità organizzata. In primo luogo è a basso costo (questi ragazzi ci hanno raccontato di aver percepito per l'omicidio un compenso di 500 mila lire, per una estorsione un giubbotto od una maglietta di marca in aggiunta al compenso in denaro); in secondo luogo è ad elevata impunità, perché tutti sanno bene che nei confronti dei minori le pene sono molto ridotte rispetto a quelle erogate nei confronti degli adulti.


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I ragazzi cominciano da reati di minor rilievo (compiono piccoli furti, attentati incendiari, riscuotono il pizzo dai commercianti) poi, a poco a poco, passano a commettere reati più gravi; vengono istruiti all'uso delle armi con l'addestramento in campagna, e infine vengono promossi a commettere reati sempre più gravi fino agli omicidi. Arrivano anche ad avere un buon livello di autonomia sia organizzativa sia decisionale. Alcuni collaboratori di giustizia dei primi anni 90 ci hanno raccontato che i ragazzi venivano lasciati liberi di sparare contro coloro che sapevano appartenere all'altro gruppo senza avere indicazioni sui nomi.
Ecco perché si è parlato di baby killers ed io, nonostante l'espressione sia molto forte, concordo con essa perché ho sentito i racconti di questi ragazzi ed ho potuto constatare l'assoluta indifferenza con cui descrivono le modalità degli omicidi compiuti. Ci hanno riferito, per esempio, dell'omicidio di una ragazzo, un certo Matteo Cannizzo, il cui cadavere è stato bruciato una prima volta e poi, visto che rimanevano tracce che avrebbero facilmente consentito la sua identificazione, è stato nuovamente bruciato. Tutto questo viene raccontato senza alcuna emozione, quasi, lo ripeto, con indifferenza.
Si tratta di ragazzi apparentemente uguali agli altri, il cui sguardo però tradisce che sono stati bambini privati della loro infanzia. Già a 16-17 anni hanno una personalità strutturata e, aldilà di un rispetto formale nei confronti del magistrato, continuano a considerarlo un nemico perché lo vedono completamente diverso; sono anche disposti a parlare con noi ed a raccontarci omicidi fin nei minimi particolari, ma non sono disposti in alcun modo ad aprirsi con noi. Si tratta, lo ripeto, di ragazzi cresciuti molto precocemente ed è veramente difficile procedere nei loro confronti, cercare di portarli verso un percorso di recupero e di reinserimento nella società.
Vorrei fare anche qualche considerazione sul codice di procedura minorile, uno strumento assai avanzato e molto valido che, pur se entrato in vigore prima della ratifica della Convenzione di New York, aveva già fatto proprie le regole di Pechino poi trasfuse in quella convenzione. Quando si parla di interventi del magistrato nella giustizia minorile, si parla spesso di prevenzione. A mio avviso ci sono tre diversi livelli di prevenzione e non tutti dipendono direttamente dalla magistratura che si occupa di giustizia minorile.
Il primo tipo di prevenzione è quella che riguarda i minori che vivono in situazioni di disagio o in condizioni per loro pregiudizievoli. Mi riferisco a quei bambini che vivono in famiglie dove purtroppo sono di fatto abbandonati, in famiglie dove vi è una condizione di degrado culturale e talvolta morale, bambini che subiscono violenze anche nell'ambito del contesto familiare. In questi casi credo che sia possibile operare la vera prevenzione, però il compito non è tanto della giustizia minorile quanto di altre strutture come la scuola: è indispensabile che questi bambini vadano a scuola. Spesso la dispersione non ci viene segnalata perché i presidi e gli insegnanti sono piuttosto tolleranti nei casi in cui il bambino si assenta dalla scuola per una settimana poi torna per tre giorni, manca per quindici e torna per una settimana. Questi casi spesso non ci vengono segnalati, mentre occorrerebbe intervenire tempestivamente.
A fianco a questo tipo di intervento ne è indispensabile un altro, sempre sul bambino, svolto attraverso attività extrascolari, nel senso che occorre impegnare il bambino non soltanto la mattina a scuola, ma anche il pomeriggio con altre attività che possono essere ricreative come una scuola di musica o di arte e che siano modulate come la scuola e non lasciate alla disponibilità delle famiglie o alla voglia del bambino di andare, attività che quindi lo impegnino in maniera quasi scolastica. Anche questo non è sufficiente, perché se interveniamo sul bambino ma non sul contesto e sulla famiglia nella quale vive non avremo risolto nulla. Allora ecco che bisogna anche intervenire sulle famiglie attraverso i servizi sociali


