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Seduta del 23/1/2001


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Seguito dell'audizione del sottosegretario di Stato per l'interno, Massimo Brutti.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito dell'audizione del sottosegretario di Stato per l'interno, Massimo Brutti.
Ricordo che nella seduta del 16 gennaio il sottosegretario Brutti ha svolto un'ampia relazione sul tema delle collaborazioni di giustizia, con particolare riferimento ai testimoni.
In Commissione abbiamo avuto molte occasioni di confronto sulla questione dei collaboratori e dei testimoni di giustizia. Soprattutto sulla gestione dei testimoni negli anni passati abbiamo lamentato una situazione che a nostro avviso era incomprensibile. La scorsa settimana il sottosegretario Brutti ha avuto modo di esporci - nell'ambito della prima parte dell'audizione, che è risultata estremamente importante - linee e indirizzi che abbiamo potuto giudicare come una netta inversione di tendenza in questo settore: è stata infatti dimostrata un'attenzione al problema che consideriamo in sintonia con la relazione approvata dalla Commissione antimafia all'unanimità. Ricordo che in quel documento erano stati espressi giudizi fortemente negativi sulla gestione dei collaboratori ed, in particolare, dei testimoni di giustizia.
Per il seguito dell'audizione abbiamo avuto modo di proporre al sottosegretario Brutti alcune indicazioni per un ulteriore approfondimento di questo tema.
Prima di dare la parola al sottosegretario Brutti per il seguito della sua esposizione, lo prego di segnalare alla presidenza - analogamente all'incontro precedente - l'eventuale esigenza di procedere temporaneamente in seduta segreta in caso di informazioni da mantenere riservate per motivi di sicurezza personale.
Prego, sottosegretario Brutti.

MASSIMO BRUTTI, Sottosegretario di Stato per l'interno. Signor presidente, nell'incontro con la Commissione del 16 gennaio scorso ho potuto fornire dati quantitativi e notizie specifiche sulla condizione dei testimoni di giustizia, sui programmi di protezione e soprattutto sui casi nei quali nell'anno 2000 abbiamo realizzato un reinserimento nel normale contesto sociale e lavorativo dei testimoni di giustizia che avevano dato il loro contributo nell'ambito di processi per reati di mafia e che avevano in sostanza esaurito questo contributo, uscendo quindi dal programma di protezione per rientrare nella vita normale.
Se alla fine del 1999 i testimoni di giustizia sottoposti al programma speciale di protezione sono risultati 56, durante il 2000 abbiamo avuto 27 nuovi testimoni di giustizia, mentre 22 sono stati reinseriti nella vita normale; pertanto alla fine del dicembre 2000 il numero complessivo dei testimoni di giustizia ammessi al programma


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speciale di protezione è risultato pari a 61.
Rispetto ai dati che ho fornito alla Commissione durante la scorsa seduta dedicata all'audizione, vorrei oggi sottoporre all'attenzione dei parlamentari un nuovo dato (nuovo nel senso che l'accertamento - abbastanza complesso - si è svolto nei giorni passati). Come ho detto, l'ammissione dei testimoni di giustizia al programma speciale di protezione è una extrema ratio, alla quale ricorriamo nei casi in cui non c'è modo di proteggerli altrimenti; quando è possibile, invece, cerchiamo di risolvere il problema della protezione dei testimoni mediante misure ordinarie, che tendono a conseguire due obiettivi: innanzitutto non interrompono in modo traumatico il corso normale della vita di queste persone; in secondo luogo, dal momento che queste persone continuano a svolgere la loro vita - sia pure sottoposte ad una particolare tutela -, le misure ordinarie rappresentano un segno di forza dello Stato, che non ha bisogno di ricorrere a complicate procedure di trasferimento per mettere i testimoni nelle condizioni di adempiere al loro dovere e per tutelarli. Dalla rilevazione che abbiamo compiuto risulta dunque che in questo momento in tutta Italia sono protetti con misure ordinarie 227 testimoni. Quindi, se 61 sono stati ammessi al programma speciale di protezione, 227 sono protetti con misure ordinarie. Dei 61 testimoni che ho citato, 4 sono stati ammessi allo speciale programma di protezione ma continuano a vivere nel loro luogo di origine e di residenza abituale (prima che iniziasse la testimonianza).
Passerei ora ad esporre alcuni problemi relativamente ai collaboratori di giustizia e le linee sviluppate dalla commissione centrale per i programmi di protezione su questo fronte.
Innanzitutto vorrei richiamare l'attenzione della Commissione su una questione che stiamo trattando, per la quale definiremo linee di comportamento diverse da quelle seguite nel passato. Il problema è quello dell'assistenza legale dei collaboratori. Nel nostro bilancio la spesa per l'assistenza legale è molto alta: ho calcolato che nell'ultimo anno ha superato il 45 per cento della spesa totale. Abbiamo quindi definito alcuni criteri - diversi dal passato - sui quali ci interesserebbe avere una sorta di via libera della Commissione, perché questo rende più facile condurne in porto la realizzazione. Si tratta di criteri che vanno ad incidere sugli onorari degli avvocati.
La normativa vigente sulla protezione prevede che ai collaboratori ammessi al programma venga garantita l'assistenza legale. Naturalmente né il Servizio centrale di protezione né la commissione centrale per i programmi di protezione possono entrare in alcun modo nella scelta degli avvocati. Il Servizio di protezione si limita a liquidare direttamente ai legali le parcelle, sostituendosi in questo ai collaboratori. Secondo l'articolo 4 del decreto interministeriale 24 novembre 1994, l'assistenza legale è limitata ai procedimenti penali per fatti commessi prima dell'ingresso nel programma e le prestazioni pagate si limitano alle spese di giudizio e all'onorario per un solo avvocato. L'ammontare delle relative spese si aggira in media sul 35-40 per cento dell'intero capitolo di spesa; ma, come ho detto, ho calcolato che nell'ultimo anno siamo andati ancora più in alto. L'assistenza legale per un collaboratore di giustizia costa in media 70 milioni all'anno. Abbiamo pertanto definito una serie di regole che devono servire a comprimere questa spesa.
Vengo ora all'esposizione delle proposte. Innanzitutto si tratterebbe di liquidare gli onorari nella misura minima inderogabile prevista dalla tariffa forense quando il collaboratore ricopra nel procedimento la veste di indagato o di imputato di reato connesso o collegato e l'attività del difensore consista nella semplice assistenza agli interrogatori, sia nella fase delle indagini sia nella fase del dibattimento. Attualmente la liquidazione viene effettuata nella misura media; quindi si passerebbe dalla misura media alla misura minima della liquidazione.


