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Seduta dell'8/7/1998


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Audizione dei rappresentanti della CGIL, FISTEL-CISL e UIL.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'esame del piano per la nuova RAITRE, ai sensi dell'articolo 3, comma 9, della legge 31 luglio 1997, n. 249, nonché dei piani aziendali coordinati e discussione sullo stato di attuazione dell'articolo 37, comma 4, del contratto di servizio, l'audizione dei rappresentanti dei sindacati CGIL, FISTEL-CISL e UIL.
Do il benvenuto ai nostri ospiti: Bruno Cosenz, rappresentante della CGIL; Daniele Mattaccini, rappresentante della FISTEL-CISL; Flavio Tomei, rappresentante della UIL.
Premesso che per la concomitanza dei lavori parlamentari molti commissari non possono partecipare all'audizione odierna (potranno comunque avvalersi del resoconto stenografico), ricordo che abbiamo avviato una lunga serie di audizioni sul piano per la nuova RAITRE e sulla divisionalizzazione, questioni che sono al centro dell'attenzione dei lavori della Commissione e, in particolare, del relatore, senatore Falomi. Vorremmo quindi conoscere il parere di tutti i soggetti interessati alle trasformazioni in corso.
Chiedo ai nostri ospiti se intendano rendere delle dichiarazioni prima di rispondere alle domande dei commissari.

FLAVIO TOMEI, Rappresentante della UIL. No, signor presidente.

PRESIDENTE. Forse mi sono espresso male: vorremmo conoscere il parere del sindacato sul piano riguardante la terza rete e sulla divisionalizzazione.

FLAVIO TOMEI, Rappresentante della UIL. Essendo stati invitati, non avevamo dichiarazioni pregiudiziali da rendere; pensavano di rispondere alle domande rivolte dai commissari.
Poiché ci viene rivolto un quesito preciso, non mi voglio sottrarre e non mi è difficile dare una risposta. Sicuramente la RAI in questo momento si sta trasformando, si è dotata di uno strumento diverso rispetto all'assetto precedente. Il sindacato è molto attento ed ha accolto con favore questo tipo di impostazione, perché tutti ricordiamo quella della holding, che inizialmente era stata data dal Parlamento; abbiamo sicuramente accolto come un fatto positivo il passaggio dalla holding alla divisione. In qualche modo, abbiamo anche cercato di contribuire affinché questo avvenisse, con manifestazioni e pressioni di ogni natura. Riteniamo che in questo momento l'azienda si stia riposizionando sul mercato sul piano della razionalità e del mantenimento del livello occupazionale, senza introdurre aspetti negativi dal punto di vista del lavoro. Questo è un aspetto estremamente positivo.


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DANIELE MATTACCINI, Rappresentante della FISTEL-CISL. Abbiamo vissuto un lungo travaglio rispetto agli assetti istituzionali che la RAI stava modificando; questa vicenda ci ha visti spesso protagonisti rispetto ad una spinta che il sindacato ha sempre esercitato in rapporto alla necessità di un recupero di efficienza e di efficacia per ridurre gli sprechi che in azienda erano abbastanza cospicui e che più volte sono stati denunciati. Riteniamo che il nuovo assetto divisionale in qualche modo consenta anche a noi di tenere sotto controllo questa vicenda, tenuto conto della separazione tra gli impegni di servizio pubblico e quelli di carattere commerciale.
Su questo nutriamo però una preoccupazione: che si sia aperta la discussione rispetto ad un altro obbligo di legge - quello derivante dal referendum sulla possibilità di privatizzare - il quale evidentemente crea inquietudini nell'ambito del sindacato e dei lavoratori. L'assetto divisionale disegna un quadro diverso e già in questa prima fase presta il fianco a dichiarazioni su possibili privatizzazioni ed interventi.
Riteniamo che il servizio pubblico abbia una sua validità se mantiene l'offerta differenziata e il pluralismo cui ci siamo sempre ispirati; l'offerta differenziata e il pluralismo si esercitano in una rete alimentata con il canone, ma anche su tutte e tre le reti. Quindi, per quanto ci riguarda, l'unitarietà dell'azienda è un bene comune dei lavoratori del paese, per cui non vediamo possibile un'operazione che abbia aspetti di privatizzazione anche sul piano editoriale, soprattutto delle reti, sebbene, come avevo detto all'inizio, il referendum richiami questi impegni. Ci sono però aspetti industriali e aspetti editoriali; teniamo molto alla garanzia del pluralismo attraverso cui si diversifica l'offerta; se questa è diversificata dal punto di vista dei programmi, dell'informazione, della cultura, degli spettacoli e dell'intrattenimento, lì c'è la garanzia occupazionale. Diversamente, non si vedrebbe come garantire l'occupazione, se non in attesa di alcune certezze che vanno date sul piano del futuro assetto riguardante anche le TV tematiche, la pay-TV, ossia lo sviluppo.
Attualmente stiamo ragionando sul perimetro dato, non abbiamo ancora riferimenti dal punto di vista sindacale anche rispetto allo sviluppo. Abbiamo visto che la concorrenza - mi riferisco a Mediaset - dichiara di sbarcare in Europa; noi siamo ancora su un ragionamento di servizio pubblico a livello nazionale, abbastanza contenuto nei nostri confini culturali e produttivi. Questo ci preoccupa, perché rispetto agli elementi futuri non so se le risposte possa darle l'azienda, il Parlamento, la stessa Commissione o l'authority.
Un'altra questione attiene alle risorse. In passato, quando vi era la necessità di sanare i conti, come sindacato abbiamo attuato, con i lavoratori, passaggi importanti per tentare di recuperare l'efficienza anche sul piano dei costi. Oggi ci troviamo di fronte ad una divisionalizzazione dell'azienda e ad impegni (il contratto di servizio) rispetto ai quali potrebbero corrispondere minori entrate. È noto a tutti come sia grande il rischio dal punto di vista delle risorse, anch'esso legato ai livelli occupazionali, perché se si raggiunge un totale negativo di circa 800 miliardi, conseguente a 400 miliardi di maggiori impegni e a 400 miliardi di minori entrate, è abbastanza problematico mantenere i livelli occupazionali. Il 31 dicembre 1998 scadrà il contratto, per cui si tratterà di individuare i modelli organizzativi più flessibili, tenendo sott'occhio anche il costo del lavoro. Vorremmo, comunque, che rispetto a questo problema anche da parte dei competenti organi venisse una risposta certa ai lavoratori per quanto riguarda le risorse, che rappresentano ormai un problema atavico per l'azienda.