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del comune. E ancora questo talvolta non basta perché spesso i bambini vivono nei quartieri più disagiati, per cui è necessario anche un intervento di tipo ambientale. A Gela è inutile che interveniamo sul bambino ed è poco utile intervenire anche sulla famiglia quando questa continua a vivere in un quartiere dove le strade sono senza asfalto, le case non hanno fognature e così via. Il bambino rimarrà comunque in un ambiente degradato nel quale vige l'illegalità e vi è il mancato rispetto delle regole. Tra l'altro questa situazione mi è stata segnalata da un funzionario del comune addetto alla pubblica istruzione, la quale, sapendo che sarei stata ascoltata dalla Commissione, mi ha detto di riferire che dobbiamo togliere i bambini dalla strada: questa è la cosa fondamentale, dobbiamo impegnarli a tempo pieno, la mattina e il pomeriggio; dobbiamo toglierli dalla strada e intervenire sulle loro famiglie e - aggiungo io - sull'ambiente nel quale vivono. Questo per quanto riguarda la prima forma di prevenzione, la prevenzione primaria che è in fondo quella più vera.
Poi vi è una prevenzione secondaria nei confronti dei minori a rischio, che hanno cioè comportamenti definiti irregolari. Qui subentra l'intervento della magistratura minorile, perché questi minori dovrebbero esserci segnalati, ma non sempre ciò avviene o perlomeno non avviene in maniera diretta. Si tratta di ragazzi che non vanno a scuola, non hanno un lavoro e hanno un tenore di vita che non si giustifica in relazione alla situazione economica della famiglia; ragazzi che girano con motorini, che vestono con giubbotti firmati e spendono tanti soldi, centinaia di migliaia di lire nelle sale giochi; sono a volte ragazzi che ci vengono segnalati perché controllati in compagnia di coetanei o di ragazzi poco più grandi già pregiudicati o pluripregiudicati e quindi hanno frequentazioni con persone che hanno già commesso reati. Questo riguarda la prevenzione secondaria, della quale parlerò insieme con la prevenzione terziaria, cioè quella attuata nei confronti dei ragazzi ormai già devianti, nella quale faccio rientrare i minori non imputabili, ossia i ragazzi al di sotto dei 14 anni che hanno già commesso dei reati. Ne vorrei parlare insieme perché in questi casi vi è un intervento da parte dell'autorità giudiziaria.
Per i minori non imputabili la nostra procedura penale prevede che si debbano iscrivere nel registro degli indagati se commettono dei reati, però nei loro confronti deve essere richiesta dal procuratore della Repubblica e pronunciata dal giudice per le indagini preliminari una sentenza di non doversi procedere perché minori non imputabili. Tutto si ferma qui. Allora noi, in procura - ma so che questa è la prassi utilizzata anche nelle altre procure per i minori - utilizziamo uno strumento che usiamo anche per i minori a rischio di cui ho parlato prima: il procedimento amministrativo previsto dal RDL 20 luglio 1934 che prevede, all'articolo 25, le misure applicabili ai minori irregolari per condotta o per carattere e la possibilità di apertura, su istanza del pubblico ministero che in questi casi ha un potere-dovere di iniziativa (con richiesta al tribunale per i minorenni che cura l'istruttoria), di un procedimento amministrativo, nell'ambito del quale è prevista la possibilità di un affidamento del minore al servizio sociale perché ne segua l'evoluzione della personalità o, nei casi più gravi, il collocamento in comunità.
Lascio alla Commissione un documento contenente dei dati particolarmente significativi. A Caltanissetta, dal 1992 in poi, abbiamo iscritto 62 procedimenti amministrativi, tra i quali la percentuale di insuccesso è elevatissima, quasi vicina al cento per cento. Infatti, su 62 procedimenti abbiamo avuto 3 archiviazioni per esito favorevole dell'evoluzione della personalità del minorenne e ben 59 archiviazioni per tutt'altra ragione: gran parte per raggiungimento della maggiore età, alcuni per impossibilità di proseguire il trattamento per indisponibilità del minore a collaborare col servizio sociale e altri perché il minore era stato sottoposto a misure cautelari. Quasi tutti i ragazzi nei cui confronti sono stati iscritti dei procedimenti


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amministrativi hanno continuato a commettere reati; quasi tutti sono iscritti nei nostri registri degli indagati. Anche se normalmente non faccio i nomi dei minorenni, cito due casi eclatanti purtroppo venuti alla ribalta: il procedimento amministrativo aperto nel 1995 nei confronti di uno di questi ragazzi, Belladonna Fortunato - era stato poi disposto, per un certo periodo, il ricovero in un istituto - è stato archiviato il 17 settembre 1998 per decesso del minore, trovato ucciso a Gela dopo due o tre giorni dalla scomparsa da casa. L'altro caso, notissimo, riguarda un procedimento amministrativo aperto nel 1993, con un breve periodo di ricovero del minore, e archiviato il 25 maggio 1996 per raggiungimento della maggiore età del minore, Pilato Antonio William, che adesso si trova in custodia cautelare perché indagato per l'uccisione del sindaco di Caltanissetta, dottor Michele Abbate. Sono casi eclatanti che dimostrano l'inadeguatezza dello strumento.
Credo, a questo punto, che sia indispensabile intervenire legislativamente per regolare meglio questo tipo di intervento, che continuiamo a chiamare preventivo, da parte dell'autorità giudiziaria minorile.
Uno strumento che, a mio avviso, potrebbe essere utilizzato, pur con i dovuti coordinamenti con la procedura minorile in vigore, è l'istituto della messa alla prova. Qualche anno fa a seguito di alcuni episodi particolarmente rilevanti avvenuti a Napoli, si è acceso un dibattito fra i giudici minorili sull'opportunità di abbassare il limite dell'imputabilità. Pochi sostenevano che fosse opportuno intervenire in questo senso, mentre la maggioranza sosteneva che non fosse opportuno. Premesso che in Italia vi è una delle soglie di imputabilità più alte, ritengo, in aderenza con lo spirito della procedura penale minorile, che non sia opportuno inserire il minore nel circuito del processo penale al di sotto dell'attuale imputabilità (14 anni). Però ritengo che si possa cercare di inserire uno strumento più valido qual è quello della messa alla prova senza per questo far entrare il minore nel circuito del processo penale. Per esempio, si potrebbe pensare di rendere obbligatoria l'apertura del procedimento civile a seguito della dichiarazione di non doversi procedere nei confronti del minore non imputabile, però dando alla magistratura un potere maggiore di controllo dell'attività svolta dai servizi sociali nei confronti di quei minori, rendendo per esempio obbligatorio un programma di messa alla prova, come previsto per i minori già imputati, che passi attraverso una verifica e un'approvazione dei magistrati e una verifica finale, che consenta di chiudere il procedimento amministrativo soltanto quando il programma sia stato dal minorenne rispettato e l'evoluzione positiva possa avere un fondamento attraverso la verifica di quel programma. La mia è un'idea che ritengo si possa prendere in considerazione per dare all'autorità giudiziaria minorile uno strumento valido, perché purtroppo i dati che ho portato dimostrano con tutta evidenza che al momento lo strumento utilizzato non produce alcun effetto positivo.
Parlando della messa alla prova, ho detto che si tratta di uno strumento valido. Esso è previsto dagli articoli 28 e 29 del decreto del Presidente della Repubblica n. 448 del 1988, che noi chiamiamo «procedura penale minorile»; è previsto per i minori che hanno commesso dei reati e viene utilizzato nella fase processuale: il minore può, previa ammissione della propria responsabilità, chiedere la sospensione del processo e di essere messo alla prova secondo un programma per lui predisposto dai servizi sociali del ministero e approvato dal magistrato. All'esito della prova, se questa è stata favorevole, si dichiara l'estinzione del reato. Lo strumento è valido e tale si è dimostrato soprattutto nei casi di reati commessi occasionalmente dal minore. Comincia ad essere molto meno valido quando il minore ha già commesso più reati, perché la regola è che la prova si interrompe quando il minore abbia commesso un altro reato. Ho qualche perplessità sull'utilizzo di questa misura - per la quale la legge non prevede alcun