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Si tratterebbe inoltre di liquidare gli onorari nella misura media (fra minimo e massimo) prevista dalla tariffa forense quando il collaboratore ricopra nel procedimento la veste di indagato o di imputato e l'attività del difensore non si limiti alla semplice assistenza agli interrogatori, ma comprenda prestazioni più complesse (memorie difensive, richieste, arringhe, esame di posizioni particolari e così via).
Nel caso di assistenza di più collaboratori, si prevede di liquidare gli onorari secondo quanto stabilito dall'articolo 3, commi 1 e 2, della tariffa forense: ossia, se i collaboratori assistiti fino ad un massimo di dieci hanno una stessa posizione processuale, il difensore presenterà parcella unica aumentata del 20 per cento per gli assistiti successivi al primo e fino al decimo, e aumentata del 5 per cento per ciascun assistito dopo il decimo e fino al ventesimo. Se la posizione di alcuni degli assistiti comportasse un esame particolare, verrebbe liquidata per questi la parcella intera, ridotta del 20 per cento.
Il rimborso delle spese generali extragiudiziali avverrebbe forfettariamente, nella misura del 10 per cento sull'importo degli onorari (articolo 8 della tariffa forense in materia penale e articolo 11 della tariffa forense in materia stragiudiziale). Attualmente, invece, esse vengono liquidate nella misura del 20 per cento.
Il rimborso delle spese processuali (copie, corrispondenza e così via) avverrà nella misura del 100 per cento rispetto a quanto viene documentato. Se nello stesso processo vengono assistiti più collaboratori, la spesa sarà rimborsata una sola volta.
Le spese di trasferta verranno liquidate nella misura indicata nell'articolo 4 della tariffa forense in materia penale e nell'articolo 8 della tariffa forense in materia stragiudiziale. L'indennità di trasferta sarà liquidata nella misura minima per ogni ora o frazione di ora, con riferimento esclusivamente all'effettiva durata della prestazione e non già con riferimento all'intera durata della trasferta.
Gli onorari, le indennità e le spese riguardanti le partecipazioni alle udienze dibattimentali saranno liquidati solo per quelle udienze in cui viene interrogato il collaboratore imputato di reato connesso o collegato e per quelle in cui il collaboratore partecipa per ordine del giudice. Ovviamente il limite suddetto non vale per il difensore del collaboratore che nel processo ricopra la veste di imputato.
Le disposizioni sopra indicate, secondo lo schema che abbiamo proposto e che è oggetto di discussione, devono essere comunicate al difensore, che le sottoscrive per presa visione e per accettazione, non appena viene nominato dal collaboratore.
Questa è la proposta sulla quale stiamo lavorando. Ho voluto sottoporla integralmente alla Commissione perché per questa via ci impegneremo - d'intesa con gli organi rappresentativi dell'avvocatura - per comprimere un po' le spese. Infatti quanto più riusciremo a risparmiare risorse, tanto più potremo investirle nei settori che ci interessa di più valorizzare (in questo quadro, certamente sul terreno dell'incentivazione dei testimoni di giustizia).
Vorrei poi richiamare brevemente la vostra attenzione su altri aspetti. Abbiamo sviluppato una serie di iniziative a favore dei minori che si trovano nel circuito della protezione. Attualmente sono ammessi al programma di protezione 1.934 minori: tranne uno, che è un minore collaboratore, gli altri 1.933 sono tutti familiari di collaboratori di giustizia. La fascia più ampia, 635, ha un'età compresa fra i 10 e i 15 anni. Ciò pone vari problemi. Il più grave è quello di conciliare la necessità di sicurezza del programma di protezione con una normale vita di relazione. Si tratta di ragazzi e di bambini che non hanno alcuna responsabilità per i fatti che vengono addebitati ai collaboratori di giustizia né hanno alcuna responsabilità per la situazione in cui si trovano. Corrisponde quindi ad un'elementare esigenza di civiltà e di umanità trattarli nel modo migliore possibile, così da garantire una crescita normale e armonica delle loro personalità. Dobbiamo


