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Doc. XXIII n. 57


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PARTE SECONDA
STATO DELLA LOTTA ALLA MAFIA OGGI

1. Dalla mafia delle stragi alla mafia sommersa.

L'attacco più violento e più devastante portato avanti da Cosa nostra nei confronti dello Stato e dei suoi rappresentanti istituzionali è stato sicuramente quello che si è realizzato agli inizi dell'ultimo decennio del Novecento con le stragi di Capaci e di via D'Amelio nelle quali hanno perso la vita, assieme alle donne e agli uomini delle loro scorte, i magistrati Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino.
Queste stragi furono seguite, a distanza di poco tempo, da quelle di Milano, di Roma e di Firenze, a dimostrazione dell'accresciuta potenza mafiosa e della capacità di colpire al di fuori delle aree dove Cosa nostra era nata e si era affermata per un lungo periodo storico.
Tra il 1992 e il 1993 si è dispiegata per intero e in tutta la sua virulenza la linea stragista dei corleonesi, con il suo carico di morti e di lutti.
L'attuale fase, invece, sembra essere caratterizzata dalla totale assenza di stragi e da una così netta diminuzione degli omicidi mafiosi da aver indotto di recente qualche osservatore a ritenere che Cosa nostra sia del tutto, o quasi, scomparsa perché oramai definitivamente vinta.
È bene dire, sin dall'inizio e con la massima chiarezza, che Cosa nostra non è scomparsa e che non è stata definitivamente sconfitta.
Essa esiste, continua ad essere radicata, soprattutto in Sicilia, ed è ancora molto pericolosa sebbene abbia in gran parte mutato le forme di presenza sul territorio ed abbia ridotto notevolmente gli aspetti che l'avevano resa visibile sul piano nazionale e su quello internazionale.
In una parola, ha abbandonato la linea stragista e le azioni più scopertamente violente per scegliere una condotta meno appariscente, di \`inabissamento' com'è stato detto con felice espressione, ma non per questo di più bassi profilo.
In termini più generali, la criminalità di tipo mafioso nel nostro Paese non è certamente scomparsa perché essa è ancora viva ed operante sia nei territori d'antico e storico insediamento mafioso come la Sicilia, la Calabria, la Campania e la Puglia sia, seppure a macchia di leopardo e con diversa intensità da una zona all'altra, nei nuovi territori delle regioni del Centro e del Nord Italia.
Nonostante l'attività di contrasto dello Stato e gli indubbi successi ottenuti con la disarticolazione di numerosi sodalizi mafiosi, le varie organizzazioni - Cosa nostra, 'ndrangheta, Camorra e Sacra corona unita - continuano ad essere vitali ed operanti.
La loro pericolosità ed il loro radicamento, seppure diminuiti rispetto al più recente passato, sono ancora molto allarmanti e preoccupanti.


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Le stragi mafiose del 1992 e del 1993 erano state precedute da lunghi anni caratterizzati da una violenza omicida che aveva contraddistinto tutte le principali organizzazioni mafiose e che, per intensità e durata, non aveva precedenti nella storia dell'Italia repubblicana.
I dati delle morti violente, provocate per lo più da conflitti interni alle singole organizzazioni e determinate generalmente da cruenti e selvaggi scontri di potere, sono molto eloquenti.
Nel 1990 si erano contati cinquecentocinquantasette omicidi attribuiti dalle forze dell'ordine alle varie organizzazioni mafiose, l'anno successivo, il 1991, si arrivò addirittura a raggiungere il tetto di settecentodiciotto omicidi; il 1992 si chiuse con quattrocentocinquantatré casi che avrebbero rappresentato l'inizio di una nuova fase che da quel momento in poi avrebbe assunto tutte le caratteristiche di una netta inversione di tendenza.