BRUNO COSENZ, Rappresentante della CGIL. A noi sembra che l'ipotesi societaria avanzata rappresenti una soluzione soddisfacente rispetto al quadro delineato tramite il provvedimento n. 1138. Come ha detto chi mi ha preceduto, la verificheremo in futuro, però pensiamo che nel caso in cui si dovesse arrivare a ipotesi non dico di privatizzazione ma di


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immissione di capitale privato - come peraltro permette la legge precedente - dovrebbe essere limitata, indirizzata ai settori «industriali» delle divisioni. Mi spiego meglio: saremmo preoccupati se il capitale privato intervenisse sulle divisioni editoriali, perché sarebbe difficile contemperare un'ipotesi di pluralismo, di libertà da esigenze strettamente mercantili e di redditività con un'ipotesi di servizio pubblico. Quindi, se quest'ipotesi dovesse essere praticata, secondo i nostri intendimenti dovrebbe essere limitata alle divisioni che fanno riferimento alla diffusione e alla produzione; per il resto credo che confliggerebbe con idealità che sono patrimonio del sindacato.
Altro pregio o, comunque, caratteristica che non confligge con l'ipotesi parlamentare della legge, attiene alla possibilità, tramite questa struttura, di dividere in maniera molto trasparente i conti economici, senza entrare in conflitto, possibilmente, con la Comunità europea, con leggi antitrust, con l'authority o, comunque, con commistioni tra canone e pubblicità.
Come ha già detto il collega Mattaccini, vi è poi il problema delle risorse, che però costituisce una variabile indipendente dal nostro potere di intervento. Noi faremo la nostra parte, ma credo che il legislatore debba impegnarsi per riequilibrare in modo sostanzialmente equo il canone e la pubblicità. A tal fine dobbiamo tener presente che l'attuale sistema degli indici di affollamento è penalizzante per quanto riguarda questa ipotesi che, però, deriva da un orientamento parlamentare. Quindi, al di là della volontà aziendale di ristrutturarsi, si tratta di un orientamento che, se non viene rivisto, anche alla luce degli affollamenti pubblicitari, potrebbe creare problemi non tanto nella prossima stagione quanto nel prosieguo. La richiesta che rivolgiamo al legislatore è di evitare che ci si trovi di fronte ad una situazione abbastanza stravagante, quella di un mercato che non può essere praticato liberamente da un società per azioni perché i vincoli al mantenimento delle risorse le provengono dall'esterno. Se così fosse, si tratterebbe di una bizzarria da rimuovere.

FLAVIO TOMEI, Rappresentante della UIL. Vorrei aggiungere, ricollegandomi alla «bizzarria» di cui ha parlato il collega Cosenz, che uno degli elementi che frastorna l'opinione pubblica e, comunque, gli addetti ai lavori è questo modo ondulato di procedere rispetto alla politica e al Parlamento. La vicenda di Radio parlamentare è un elemento che, in qualche modo, esemplifica questo atteggiamento che definirei abbastanza critico nei confronti della RAI. È strana la situazione di un'azienda che prima viene sollecitata ad acquisire frequenze, poi il Governo e il Parlamento modificano la loro posizione per affidare a un altro un tipo di servizio che è tipico del servizio pubblico. Tra l'altro, mi preme ricordare che l'attuale radio che assicura la diretta dal Parlamento è rappresentata da un partito politico, perciò è come se i cattolici chiedessero l'aiuto dei mussulmani per divulgare la loro religione. Ebbene, in questo caso si registra questa contraddizione. La RAI è sempre considerata come soggetto sperimentale rispetto alla politica, il che in qualche modo nuoce all'azienda, i cui dipendenti vorrebbero essere posti sul mercato in condizioni di parità, non in condizione subalterna. Vi è stata una totale inversione di tendenza: rispetto ad un passato che vedeva la RAI privilegiata o comunque esaltata, oggi nei confronti di quest'azienda vi è, invece, un tentativo di ridimensionamento, come se fosse qualcosa di poco chiaro. A noi risulta invece chiarissimo.

PAOLO RAFFAELLI. Può essere utile ricordare ai nostri ospiti che lo scopo di queste audizioni è quello di affrontare insieme la questione della divisionalizzazione e la questione della nuova terza rete. A mio avviso è stata una scelta opportuna, perché vi sono alcuni ambiti, a proposito dei quali rivolgerò poi delle domande ai nostri interlocutori, in cui è evidente l'interconnessione diretta tra il ruolo delle sedi regionali, la ricomposizione del rapporto fra terza rete e TGR, eccetera.


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In questo contesto, vorrei essere autorizzato a svolgere adesso un intervento che avrei potuto tranquillamente svolgere, in apertura di seduta, sull'ordine dei lavori.

PRESIDENTE. Onorevole Raffaelli, se l'intervento attiene all'ordine dei lavori, la prego di svolgerlo al termine dell'audizione.

PAOLO RAFFAELLI. Allora lo svolgo direttamente nel corso dell'intervento, perché ritengo che ogni commissario sia autorizzato a pronunciare le parole che ritiene opportune.

PRESIDENTE. Se è sull'ordine dei lavori, le tolgo la parola.