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anche tenere presente che un trattamento umano nei confronti di questi familiari rappresenta uno degli elementi che incentivano la collaborazione con la giustizia e contribuisce a costruire un rapporto di rigore e di lealtà tra lo Stato e i collaboratori.
Il Servizio centrale di protezione si è molto impegnato su questo fronte: per esempio, ha ridotto al minimo i tempi per le iscrizioni scolastiche ed è intervenuto su problemi particolari come i servizi di accompagnamento a scuola per gli handicappati o i problemi relativi al nome, alle generalità, alle attività sportive svolte da ragazzi). Tutto questo si svolge attraverso intese con gli enti locali e con altre autorità, per cercare di garantire una vita normale a questi minori.
Il Servizio provvede a interessare costantemente gli organi della giustizia minorile sulle situazioni a rischio, come i disagi dovuti alla carcerazione di uno o di entrambi i genitori o come tensioni all'interno della famiglia.
Il Servizio interviene con l'aiuto dei servizi psico-sociali. Di recente sono stati inseriti nell'ufficio sanitario direttori tecnici psicologi della polizia di Stato, per un'assistenza specializzata sotto questo profilo. Inoltre è in via di realizzazione una rete di accordi con le strutture specializzate (uffici minori delle questure, tribunale per i minorenni, presidi specialistici), per costituire una sorta di osservatorio permanente sui minori che si trovano nel circuito dei programmi di protezione, in modo da coordinare interventi terapeutici e interventi di sostegno. Gli psicologi del Servizio centrale di protezione hanno effettuato 124 visite a minori che si trovavano in condizioni di disagio.
Qualche parola sul controllo nei confronti dei collaboratori giustizia. Abbiamo 502 collaboratori liberi, 202 collaboratori detenuti, 406 sottoposti a misure alternative (fondamentalmente si tratta di detenzioni domiciliari). I controlli sui collaboratori sono incrociati e continui, per verificare se il programma funzioni, se le misure di sicurezza siano idonee, se le misure di assistenza siano adeguate alle esigenze di vita, se vi siano prospettive di recupero sociale. I controlli sono effettuati dalle forze territoriali di polizia delle località protette, in collaborazione con le strutture del Servizio di protezione.
L'articolo 5 del decreto interministeriale 24 novembre 1994 prevede che il programma di protezione possa essere revocato per due ordini di motivi, legati al comportamento del soggetto: il reinserimento nel circuito criminale; l'inosservanza degli obblighi comportamentali in modo tale da impedire l'attuazione delle misure di protezione o da renderle superflue. Secondo la medesima norma, fatti valutabili ai fini della revoca sono anche l'attuazione del cambiamento delle generalità e l'opportunità per il destinatario di svolgere attività di lavoro o di impresa: in questi casi evidentemente si ritiene che cessi l'esigenza della protezione e questo può dare luogo alla revoca.
L'articolo 5 prevede anche che la commissione centrale - l'unico organo che possa decidere sulla revoca - debba acquisire, prima di procedere alla revoca, i pareri dell'autorità giudiziaria proponente e del procuratore nazionale antimafia.
Ogni anno (nel passato, ma per il futuro ogni due anni, poiché la delibera di cui ho parlato nella seduta del 16 gennaio estende a due anni la durata del programma di protezione), in prossimità della scadenza del periodo di protezione la commissione centrale per i programmi di protezione richiede un parere all'autorità giudiziaria sulla sussistenza dei presupposti e poi decide se prorogare o meno il provvedimento. Durante l'ultimo anno un criterio direttivo costante della commissione è stato quello di responsabilizzare al massimo le autorità giudiziarie competenti, sia per quanto riguarda l'ammissione al programma di protezione sia per la proroga, per la revoca o per la concessione dei benefici previsti dall'ordinamento penitenziario.
Nel 2000 abbiamo revocato con decorrenza immediata, per il sopravvenire di fatti che inducevano la revoca, 29 programmi


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di protezione in corso. In altri casi, di fronte a violazioni comportamentali di minore rilievo, la commissione si è limitata ad una diffida.
Oltre il 78 per cento delle violazioni degli ultimi due anni ha riguardato inosservanze di natura amministrativa: violazioni comportamentali minori, che danno luogo ad un richiamo e quindi possono diventare la premessa - ove vi sia la ripetizione di comportamenti in contrasto con le regole - di provvedimenti di riesame e di revoca del programma di protezione. Il 22 per cento delle violazioni riguarda reati: nella maggior parte dei casi si tratta di delitti contro il patrimonio o simulazioni di reati o delitti di favoreggiamento.
Il problema del controllo sui collaboratori liberi si risolve con un grande impegno delle forze territoriali di polizia, che vengono costantemente sollecitate in tale direzione (cioè nel senso di esercitare un controllo scrupoloso) dal Dipartimento, dai vertici del Servizio e dalla stessa commissione. Nell'esercizio del potere di revoca noi perseguiamo un indirizzo di rigore; in sede di proroga del programma da parte della commissione centrale effettuiamo una valutazione attenta di tutti i comportamenti scorretti.
La legge non prevede sanzioni diverse dalla revoca o dalla non proroga. Quindi noi ci dobbiamo servire di questi strumenti (revoca o non proroga) per indurre un rigore nei rapporti tra collaboratori di giustizia e apparato di protezione, nonché per rendere chiaro che nel momento in cui si stabilisce questo rapporto con lo Stato i collaboratori sono tenuti ad osservare puntualmente le regole prescritte. Lealtà reciproca e osservanza delle regole sono, in estrema sintesi, i criteri che abbiamo cercato di sviluppare e di attuare durante quest'anno.
Non vado oltre, signor presidente. Credo di aver enunciato le questioni per le quali la Commissione aveva manifestato un particolare interesse. Resto disponibile a rispondere alle vostre domande.