2. I risultati conseguiti contro la mafia delle stragi e i limiti dell'azione contro la mafia sommersa.

Il 1992 è sicuramente un anno tanto particolare da meritare la definizione di anno bifronte sia perché segna il punto di massimo attacco allo Stato da parte della mafia sia perché è un anno di svolta nell'attività di contrasto da parte dello Stato che dimostra con i fatti una notevole incisività e una più decisa determinazione nella lotta alla mafia, a partire dalla ripresa della capacità di indagine da parte della Procura della Repubblica di Palermo che, seppure duramente provata dalle uccisioni di Falcone e di Borsellino, diventerà uno dei punti più sensibili della rinnovata controffensiva antimafia.
Un primo, significativo e particolarmente simbolico, risultato arriva a distanza di pochi mesi dalle stragi, il 15 gennaio 1993, quando i carabinieri di Palermo catturano Totò Riina, il capo dei corleonesi che era riuscito a diventare il principale esponente di Cosa nostra e a rimanere latitante per lunghissimi anni, con un'azione sicuramente brillante ma con risvolti tali da suscitare non poche polemiche su determinati aspetti che ancora attendono di essere chiariti.
In questo periodo esplode il fenomeno dei collaboratori di giustizia che colpisce al cuore diverse famiglie mafiose, inizialmente e in modo particolare quelle di Cosa nostra; poi, con il passare del tempo, anche le altre organizzazioni mafiose saranno colpite, seppure in misura e con intensità diverse.
Le dichiarazioni di una quantità davvero eccezionale di ex uomini d'onore consentono l'individuazione di numerose associazioni mafiose e la loro completa disarticolazione, l'avvio di significative inchieste giudiziarie e la celebrazione di importanti maxi processi caratterizzati dal notevole numero d'imputati che arrivano a volte a contare centinaia di persone.
È da sottolineare il lavoro svolto dalle procure antimafia di Palermo e Caltanissetta che hanno consentito di portare alla luce il disegno stragista di Cosa nostra e di assestare colpi mai prima subiti dalle organizzazioni mafiose. È un lavoro che deve continuare, soprattutto nella direzione dell'individuazione dei mandanti esterni di


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quella stagione stragista che ha insanguinato l'Italia, nel biennio 1992-1993, da Palermo a Milano e delle collusioni politico-affaristiche coltivate dalla mafia dei corleonesi.
Va pure continuato il lavoro di inchiesta intorno ai grandi delitti politico-mafiosi sull'esempio dell'omicidio Impastato di cui la Commissione si è occupata direttamente.
Sul fenomeno dei collaboratori di giustizia, comunque lo si voglia valutare, si può tranquillamente affermare che, soprattutto nella fase iniziale, esso ha dato un formidabile impulso all'attività investigativa contribuendo alla cattura di numerosi killer e conseguentemente alla salvezza di numerose vite umane.
Nello stesso tempo, l'aumentata attività di contrasto da parte delle forze dell'ordine tesa ad individuare e a catturare in Italia e all'estero mafiosi che erano rimasi latitanti per lunghi anni, ha segnato degli indubbi successi.
I latitanti catturati in Italia e all'estero dal 1992 al 31 dicembre 2000 sono 2569, una cifra significativa in termini assoluti (13). Accanto a questo dato generale, per quanto riguarda le singole organizzazioni mafiose e considerando sia i latitanti inseriti nel programma speciale dei trenta sia quelli inseriti nella lista dei cinquecento latitanti più pericolosi (14), dal 1o gennaio 1996 al 13 febbraio 2001, sono stati catturati: cento appartenenti alla mafia, centosette appartenenti alla camorra, settantaquattro appartenenti alla 'ndrangheta e diciassette appartenenti alla criminalità pugliese (15). Il bilancio complessivo, quindi, di questo periodo può essere complessivamente considerato in termini positivi.
Rispetto ad altre fasi storiche della lotta alla mafia nel nostro Paese il decennio appena trascorso ha registrato degli indubbi risultati, mai prima di adesso raggiunti.
Sono stati fortemente incrinati storici pilastri del sistema mafioso come la segretezza, l'omertà e l'impunità.
Al di là di alcuni eccessi, grazie al contributo dei collaboratori di giustizia, fenomeno che ormai si è trasformato fino a raggiungere caratteristiche diverse da quelle che abbiamo conosciuto inizialmente, l'omertà non è più l'antico ed inviolabile scudo protettivo di un tempo.
È stata violata la segretezza della struttura interna, delle regole, delle gerarchie e del loro funzionamento, dei rituali e delle iniziazioni.
Infine, la cattura di numerosi capimafia che erano componenti di alto profilo della Commissione di Cosa nostra e di altri importanti capi delle organizzazioni mafiose calabresi, campane e pugliesi ha incrinato l'impunità che per anni, troppi e lunghi anni, vuoi per incapacità degli apparati dello Stato vuoi per complicità o per corruzione, era stata accuratamente coltivata dai capimafia.