PAOLO RAFFAELLI. Può essere utile per i commissari e per i nostri ospiti sapere che ieri c'è stato un momento di dibattito pubblico, alla luce del sole, sui temi riguardanti la RAI - ha interessato molti interlocutori - e in modo particolare sulle prospettive della nuova terza rete. Mi sono permesso, presidente, di contestare - credo che lei abbia ben presente questo passaggio, tanto che mi ha risposto prontamente - una sua dichiarazione in cui annunciava un intervento presso il garante per le telecomunicazioni al fine di bloccare il progetto per la terza rete. Secondo quanto risulta dalle agenzie, lei avrebbe parlato di un progetto della terza rete che uccide il pluralismo e l'emittenza...

PRESIDENTE. Prima di farla continuare, mi consenta di dire che ho esposto ai nostri ospiti lo stato della discussione da lei ora ripetuto; purtroppo, essendo arrivato in ritardo, non era informato delle mie premesse.
Se vorrà aprire un dibattito sulle dichiarazioni rese dal presidente di questa Commissione, avrà la possibilità di farlo al termine della seduta. Accetto il confronto su quanto ho sostenuto, ma non vorrei farlo in una sede impropria (dobbiamo ora rivolgere domande ai nostri ospiti nell'ambito dell'audizione). Le rinnovo quindi l'invito a sviluppare questo argomento dopo lo svolgimento dell'audizione stessa - non durerà un anno! - anche per un senso di riguardo nei confronti delle persone invitate a partecipare a questa audizione, dal momento che la polemica politica riguarda i parlamentari.

PAOLO RAFFAELLI. Presidente, apprezzo molto il suo garbo e cercherò di ricambiarlo con il mio comportamento concreto. La questione non ha nulla a che vedere con una mancanza di riguardo né nei suoi confronti - me ne guardo bene, la polemica politica ha le sue leggi, ma il rispetto personale sopravvive ad essa - né rispetto ai nostri interlocutori; risponde ad un dovere anche nei loro confronti.
Come componente di questa Commissione devo essere in grado di sapere se stiamo svolgendo una serie di audizioni - si potrebbe parlare di una sorta di indagine conoscitiva - rispetto alle quali in qualche modo esiste una fine prefigurata nelle posizioni politiche predefinite delle forze politiche che hanno già deciso di pronunciarsi in un senso o nell'altro; oppure se siamo in una fase istruttoria aperta, rispetto alla quale le forze politiche sospendono il giudizio, cercando di acquisire tutti gli elementi di conoscenza per esprimere la loro posizione.
Considero - mi consentirà, signor presidente - la sua interruzione di poco fa come una conferma del fatto che non ci sono posizioni predefinite, che quelle che sono apparse nel dibattito tali non sono, per cui su questo terreno le audizioni debbono ancora produrre tutti i loro risultati e siamo in attesa di esprimere alla fine un giudizio politico compiuto. Prendo atto di questo, il che mi consente di continuare a discutere, nella certezza di condurre non una finzione di istruttoria, ma una istruttoria vera. Se vi fossero conclusioni predefinite, starei svolgendo audizioni virtuali; non mi interesserebbe, ciascuno di noi ha altri impegni.

PRESIDENTE. Per rimanere sui toni umoristici, le dirò che «c'è chi se la canta e se la suona» (è un vecchio detto romano). Io non ho affatto detto quello che lei dice. Comunque, la prego di porre


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domande agli ospiti, se lo ritiene opportuno. Per quanto mi riguarda, risponderò poi a quelle che intenderà rivolgermi, perché non mi può attribuire affermazioni diverse da quelle che ho pronunciato.

PAOLO RAFFAELLI. Delle due l'una: o questa audizione è già finita perché ne manca la ragione o può continuare.
Chiedo scusa per la lunga digressione ma, come i presenti avranno capito, non era inutile ai fini dei rapporti e della memoria di questo dibattito.
La domanda che intendo rivolgere riguarda l'intreccio tra divisionalizzazione e nuova terza rete. Parecchi dei soggetti che abbiamo ascoltato hanno posto il problema dell'intreccio tra le modalità di funzionamento delle sedi regionali - non solo in quanto fornitrici di servizi alle testate nazionali giornalistiche, ma come soggetti produttivi in senso lato, come centri di produzione e quant'altro - e il nuovo assetto che in qualche modo reintegra nuovamente TG3 e TGR e trasforma di fatto le sedi regionali in fornitrici di una testata in qualche modo in concorrenza con quella di riferimento.
Abbiamo sentito giudizi diversi nei vari interventi che si sono svolti: alcuni pezzi di azienda considerano la divisionalizzazione un elemento positivo che consente di vedere più chiaro all'interno dell'azienda, di accrescerne la forza, la competitività e quindi potenzialmente il valore sul mercato nell'ipotesi di privatizzazione; altri pezzi vedono la divisionalizzazione come un modo per dividere, indebolire, semmai per creare le condizioni per la svendita di parti dell'azienda.
Vorrei conoscere in particolare il vostro giudizio sull'intreccio tra sedi regionali e azienda nel suo complesso.