PRESIDENTE. Do ora la parola ai colleghi che intendano proporre quesiti o spunti di approfondimento.

ROBERTO CENTARO. Signor Presidente, non interverrò sui casi singoli, patrimonio della conoscenza di altri colleghi, ma sulle linee di indirizzo per quanto riguarda la corresponsione degli onorari degli avvocati dei collaboratori di giustizia e per quanto attiene alla revoca del programma di protezione.
Condivido in linea di massima le linee di indirizzo ai fini del pagamento degli onorari degli avvocati dei collaboratori di giustizia anche perché, per esperienza personale, ho potuto vedere come la funzione di questi legali sia veramente ridotta al minimo, a volte mera presenza e non altro. Consideriamo anche che se la Camera approverà la riforma del codice di procedura penale in attuazione della riforma costituzionale dell'articolo 111, verrà meno una pletora di figure di imputati in reati connessi, cui si sostituirà quella del cosiddetto testimone assistito, comunque assistito da difensore. Questo testimone deve parlare, perché è testimone a tutti gli effetti; è assistito in quanto comunque si devono evitare domande che riguardino la sua responsabilità ed ha quindi un ruolo lievemente superiore a quello di imputato in reato connesso, il quale poteva e può anche oggi avvalersi della facoltà di non rispondere ed anche di mentire perché ha gli stessi diritti dell'imputato.
Mi chiedo però se sia necessario proporre alla sottoscrizione degli avvocati questa sorta di protocollo d'intesa sull'onorario; tutto sommato, infatti, vengono comunque rispettati i minimi (e non potrebbe essere diversamente) e vi è una valutazione tra minimo e massimo in relazione all'attività svolta, per cui penso che questo passaggio non sia necessario per l'amministrazione, visto che comunque la retribuzione corrisponde alla tabella professionale. Il rischio che pavento è che si inneschi un dialogo amministrazione-avvocato che non credo abbia poi ragione di essere.


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Per quanto riguarda i criteri di rigore cui il sottosegretario Brutti ha accennato circa la revoca del programma di protezione, in attesa che la Camera restituisca al Senato, con le modifiche di cui si è parlato sui testimoni di giustizia, il provvedimento sui collaboratori di giustizia che prevede una elencazione di ipotesi di revoca, eccetera, sottolineo la necessità di grande attenzione alla vicenda della revoca perché frequentemente su comportamenti certamente in violazione ma che tutto sommato non avevano grande portata si sono attuati provvedimenti di revoca anche alla vigilia di maxiprocessi in cui gli stessi collaboratori di giustizia dovevano rendere le loro dichiarazioni, con il risultato che in alcuni casi hanno dovuto addirittura dormire in macchina, non sapendo dove andare, e fortuna e onestà loro ha voluto che siano poi andati a rendere quelle dichiarazioni, perché alcuni alla fine si sono rifiutati.
Consideriamo anche che quelle obiezioni sul comportamento di coloro cui è attribuita la protezione dei collaboratori di giustizia - obiezioni fatte nella vicenda testimoni, ancor più rilevanti in quella occasione perché i testimoni sono persone per bene - sono rilevanti anche in questa vicenda perché da un lato ci si trova di fronte certamente a dei delinquenti, cioè soggetti che hanno un certo modello comportamentale, ma dall'altro a volte ci sono degli eccessi che portano il soggetto, che già muove da quel modello comportamentale, ad una reazione; a volte c'è un rigore eccessivo o per lo meno esclusivamente formalistico, come quello di considerare motivo di revoca un'uscita magari per comprare le sigarette.
Al di là del necessario rigore, è però indispensabile che si decida caso per caso e si eviti una decisione basata sul dato formalistico, considerato anche che non sempre il comportamento di coloro che sono addetti alla protezione è corretto (usiamo questa parola, anche se magari non nell'accezione classica del termine) a 360 gradi.