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Il prestigio, l'alone di rispetto, di invincibilità, di potenza illimitata e senza controllo hanno subito, dunque, uno scossone significativo e salutare.
A ciò ha contribuito anche il particolare regime penitenziario, il famoso 41-bis o.p., che tutti i più importanti capimafia sono stati costretti a subire non certo per una volontà di vendetta dello Stato, ma semmai per una elementare necessità di autotutela dal momento che storicamente era accaduto che anche dal carcere i capi della mafia fossero riusciti a comandare e ad impartire ordini ai loro associati che erano all'esterno.
Essere riusciti ad impedire l'esercizio di questo potere, da una parte ha assicurato il controllo dello Stato nelle carceri, dall'altra parte ha diminuito il potere dei capimafia, ne ha leso il prestigio e ne ha intaccato la supremazia.
L'azione di contrasto e i risultati ottenuti hanno scompaginato molte famiglie mafiose, soprattutto del palermitano e del catanese; a tal proposito, l'Avvocato Generale presso la Corte d'Appello di Palermo, in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario 2001, ha comunicato che nell'ambito del distretto di Palermo nell'ultimo anno sono state confermate in appello o inflitte ben centosedici condanne all'ergastolo.
Tali risultati hanno indotto i capi mafia scampati alla bufera giudiziaria a mutare linea di condotta per sopravvivere nella speranza di una ripresa futura.
Sotto questo aspetto è stata determinante l'azione di guida esercitata da Bernardo Provenzano, il vecchio capomafia che ha battuto tutti i record di latitanza, anche quelli, già notevoli di Riina.
I mutamenti rispetto al passato sono del tutto evidenti tanto sul terreno strutturale, cioè delle trasformazioni organiche dentro la struttura più intima di Cosa nostra, quanto su quello sovrastrutturale che ha coinvolto la linea di condotta di tutta l'organizzazione.
In una parola, si può dire che la gestione della Commissione provinciale da parte di Provenzano abbia introdotto significativi mutamenti nella struttura interna e nelle regole che da tempo immemorabile i mafiosi erano soliti seguire e far rispettare.
Innanzitutto sono state modificate le forme di reclutamento che, contrariamente al passato, ora sono più selettive e più rigorose.
Le affiliazioni e i relativi giuramenti non avvengono più alla presenza di numerose persone e tengono in maggior conto i legami di sangue, in ciò facendo tesoro del modello seguito dalla 'ndrangheta che è riuscita a sopportare più agevolmente l'ondata, per altri devastante, dei collaboratori proprio perché la struttura fondata sulla famiglia di sangue del capobastone calabrese si è rivelata più impermeabile di quella tipica di Cosa nostra.
Tra le organizzazioni mafiose Cosa nostra è quella che più di tutte le altre è stata colpita dal fenomeno dei collaboratori; anche la Camorra e la Sacra corona unita hanno annoverato tra le loro fila collaboratori di un certo peso, mentre solo la 'ndrangheta ha avuto meno collaboratori e soprattutto nessuno di loro è stato un capofamiglia importante.

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Il legame di sangue tra i diversi associati delle 'ndrine, cioè delle famiglie mafiose calabresi, ha costituito il motivo più profondo della tenuta del segreto; infatti uno 'ndranghetista che avesse deciso di collaborare con la giustizia veniva comunque a trovarsi nella non piacevole condizione di dover denunciare per prima cosa i familiari più stretti, padre, figlio, fratello, nipote, cugino, ecc.
La 'ndrangheta si è avvantaggiata di ciò, così come si è avvantaggiata del fatto che per lunghi anni le inchieste hanno appena lambito le strutture mafiose calabresi perché sono state concentrate soprattutto su Cosa nostra che era ritenuta la mafia più pericolosa.
Questo periodo è stato utilizzato dalla 'ndrangheta per espandere le proprie strutture al di fuori della Calabria.
Famiglie mafiose calabresi sono presenti in tutte le regioni del centro e del Nord Italia oltre che in numerosissimi paesi stranieri europei ed extraeuropei come l'Australia, gli Stati Uniti d'America, il Canada, ecc.
Molte inchieste e numerosi processi svolti hanno dimostrato come la 'ndrangheta sia oggi l'organizzazione mafiosa italiana più radicata e numericamente più forte sia in Italia sia all'estero.
Nella sola Lombardia gli 'ndranghetisti individuati dalla DDA e giudicati dai tribunali lombardi sono stati circa 2.000, nel solo decennio degli anni novanta.
Uno dei fattori che ha reso potente la 'ndrangheta è la sua invisibilità, la sua particolare attività criminale che si svolge senza particolari clamori e possibilmente senza richiamare l'attenzione degli inquirenti o dei mass media.
Tornando ai mutamenti delle antiche regole vigenti all'interno di Cosa nostra, appare come esse si siano in gran parte modificate, se non addirittura sconvolte, a cominciare da quella della circolazione delle notizie interne a Cosa nostra.
La regola della \`presentazione' che ha sempre rappresentato un modo, concreto e simbolico insieme, di far conoscere tra loro i mafiosi facendoli sentire parte di un mondo molto grande, ben più vasto del loro paese di origine, è stata fortemente ridimensionata fin quasi ad essere abolita.
Si è andata via via accentuando la necessità di celare agli altri capifamiglia gli uomini d'onore, soprattutto quelli nuovi o di più recente affiliazione.
È un modo, concreto ed efficace, per rendere ancora più clandestina, più segreta e più impermeabile all'esterno la struttura mafiosa, la sua composizione e il suo funzionamento.
Cosa nostra si sta ristrutturando sempre di più in compartimenti che, per ragioni di cautela, comunicano tra loro sempre di meno e, comunque, con più strati di segretezza rispetto al passato.
L'ossessione che gli uomini d'onore possano decidere in seguito di collaborare con la giustizia fa sì che aumentino le forme di segretezza e i filtri tra i vari livelli; tutto ciò comporta che solo i capi delle diverse famiglie si conoscano tra di loro e che solo tra di loro trattino, traffichino, facciano gli affari più importanti e prendano le decisioni più rilevanti, quelle che inevitabilmente coinvolgono l'intera organizzazione.