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limite né in relazione alla tipologia del reato commesso né in relazione all'età - nei confronti di chi abbia commesso reati gravissimi come gli omicidi e venga giudicato come maggiorenne o chi venga giudicato per un reato gravissimo commesso quando era minorenne ma nell'ambito della criminalità organizzata. Ciò per le ragioni che ho detto prima e cioè perché in realtà ci troviamo davanti ad una persona che giudicata a 26 o 27 anni ha ormai una personalità formata e struttura già da molto tempo. Tra l'altro si assiste ad un fenomeno strano, ossia ad una discrasia totale per cui il ragazzo giudicato oggi per uno, due o tre omicidi commessi quando aveva 17 anni 10 mesi e 20 giorni e messo alla prova, la settimana successiva - a Caltanissetta è successo - viene giudicato da una corte d'assise per l'omicidio commesso a 18 anni e 3 giorni e si vede dare l'ergastolo: due soluzioni completamente diverse per lo stesso reato commesso a distanza di pochi giorni.
Lo strumento è stato utilizzato a Caltanissetta e l'ultima ordinanza in questo senso da parte del tribunale per i minorenni è stata disposta questa mattina nei confronti di collaboratori di giustizia per alcuni omicidi. Il caso di oggi riguardava una persona che da minorenne aveva commesso in questo processo - ne ha altri naturalmente - un omicidio, un tentato omicidio, una decina di estorsioni, una decina di attentati incendiari e reati connessi al porto e alla detenzione di armi: gli è stata data la messa alla prova. Come dicevo, lo strumento viene utilizzato per i collaboratori di giustizia. Ripeto che ho qualche perplessità per le ragioni che ho detto prima, perché dichiarare l'estinzione del reato di omicidio a mio avviso è un po' svilire la gravità del reato non soltanto agli occhi dell'opinione pubblica e delle vittime del reato che hanno l'aspettativa di una risposta di giustizia da parte dello Stato, ma anche agli occhi dello stesso imputato, di colui che quel reato ha commesso. Peraltro nel caso dei collaboratori di giustizia credo che ci sia già un trattamento sufficientemente premiale, perché hanno diritto alla riduzione della pena perché il reato è commesso da minorenne, alle riduzioni previste dalle leggi sui collaboratori di giustizia e, in sede esecutiva, a tutti quei benefici cui possono essere ammessi per legge. Mi sento di fare questa notazione su uno strumento validissimo in alcune circostanze che però suscita alcune perplessità in altre. Forse sarebbe opportuna una ridefinizione dell'istituto con riferimento a determinate tipologie di reati o anche ad imputati ormai maggiorenni.
Vorrei concludere con qualche accenno alla competenza civile della procura per minorenni. In questo campo la nostra competenza, analogamente a quella relativa ai procedimenti amministrativi, è molto ampia sotto il profilo della materia e più ristretta sotto quello delle funzioni. Abbiamo, cioè, un potere-dovere di iniziativa, quindi segnaliamo e richiediamo ai tribunali l'apertura di procedimenti civili, mentre l'istruttoria viene curata dai tribunali per i minorenni e noi ci limitiamo a formulare richieste e ad esprimere pareri; esercitiamo inoltre un controllo sui provvedimenti finali attraverso i visti o le impugnazioni.
La materia civile assorbe comunque molto l'attività dei magistrati delle procure per i minorenni perché è il nostro strumento per intervenire nella prevenzione primaria di cui parlavo prima. Quando ci vengono segnalate situazioni di minori che versano in condizioni di pregiudizio o vivono in situazioni di disagio, si interessano e si fanno intervenire i servizi sociali e si può disporre l'affidamento del minore ai servizi sociali o, nei casi necessari, l'allontanamento dal nucleo familiare ed il collocamento in comunità o in istituto. È quest'ultimo uno strumento che utilizziamo molto a favore dei minori vittime di abusi o reati sessuali. Tra l'altro, la modifica legislativa del febbraio 1996 in materia di reati sessuali ha introdotto nell'articolo 609-decies del codice penale l'obbligo, per le procure che indagano sui reati che vedono come vittime minorenni, di comunicazione al tribunale per i minorenni perché possa


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predisporre gli strumenti di sostegno anche psicologico nei confronti del minore che abbia vissuto questo tipo di violenza.
Il nostro intervento è sicuramente molto importante, vi è però un problema di coordinamento con le procure che procedono nei confronti dell'indagato quando è un maggiorenne; a volte infatti si rischia di interferire nelle indagini oppure che queste possano compromettere l'attività di sostegno svolta dal tribunale. Quando, per esempio, la violenza avviene in ambito domestico, il primo provvedimento del tribunale normalmente è l'allontanamento del minore dal nucleo familiare; talvolta però questo può compromettere le indagini se, per esempio, ci sono intercettazioni ambientali. Oggi questo coordinamento è affidato all'iniziativa del sostituto che si vede assegnato il fascicolo, il quale cerca di coordinarsi con i colleghi della procura, ma sotto il profilo legislativo - al di là dell'obbligo di informativa - questo coordinamento non c'è. Pertanto sarebbe forse opportuno rivedere queste norme.
Gli altri interventi nel campo civile sono nell'ambito dei procedimenti di adottabilità, di adozione e di volontaria giurisdizione. In questi casi, però, l'attività istruttoria viene svolta più direttamente dal tribunale e l'attività della procura è semplicemente di iniziativa, di parere e di controllo sui provvedimenti adottati.
Spero di aver fornito un quadro esauriente, sia pure sintetico, del mio lavoro e della situazione nel distretto di Caltanissetta. Credo che la cosa fondamentale per evitare la devianza dei minori sia intervenire con la prevenzione e intervenire molto presto quando il minore è in condizione di disagio; questa esigenza si pone soprattutto nelle realtà di maggiore degrado.
Non voglio fare di Gela una città simbolo della guerra di mafia o della scuola di criminalità, perché a Gela vi sono anche persone oneste che lavorano, si impegnano, si fanno carico dei problemi della città; ci sono migliaia di ragazzi sani che studiano, vivono in maniera normale l'adolescenza, si laureano e tornano nella loro città perché vogliono lì vivere e lavorare. Sicuramente, però, nel distretto di Caltanissetta Gela è la città che ha bisogno di maggiore aiuto e di un intervento che non può essere fatto soltanto dall'autorità giudiziaria o soltanto dalle scuole o soltanto dai servizi sociali, deve essere fatto da tutte queste istituzioni con una perfetta sinergia. Se non si danno posti di lavoro ai genitori, non si sistemano le strade, non si realizzano le fognature, non ci si assicura che i ragazzi frequentino la scuola, non si creano per i giovani attività alternative e punti di incontro, non si incentivano le attività di volontariato, non credo che si possa intervenire in maniera efficace per evitare che Gela continui ad essere quella che è oggi.