ANTONIO FALOMI. Lo scopo di questa serie di audizioni è già stato chiarito: acquisire elementi da parte di tutti i soggetti, istituzionali e non, per consentire alla Commissione nella sua collegialità di pronunciarsi con un proprio parere ed inviarlo all'autorità per le comunicazioni. È chiaro che siamo in una fase interlocutoria; poi la Commissione si determinerà e quello sarà il parere che varrà dal punto di vista istituzionale.
Tornerei su un punto che avete sollevato e che è stato evidenziato anche nel corso di altre audizioni. È costantemente presente una preoccupazione, in particolare nelle organizzazioni sindacali, relativa alla privatizzazione dell'azienda. Premesso che ovviamente c'è un referendum cui bisogna dare una risposta, il quale ha eliminato il vincolo del capitale interamente pubblico di proprietà della concessionaria, vorrei comprendere meglio questa preoccupazione. Vorrei sapere se nel documento - almeno in quello che abbiamo avuto come riferimento per la nostra discussione e che credo sia stato consegnato anche alle organizzazioni sindacali - ci siano elementi concreti tali da giustificare a vostro parere questa preoccupazione o se questa in particolare sia rivolta nei confronti di una discussione che il Parlamento dovrà fare al momento dell'esame dell'atto Senato n. 1138.
Credo che questo sia un primo elemento importante da chiarire perché qualcuno nelle audizioni precedenti ha sollevato qualche preoccupazione rispetto a punti specifici del documento che, viceversa, mi sembra si esprima con chiarezza sulla volontà di mantenere all'azienda un carattere unitario, sull'importanza del ruolo e della funzione di un servizio pubblico radiotelevisivo.
In secondo luogo, anche voi, come altri, avete sollevato il problema delle risorse, che senza dubbio è importante, perché ovviamente è difficile chiedere ad un'azienda di fare di più con le risorse che si vanno restringendo. Credo che il tema abbia un fondamento reale; si tratta di capire, anche dal punto di vista legislativo, come poi si intervenga. Tuttavia, anche nel piano che è stato presentato dalla RAI si prospetta una configurazione a due stadi del processo di trasformazione: un primo stadio che viene finanziato attraverso il recupero di risorse all'interno dell'azienda; un secondo stadio che invece apre problemi come quelli che avete ricordato, degli affollamenti pubblicitari, delle


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sponsorizzazioni e quant'altro. Poiché prima avete parlato di una vostra disponibilità già data in passato a recuperare risorse e a contrastare inefficienze, vorrei sapere se abbiate delle opinioni su dove si possono operare tali recuperi di risorse nell'attuale situazione.

STEFANO SEMENZATO. Vorrei partire anch'io dal problema delle risorse, in quanto è stato detto poc'anzi che nel progetto vi sono, sostanzialmente, 400 miliardi di maggiori oneri e 400 miliardi di minori entrate, per cui per la RAI si configura la possibilità, nei prossimi anni, di reperire circa 800 miliardi. Finora su questo progetto il presidente Zaccaria ha ricordato che per l'azienda vengono meno 210-250 miliardi del canone autoradio e 40 miliardi circa della trimestralizzazione degli incassi attuata dal tesoro; sostanzialmente, quindi, ha reclamato le stesse condizioni dei consigli d'amministrazione precedenti, ha chiesto di non lavorare con minori risorse rispetto al passato per far fronte ai problemi della RAI.
Nel corso dell'audizione dei direttori di divisione e del direttore generale Celli, quest'ultimo ha invece parlato di un lavoro attuato con le disponibilità di cassa, quindi di un progetto di riorganizzazione che, nei fatti, diviene abbastanza diverso dal piano che ci è stato presentato, che rischia di essere il piano di ciò che si vorrebbe fare, perché Celli ci ha sostanzialmente detto - nell'audizione con il consiglio d'amministrazione avremo modo di verificarlo ulteriormente - che si opera nel quadro delle compatibilità esistenti e che la RAI non si espone né sul fronte dei soldi per le privatizzazioni né sui futuri soldi del canone. Si fanno solo riorganizzazioni e, come diceva prima il collega Falomi, crescite di produttività, recupero di fondi all'interno del bilancio esistente.
Avendolo prospettata Celli, mi sembra che si debba considerare seriamente il problema per la RAI, in attesa che il legislatore deliberi diversamente, di vivere con le risorse di cui attualmente dispone. Se si vuole realizzare quel piano le alternative, almeno teoriche, sono rappresentate, da una parte, dall'ingresso di capitali privati, dall'altra, da un aumento del canone. A me sembra che le due ipotesi siano per certi versi incompatibili, nel senso che è difficile far entrare grossi elementi privati in RAI e poi, contemporaneamente, chiedere un aumento del canone. È altresì difficile chiedere un grosso aumento del canone e, contemporaneamente, anche un regolamento commerciale sulla pubblicità, in quanto anche in questo caso si tratterebbe di una contraddizione difficilmente gestibile.
Rispetto alle due scelte che sono sul tappeto, cioè quella di un maggiore ingresso di capitali privati e di un aumento del canone con maggiori vincoli sulla RAI dal punto di vista dei limiti pubblicitari, del controllo di qualità e di tutto ciò che comporta essere sempre più servizio pubblico, in che modo vi collocate? Rivolgo questa domanda perché negli interventi introduttivi mi è sembrato che si sia favorevoli un po' all'una, un po' all'altra scelta. Poiché ritengo che le due scelte siano per taluni aspetti incompatibili, vorrei capire quale sia l'orientamento dei sindacati di fronte ad una RAI che oggi dice di essere costretta a fare un passo indietro perché non ha risorse oppure di andare avanti scegliendo, però, una delle due strade sopra prospettate.
Sempre il direttore generale ci ha detto che con le poche risorse disponibili le presenze regionali e territoriali non possono essere aumentate sul carico RAI. Più o meno credo che abbia detto questo: noi non siamo in grado di coprire, almeno dal punto di vista del reperimento delle immagini, tutte le situazioni esistenti; quindi lasciate che la RAI operi liberamente sul mercato, mettetela in condizioni di operare come le altre aziende, per esempio come Mediaset, ed ha citato il caso del treno di Firenze per scusarsi del furto di immagini che vi è stato. Evidentemente ciò comporta un problema non secondario, soprattutto dal punto di vista sindacale, per quanto riguarda il reperimento delle immagini, che Celli ha detto di voler preservare unicamente alla funzione RAI. Vi sono però decine di operatori inquadrati


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nel contratto giornalisti, abbiamo i service che operano per le televisioni private, a cui la RAI vuole ricorrere, che hanno tutt'altro tipo di qualificazione ed inquadramento; c'è l'apertura di un varco in cui è difficile controllare quanto fanno le redazioni locali e quanto viene acquistato sul mercato. Vorrei quindi capire quale sia la posizione dei sindacati su questo insieme di questioni.