MICHELE FIGURELLI. Anch'io vorrei non fare riferimento a nomi o situazioni particolari e richiamare invece l'attenzione su alcuni punti di linea generale.
Ho apprezzato molto un dato di novità, e cioè la corrispondenza, emersa fortemente lungo tutta l'esposizione del sottosegretario e la sua risposta alle singole questioni evidenziate, fra il retroterra della riflessione e dell'elaborazione, come anche delle critiche della Commissione antimafia, e la posizione del Governo. In base al quadro fornito dal sottosegretario ed al modo in cui lo ha delineato, credo che siamo di fronte ad una situazione segnata da una forte differenza rispetto a quella che avevamo quando si discusse la relazione sui collaboratori e sui testimoni, ed anche rispetto a discussioni successive.
Siamo anche di fronte ad un approccio politico culturale, molto più consapevole delle contraddizioni oggettive, alla ricerca del modo migliore di affrontarle. Mi sembra che l'obiettivo fondamentale di affermare nella vita reale del sistema di protezione una forte differenziazione fra collaboranti e testimoni sia ormai una realtà, e fa piacere sentire una spiegazione critica da parte del sottosegretario sulle inerzie, in parte burocratiche, ma prima ancora ed in parte più grande di senso comune, mentali, psicologiche e culturali, che continuano a manifestarsi rispetto a questa differenziazione perfino nella terminologia. Mi sembra che siamo sulla strada giusta per le proposte che si fanno e per il sistema dei coinvolgimenti sistematici e più ampi delle autorità giudiziarie.
Data la connessione oggettiva fra il sistema di protezione, la condizione materiale e la prospettiva di collaboranti e di testimoni da un lato e dall'altro la pericolosità dell'azione mafiosa - non mi riferisco solo alla pericolosità di un'azione frontale, della rappresaglia totale, della soppressione, ma alla pericolosità di molte altre forme dell'azione mafiosa, anche quella del condizionamento, dell'infiltrazione, del recupero di altre pressioni su di loro e sui loro familiari - vorrei chiedere da questo punto di vista un giudizio


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aggiornato, per quanto flash, sugli elementi di novità che dall'osservatorio del Ministero dell'interno emergono nei movimenti di Cosa nostra, nella cosiddetta sommersione: sono preoccupato del fatto che sovente la valutazione e il giudizio che si danno su questa sommersione sottintendono o addirittura teorizzano esplicitamente l'abbandono, la svolta, quasi come fosse un dato acquisito per sempre e definitivo, rispetto all'attacco militare e allo scontro nelle forme che purtroppo abbiamo sperimentato e visto.
Credo che la sommersione vada vista in maniera diversa e che non bisogna abbassare la guardia rispetto ai pericoli di attacchi anche nuovi, sanguinosi e forti. Non ci dobbiamo fare ingannare dalle pax mafiose; anche perché abbiamo molti segnali di rottura di queste pax che non sono riconducibili a quelle che vengono definite come singole operazioni chirurgiche, per usare un'espressione già utilizzata a commento di alcuni delitti e di alcuni episodi recenti.
Chiedo questo giudizio flash in relazione da un lato alla esigenza di collegare l'evoluzione migliore del sistema di protezione con il fine di combattere la nuova pericolosità della mafia e, dall'altro, in relazione ad alcuni problemi specifici posti dal sottosegretario Brutti quando ha parlato del reinserimento o dei reinserimenti; nello stesso territorio o lontano? Se è nello stesso territorio, quando si esce o appena si esce dal sistema di protezione quale attenzione, quale vigilanza, quale forma diversa da quella del sistema di protezione si adotta?
Chiedo questo giudizio flash - ed è mio dovere farlo - anche in relazione ad un fatto di ieri, ad un nuovo allarme venuto dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo per le decisioni del Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica relative all'applicazione della direttiva 559/442 2000 sui servizi di vigilanza fissa di scorta e di tutela; applicazione della direttiva che, in considerazione dell'impegno nella città di Palermo per la Conferenza delle Nazioni Unite, era stata rinviata. Non ho bisogno di ricordare che Palermo è - non per pretesa o presunzione nostra, ma per lezione della storia - una città assolutamente diversa da tutte le altre per la catena di sangue che l'ha segnata; ed è inutile ricordare che un mafioso come Paolo Anselmo ha detto, testimoniato, provato come la volontà di uccidere Paolo Borsellino, che non è stata improvvisa, non è stata frutto di un sogno notturno, si è potuta tradurre in un'organizzazione dell'attentato e della sua messa in atto con successo appena è stato rimosso dalla sua abitazione il presidio fisso.
Ho aperto questa parentesi per chiedere un giudizio flash, ma ne approfitto per domandare anche al sottosegretario se non ritenga opportuno, di fronte a questo allarme - ci sono dichiarazioni allarmanti sull'«abbandono»: «ci hanno abbandonato», «lo Stato ci chiede di combattere la mafia senza assicurarci un adeguato sistema...» e così via - un incontro del ministro con la DDA di Palermo ed un sistema di verifica dell'applicazione della direttiva, dove questa è stata fatta, ed anche verifiche permanenti sull'efficacia di questi sistemi.
Chiedo poi al sottosegretario di far avere alla Commissione anche qualche ulteriore dato sulla esistenza o meno, o sulla dinamica in discesa di proteste nei confronti del sistema, come quelle per esempio avute a suo tempo della signora Castiglione, quando facemmo la relazione; e di farci avere qualche dato sui contenziosi e, per il riferimento che lo stesso sottosegretario ha appena fatto ai ragazzi ed ai familiari, ad inconvenienti, se continuano a verificarsi, come quelli della frequenza dell'università al nord da parte del figlio e di un operaio del cantiere navale di Palermo che fu costretto ad andare fuori, con la famiglia, e che noi cercammo di aiutare con non molto successo.
Infine, vorrei sapere se nella strategia di cambiamento efficace che il sottosegretario Brutti ci ha qui esposto, si sia già sperimentata o si preveda anche una qualche attenzione alla formazione e all'aggiornamento del personale del servizio


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di protezione che provvede alla tutela ed al trattamento dei collaboranti e dei testimoni.