PRESIDENTE. Sento il dovere di ringraziare la dottoressa Chinnici per l'analisi approfondita e le proposte concrete e chiare che ha portato alla nostra attenzione per il lavoro che dovremo fare nei prossimi giorni. Do la parola ai colleghi che intendano rivolgere domande.

ANTONIO MONTELEONE. Credo che tutti i colleghi la ringrazieranno per la sua relazione. Mi scuso per il mio ritardo, ma ero impegnato nei lavori della finanziaria, ho potuto comunque sentire una parte della sua relazione. Lei ha detto che accanto ai ragazzi «puliti», che studiano si laureano e tornano nella loro città, a Gela esiste un'altra realtà ben diversa e ormai conclamata. Dopo averla ascoltata, parteciperò in modo ancor più convinto alla prevista missione della Commissione a Gela, alla quale pure avevo già aderito.
Oggi si parla di prevenzione a proposito di tutto, ma si tratta di chiarire di quale tipo di prevenzione si stia parlando. Lei ha individuato tre livelli e li ha inquadrati abbastanza chiaramente, la cosa importante è individuare soluzioni che impegnino tutti, in particolare la parte «pulita» per vedere se «istigando» questa parte si possa ottenere qualche risultato migliore.
Le chiederei inoltre ulteriori informazioni sull'istituto della messa alla prova di


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cui non ero a conoscenza; vorrei sapere quanto dura, da chi viene decisa, che tipo di programmi vengono proposti. Mi chiedo perché non immaginare un biennio intorno alla soglia dei quattordici anni a garanzia dello sviluppo di questi ragazzi. Lei ha parlato di personalità già strutturate a 16 anni e della difficoltà ad aprirsi con chi vorrebbe aiutarli: questa credo sia la chiave dell'intervento.

VALENTINA APREA. Anch'io mi associo ai ringraziamenti per tutte le informazioni che ci ha fornito. L'istituto della messa alla prova è sicuramente molto interessante, ma di fronte a certi reati sento di condividere le sue considerazioni; anche perché in un'altra audizione abbiamo saputo che ragazzi non ancora maggiorenni avevano compiuto qualcosa come 10-12 omicidi. Diventa ben difficile in questi casi far comprendere la portata di questi reati!
Le chiedo se abbiate mai sperimentato - e se sia possibile - la messa alla prova al di fuori del contesto ambientale anche perché il problema è quello di godere di una certa libertà in un contesto che non è molto sano. Sarebbe possibile trasferire questi ragazzi altrove per metterli alla prova in una condizione di libertà, senza queste contaminazioni ambientali?

ANGELO RESCAGLIO. Anch'io ringrazio la dottoressa Chinnici per la sua relazione e mi scuso per aver potuto sentire solo la seconda parte. Lei ha parlato di prevenzione e sentiamo spesso fare discorsi a questo proposito; la realtà della delinquenza minorile tocca molte altre regioni anche al nord, pur se non in questa dimensione, ed oggi i giornali raccontano l'episodio tragico verificatosi in Germania, dove un ragazzo di 16 anni per una scommessa con i suoi coetanei ha accoltellato un insegnante in classe.
Vorrei chiederle se in materia di prevenzione esista un rapporto di collaborazione tra scuola, famiglia e chiesa oppure se ognuno cammini per conto suo o la famiglia, lasciata senza punti di riferimento, a volte non sia capace di intervenire. Inoltre vorrei chiederle se è possibile immaginare interventi diretti sulla famiglia per provocarla affinché si educhi a determinati valori. È assurdo che le famiglie non sappiano gestire i giorni di scuola dei bambini: mi è rimasto impresso un genitore che dichiarava di non conoscere bene gli orari pomeridiani delle discipline complementari che il figlio frequentava a scuola, ma di sapere soltanto che ritornava la sera.

PIERA CAPITELLI. La ringrazio per la sua esposizione e anche per le sue conclusioni che, però, sono estremamente impegnative. Lei ha fatto un'analisi molto dettagliata della situazione, fornendoci una fotografia che ci lascia un po' gelati e sconcertati. Anche se tutti conosciamo la realtà della criminalità organizzata, io non conoscevo la gravità di questo fenomeno. Spesso forse prendiamo alla leggera notizie che la stampa enfatizza per qualche giorno ma poi vengono completamente dimenticate.
Credo che sentire la sua esposizione ci ponga davanti a responsabilità molto gravi, perché tendiamo tutti ad accantonare il problema. Ritengo che lei abbia fatto molto bene ad indicare la necessità di una serie di interventi.
Mi ha particolarmente colpito il fenomeno della violenza organizzata che ritengo non sia riconducibile soltanto alle situazioni in cui esiste la criminalità organizzata, trattandosi di un fenomeno fortemente in aumento. Credo che la responsabilità sia da imputare non solo ai modelli televisivi ma complessivamente ad un modello di società che fa sì che la violenza diventi un valore e soprattutto un mezzo per raggiungere determinati beni materiali, identificati dal senso comune come valori: il possesso è percepito come un valore. La cosa più preoccupante è che nelle zone di cui si parla esistono una criminalità organizzata ed un sistema di valori bene codificato, nel quale la violenza occupa il primo posto, per cui la complessità degli interventi deriva proprio da questo fatto, in quanto occorre scardinare un sistema complessivo di valori.