BRUNO COSENZ, Rappresentante della CGIL. Chiedo scusa, ma credo che impiegherò un po' di tempo per rispondere alle domande molto complesse che ci sono state rivolte, in particolare dal senatore Semenzato.
Credo che con onestà intellettuale dobbiamo tutti entrare nell'ordine di idee che il sindacato è un pezzetto delle parti sociali quanto meno legittimate ad essere parte in causa in questa vicenda RAI. Dico questo perché rispetto a molte delle domande e degli interrogativi a cui cercherò di dare una risposta dal mio punto di vista, credo che l'interlocutore privilegiato debba essere proprio il legislatore. Il fatto strano è che le organizzazioni sindacali, come parte sociale rappresentativa, per lo meno interna, si sono trovate di fronte ad una situazione in cui quella che io definisco una variabile esterna, ma di alta dignità, cioè il Parlamento, ha deciso, a giusta o non giusta ragione - dirò poi quale è l'una e quale è l'altra dal mio punto di vista personale, che non vincola altri - che la RAI dovesse essere, nel panorama italiano, ciò che poi si ipotizza debba essere per legge. Questo con i vincoli fortissimi che tutti conosciamo (vedi, per esempio, quello delle risorse) e con gli obblighi che l'azienda ha per convenzione e per contratto di servizio. Prima l'ho definita una bizzarria, ma da questo punto di vista vi è una fortissima contraddizione, perché da un lato si pretende - in senso alto, non in senso arrogante - che questa parte di comunicazione RAI competa con le altre società di comunicazione (Mediaset, Cecchi Gori e tutta la miriade delle piccole società radiotelevisive), dall'altra, per legge, in virtù di un concerto di distribuzione delle risorse, di trust e antitrust, si dice che più di tante risorse non può avere. A questo punto francamente c'è un problema che...

ANTONIO FALOMI. ...che vale per tutti, anche i privati.

BRUNO COSENZ, Rappresentante della CGIL. Ho detto «vale per tutti». Infatti, io rispondo per quanto riguarda me perché siamo stati coinvolti, ma se la stessa domanda fosse stata rivolta a Mediaset, per alcuni aspetti, mutando alcuni indirizzi, anche Berlusconi avrebbe potuto dire alcune cose analoghe (non si possono limitare le risorse e poi pretendere...).
Questa è la premessa, se mi permettete, ma non per «svicolare», come si dice a Roma, dalla domanda. Siamo tutti consapevoli - credo - che la contraddizione è insita nella situazione di fatto determinatasi in questo paese; da altre parti questa contraddizione non c'è.
Per quanto riguarda la vicenda della terza rete, credo di aver detto all'inizio, e lo riconfermo, che l'ipotesi evidenziata dalla RAI è un compromesso alto tra l'orientamento parlamentare, le esigenze organizzative e la situazione di mercato, sapendo che in questo benedetto paese laddove si parla di servizio pubblico nell'accezione abbastanza diffusa si intende meno comunicazione e più informazione. Non faccio un comizio, non mi addentro in spiegazioni di carattere sociologico o di mercato, ma tutti quanti i dibattiti - vedo che l'argomento appassiona molto il Parlamento - quando vengono imputate alla RAI alcune defaillance sono molto tarati sull'informazione e meno su aspetti ludici della trasmissione.
La terza rete nasce con l'intendimento di fornire un servizio pubblico non caricato sull'informazione, che la collochi nello scenario italiano come fornitrice di servizio pubblico informativo. D'altra parte - chiedo scusa per la lunghezza, ma l'argomento mi appassiona - questa cosa non è nata adesso: tutti abbiamo sempre detto che la legittimità della RAI in quanto servizio pubblico e quindi fruitrice del