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A capo dei diversi mandamenti oggi sono collocati uomini di assoluta fiducia dell'attuale vertice di comando; attraverso di loro il vertice è in grado di assicurare il controllo periferico delle strutture.
Anche in Calabria la 'ndrangheta ha realizzato una sua ristrutturazione interna costituendo tre mandamenti, uno nella città di Reggio Calabria, uno a Locri nella zona jonica e uno a Palmi nella zona tirrenica.
Tale ristrutturazione corona il lungo periodo di pace interna e completa una decisione assunta nel 1991, anno nel corso del quale si concluse una sanguinosissima guerra tra le famiglie mafiose che era iniziata nel lontano 1985 con l'uccisione di Paolo De Stefano, l'esponente più rilevante della 'ndrangheta reggina.
I tre mandamenti rispondono alla necessità di trovare un raccordo tra le diverse 'ndrine per la gestione in comune degli affari più rilevanti tanto in Calabria quanto nelle regioni del nord e in numerosi paesi stranieri dove gli insediamenti della 'ndrangheta sono diventati negli ultimi anni molto consistenti e assai numerosi.
Diversa rispetto a Cosa nostra e alla 'ndrangheta la situazione esistente nella Camorra campana dove la frammentazione tra i vari clan permane molto acuta perché non si è riusciti a formare una direzione unitaria e ciò ha determinato a una forte conflittualità per il controllo del territorio e per il potere interno.
La frammentazione è particolarmente visibile nella città di Napoli dove i principali clan, raccolti sotto la cosiddetta alleanza di Secondigliano, sono entrati in rotta di collisione determinando un cruento e sanguinario scontro che ha provocato un notevole numero di morti e ha coinvolto anche persone innocenti che sono rimaste vittime incolpevoli di scontri tra camorristi.
In Campania altra situazione particolarmente interessante sotto il profilo criminale è quella della zona del casertano, regno incontrastato del clan camorristico dei casalesi guidato da Francesco Schiavone fino al luglio del 1998 quando venne catturato.
In questa realtà si è costruita nel corso degli anni una singolare esperienza criminale che ha saputo fondere i modelli della mafia siciliana e di quella calabrese in una struttura coesa, robusta ed estremamente pericolosa che è stata in grado di incidere e di influenzare i rapporti sociali e politici dell'intera zona.
Un posto di tutto rilievo è riservato dal vertice di Cosa nostra agli uomini d'onore che ritornano dal carcere; essi, per il prestigio che avevano e che sono riusciti a mantenere non scegliendo la via della collaborazione ma mantenendo fede al giuramento mafioso, ora vengono riutilizzati in posizioni chiave essendo ormai dimostrata la loro fedeltà ed affidabilità, al di là di ogni ragionevole dubbio e delle tipiche diffidenze esistenti in ogni organizzazione mafiosa, nessuna esclusa.
Anche nei confronti dei collaboratori si avverte un significativo mutamento poiché mentre un tempo si cercava di impedire la collaborazione uccidendo parenti stretti dei collaboratori ora, al contrario, si punta ad un loro recupero e ad un pieno reinserimento all'interno dell'organizzazione.