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Questa è sicuramente un'impresa molto complessa, alla quale tutti i soggetti attivi della società sono chiamati a dare un contributo.
Nella scuola recentemente sono state promosse campagne per la diffusione della cultura della legalità, però sono state prese alla leggera: spesso la scuola ritenendo che tutti gli interventi di carattere educativo ricadano su di lei reagisce ritraendosi un po'. Seppure con diverse valutazioni rispetto alle differenti aree del paese, questo è un elemento estremamente importante.
Come persona che si occupa di scuola, credo di dover dire che la scuola come unica istituzione può fare davvero poco se non si lavora su una serie di altri elementi. Innanzitutto credo che debbano essere identificate strategie per lavorare sulle famiglie. Però mi viene da sorridere perché lavorare sulle famiglie con interventi di carattere educativo va bene, ma se non si danno aiuti materiali le famiglie si ritraggono, per cui ribadisco la correttezza delle sue conclusioni quando ha richiamato la necessità di interventi complessivi ed integrati.
Mi ha colpito la mancanza, in particolare a Gela, di volontariato - mi corregga se sbaglio, come spero - e di una rete di collaborazione con gli istituti più tradizionali come le parrocchie. Inoltre, mi sono chiesta il perché dell'insuccesso dei 62 procedimenti amministrativi. Come funzionano le comunità nelle quali sono stati attuati? Come funzionano i servizi?
Rispetto ai problemi relativi all'istituto della messa alla prova, ritengo di non avere elementi per giudicare quali siano le necessarie modifiche. Il dibattito è in corso da tempo e credo che le differenze fra tipologie di reati e soprattutto tra le diverse aree del paese incidano molto sulla possibilità di prendere una decisione. Francamente non invidio i giudici minorili che insieme dovranno collaborare per assumere decisioni di capitale importanza.

PRESIDENTE. Desidero fare una brevissima considerazione e rivolgere alla nostra ospite una domanda. Conosco la realtà di Gela da un osservatorio sicuramente meno privilegiato del suo e con competenza inferiore, però ho sempre ritenuto quella città, che ha visto fenomeni di violenza devastanti, non una città violenta ma una città violentata, perché pochi, adulti e minori, hanno affermato la legge dell'illegalità rispetto ad una società sana, impegnata e disponibile con passione civile autentica.
Lei ha detto che la violenza, la devianza e la criminalità minorile dipendono da una serie di cause: il degrado ambientale, cioè la mancanza di servizi essenziali, in cui il bambino cresce nella cultura dell'illegalità e non riesce a distinguere il bene dal male, il lecito dall'illecito; il contesto familiare: laddove c'è degrado culturale e morale e laddove ci sono esempi di criminalità è facile l'emulazione. Vi è il tentativo di agire sul minore per enuclearlo da questo contesto.
Sono sempre stato convinto che nella lotta alla criminalità e nella realizzazione di obiettivi dello sviluppo non vi siano due tempi, nel senso che bisogna battersi contro l'illegalità, la criminalità organizzata, la mafia per determinare condizioni di sviluppo e che bisogna determinare condizioni di sviluppo per battere la criminalità organizzata e la mafia.
Su un punto vi è una grande responsabilità delle istituzioni a qualunque livello, anche locale: mi riferisco all'eliminazione delle condizioni di degrado ambientale.
Anche sulla famiglia occorre intervenire sul piano delle occasioni di lavoro, ma la mancanza di lavoro non può essere l'unica ragione della criminalità, per cui bisogna intervenire anche con i servizi sociali che devono agire efficacemente.
Mi ha molto colpito il rapporto tra la devianza e la criminalità minorile e la criminalità degli adulti. Ebbene, la mia domanda è la seguente: sarebbe possibile, a livello di tutti gli interventi di carattere preventivo, fare uno sforzo ancora maggiore per eliminare la criminalità degli adulti e in questo modo, come conseguenza


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naturale, abbassare quella minorile, considerato che questo è il contesto in cui si innesta il bambino?

CATERINA CHINNICI, Procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni di Caltanissetta. Vi ringrazio per le parole di apprezzamento sul mio intervento e per le domande che mi sono state rivolte e mi consentono di approfondire dei punti sui quali forse sono stata un po' troppo superficiale.
Il senatore Monteleone mi ha chiesto in particolare di dire qualcosa di più sulla messa alla prova. Si tratta di un istituto previsto dagli articoli 28 e 29 del «codice di procedura minorile» che non ha limitazioni, né in relazione alla tipologia del reato né in relazione all'età. Deve essere applicato nei confronti dei minorenni per tutti i tipi di reato. Quando all'esito delle indagini preliminari, va davanti al giudice perché il pubblico ministero ha ritenuto di iniziare l'azione penale, quindi ha fatto la richiesta di rinvio a giudizio, già all'udienza preliminare, il minore, premessa l'ammissione della propria responsabilità in relazione al fatto per il quale è imputato, può chiedere che venga disposta la sospensione del processo e di essere ammesso alla prova. I servizi sociali del Ministero della giustizia predispongono per quel ragazzo un progetto di rieducazione che prevede normalmente un impegno scolastico oppure, per i ragazzi in età di lavoro, un impegno di lavoro e poi delle attività collaterali che in genere sono attività sportive e di volontariato. So che nell'Italia del nord si inserisce quasi sempre un impegno nell'ambito dell'attività di mediazione che si sta cominciando a fare fra gli autori e le vittime del reato, quindi un'attività risarcitoria nei confronti della vittima; questo è un discorso molto più difficile da inserire nel nostro contesto culturale, per cui non ci siamo assolutamente arrivati, né purtroppo abbiamo potuto ancora intraprendere la strada in questa direzione. Quindi, il ragazzo viene ammesso alla prova per la quale la legge stabilisce una durata massima di tre anni. Il servizio sociale propone il programma la cui durata viene determinata dal pubblico ministero che dà il proprio parere. Il ragazzo si impegna e il pubblico ministero esprime un parere obbligatorio ma non vincolante. Il mio ufficio, nel caso dei collaboranti ha sempre dato parere contrario, che però non è mai stato accolto.
Il tribunale, sentito il pubblico ministero, se ritiene che vi siano le condizioni, ammette il minore alla prova. Naturalmente l'ammissione alla prova ha come presupposto, da parte del tribunale, una valutazione del reato in relazione alle modalità con le quali è stato commesso, e della personalità del minore (il minore viene sentito in maniera attenta ed approfondita proprio sulla sua condizione personale e sulla sua posizione nei confronti del reato). Se si ritiene che attraverso il programma che si impegna a seguire ci possa essere un'evoluzione positiva, il minore viene ammesso alla prova. Dopo il periodo di prova per il tempo stabilito dal tribunale, il servizio sociale predispone una relazione sul lavoro del ragazzo e sull'evoluzione positiva o meno della sua personalità. Se l'esito è favorevole - l'istituto ha dato buoni risultati perché in genere l'esito è stato favorevole quando si è trattato di reati occasionali - si dichiara l'estinzione del reato. Questo è il meccanismo. La legge - ripeto - non ha posto limiti, per cui l'interpretazione giurisprudenziale, soprattutto di merito, che poi è stata data dai giudici che applicano la norma è stata quella di applicarla anche nei confronti di persone giudicate a 27 o 28 anni e anche nei confronti di chi abbia commesso i più gravi reati. Il primo collaboratore di giustizia a cui è stato dato questo beneficio dal tribunale di Caltanissetta in quel processo rispondeva di tre omicidi, due tentati omicidi e così via. Quindi l'istituto viene applicato con una notevole estensione.
Se non sbaglio, lei ha fatto cenno alle mie perplessità e alle possibilità di intervento sui ragazzi che hanno ormai una personalità strutturata. Le mie perplessità derivano appunto dal contatto quotidiano