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canone - a differenza di Mediaset, Cecchi Gori e chi più ne ha più ne metta - consisteva nel fatto di essere radicata sul territorio attraverso le sedi regionali. Questo è un fatto storico da sempre; credo sia ineludibile, inevitabile e condivisibile da questo punto di vista.
Questa storia della terza rete impatta - questa è la domanda cui non posso rispondere: non posso fare le scelte che sono del legislatore e dell'azienda, ho altri interessi - con eventuali possibili, potenziali ristrettezze di risorse in funzione di eventuali imperativi esterni, se l'informazione deve essere così diffusa e capillare nelle sedi regionali. Probabilmente, se così dovesse essere, da un lato entrerebbe in contraddizione con possibili ristrettezze di risorse, dall'altro sarebbe in conflitto con competitività informative determinate da altre emittenti televisive. In tal caso, per questo secondo aspetto, credo che se regolamentato in maniera trasparente, senza coartare libertà altrui, senza violentare contrattualistiche esistenti, il concetto di service o di appalto in senso alto, non di lavoro in nero, potrebbe essere una soluzione accettabile. Se questo dovesse passare attraverso soluzioni di pagamento surrettizio o violenze contrattuali - mi sembra di averne sentita qualcuna - evidentemente il sindacato non potrebbe essere d'accordo, né se queste violenze venissero fatte da parte della RAI, che in questo momento stiamo rappresentando, né se fossero fatte da altri. Questo non solamente per un motivo di mera idealità o di solidarietà di classe, come si diceva una volta, ma soprattutto per il fatto che le nostre confederazioni associano e tutelano anche gli altri lavoratori.
Da questo punto di vista, credo che senz'altro dovremmo trovare una situazione equilibrata tra i nostri contratti e quelli di coloro che saranno chiamati a lavorare in service.
Tornando all'origine, non può essere il sindacato a rispondere alla domanda se preferisce una cosa o l'altra. Questa è una scelta di carattere aziendale, secondo me di natura legislativa, su cui il sindacato deve esprimere la propria opinione soprattutto per i cosiddetti ricaschi occupazionali - è un bruttissimo termine, ma il «sindacalese» è abbastanza abusato - che noi ovviamente riteniamo di dover tutelare al 100 per cento.
Da questo punto di vista, venendo ad un'altra parte della domanda, certamente nell'immaginario collettivo della RAI si associa privatizzazione a ristrutturazione di altra natura; si teme quindi un depauperamento retributivo e occupazionale. Per tale motivo, probabilmente da molte parti si accentua questo tipo di preoccupazione, che peraltro non deriva dal documento della RAI. Anzi, la direzione generale - non posso non apprezzarlo dal punto di vista espositivo - ha assicurato di non avere né intenzione personale, né mandato (ammesso che l'abbia avuto al momento della nomina) ad operare in tal senso. Devo quindi legittimamente fare atto non di fede, ma di fiducia.
Però nel caso in cui - questo è il punto che avevo menzionato nel mio primo intervento - per motivi di ristrettezze finanziarie o per ulteriori precisi orientamenti che potrebbero arrivare dal Parlamento si dovesse entrare nell'ordine di idee di immettere capitale privato, noi crediamo - ritengo di poter dire «noi» - che tale immissione non possa che essere limitata alle parti di RAI che non forniscono servizio pubblico informativo. Questo se la devo dire tutta, per così dire. Altrimenti, credo sia lapalissiano che ci possa essere quantomeno il sospetto, a fronte di una legittima esigenza da parte di chi immette denaro di una redditività, di un condizionamento di quanto viene diffuso. Questa contraddizione secondo noi metterebbe in crisi il concetto di servizio pubblico e quello connesso di canone esigibile.
La dico «papale papale» (anche se è impopolare all'interno della RAI dire quanto sto dicendo): c'è una divisione che non ha nulla a che fare con politiche di carattere editoriale, quella della diffusione; è ovvio, per quanto ho detto fino adesso, che se deve entrare capitale privato, io sono più favorevole che questo ingresso avvenga, sia pure al 49 o al 51 per cento, in questa divisione, piuttosto che in


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quella che edita TG1 e TG2, perché attraverso queste testate non dico che si fa condizionamento di massa, ma senz'altro si fa orientamento. Se sono uno che immette denaro, ho interessi di carattere mercantile tali per cui posso avere problemi contraddittori; d'altra parte, se così fosse nascerebbe oltre tutto il problema dell'audience. Infatti, se immetto capitale privato debbo avere una redditività che passa attraverso la risorsa pubblicitaria, la quale, se non è diretta in forma dirigistica - e non può esserlo da questo punto di vista - è strettamente collegata all'audience; l'indice di ascolto a sua volta è collegato al programma, che fa traino sul telegiornale (tutte le cose che conosciamo).
Da questo punto di vista, ho detto all'inizio e riconfermo di considerare molto più corretto che la soluzione delle contraddizioni insite nel recinto che tutti quanti abbiamo determinato in questo paese (il legislatore, le parti sociali, ognuno per la sua parte) sia diretta in questo senso.

PRESIDENTE. Lei ha detto una cosa molto interessante: ha parlato della possibilità di privatizzare, più che parti della RAI, parti delle divisioni. Questo non cozza con la difesa che tutte le organizzazioni sindacali fanno del principio dell'unitarietà del servizio pubblico? D'altra parte, il referendum ha parlato della privatizzazione della RAI, non delle divisioni.

BRUNO COSENZ, Rappresentante della CGIL. Non ho sotto mano il testo del referendum sulla privatizzazione, ma siccome quest'ultima non impedisce che possa entrare il capitale privato, dal mio punto di vista - mi sono permesso di dire che è il nostro punto di vista - dovrebbero essere risolte alcune contraddizioni, per esempio quella del canone derivante dal concetto di servizio pubblico, che ha delle sue logiche, in qualche modo svincolate dall'audience. Il servizio per i naviganti, per esempio, ha un'audience limitatissima, però è un servizio pubblico, e lo stesso può dirsi per l'isofrequenza e per altri programmi.

STEFANO SEMENZATO. Il suo schema funzionerebbe se fosse una holding, cioè società separate: in una società unica il capitale non può che entrare nel capitale generale, in una holding il capitale può entrare in una singola società. Vorrei quindi capire se vi sia o meno una proposta di modifica della divisione holding, altrimenti è tecnicamente impossibile.

PRESIDENTE. Ha spiegato meglio il mio pensiero, senatore Semenzato.

BRUNO COSENZ, Rappresentante della CGIL. Non sarei così apodittico, se mi è consentito il termine. Non sono certo che non si possa immettere capitale privato all'interno della corporate veicolandolo solamente su un pezzo di divisione. Non sono certo che tecnicamente non si possa fare. Comunque, sarei meno esaustivo rispetto alla sua conclusione. Le rispondo così perché nella mia proposta, nella mia ipotesi o, comunque, nel mio pensiero non vi era l'idea surrettizia di proporre il passaggio da divisioni a holding. Anzi, riconfermo che la divisione è un ottimo compromesso tra diverse istanze che hanno diviso, lacerato, fatto discutere le parti sociali rispetto all'idea della holding e alla monoliticità dell'azienda. Mi pare che sia un ottimo compromesso e che, quindi, debba costituire il patrimonio di partenza da cui sviluppare poi l'iniziativa.
Ripeto: mi permetto di dire che non è esattamente come dice lei. Se così fosse, mi porrebbe riflessioni ulteriori. Ma allo stato attuale non mi risulta.

FLAVIO TOMEI, Rappresentante della UIL. Credo che né il sindacato, né Cosenz intendessero proporre una holding o far entrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta e che noi consideriamo estremamente positivo. Qualora ve ne fosse la necessità estrema, cioè qualora sia ineludibile un minimo di privatizzazione, riteniamo che vi siano pezzi di azienda che possano essere privatizzati senza che da ciò ne nasca un problema di funzionalità o di missione da parte dell'azienda stessa.