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Questo processo di pacificazione interna ha lo scopo essenziale, di alto valore simbolico oltre che pratico, di dimostrare la convenienza del ritorno sotto l'ombrello protettivo di Cosa nostra che in tal modo può mostrarsi più capace, più efficace e in grado di assicurare una protezione più duratura rispetto a quella promessa e concretamente mantenuta da parte dello Stato.
Provenzano ha cercato di chiudere, limitando al minimo i danni, la stagione delle stragi e ha inaugurato un nuovo periodo di confronto con lo Stato che non prevede il ricorso sistematico, e persino ossessivo, alla violenza omicida, ma contempla, al contrario, la convivenza, il dialogo, la trattativa.
Provenzano, così facendo, è diventato un punto di riferimento e di aggregazione per i mafiosi in carcere e per quelli in libertà, favorito dalle sue indubbie e riconosciute capacità di mediazione e agevolato dal punto di equilibrio che è riuscito sinora ad assicurare tra le esigenze dei boss reclusi nelle carceri in regime di 41-bis o.p. - ai quali ha indicato la via della coesistenza con le istituzioni come la più utile ed efficace per risolvere quei problemi che le stragi non solo non erano riusciti a risolvere ma avevano addirittura aggravato - e i boss emergenti ai quali ha indicato la necessità e l'urgenza della riappropriazione del territorio come requisito essenziale per gestire l'enorme flusso di denaro pubblico che arriverà in Sicilia e nell'intero Mezzogiorno nei prossimi anni.
Tale linea è stata contrastata all'interno di Cosa nostra; il contrasto, tuttavia - ed è la prima volta che ciò accade - non ha dato vita ad una guerra sanguinosa.
L'opzione stragista e quella della coesistenza con lo Stato si sono confrontate duramente anche all'interno delle singole famiglie come è accaduto a Catania dove si sono trovate davanti l'ala che fa capo a Nitto Santapaola, e che ha come riferimento Provenzano, e quella di Santo Mazzei, esponente dell'ala dura che si richiama alle posizioni dei corleonesi e del boss Vito Vitale.
L'assenza di stragi e di attentati violenti indirizzati nei confronti di rappresentanti dello Stato conferma che è prevalsa, dentro le famiglie mafiose, la linea di Provenzano, più prudente e più cauta, più attenta anche a cogliere eventuali segnali che dovessero essere inviati dal mondo della politica.
Si può dire, da questo punto di vista, che negli ultimi anni si è realizzata una gestione "a prevalenza politica" di Cosa nostra rispetto alla recente gestione, caratterizzata dalla leadership di Riina, a "prevalenza militare".
È sempre utile ricordare che Provenzano non è un pacifico e vecchio signore senza alcuna responsabilità per il passato, compreso quello più efferato degli omicidi eccellenti e delle stragi.
Egli è stato condannato con sentenze passate in giudicato, è latitante da lunghissimo tempo. La nostra democrazia non può sopportare una latitanza che dura da più di trentotto anni; una volta catturato sarà importante chiarire tutte le alleanze che Provenzano ha saputo creare nella politica e nell'economia, e le protezioni di cui ha potuto usufruire.

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Sotto la gestione Provenzano non sono scomparsi gli omicidi mafiosi; semplicemente si è cercato di ricorrere all'omicidio solo quando ogni altra via si è rivelata impraticabile o, per le ragioni più diverse, è stata preclusa.
Non si spara più in modo indiscriminato, ma si selezionano attentamente gli obiettivi; omicidi come quello di Domenico Geraci, dirigente sindacale candidato a sindaco di Caccamo, o di Filippo Basile, funzionario della Regione siciliana, rientrano nella categoria degli omicidi selettivi di Cosa nostra.