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con questi ragazzi: quando parlano con noi, parlano con il nemico, c'è solo un rispetto formale.
Per un tentato omicidio ho ascoltato il figlio di un personaggio di spicco della criminalità organizzata di Caltanissetta, condannato all'ergastolo per più omicidi. Aveva 16 anni appena compiuti e la mia sensazione era di trovarmi davanti a un boss vecchio stampo: c'era un assoluto rispetto formale per il magistrato e per il suo ruolo, ma anche la fermezza di non concedere nulla perché si era di fronte ad un nemico.
Poco tempo fa il Tribunale per i minorenni ha celebrato un processo per due omicidi nei confronti di un ragazzo oggi di 27-28 anni nel corso del quale trattava l'imputato come in genere si trattano i minorenni, cioè dandogli del tu e adottando un atteggiamento paterno quasi bonario. L'udienza si celebrava nell'aula bunker di Caltanissetta perché lì vi erano le strutture necessarie per le videoconferenze che mancano al nostro tribunale. Ad un certo punto l'imputato ha chiesto di parlare con il suo difensore per chiedere di essere messo in gabbia e di parlare con il tribunale solo attraverso il suo difensore; questo perché si era sentito quasi deriso, non adeguatamente considerato da quel tribunale che lo trattava come ragazzino mentre ormai era una persona con una sua collocazione ben definita.
Per questo, forse andando in contrario avviso all'atteggiamento generale dei giudici minorili, personalmente nutro forti dubbi sulla possibilità di trovare un mezzo per intervenire su questi ragazzi, perché la loro chiusura purtroppo è totale, quindi è difficilissimo intervenire da parte nostra e di qualunque altra struttura. È una realtà con la quale mi scontro quotidianamente e per la quale, purtroppo, non mi sento di proporre soluzioni. Sono comunque necessari un impegno ed uno sforzo enormi da parte non solo della magistratura ma anche di altre strutture.
L'onorevole Aprea mi chiedeva della possibilità di svolgere la messa alla prova al di fuori del contesto abituale, per evitare le contaminazioni ambientali che altrimenti sono purtroppo inevitabili. Allontanare il minore dal contesto è, a mio avviso, a volte indispensabile per poter efficacemente intervenire ma è normalmente quasi impossibile da realizzare. Da un lato si ha comunque la tendenza a mantenere i contatti del minore con il suo ambiente di provenienza. Un minorenne collaboratore di giustizia l'estate scorsa è stato allontanato e portato in una località protetta della quale anche noi non conosciamo l'ubicazione; il ragazzo adesso sta dimostrando, attraverso alcuni comportamenti, di soffrire la lontananza dal suo ambiente familiare anche se aveva una situazione conflittuale con il padre che non voleva che lui seguisse lo zio perché riteneva lo inducesse a commettere reati. D'altra parte, purtroppo, vi è anche qualche difficoltà di ordine pratico nell'individuare la comunità giusta, la giusta posizione, quale servizio sociale deve seguire il ragazzo e così via. Anche queste difficoltà operative intervengono a rendere più difficile una misura già difficile di per sé.
Nel settore degli interventi civili spesso mi viene chiesto perché non si tolgono i bambini a determinate famiglie. L'orientamento dei giudici minorili, ripeto, è quello di salvaguardare quanto più possibile il legame familiare. A Caltanissetta, per esempio, in questi ultimi quattro anni non c'è stato alcun provvedimento di decadenza della potestà genitoriale nei confronti di genitori che abbiano commesso reati di criminalità organizzata; vi sono stati solo un paio di casi di sospensione della potestà genitoriale nei confronti di due bambini figli di un collaboratore di giustizia, ma questa è stata disposta perché, durante la sottoposizione alle misure di sicurezza, secondo quanto ha denunciato la madre il padre avrebbe avuto comportamenti violenti nei confronti dei bambini. Un altro caso di sospensione dei rapporti familiari riguarda un padre condannato all'ergastolo per reati gravissimi, i cui figli sono sottoposti a misure di protezione, quindi neanche il padre deve sapere dove questi