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Le divisioni sono senz'altro aziende a sé stanti dal punto di vista funzionale se non, poi, dal punto di vista legale, in quanto tutte rispondono ad una logica unitaria. Qualora domani cambiasse l'orientamento del Parlamento - è questa la pericolosità che vi è nelle divisioni in questo momento -, l'aspetto speculare del fatto positivo sarebbe quello negativo. Oggi l'attuale consiglio dice che non è una sua missione quella di far sì che la divisione diventi poi una società, ma se domani una maggioranza diversa o l'attuale maggioranza intendessero procedere alla privatizzazione, verrebbe messa sul mercato più facilmente, perché attuare le divisioni e renderle appetibili e competitive dal punto di vista dei costi e del funzionamento significa compiere la classica operazione di smembramento di un'azienda. Ripeto: non vi è nulla che garantisce l'azienda da questo punto di vista, perché il Parlamento è sovrano per quanto riguarda la legislazione. Non v'è dubbio, quindi, sul fatto che si corra questo rischio.
Per quanto riguarda la domanda dell'onorevole Raffaelli rispetto alle sedi regionali, peraltro collegabile a quella rivolta dal senatore Semenzato, devo dire che il ruolo e le funzioni delle sedi regionali rappresentano uno dei punti di forza dell'azienda. Credo che questa sia l'unica azienda al mondo ad essere strutturata in 21 sedi regionali. Nell'attuale terza rete io vedo un elemento di rivitalizzazione delle sedi regionali, non un elemento di penalizzazione. È materialmente impossibile che le sedi regionali perdano ancora potere, perché in questo momento non ne hanno alcuno, in quanto è morta la programmazione regionale. Ritengo che l'azienda debba tornare sul territorio con approfondimenti culturali che tengano conto delle peculiarità del territorio stesso. Perché stiamo correndo un rischio gravissimo, che non è emerso in questa discussione e che, probabilmente, non emergerà in altre discussioni? Perché non vi sono nuovi abbonati e perché molti stanno disdettando gli abbonamenti, in quanto non si sentono rappresentati dall'azienda. Penso, soprattutto, alle zone del nord, dove non vi è una grande evasione dal punto di vista del canone ma una grande attenzione rispetto al ritorno politico e culturale della televisione.
Sarebbe quindi folle se l'azienda non si ponesse il problema delle sedi di Milano e Torino dal punto di vista della peculiarità del territorio. Sarebbe folle pensare che questo sia un ritornare indietro. Credo che non siano queste la volontà e la missione dell'attuale consiglio, né credo che siano questi gli indirizzi dell'attuale politica. Ritengo che sia necessario tornare ad investire in periferia.
In merito alla scelta dei service, ritengo che non sia determinata da una volontà politica, dal fatto che si è per il privato rispetto al pubblico. I mezzi e i numeri di cui disponiamo, nonché le energie che bisognerebbe investire per essere presenti su un territorio così vasto e diversificato, sono tali che è senz'altro meglio il service, ovviamente codificato e controllato, che dia garanzie a tutti dal punto di vista normativo. Non è la RAI che deve stare attenta, ma è il paese in se stesso che deve stare attento alle illegalità, che se esistono devono essere assolutamente eliminate.
Ecco perché, stante l'attuale situazione, sono favorevole ad un progetto di rilancio. Ho fatto prima una battuta su Radio radicale, ma è abbastanza strana anche la vicenda degli abbonamenti, perché il fatto che ci vengano tolte risorse ci pone in gravi difficoltà.
Non voglio dilungarmi oltre, perché a me interessava dare risposte mirate rispetto ai siti regionali e al discorso della privatizzazione, cioè rispetto a problemi che riteniamo giusto considerare ma che devono essere valutati nella loro positività e pericolosità. Vorrei dire, in modo esplicito, che non tutto in un paese si può privatizzare. A mio parere, non si può privatizzare la sanità, non si possono privatizzare i servizi pubblici e i trasporti, né si può privatizzare l'informazione tutta, altrimenti vivremmo in un paese diverso da quello che ci deriva dalla nostra cultura e dalla nostra storia. Sarebbe quindi grave se tentassimo questa operazione. Su altre situazioni siamo disposti a discutere,


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fermo restando che siamo e saremo pregiudizialmente contrari a che si realizzi quanto ho detto poc'anzi.