3. Nuovi percorsi della mafia e metodologie di contrasto.

Tutto ciò non significa che la mafia poiché non ammazza più in modo indiscriminato sia meno pericolosa di prima.
Né significa che si sia avviato un irreversibile processo di ritorno alla 'vecchia mafia' in grado di riprodurre, con le necessarie varianti da adattare al tempo trascorso e alle nuove situazioni, la politica di Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti che sarebbe più affidabile e più conveniente per le istituzioni.
Non c'è una \`vecchia mafia' che è buona e una \`nuova mafia' che è cattiva.
Questa è una antica dicotomia che non aveva prima e non ha, a maggior ragione oggi, alcun fondamento.
La mafia - la si voglia definire vecchia o nuova ha poca importanza - costituisce un pericolo per la vita sociale, per la sicurezza, per la tranquillità e la libertà del singolo cittadino, per l'economia, per la società, per la libertà di voto, per la libera concorrenza fra le imprese, per la democrazia; un pericolo mortale che va contrastato con fermezza fino alla sua totale eliminazione.
Nei decenni passati è stato commesso il grave errore di ritenere possibile una coabitazione di settori dello Stato con la \`vecchia mafia', considerata buona per definizione.
La coesistenza con le istituzioni è stata devastante per la credibilità delle istituzioni non certo per la mafia perché ha permesso e consentito rapporti e frequentazioni dei mafiosi con uomini politici e uomini delle istituzioni che hanno irrobustito la forza dei criminali mafiosi, il loro potere e il loro prestigio che sono stati usati per vendere morte trafficando droga e armi, per penetrare nell'economia, per occupare posizioni di potere.
Durante il periodo della coesistenza si sono verificati numerosi delitti eccellenti; alcuni di questi sono stati decisi e anzi sono stati ritenuti necessari perché i capimafia non potevano tollerare che uomini politici o rappresentanti delle istituzioni facessero il loro dovere senza piegarsi a questo patto non scritto.
La coesistenza, oltre che immorale, è stato un danno molto serio per la democrazia italiana.
La storia, recente e antica, ha dimostrato che Cosa nostra non si batte con la coesistenza o con la trattativa tra lo Stato e il potere mafioso.
Tra Riina che ordinava le stragi per poter trattare da una posizione di forza con lo Stato e Provenzano che chiude con le stragi


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nella speranza di trattare da una posizione di forza con lo Stato c'è una differenza apparentemente sostanziale che, però, a ben vedere, si distingue solo per i metodi adottati, l'uno più violento dell'altro; in realtà tale differenza non deve oscurare l'obiettivo di fondo che è comune a entrambi perché entrambi intendono assicurarsi la sopravvivenza della mafia e la continuità del suo potere e la salvaguardia delle sue ricchezze.
I mafiosi, o, per essere più precisi, i capimafia sono ancora ricchi, enormemente ricchi.
Il loro potere risiede proprio in questa ricchezza che non è stata ancora intaccata seriamente.
Gli anni che ci lasciamo alle spalle hanno colpito al cuore l'aspetto militare, i soldati e i generali che hanno imbracciato i fucili o hanno azionato i telecomandi per le stragi, ma i cervelli finanziari, le menti economiche, gli uomini in grado di attivare gli enormi canali per il riciclaggio del denaro sporco non sono stati colpiti nella stessa misura.
I capimafia sono stati aiutati da professionisti di varia natura che hanno agevolato soprattutto l'occultamento, in Italia e all'estero, dei capitali di illecita, oltre che illegale e criminale, provenienza,
Finché ci sarà un'enorme massa di denaro nelle mani dei capimafia essi continueranno ad essere in grado di ricostituire l'organizzazione sostituendo gli uomini finiti in carcere, di comprarsi il silenzio dei carcerati pagando la loro prigionia e sostenere i rispettivi familiari che stanno a casa, di mantenere funzionante ed in piena attività le strutture criminali e di avere la necessaria disponibilità economica per poter corrompere funzionari pubblici, amministratori locali, imprenditori.
Togliere i capitali e le proprietà dalle mani dei mafiosi non è solo l'obiettivo principale, ma è, oggi, il punto cruciale da realizzare se si vuole dare un colpo mortale alla mafia.
La strategia militare è stata seriamente colpita ed intaccata; essa appare, oggi, in forte difficoltà al punto che i vertici di Cosa nostra, come si è visto, sono stati costretti ad inabissarsi, a rendere meno visibile la loro presenza.
Ora bisogna ridimensionare gli interessi economici e finanziari delle organizzazioni criminali operando su tre livelli: il primo, impedire che la mafia possa fare nuovi affari approfittando degli investimenti che arriveranno al Sud; il secondo, concentrare uomini e tecnologie nell'individuazione dei patrimoni di cui si sono impossessati i mafiosi e procedere alla confisca delle ricchezze e degli immobili; il terzo, assicurare che questi patrimoni e tutti gli immobili possano essere gestiti dalla società civile o siano trasformati in servizi sociali, scuole o in presidi delle forze dell'ordine.
Tutto ciò ha un valore molto concreto perché si impoveriscono tutte le organizzazioni mafiose e nel contempo ha un valore altamente simbolico perché dimostrerebbe che i beni acquisiti con il crimine dai mafiosi non sarebbero goduti dagli stessi.
Un altro aspetto da sottolineare è quello rappresentato dalla drammatica diffusione e della dimensione sommersa dei fenomeni estorsivi che costituisce una piaga che ha radici profonde soprattutto in alcune realtà meridionali quali la Sicilia, la Calabria e la Campania.