FILIPPO MANCUSO. Mi riferisco alla precisazione, peraltro indiscutibile, del sottosegretario Brutti, il quale ha detto che gli uffici non hanno altro rimedio all'infuori della revoca o della non proroga. È naturale, non vedo quale altra possibilità vi sia. Ma nell'ipotesi che le cause della revoca (più che della non proroga) siano identificate come fatti di reato come vi comportate?

PRESIDENTE. Do ora la parola al sottosegretario Brutti per la replica.

MASSIMO BRUTTI, Sottosegretario di Stato per l'interno. Voglio anzitutto dare una rapida risposta alla domanda specifica dell'onorevole Mancuso. Ogni volta che è accaduto durante quest'anno la revoca è stata immediata. Questo è avvenuto per la vicenda messinese e in qualche altro caso. La revoca è stata immediata anche nel caso di Maniero e in una serie di altri casi in cui si è verificato un reato. La situazione è un po' più complicata quando si tratta di violazioni comportamentali perché, come diceva il senatore Centaro, bisogna valutare la loro dinamica, il loro significato.

FILIPPO MANCUSO. Interessate l'autorità giudiziaria?

MASSIMO BRUTTI, Sottosegretario di Stato per l'interno. Certo.
Affronterò ora tre questioni sollevate dalle domande e dagli interventi che sono stati svolti. La prima riguarda i testimoni di giustizia, la seconda, posta dal senatore Figurelli, concerne le scorte e la vigilanza fissa, e la terza è una valutazione, sia pure molto rapida e sommaria, della situazione attuale di Cosa Nostra e del significato della strategia di occultamento (o di che cosa mi sembra che significhi) sulla base dei fatti che possiamo elencare e valutare.
Per quanto riguarda i testimoni di giustizia, rinvio alle notizie e alle indicazioni che ho già fornito. Mi limiterò a sottolineare un punto che considero strategico. La distinzione, che era assente nella legge, tra testimoni di giustizia e collaboratori di giustizia è stata posta alla base del nostro lavoro e dell'organizzazione del servizio. Abbiamo distinto, nell'ambito del servizio, una specifica struttura che si occupa dei testimoni di giustizia cercando di dare ad essa degli obiettivi e dei modelli di comportamento che tenessero conto della peculiarità della condizione dei testimoni. La differenza balza agli occhi e l'abbiamo più volte ripetuta. I collaboratori di giustizia sono persone che hanno commesso reati e scelgono di collaborare, di dare un contributo all'accertamento della responsabilità per reati di mafia ed entrano nel circuito di protezione; alcuni di loro sono detenuti, altri sono in condizione di detenzione domiciliare, altri ancora sono liberi. Si tratta, ripeto, di persone che hanno commesso reati e che compiono una scelta di collaborazione in funzione di incentivi: c'è un do ut des che noi conosciamo e di cui abbiamo più volte descritto e discusso le condizioni e i limiti. Nel caso dei testimoni di giustizia ci troviamo invece di fronte ad una realtà profondamente diversa. Si tratta di persone che non hanno commesso reati e che adempiono un dovere civico: sono cittadini che scelgono di dire ciò che sanno e di aiutare lo Stato nella lotta contro la mafia in cambio di nulla, anzi in cambio di una interruzione traumatica della loro vita normale perché essere ammessi al programma di protezione significa cambiare vita e andare incontro all'ignoto. Nel passato nei confronti dei testimoni di giustizia vi è stato un atteggiamento non adeguato, che ha dato luogo a proteste e critiche. Noi abbiamo cercato di invertire questa tendenza, di voltare pagina.
Detto questo, come ho già segnalato nella precedente seduta, vi sono alcune questioni specifiche, alcuni problemi personali di assai difficile soluzione, che però stiamo cercando di risolvere. Il fatto stesso di avere ridotto a pochi i problemi ancora aperti, cioè quelli che attengono al