DANIELE MATTACCINI, Rappresentante della FISTEL-CISL. Ringrazio in particolar modo la Commissione parlamentare di vigilanza per l'attenzione data al sindacato e per le precisazioni che sono state fatte in apertura dall'onorevole Raffaelli. Si capisce che siamo in una fase di consultazione e non di preconcetto politico rispetto ai futuri assetti strutturali dell'azienda. Se così è, si risponde con grande libertà sindacale rispetto all'unico nostro grande problema: la valorizzazione professionale e la tutela occupazionale. Questo è il mestiere che un sindacato deve fare e che noi cerchiamo di fare in azienda.
Quando ci si sposta sul piano delle risorse, è chiaro che la nostra impostazione prende spunto da un aspetto. Come dicevamo inizialmente, in passato sono stati fatti degli sforzi per il recupero di costi e per l'inserimento in termini tecnici di flessibilità che passano attraverso gli organici e la razionalizzazione dei turni e degli orari di lavoro, dove è possibile che la forza lavoro della RAI dia un contributo in termini di recupero anche di costi.
Lo si è dimostrato all'epoca dei professori: è chiaro che se il direttore generale afferma che si farà fronte con le disponibilità di cassa, il nostro futuro dal punto di vista sindacale rischia di prospettare una situazione simile a quella che si è verificata all'epoca dei professori. Ecco perché il sindacato chiede al Parlamento e a chi si occupa di questi aspetti di non strangolare ulteriormente l'azienda attraverso maggiori impegni e minori entrate, perché questo comporta problemi seri inevitabili dal punto di vista occupazionale.
Ricordo che siamo stati chiamati dalla Commissione parlamentare con riferimento alla famosa storia dei programmisti-registri a tempo determinato, rispetto alla quale ci veniva chiesta la regolarizzazione di quei contratti (500 assunzioni). La risposta sindacale è stata quella di garantire l'occupazione pur a livello di tempo determinato, ma di garantirla nella continuità per non gravare ulteriormente sul conto economico dell'azienda e sul costo del lavoro.
Queste sono le leve che abbiamo a disposizione. Certamente vorremmo che ad un impegno dei lavoratori corrispondesse una disponibilità senza preconcetti rispetto ad un'azienda che rappresenta il paese, senza gravare ulteriormente rispetto alle risorse. Una cosa possiamo dirla: grasso non ce n'è più. Mentre in passato poteva esserci un discorso di questo tipo, dopo che dal 1992 ad oggi sono uscite 4.500 unità a fronte di circa 1.200 assunzioni, attualmente un contributo in termini di posti di lavoro il sindacato l'ha già pagato. Vorremmo evitare questo per il futuro. Fare le divisioni significa mettere in trasparenza i costi e quindi procedere a tarature dal punto di vista di organico, professionale, organizzativo, che consentano una maggiore visibilità.
L'intreccio tra divisioni e terza rete è indispensabile dal punto di vista dei servizi di cui quest'ultima avrà bisogno, intesi come acquisti, anche diritti televisivi, materie che verranno diffuse dalla terza rete ma prodotte dai centri di produzione. Auspichiamo che il centro di Milano venga rilanciato, che quello di Torino abbia una sua vocazione; auspichiamo anche un riequilibrio dei centri rispetto all'accentramento su Roma. Tuttavia, la distribuzione del lavoro non si fa spostando pezzi di azienda da una sede all'altra (portiamo a Milano la terza rete o un telegiornale o facciamo nuovi centri di produzione). Se tutto questo sistema fa sì che la RAI in termini industriali riesca a comportarsi come azienda all'avanguardia nel paese per quanto riguarda l'audiovisivo, allora tutto il tema della privatizzazione non viene più visto come una minaccia ma come un'opportunità a risorse costanti; però dobbiamo definire queste risorse costanti.
Ci è sembrato assurdo il venir meno - non sappiamo neppure come sia possibile far quadrare i conti rispetto a questo - del canone dell'autoradio. Non so quale privato o quale altra azienda possa accettare che manchino all'appello 200 miliardi


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di risorse. Tra l'altro, i nuovi modelli di automobili dispongono quasi tutti di autoradio, per cui il cittadino, in seguito all'incentivo sulla rottamazione, nel momento in cui cambia la macchina si troverà di fronte ad un pagamento, per così dire, «coartato». Poteva essere un'opportunità; la rottamazione consentiva indirettamente un maggior numero di abbonamenti RAI con i quali si poteva far fronte alle 42 mila disdette verificatesi nel corso degli anni 1996-1997. Oggi per la privacy ognuno di noi può decidere di non pagare il canone senza che qualcuno venga a chiedere o a controllare, perché questo non è possibile.
Vorrei portare, rispetto a questo, punti di riflessione del sindacato. Se dovessimo affrontare l'aspetto delle attuali disponibilità di cassa dovremmo costituire ulteriori bacini per i tempi determinati per flessibilizzare l'occupazione; dal punto di vista dei turni di lavoro, dovremmo portare a saturazione, magari anche con cicli notturni, l'impegno dei centri di produzione. Diversamente, credo che non saremmo in grado di sostenere ulteriori situazioni di decurtazione di risorse.
Sono questi alcuni punti di riflessione su cui speriamo di essere successivamente riconvocati.
Quando si faceva riferimento al documento, credevamo che fosse quello aziendale, non che esistesse un documento della Commissione parlamentare...

PRESIDENTE. Quello deve essere ancora elaborato.

DANIELE MATTACCINI, Rappresentante della FISTEL-CISL. Nel ringraziarvi per l'attenzione, avanziamo la richiesta di tentare di monitorare gli sviluppi di questa situazione, perché, per esempio, qualora si andasse verso un discorso di privatizzazione il sindacato vorrebbe essere parte attiva, così come è avvenuto in Telecom; questo svilupperebbe la partecipazione.
Ci sarà, a mio avviso, anche un'opportunità per la RAI e per il paese nel senso della creazione di nuovi posti di lavoro. Tutti dicono che esiste questa possibilità, io credo che esista nell'audiovisivo attraverso regole precise; altrimenti, si continuerà con il lavoro nero. Non abbiamo figure professionali contrattualizzabili (i freelance non lo sono); ognuno con una telecamera in mano può portare un servizio scoop (su cui ormai si incentra l'informazione) e nessuno va a vedere il prezzo, se il rapporto è contrattualizzato o meno. I telecineoperatori sono giornalisti per legge, mentre i freelance continuano ad operare fuori dalla legge. Lo sforzo che possiamo fare come sindacato - e lo faremo - è quello di arrivare ad un contratto unico dell'emittenza pubblica e privata perché non ci sia dal punto di vista contrattuale una competizione con agevolazioni sul fronte del privato, perché, ovviamente, oltre a Mediaset, c'è anche la piccola emittenza dove le flessibilità contrattuali sono più spinte; per altro verso non c'è nessuno sconto per la RAI, anzi c'è un aggravio di costi. Andiamo verso un contratto di settore, coinvolgendo le istituzioni, le parti industriali e sociali, il servizio pubblico. Potremmo così arrivare ad eliminare il lavoro nero, regolarizzare il tutto e creare nuovi posti di lavoro.

PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti e dichiaro conclusa l'audizione.

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