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bambini si trovano. È questa la ragione della sospensione dei rapporti e non il fatto che il padre abbia commesso quei reati.
L'orientamento generale è quello di mantenere sempre il legame con la famiglia, quindi anche nel caso di messa alla prova è difficile realizzare un allontanamento dal contesto.
Il senatore Rescaglio chiedeva se si può realizzare una collaborazione tra scuola, famiglia e chiesa anche al fine di educare le famiglie. Purtroppo oggi questa sinergia non c'è, i genitori che non sanno se i figli vanno scuola o quando ci vanno, non sanno se fanno i compiti sono purtroppo una realtà diffusa e non c'è alcun coordinamento con la scuola o con la chiesa. Ciascuno interviene se e come può nell'ambito del proprio settore, ma un coordinamento è difficile da realizzare, perché spesso nasce il problema di stabilire di chi è la competenza, fino a che punto può intervenire l'uno o l'altro e queste difficoltà bloccano qualunque tipo di iniziativa. In Sicilia si sta cercando di diffondere la cultura della legalità cui anche lei faceva riferimento, ma a mio avviso questo impegno rimane troppo delegato all'iniziativa dei singoli, alla buona volontà di un preside o di un gruppo di professori che cercano di coinvolgere il magistrato disponibile o il funzionario di polizia sull'importanza di indossare il casco il motorino e così via. Si tratta di interventi puntiformi, non generalizzati come dovrebbero essere per cercare di ottenere risultati nei confronti delle famiglie oltre che del minore.
Le famiglie piangono dopo che i fatti sono accaduti e magari intervengono sui giornali per invitare i giovani ad indossare il casco dopo che hanno perso un figlio in un incidente in motorino, ma prima, forse anche per il carattere dei siciliani naturalmente portati a subire, si tende a tollerare passivamente che le cose vadano in un certo modo.
Anch'io mi sto lasciando coinvolgere in iniziative di colloquio con i ragazzi o rilasciando qualche battuta dai giornali perché credo sia necessaria una partecipazione di tutti per ottenere un coinvolgimento generale: non devono intervenire solo le famiglie, gli educatori, i magistrati, è un compito di tutti, innanzitutto dei genitori sui quali per primi bisogna intervenire.
L'onorevole Capitelli ha parlato innanzitutto del problema della violenza organizzata che sta avendo una diffusione sempre maggiore. Le aggressioni di gruppo stanno diventando, anche nelle scuole elementari, un fenomeno sempre più dilagante e grave e molto difficile da affrontare. La violenza diffusa nell'ambito della criminalità organizzata ha fondamento proprio in quei valori che per noi sono negativi ma che in quel mondo diventano valori; la violenza, la mancanza di rispetto per la vita umana che in una società civile sono i peggiori fra i disvalori in quel mondo sono delle regole a cui improntare i propri comportamenti. Per scardinare questi valori si dovrebbe intervenire in maniera totale su tutto il contesto, dando posti di lavoro, cercando di diffondere la cultura in queste famiglie, sistemando le strade e le fognature di questi quartieri, creando punti di incontro per i giovani. Tutto questo è indispensabile perché si possa sperare di ottenere dei risultati.
La scuola da sola non può farlo - sono pienamente d'accordo con lei - dobbiamo farlo tutti, tutte le istituzioni, ciascuna per la propria parte di competenza.
Per quanto riguarda Gela, lei mi chiedeva se vi sia il volontariato. Non ne ho parlato perché non volevo dilungarmi troppo, però ho un prospetto che ha predisposto il funzionario del comune di Gela di cui ho parlato prima - posso lasciarlo a disposizione dei commissari - in cui si parla della presenza delle strutture: vi sono quelle del comune, con l'assessorato alla pubblica istruzione, che ha propri assessori normalmente impegnati nell'attività di sostegno nelle scuole e d'estate utilizzati per attività di animazione, e un assessorato ai servizi sociali. Devo dire, ad onor del vero, che Gela ha un ottimo servizio sociale del comune, il migliore del distretto, l'unico che fa i turni


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di reperibilità: Gela è l'unica città del distretto nella quale in ogni momento, anche in piena notte, possiamo disporre per un intervento immediato di un assistente sociale. È l'unica, perché anche Caltanissetta non lo ha. Ci viene comunicato ogni mese, con un po' di anticipo il turno degli assistenti sociali reperibili. Sotto questo profilo, quindi, l'impegno esiste. Tra l'altro devo dire che l'impegno di queste persone è notevole, quasi a livello personale. Ricordo, a proposito del ragazzo che ho citato prima, Belladonna Fortunato, che quando mi hanno telefonato per avvisarmi della sua scomparsa, l'assistente sociale che lo aveva seguito era preoccupatissimo, forse, anzi sicuramente più dei familiari, voleva fare di tutto, voleva un aiuto dal tribunale, ma purtroppo non vi era possibilità di intervenire prima di aver rintracciato il ragazzo. Lei lo aveva preso a cuore. Ricordo anche il caso di un ragazzo che aveva problemi psicologici ed era stato rifiutato in quel momento dalla famiglia; l'ospedale non poteva prenderlo perché riteneva di non avere un reparto idoneo e così via; l'assistente sociale lo ha portato per un giorno ed una notte a casa sua, non ha abbandonato il ragazzo, non ci ha detto che lo avrebbe lasciato nella prima comunità non avendo dove collocarlo. Lo ha portato a casa sua.
A Gela, il commissariato ha un ufficio per i minorenni, che però dispone solo di due persone che si attivano al massimo e trattano i casi alla loro attenzione quasi come fatti personali. Però due persone all'ufficio minorenni sono veramente poche.
Le parrocchie sono piuttosto attive e le associazioni di volontariato si stanno dando da fare. Vi sono anche alcune associazioni sportive e un osservatorio locale per la dispersione scolastica. Ci sono delle iniziative, c'è una parte sana che va stimolata.
La signora di cui ho più volte parlato mi ha chiesto di presenziare sabato prossimo all'inaugurazione di una scuola di musica e mi ha detto che la mia presenza è importante per dare un segnale non soltanto ai ragazzi ma anche alle istituzioni, per dimostrare che non sono soli a Gela - credo che Gela soffra un po' anche per questo isolamento - e che hanno il sostegno delle altre istituzioni. Io ho promesso che ci andrò, anche se il sabato pomeriggio è uno dei pochi momenti che dedico ai miei minori privati, cioè ai miei figli, perché sento di dover portare questa mia testimonianza di presenza e di sostegno.
Quindi, vi è un impegno della parte sana della città, un impegno che va sostenuto ed ulteriormente stimolato.
Per quanto riguarda i procedimenti amministrativi, le comunità, i servizi, il discorso diventa un po' più complesso. Come dicevo prima, la procura non cura direttamente le istruttorie di questi procedimenti che vengono curate dal tribunale. Qualche volta sono intervenuta, al di là delle richieste formali, parlando con le colleghe del tribunale e chiedendo perché non si fosse provveduto nonostante avessi avanzato una richiesta di collocamento in comunità. Pare che una delle difficoltà che si incontrano con le comunità consista nel convincerle ad accogliere i ragazzi più grandi, perché si tratta di ragazzi su cui è difficile lavorare. Naturalmente, avendo poca disponibilità di personale, non si sentono di essere distolti dal lavoro positivo che svolgono sugli altri per dedicarsi a ragazzi che purtroppo si prospettano già come difficili e ad interventi che potrebbero non dare esito favorevole. Questa è una difficoltà ma anche un problema che andrebbe affrontato con le comunità, perché, per quanto un ragazzo possa essere difficile, il loro compito è proprio quello. Non si può chiudere un procedimento amministrativo per impossibilità del trattamento, per indisponibilità del ragazzo, perché se questo fosse stato normale, semplice e disponibile non sarebbe stato necessario affidarlo alla comunità. In questi casi, a mio avviso, occorre insistere e cercare di trovare la giusta soluzione. Comunque - forse non l'ho detto prima ma credo sia emerso dal mio discorso - vi è una notevole differenza fra le realtà del sud e del nord Italia. Quando parlo