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reinserimento nella vita normale di alcune persone è già, a mio avviso, un successo. Naturalmente, noi teniamo conto delle singole situazioni specifiche, perché possono esservi testimoni di giustizia che provengono da un'area grigia. Mi riferisco a soggetti che appartengono all'ambiente mafioso ma non hanno commesso reati che, ad un certo punto, scelgono di uscire da quell'ambiente e di dire quello che sanno. Si tratta, spesso, di familiari. In alcuni casi ci troviamo di fronte a questa situazione, che dà luogo ad una serie di difficoltà ulteriori. Tuttavia, secondo me, il punto di vista dal quale si muove deve essere sempre lo stesso perché queste persone, anche se provengono da famiglie mafiose e si distaccano da un ambiente mafioso, comunque non hanno commesso reati e quindi si trovano in una condizione diversa da quella dei collaboratori di giustizia. Esse, a maggior ragione, meritano un aiuto che consenta loro di uscire veramente e definitivamente dall'ambiente mafioso dal quale hanno preso le distanze.
Prendo atto delle osservazioni del senatore Figurelli in merito alle scorte e ai servizi di vigilanza che riguardano i magistrati di Palermo. Riferirò la sua sollecitazione al ministro. Voglio ricordare che il mutamento nei servizi di scorta e di vigilanza consiste soprattutto nella sostituzione della vigilanza fissa con una forma di vigilanza più articolata, la cosiddetta vigilanza dinamica mirata. Con ciò si intende che non c'è un presidio fisso ma ci sono auto della polizia che seguono percorsi circoscritti, in modo da garantire comunque una tutela e una presenza in prossimità delle abitazioni dei magistrati. Tuttavia, le osservazioni svolte dal senatore Figurelli meritano la massima attenzione e pertanto mi farò carico di riferirle al ministro, così che egli possa considerare tutti gli aspetti della vicenda in corso, che ha come obiettivo un'adeguamento delle forme di vigilanza e di tutela al fine di una coincidenza tra l'azione di controllo del territorio e l'azione di vigilanza e di protezione nei confronti dei singoli soggetti. Questo è lo spirito della direttiva e delle misure che sono state adottate.
Mi soffermerò ora sulla terza questione, che a mio avviso è molto rilevante e sulla quale spesso cerchiamo di riflettere e di giungere a valutazioni aggiornate. Quale è, oggi, la condizione in cui si trova l'organizzazione Cosa Nostra nella Sicilia occidentale e in particolare nella provincia di Palermo? Il termine che spesso viene usato e che io stesso ho utilizzato nella seduta precedente è occultamento. Dopo la sconfitta subita dal gruppo dirigente che faceva capo a Riina e Bagarella, cioè dopo la sconfitta della linea stragista, dell'attacco contro lo Stato, siamo di fronte ad una strategia di mimetizzazione e di occultamento. Ma l'occultamento non significa che non vi sia l'organizzazione, che continua ad essere forte ed anzi si rinsalda attorno alle famiglie mafiose tradizionali, e non significa neanche che all'interno dell'organizzazione non vi siano contrasti ed episodi di vera e propria guerra. In questo momento non c'è una situazione di pace consolidata all'interno di Cosa Nostra: ciò risulta dai dati che possiamo mettere insieme sulla base di quel che è accaduto negli ultimi due anni.
Voglio richiamare l'attenzione della Commissione sul fatto che tra il 1999 e il 2000 vi sono stati 16 episodi di omicidi o scomparse (che sono equivalenti agli omicidi) in diverse zone della provincia di Palermo, che sono da ricondurre ad attacchi contro personaggi in vario modo riconducibili alla leadership di Provenzano e alle famiglie a lui legate. Altri attacchi devono invece essere interpretati in senso diverso, perché colpiscono soggetti che in passato erano legati al gruppo Riina-Bagarella. Segnalo il fatto che gli omicidi di personalità rientranti nell'area di Provenzano riguardano prevalentemente imprenditori. Questo dà l'idea di una situazione ancora dinamica, di uno scontro ancora aperto, che si indirizza in sostanza al controllo di due attività fondamentali di Cosa Nostra, l'attività estorsiva e quella, in sviluppo (uno sviluppo che guarda al


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futuro e agli investimenti che devono arrivare), di penetrazione negli appalti.
Ho messo in fila una serie di fatti, a tutti noti, che dimostrano il quadro della situazione che vi ho riassunto fin qui. L'epicentro di una parte consistente di questi attacchi è Belmonte Mezzagno. In data 25 febbraio 1999 è stato assassinato Gregorio Santangelo, trasferitosi da Belmonte Mezzagno ad Alcamo. Il 4 maggio 1999 inizia nella zona di Belmonte Mezzagno una serie di uccisioni che hanno come vittime degli imprenditori. Il primo è Chinnici Antonino, ucciso il 4 maggio 1999; il secondo Profeta Antonino, ucciso il 19 giugno 1999; il terzo Bonanno Angelo, ucciso il 21 dicembre 1999; il quarto Martorana Antonino, ucciso il 14 ottobre 2000; il quinto Pietro Martorana, fratello di Antonino Martorana, ucciso il 15 novembre 2000. E ancora: l'8 gennaio 2001 vi è il tentato omicidio dell'imprenditore Carmelo Virga (un attacco destinato a concludersi con un omicidio non andato a segno). Il 19 agosto 2000 a Belmonte Mezzagno viene assassinato Giovanni Tubato, macellaio ed armiere coinvolto nelle stragi. In questo caso siamo di fronte ad una figura diversa, che presumibilmente appartiene all'altro schieramento proprio perché è stato coinvolto nella strategia di cui era protagonista lo schieramento Riina-Bagarella.
A Cinisi, il 14 settembre 2000 scompare Giuseppe Di Maggio, figlio di Procopio, vicino ai Corleonesi di Riina e Bagarella. Il cadavere viene rinvenuto in mare poco tempo dopo. Il 26 ottobre 2000 scompare Gianpiero Tocco, amico di Giuseppe Di Maggio. Anche in questo caso siamo di fronte all'omicidio di persone che gravitano nell'area tradizionale dei corleonesi, cioè del gruppo Riina-Bagarella. A Termini Imerese, il 24 febbraio 2000 viene ucciso Giuseppe Gaeta, in contrasto con Giuffré, il capo mandamento di Caccamo legato a Provenzano. Il 6 dicembre 2000, a Cefalù, scompare Salvatore Fazio, collegato agli Schittino e alla famiglia Spera (quindi a Provenzano). A Carini si registrano alcune scomparse significative: il 26 aprile 1999 scompaiono Giuseppe Mazzamuto e Antonino Failla; il 15 marzo 2000 scompare Federico Davì; a Torretta, vicino a San Giuseppe Iato, il 24 aprile 1999 scompare Luigi Mannino; a Partinico, il 10 aprile 1999 vi è l'omicidio Alduino.
Questa rete di omicidi dimostra come vi sia un dinamismo interno, un fronte aperto, tutt'altro che una pax mafiosa interna. Quando si parla di pax mafiosa ci si riferisce probabilmente ad altro, cioè alla scelta compiuta da Provenzano e dai suoi di non fare la guerra contro lo Stato ma di seguire un'altra via, che vediamo dispiegarsi soprattutto nella penetrazione negli appalti. Non c'è una pace interna ma una situazione di scontro aperto. Basti pensare che l'ultimo omicidio che ha avuto una valenza politica è stato quello del sindacalista Mico Geraci, avvenuto a Caccamo nell'ottobre del 1998. È un omicidio che rimanda ad un ambiente nel quale il capo riconosciuto è Antonino Giuffré, il quale, come sappiamo, è in collegamento con Provenzano. Quindi, abbiamo anche un episodio che ha una valenza politica e che è riconducibile alla sfera di Provenzano.
Credo che sarebbe opportuno riprendere ed approfondire le notizie e le valutazioni contenute nella relazione che la direzione distrettuale antimafia ha rimesso al procuratore generale Aliquó (che formarono la base della parte del discorso inaugurale che si riferiva a Cosa Nostra in provincia di Palermo). Noi abbiamo un'esigenza di aggiornamento: negli ultimi anni i collaboratori di giustizia ci hanno detto poco. L'ultimo collaboratore di giustizia di grande rilievo è stato Giovanni Brusca. Dopo di lui, dal punto di vista qualitativo non abbiamo avuto personaggi rilevanti appartenenti ai gruppi dirigenti che potessero riferirci che cosa è accaduto negli ultimi anni. L'occultamento c'è, ma attenzione a pensare che gli equilibri si siano definitivamente assestati, perché la situazione dimostra che vi è ancora uno scontro interno, sullo sfondo del quale, naturalmente, vengono avanti posizioni nuove, con giovani che conquistano maggiore spazio. Rimane ferma la posizione