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Tale problema è stato evidenziato direttamente dalle istituzioni che hanno sollecitato l'opinione pubblica e le associazioni di categoria ad un impegno diretto, sottolineando che quanto appare attraverso le denunce o le indagini, è solo l'aspetto emergente del problema: percentuali altissime di operatori economici sono costrette a confrontarsi ogni giorno con il problema dell'estorsione, come confermano anche le analisi delle forze dell'ordine.
In questo contesto, la Prima Conferenza nazionale contro l'estorsione e l'usura, alla presenza e con il patrocinio del Capo dello Stato, è stata l'occasione per fare il punto sul dibattito e sulle strategie intorno al fenomeno: sono infatti intervenuti autorevoli esponenti del Governo e della società civile, da sempre impegnati nella lotta al racket.
Nel corso dell'ultimo periodo si registra una situazione singolarmente contraddittoria del fronte antimafia: da una parte ci sono gli apprezzabili risultati di cui si è detto, dall'altra c'è un indubbio calo della tensione e dell'attenzione attorno al problema delle mafie.
Oggi c'è sicuramente un maggiore allarme per la criminalità comune che molti ritengono indotta e provocata dall'immigrazione clandestina che avrebbe dato vita a nuove mafie di origine straniera dedite al traffico degli esseri umani, alla prostituzione e al traffico di droga e di armi, nuove mafie straniere che avrebbero soppiantato quelle italiane, soprattutto nelle grandi città e regioni del Nord.
Qualcuno si è spinto ad affermare che in Italia il pericolo maggiore sarebbe ormai quello delle mafie straniere essendo la mafia italiana se non tramontata, perlomeno avviata al suo tramonto ed anche perché le mafie straniere sarebbero più violente e più spregiudicate essendo più giovani ed avendo la necessità di affermarsi sul mercato criminale con azioni clamorose in grado di richiamare l'attenzione.
Tale analisi non risponde alla realtà per come essa si presenta poiché le mafie straniere hanno come loro territorio privilegiato il Nord e non il Sud - e ciò per la buona ragione che al Sud comandano ancora le mafie italiane - e nelle porzioni di quelle regioni del nord iniziano ad operare con dei con patti sottoscritti da uomini delle mafie italiane.
È opportuno, tra l'altro, evidenziare come le organizzazioni criminali straniere non si caratterizzino per la capacità di controllo capillare del territorio che invece ha da sempre caratterizzato l'operare delle mafie italiane tradizionali.
La recente riunione dell'ONU a Palermo ha messo in evidenza come il problema della criminalità organizzata sia avvertito a livello mondiale.
La convenzione sottoscritta è importante perché si tratta di un trattato giuridicamente vincolante che impegna le nazioni firmatarie ad una lotta più incisiva contro il crimine organizzato.
La Convenzione dell'ONU premia la cultura e il patrimonio giuridico italiano - a cominciare dai capisaldi della legge Rognoni-La Torre e dal riconoscimento del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso che erano estranei alle legislazioni di molti paesi stranieri - nella lotta contro la criminalità organizzata che ormai è diventato un fenomeno transnazionale.