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con colleghi di Torino o di Genova sento dire che non hanno mai avuto l'iscrizione di un minore per un 416-bis (associazione mafiosa); noi le abbiamo ogni anno. Mentre non è rilevante il problema dei nomadi che fanno furti negli appartamenti: i casi si contano nell'ordine della decina. Fortunatamente anche lo spaccio di stupefacenti è un reato che si verifica nell'ordine della decina di casi; mentre al nord il dato è molto più alto e in quel caso vi è l'utilizzo di minori stranieri. Abbiamo, quindi, realtà molto diverse, per cui è difficile coordinare e trovare la giusta soluzione.
Il senatore Montagnino ha parlato di eliminare la criminalità degli adulti per eliminare quella minorile: sicuramente questa sarebbe la soluzione ideale. Si sta facendo tanto in questo senso e tanto si è ottenuto dalle forze dell'ordine e della magistratura. Però, anche se è giusto indirizzare la pena verso un recupero dell'imputato nel caso in cui venga condannato, in questo caso è ancora più difficile. Si è parlato qualche tempo fa dell'estensione della messa alla prova agli adulti, però, soprattutto per i reati di una certa gravità, ciò mi lascia molto perplessa. Sicuramente esiste l'impegno per eliminare la criminalità degli adulti e di questo avrà parlato prima di me il dottor Tinebra; si sono avuti ottimi risultati, però non è facile e la strada è ancora lunga. Credo comunque che sia necessario l'intervento di carattere più generale e più diffuso di cui abbiamo parlato e soprattutto un intervento culturale, nel senso di portare anche agli adulti la giusta cultura, la cultura della legalità.
Anche al senatore Montagnino non so dare una risposta esauriente o la soluzione, però l'impegno c'è sicuramente. Alcuni risultati già vi sono stati e l'impegno continua. Speriamo nel tempo di portare risultati più validi, soprattutto per le generazioni future.

ANTONIO MONTELEONE. Lei ha parlato di «personalità strutturata». Non pensa che sia il caso di parlare di «personalità strutturate in famiglie strutturate»?

CATERINA CHINNICI, Procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni di Caltanissetta. Credo che lei abbia colto nel segno, purtroppo è così. Ho ricordato quel ragazzo che a sedici anni era un boss: abbiamo già il fratello più piccolo iscritto nel registro degli indagati per un altro reato e due giorni fa è stato iscritto il fratello ancora più piccolo. Purtroppo questa è la nostra realtà, quindi l'intervento devono riguardare l'intero nucleo familiare e per questo è molto difficile.

CARLA CASTELLANI. Come mai, visto che il problema è la personalità strutturata in una famiglia strutturata, c'è la tendenza a mantenere il ragazzo all'interno della famiglia? Se le condizioni ambientali sono concausa per la ripetizione di certi comportamenti, una famiglia strutturata lo è ancora di più: la messa alla prova allora andrebbe effettuata in un ambiente per lo meno più sereno.

CATERINA CHINNICI, Procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni di Caltanissetta. Questo è giusto, però ho ricordato che io qualche volta ho una posizione diversa dalla generalità dai miei colleghi. Sono convinta che in certi casi, avendo difficoltà enormi ad intervenire sulla famiglia strutturata, l'unica vera possibilità sia intervenire sul minore fuori dal contesto. In questo modo non solo lo si sottrae all'influenza del suo ambiente di provenienza, ma gli si dà anche la possibilità di vedere un mondo nuovo; forse prolungando la messa alla prova oltre i tre-quattro mesi, spesso interrotti prima della scadenza perché il minore commette un altro reato, e prevedendo periodi di due o tre anni fuori dal contesto, si darebbe al ragazzo la possibilità di vedere che esiste un altro mondo nel quale forse sceglierà di rimanere. Purtroppo però questo è un orientamento


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più mio personale che non della generalità dei colleghi; forse nel tempo, riflettendo sugli insuccessi che ho ricordato, si potrebbero ipotizzare possibilità diverse.

VALENTINA APREA. Allora è più educativo il carcere!

PRESIDENTE. Credo che in una situazione del genere non ci sia una ricetta unica, ma una serie di interventi da compiere; sono comunque di conforto i brillanti risultati ottenuti dalla magistratura e dalle forze dell'ordine.
Ringrazio ancora la dottoressa Chinnici e tutti i colleghi intervenuti per il loro contributo.

La seduta termina alle 22.05.