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di assoluto rilievo e di leadership che sembra essere tenuta da Provenzano.
In questo quadro la cattura di Provenzano rappresenterebbe certamente una scossa forte agli equilibri dell'organizzazione ed anche al dominio del gruppo che la controlla. Una scossa in grado di incidere sui due meccanismi fondamentali, le estorsioni e la penetrazione negli appalti: la cattura di Provenzano darebbe un colpo molto duro ai nuovi assetti mafiosi che si sono stabiliti negli ultimi anni. Questo è l'obiettivo che noi perseguiamo con grande impegno e al quale richiamiamo l'attenzione e il lavoro quotidiano delle forze di polizia.

PRESIDENTE. Ringrazio il sottosegretario Brutti per il suo intervento.
È in via di definizione il lavoro del Comitato che si occupa dei collaboratori e dei testimoni di giustizia. Credo che sarà discussa anche la proposta, avanzata all'interno di tale Comitato, di affidare la gestione dei collaboratori di giustizia, sotto il profilo della protezione, ad un organismo che non abbia contatti investigativi con i collaboratori stessi. Ciò in realtà già avviene, perché la struttura che avete creato mantiene questa distanza. Si tratta peraltro di un aspetto che va approfondito e perseguito in modo costante. Il Comitato, a seguito di una comparazione con il sistema Marshall, ritiene che questa ulteriore innovazione, istituzionalizzata, consentirebbe di guardare ai collaboratori con fiducia ma, nello stesso tempo, con estremo rigore e capacità di gestione.

MASSIMO BRUTTI, Sottosegretario di Stato per l'interno. Questo è un criterio fondamentale. Bisogna tenere distinte le strutture e il personale addetti all'investigazione dalle strutture e dal personale addetti alla protezione dei collaboratori di giustizia.

PRESIDENTE. Per quanto riguarda la nuova geografia mafiosa, la Commissione parlamentare antimafia ha acquisito il documento della procura di Palermo in merito ai recenti fatti di Cosa Nostra e alla sua evoluzione. È importante - concordo pienamente su questo - cogliere il ruolo devastante di Provenzano, per la metodologia che utilizza, per il tipo di comando, per il rapporto che vuole instaurare con le istituzioni ed in particolare con le imprese, per il suo adattamento nella società, per la sua penetrazione all'interno del sistema degli appalti. Dobbiamo togliere a Provenzano alcuni margini di gestione. Giudico importante l'intervento in materia di rito abbreviato, così come l'articolo 41-bis e il gratuito patrocinio, con cui Provenzano voleva farsi beffa delle istituzioni. È a mio avviso importantissimo anche l'intervento legislativo, che finalmente sta per giungere in porto, in materia di collaboratori di giustizia. Ma adesso l'impegno più rilevante è quello di colpire, con l'arresto di Provenzano, la sua strategia e il suo modello, che sta pervadendo non solo Cosa Nostra ma anche altre organizzazioni mafiose in Italia, in modo da compiere un importante passo in avanti nella lotta alle mafie.
Ringrazio il sottosegretario Brutti e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15.

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