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Il problema mafia deve sempre più occupare un posto centrale e figurare, in modo sistematico, tra le priorità dell'agenda politica nazionale.
In questa logica, il problema mafia non può ritornare ad essere interpretato come una questione legata all'emergenza come avveniva fino a qualche anno addietro.
Il problema mafia non deve essere espunto dall'agenda politica perché così facendo si darebbe credito all'opinione di chi, ritenendo che la mafia non costituisca più un problema, abbassa la guardia e riduce i controlli sui flussi finanziari in arrivo nel Mezzogiorno d'Italia.
E ciò soprattutto nel momento in cui in molte parti del paese viene segnalato un consolidamento, seppure discreto e più impalpabile, della presenza e della attività mafiosa nel campo dell'usura e delle estorsioni.
Occorre, quindi, aprire una ulteriore fase della lotta antimafia che sappia far tesoro del passato, valorizzando le esperienze positive e correggendo gli errori che pure ci sono stati.
Una strategia integrata che sappia tenere insieme tre diversi livelli della lotta alle mafie: la dimensione repressivo-giudiziaria con una costante azione diretta a colpire il piano militare e organizzativo e a catturare i capi mafia ancora latitanti; la dimensione economico-finanziaria con il contrasto al riciclaggio, al racket, all'usura, alla droga e alla tratta degli esseri umani per giungere alla confisca dei beni per la loro destinazione a fini sociali; la promozione della cultura della legalità valorizzando e sviluppando il lavoro straordinario svolto dalle scuole e dalle associazioni di volontariato. A tal proposito si segnala, in particolare, l'attenzione della Chiesa di Palermo per il processo di beatificazione di Padre Puglisi e il lavoro svolto dai Vescovi di Caserta e Locri.
Questa strategia integrata che sappia colpire a livello del territorio - perché le mafie non hanno assolutamente abbandonato l'antico, sicuro e protettivo territorio, quello di sempre, che ha dato loro i natali e le ha fatto forti e ricche - e a livello internazionale perché oramai la lotta alle mafie è una lotta transnazionale per individuare e colpire oltre che i cartelli della droga e delle armi, i canali del grande riciclaggio, quello miliardario, quello che solo persone esperte nei grandi misteri della finanza internazionale riescono a far funzionare e a fruttare.
In questi anni c'è stato un forte attacco non all'uso dei collaboratori di giustizia come pure è stato detto prendendo a pretesto alcuni errori di gestione da parte di qualche magistrato, ma alla figura del collaboratore in quanto tale ritenuta di per sé, quasi per principio, uno strumento inadatto o, peggio ancora, pericoloso per combattere la mafia.
I tempi lunghi dell'approvazione della legge sui collaboratori di giustizia non hanno certo favorito o incentivato il ricorso alla collaborazione.
Ormai ci sono pochi nuovi collaboratori di giustizia e dal profilo diverso rispetto al passato, essendo caratterizzati da ruoli operativi e con minori funzioni strategiche all'interno delle stesse organizzazioni criminali.

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Lo stesso clima che si è venuto a creare intorno ai collaboratori, al di la delle giuste critiche per i limiti che possono esserci stati, non favorisce di certo il fenomeno della collaborazione che comunque rimane non l'unico ma un importante strumento di conoscenza e, quindi, di contrasto.
Il danno è del tutto evidente sia perché la mancanza di nuovi collaboratori non consente di conoscere nei dettagli quanto sta succedendo in Cosa nostra dopo le scelte di inabissamento e le nuove forme di segretazione sia perché mancano recenti collaboratori in grado di raccontare quanto è a loro conoscenza dei meccanismi di occultamento e di riciclaggio dei capitali mafiosi.
Nello scorso mese di febbraio le Camere hanno approvato la legge di "Modifica della disciplina della protezione e del trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia nonché disposizioni a favore delle persone che prestano testimonianza"; anche in considerazione di tale intervento normativo sarà fondamentale perseguire una gestione non penalizzante o eccessivamente burocratizzata dei collaboratori e soprattutto dei testimoni di giustizia la cui posizione finalmente, con questo nuovo testo di legge, riceve una puntuale e differenziata disciplina.
È necessario, infine, escludere e contrastare del tutto qualsiasi tentativo dei capi di Cosa nostra, oggi detenuti nelle carceri in quanto condannati all'ergastolo, di proporre la cosiddetta dissociazione. I capi di Cosa nostra hanno una sola via per instaurare un rapporto con le Istituzioni: quella della collaborazione prevista dalla legge.


(13) Cfr. Documento n. 2399, XIII legislatura, "Rapporto sullo stato della sicurezza in Italia", 2001, Ministero dell'interno, pagg. 428 e 429.
(14) Sono state individuate tre categorie di pericolosità dei latitanti in ordine decrescente: il "Programma speciale di ricerca" dei trenta latitanti di massima pericolosità, l'"Opuscolo dei 500 latitanti più pericolosi" e gli "altri pericolosi latitanti". Cfr. Documento n. 2399, XIII legislatura, "Rapporto sullo stato della sicurezza in Italia", 2001, Ministero dell'interno, pag. 426.
(15) Cfr. documento n. 2433, XIII legislatura, elaborato e trasmesso dal Ministero della giustizia su dati della Direzione centrale della polizia criminale.

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